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    La fede in famiglia

    Aldo Maria Valli

     

    Se il Signore non costruisce la casa,
    invano vi faticano i costruttori
    Sal 127,1

    Personaggi e interpreti

    Prima di incominciare a trattare l’argomento che mi è stato assegnato sarà bene che precisi chi sono i personaggi che chiamerò in causa. Sono mia moglie Serena, con la quale sono sposato dal 1984, e i nostri sei figli: Giulia (ventisei anni), Giovanni (ventiquattro), Silvia (diciotto), le gemelle Anna e Paola (quindicenni, dette le “gemelle diverse” perché eterozigoti) e Laura, dodicenne. Giovanni e Giulia, che si è sposata nel 2010, non vivono più con noi. Entrambi laureati, hanno ormai incominciato un percorso professionale. Le altre invece sono alle prese con lo studio.
    Mia moglie ed io ci troviamo quindi in rapporto con età, situazioni, sensibilità ed esigenze molto diverse. Una condizione, la nostra, che a volte ci provoca qualche difficoltà nel riuscire a metterci sulla lunghezza d’onda di ognuno, ma ci regala anche esperienze e sfide sempre nuove e stimolanti.
    Vorrei provare a dire come viviamo e abbiamo vissuto la fede nella nostra famiglia, come la fede è entrata ed entra in gioco nelle nostre scelte e nel nostro modo di guardare a noi stessi e al mondo.

    Cooperatori della verità

    Fin da quando ci siamo conosciuti e abbiamo progettato la nostra vita insieme, mia moglie ed io abbiamo avvertito di essere collaboratori di Dio: cooperatores veritatis, potremmo dire prendendo a prestito il motto del cardinale Joseph Ratzinger quando era vescovo di Monaco. Fin dall’inizio della nostra storia ci siamo messi nelle mani del Signore, chiedendo a lui di illuminare la strada e di guidarci in tutti gli snodi più importanti. Ci siamo affidati alla sua bontà e alla sua misericordia cercando di leggerne i segni.
    Noi due, in particolare, abbiamo sempre avvertito una forte disponibilità ad aprirci alla vita e, fin da quando abbiamo mosso i primi passi come fidanzatini, ci siamo immaginati alla guida di una numerosa tribù. E’ stato soprattutto l’insegnamento del beato Giovanni Paolo II a sostenerci, con il suo incoraggiamento ad andare controcorrente rispetto alla mentalità dominante e a non avere paura.
    Poco prima che ci sposassimo, questa nostra disponibilità fu messa alla prova. Successe quando un medico disse a Serena che, a causa di una sua patologia, sarebbe stato meglio per noi non avere figli o, al massimo, averne uno, ma con grave rischio e pericolo per la salute della mamma. Fu un colpo, ma quel giorno, dopo la visita medica, noi ci sentimmo ancora più uniti di prima e sicuri che il Signore avrebbe trovato il modo di realizzare il nostro sogno. Sentimmo anche che Giovanni Paolo II era vicino a noi e ci sosteneva. Non ci arrendemmo a quel primo responso che avrebbe potuto spezzare il nostro legame. Ci furono altri consulti, sentimmo altri pareri, ed arrivò la conferma che il primo medico era stato un terrorista. Tuttavia lo ringraziammo. Il Signore lo aveva messo sulla nostra strada per metterci alla prova. Eravamo rimasti uniti e già avevamo incominciato a immaginare in quali forme avremmo potuto aprirci alla vita anche se privati della possibilità di avere figli biologici.
    Questo nostro abbandonarci alla volontà del Signore ha sempre provocato sconcerto nelle persone a noi vicine. E’ successo quando abbiamo avuto la nostra terza figlia (le persone dicevano: “Ma come? Avete una femmina e un maschio, non siete contenti? Perché complicarvi la vita? L’avete voluta o è arrivata”); è successo a maggior ragione quando sono nate le gemelle, mentre non è più successo alla nascita della sesta figlia, Laura, perché a quel punto la nostra “pazzia” era conclamata.
    A proposito dei nostri rapporti con la mentalità dominante, è sempre stato difficile anche spiegare perché, in occasione delle varie gravidanze, ci siamo opposti agli esami prenatali che possono comportare il ricorso all’amniocentesi. Non ci siamo comportati così per mancanza di fiducia nella scienza medica, ma per la convinzione che qualunque cosa fosse successa l’avremmo accettata consapevolmente come dono di Dio.
    Il confronto con il mondo, per una famiglia cristiana, non è facile. Spesso, a causa delle nostre scelte, siamo disapprovati. Ma nella prova ci sentiamo ancora più uniti al Signore.

