La pandemia
tra padri e figli
Ezio Mauro
Falsamente imparziale, il virus è invece nei fatti un attore selettivo, che distingue e divide, e attraverso questa azione non colpisce soltanto l’organismo umano ma l’organizzazione sociale, scomponendola, differenziandola e riconfigurandola secondo un nuovo modello. Ha già modificato il nostro perimetro di libertà, ha disciplinato il nostro spazio fisico, ha ricalcolato la meccanica delle relazioni, dandole una misura, ha riscoperto l’autorità primitiva che nasce dall’interpretazione dell’ignoto, e ha assegnato al governo e alla scienza il plusvalore di potere che ne deriva. Ma intanto, senza che ce ne accorgiamo, sta sovvertendo un elemento di base, intrinseco della costruzione sociale e del suo divenire: il rapporto tra le generazioni.
Padri e figli scoprono da un anno, davanti all’assalto della pandemia, di far parte non soltanto di due diverse età e di due stagioni della vita differenti, com’è ovvio, ma addirittura di due antropologie, due mondi divaricati. Da un lato, per i giovani, c’è il timore del contagio: dall’altro, per i genitori, c’è l’angoscia della morte. Sono due gradazioni separate della paura, due cognizioni del dolore distinte, due interrogazioni disuguali sul destino. Gli anziani si sentono direttamente minacciati, anzi esposti, addirittura candidati, come se fossero stati individuati nel mucchio e selezionati, forse l’unica esperienza che ancora mancava alla generazione immortale dei baby boomer.
Leggono ogni sera il bollettino della lotta al contagio, per avere la conferma di essere tra i superstiti. E intanto capiscono di aver introiettato comunque nell’età del virus l’infezione psicologica che testimonia la rivelazione improvvisa della loro fragilità, ma più ancora della loro residualità biopolitica: da anziani, corteggiati dalle pubblicità come consumatori ancora attivi, capaci di spesa, sono improvvisamente precipitati nella categoria terminale dei vecchi, senza più l’illusione di una proroga.
A un certo punto dell’offensiva virale, quando i numeri oggettivi segnalavano l’emergenza assoluta dei reparti di terapia intensiva presi d’assalto, i destini delle due generazioni si sono addirittura contrapposti, come se nell’insufficienza degli strumenti di contrasto al male l’una rubasse lo spazio di vita all’altra. Padri e figli si sono così trovati a contendersi un futuro in cui improvvisamente non c’era più spazio per tutti, perché la cruna dell’ago ospedaliera si era fatta troppo stretta e bisognava scegliere chi lasciar passare, e chi invece doveva rimanere fuori. E qui il concetto di esistenza si è spezzato in due, privilegiando la vita da vivere rispetto a quella vissuta: in molti Paesi dell’Occidente, dunque nel cuore della civiltà europea, l’indicazione ai reparti di cura è stata infatti quella di privilegiare — nel caso di un obbligo di scelta — i soggetti che avevano una maggiore aspettativa di vita, limitando lo sforzo terapeutico con gli anziani, quindi lasciandoli andare. Entrava così in campo la selezione tra gli umani, basata su un criterio quantitativo, che privilegia la forza biologica mentre azzera il valore sociale del vissuto, quel che una persona ha costruito, sperimentato, patito, generato. Come se tutto, nel percorso degli anziani, fosse già stato consegnato ed ereditato, in ogni caso non più esercitabile dal titolare. Il diritto di vivere da assoluto diventava relativo, gli interessi delle diverse età entravano in conflitto tra di loro, in un testa-coda del passaggio generazionale che non ha precedenti nella modernità della democrazia.
Ma il virus non ha affatto trasformato i giovani in soggetti privilegiati: tutt’altro. Giunti alla fine della lunga adolescenza, appena affacciati alla maggiore età, i ragazzi hanno incontrato la pandemia proprio nel momento in cui si celebrano i più importanti riti di passaggio, si esercitano pienamente i diritti del cittadino, si conquista l’autonomia e si sperimenta l’indipendenza. Nell’età dei primi grandi amori, della passione per l’amicizia, del fascino per la scoperta, della crescita nella conoscenza, della voglia d’avventura, hanno subito un grande interdetto che ha limitato i loro movimenti, gli spazi, gli incontri, dunque gli orizzonti, restringendo la loro libertà ancora non pienamente sperimentata. È come se fosse stato loro sottratto il cerimoniale d’iniziazione all’età adulta. Un’inibizione con cui le generazioni precedenti non avevano dovuto fare i conti, faticosa per tutti, ma contro natura a quell’età: che già aveva dovuto accettare un condensato di conoscenza e un’istruzione mutilata con la didattica a distanza, senza quella socialità amicale che accompagna e valorizza l’esperienza scolastica.
Non solo. Poiché grazie alla corazza dell’età sono più resistenti al contagio, i ragazzi sono finiti in fondo al calendario vaccinale, anche se il Paese spesso dimentica che le fasce giovani della popolazione non sono comunque invulnerabili, e registrano il 13 per cento di infezioni tra i 18 e i 29 anni (che salgono al 19,2 per cento tra i 30 e i 39 anni). La scelta condivisa di privilegiare l’immunizzazione degli anziani nasce dall’esigenza di proteggere la loro fragilità biologica naturale, visto che l’85 per cento dei decessi per Covid si sono verificati oltre i 70 anni di età: si potrebbe dire, sintetizzando, che nei giovani il vaccino protegge dal rischio di contagio, negli anziani dal pericolo di morte. Resta il fatto che la leva dei figli passa in coda nella speranza di liberazione dal male, e nell’accesso al rimedio universale invocato e atteso dall’inizio della pandemia come unica via d’uscita verso la normalità. E di conseguenza i suoi contatti sociali, le sue vacanze estive, la piena agibilità scolastica, la riconquista di una relativa libertà restano intanto fortemente condizionate, perché devono attendere che la leva dei padri porti a compimento le sue misure di protezione.
In mezzo alla pandemia, dunque, il passaggio generazionale sta riprendendosi uno spazio di autonomia rispetto alla logica cieca del virus, e i giovani stanno restituendo qualcosa agli anziani: sacrificio, tempo, pazienza, priorità, in una sorta di solidarietà sicuramente regolamentata, ma comunque liberamente accettata.
Sapendo che il saldo complessivo del mercato di scambio tra le generazioni è completamente a svantaggio dei ragazzi di oggi, con uno scompenso impressionante che minaccia di soffocare il welfare e la stessa protezione del sistema sanitario: basta pensare che in 4500 città italiane ci sono già adesso più ultra-ottantenni che bambini, in mille Comuni i bisnonni sono il doppio dei pronipoti.
E questo squilibrio non dipende dal Covid. Anzi, il virus attaccando il nostro presente ci costringe a fare i conti con la crisi di futuro che stiamo costruendo.
(“la Repubblica” - 17 maggio 2021)