    Lezione d’amore

    E’ la fede il fondamento e il collante del rapporto d’amore che c’è tra noi, e crediamo che proprio questo rapporto, vissuto ogni giorno, sia anche la prima e più efficace testimonianza di fede che possiamo dare ai figli.
    L’amore tra il papà e la mamma, tra due persone che vivono concretamente il dono reciproco, che vivono supportandosi e non sopportandosi, che dimostrano comunione di intenti e di valori, che sperimentano la solidarietà e la stima reciproche, che credono nella fedeltà e nell’indissolubilità, è una convincente immagine dell’amore di Dio per noi.
    Quando il figlio, fin da bambino, verifica in prima persona che il papà e la mamma si vogliono bene (vogliono il bene l’uno dell’altro) e che lui stesso è nato da questo amore; quando sperimenta che si tratta di un amore infinto e non a termine o condizionato; quando vede che questo amore originario e fondante sa espandersi in continuazione (per esempio, verso più fratelli e sorelle) senza tuttavia subire diminuzioni nel rapporto personale (io la chiamo “la proprietà moltiplicativa dell’amore”); quando constata che questo amore è più forte delle difficoltà di tutti i giorni e dei limiti delle persone, ecco che l’educazione alla fede è già in atto, e lo è in modo efficace e potente.
    L’amore fedele e unico fra i genitori è lo specchio dell’amore unico e incondizionato di Dio per ogni creatura, di questo nostro Dio Padre che ci ha amati per primo e continua a farlo, di questo Dio che è paziente e perdona.
    Tutto ciò, ovviamente, non significa che la mancanza di un’esperienza d’amore fra i genitori debba necessariamente precludere ai figli la possibilità di un percorso di fede. Il Signore sa scrivere dritto su righe storte. Però sbagliamo se mettiamo in secondo piano l’amore donativo, solidale e fecondo fra i coniugi, che corrisponde così efficacemente all’amore stesso di Dio per le sue creature.

    Lasciarsi educare

    La mia esperienza mi dice che il percorso di educazione alla fede è sempre, in realtà, un percorso di coeducazione. I genitori cristiani donano qualcosa ai figli, ma anche i figli donano molto ai genitori. Lo si verifica già quando i bambini sono piccoli. Fin dall’età più tenera, infatti, loro non hanno difficoltà a rapportarsi con Dio Padre e con suo Figlio Gesù. Sono proprio loro, dimostrando una spontanea adesione al rapporto personale con Dio, a educare e rieducare noi adulti, noi che spesso, con gli anni, rendiamo la nostra fede più stanca sotto il peso di pesanti zavorre intellettualistiche, togliendole freschezza e immediatezza.
    Ricordo lo sconcerto di una mamma non credente, nostra amica, quando l’insegnante di religione della figlia, alle elementari, spiegò la creazione come opera divina. Quando l’insegnante fece l’esempio delle nuvole e ne parlò come di un dono di Dio, la mamma andò su tutte le furie: voleva che a sua figlia si parlasse di vapore acqueo, cristalli di ghiaccio e masse d’aria. Ma la bambina, per niente affascinata dalle spiegazioni scientifiche, commentò: “E’ bello pensare che qualcuno abbia creato le nuvole per me”.
    Per i bambini non è strano intrattenere un rapporto con Dio creatore e con suo figlio Gesù. Non è strano che Dio abbia voluto mandare suo Figlio nel mondo e che il Figlio sia nato da una famiglia, con un papà e una mamma. Se vengono accompagnati lungo questo percorso, per loro è normale parlare, attraverso la preghiera, con Dio, con Gesù, con Maria. E’ normale chiedere aiuto per sé, per i fratelli, per i genitori, per gli amici; è normale ringraziare per i doni ricevuti e per tutte le cose belle.
    Proprio stando con i bambini, ci si accorge che non si tratta di inserire il senso religioso in ciascuno di loro, quanto piuttosto di suscitarlo: perché dentro i cuori dei piccoli è già presente, è lì pronto a manifestarsi e ad essere vissuto. Ecco perché sostengo che i bambini che non sono stimolati ad accendere in loro stessi il senso religioso non sono, come spesso si sente dire, bambini più autonomi e liberi, bambini che poi, da grandi, faranno la loro eventuale scelta religiosa, ma sono bambini deprivati, ai quali è stata negata una componente fondamentale del proprio essere e che ben difficilmente potranno costruire il senso religioso dato che non sono state assicurate loro le fondamenta.
    Se gli adulti possono donare ai piccoli una grande prospettiva d’amore, sono i piccoli a donare agli adulti la capacità di provare stupore, di non dare nulla per scontato, di vedere la vita, letteralmente, come un miracolo, e dunque di ringraziare.
    Ricordo ancora un episodio che riguarda nostro figlio Giovanni. Aveva sì e no cinque anni quando ci fece una domanda: “Perché Gesù, che aveva Dio dalla sua parte e poteva fare tutto, si lasciò uccidere sulla croce senza ribellarsi?”. La mamma, anche perché presa un po’ in contropiede, decise di non rispondere e domandò a sua volta: “Secondo te, perché Gesù si comportò così?”. Al che Giovannino rispose: “Per poterci perdonare”. Aveva capito benissimo la differenza tra Gesù e un supereroe, e l’aveva saputa motivare teologicamente.
    Educare alla fede lasciandosi educare, spogliandosi di ogni presunzione e facendoci a nostra volta bambini. Se ci mettiamo in questa prospettiva, noi adulti siamo anche meno angosciati. Non dipende tutto da noi. Non siamo chiamati a sforzi sovrumani per riempire contenitori vuoti. Si tratta piuttosto di suscitare risorse e di lasciarci aiutare, evitando di stancare bambini e ragazzi con il nozionismo religioso o con la precettistica.

    Con gli adolescenti

    Il rapporto di coeducazione alla fede resta tale anche quando si passa all’adolescenza. Considerate sia le caratteristiche dell’età sia l’ambiente culturale nel quale vivono i nostri adolescenti, sembrerebbe proprio che tutto sia contro un cammino di coeducazione alla fede nella relazione e nel confronto con gli adolescenti. In realtà, se si ha la pazienza, l’umiltà e la costanza di osservarli e di mettersi dalla loro parte (mi verrebbe da dire di “intercedere”in senso letterale, ovvero di camminare in mezzo, come amava dire il cardinale Martini a proposito della sua presenza a Gerusalemme), si scopre che questi ragazzi sono molto meno superficiali di come vengono dipinti e che le eterne domande sulla vita sono ben presenti in loro, così come sono vive le domande su Dio e su Gesù.
    Anche in questo caso, non si tratta certo di inculcare idee, ma di suscitare la voglia di interrogarsi e di non cedere a una mentalità che ci vorrebbe spiritualmente deboli e intellettualmente cloroformizzati. Occorre presentare loro prospettive alte e impegnative, occorre invitarli a prendere il largo. Non dobbiamo adagiarci, non dobbiamo abbassare, per paura di non essere ascoltati, il livello della proposta. Né dobbiamo cadere nel giovanilismo di maniera che, in realtà, ai giovani procura soprattutto fastidio perché non si sentono presi sul serio. Facciamo capire bene che la nostra preoccupazione non è quella di compiacere Dio, ma di cercare la strada per la felicità più piena. Questo è l’obiettivo, e non si deve aver paura di dirlo. Dio non ci vuole esteriormente devoti e interiormente poveri. Anche se tutti dicono che la felicità non è di questo mondo e che a noi, al più, è concesso soltanto di divertirci (da divertere, in senso letterale: guardare altrove, volgere altrove la nostra attenzione per non pensare) o, peggio ancora, di stordirci con qualche sostanza, noi cristiani testimoniamo che una vita felice è possibile. Noi cristiani siamo gli uomini e le donne del perché. Non ci accontentiamo del come. A noi interessa il senso di ciò che siamo e di ciò che facciamo. Nella ricerca del senso incontriamo Dio e in lui troviamo la risposta.
    Nei nostri giovani c’è una domanda religiosa: avvertono il bisogno di ancorare le loro vite a qualcosa che non sia soltanto l’amicizia oppure il consumismo oppure, nel migliore dei casi, il successo scolastico o professionale. Però sono quasi totalmente privi di punti di riferimento e di veri maestri. Soprattutto, sono privi di qualcuno che li aiuti a vedersi come belle persone, come creature degne.
    Alcuni genitori pensano che ciò significhi mettere il figlio al centro del mondo, su un piedistallo, e coprirlo e giustificarlo quando qualcosa non va. In realtà si tratta di esercitarci a vedere i lati positivi del carattere di ciascun figlio, le cose buone che fa, per riconoscerle davanti a lui e fargli capire che ogni azione da lui compiuta può portare onore alla famiglia e che la famiglia se ne accorge e fa festa.
    E’ stato un amico prete del Mozambico a farci riflettere su questo concetto di onore, così lontano ormai dalla nostra mentalità occidentale, centrata sul successo. Ci è sembrato un cambio di prospettiva utile e salutare. Non rimproveriamo sempre e comunque i nostri figli. Se no può succedere di sentirsi dire, come è successo a noi, “a voi due non basta mai!”. Al contrario, puntiamo su ciò che c’è di positivo, anche se, ai nostri occhi, è poco. Facendo fruttare l’unico talento che è stato dato in quel momento, si può incrementare il tesoro familiare. Noi due genitori, sotto questo profilo, abbiamo dovuto allenarci aiutandoci a vicenda, perché è vero che siamo esigenti. Abbiamo constatato così che la qualità dei rapporti familiari è decisamente migliorata. La famiglia non è un albergo con regole di ingresso e di uscita, ma un organismo in continua crescita verso la Verità.

    Una scelta libera

    Spesso i giovani hanno una percezione distorta e riduttiva della religione, come se si trattasse di qualcosa che veramente non li riguarda o di un insieme di norme che sono state inventate per controllarli e limitarli. Occorre allora far vedere che la religione è dalla loro parte, è per loro, è come un pozzo d’acqua fresca dal quale attingere le risorse più importanti. Ascoltare la Parola di Dio e il messaggio evangelico è come avere una bussola affidabile in mezzo al mare confuso di notizie e opportunità nel quale siamo immersi.
    Quando la nostra Silvia, qualche anno fa, criticò apertamente la liturgia, che lei vedeva come un insieme di formule astratte, e l’omelia, considerata come una parentesi noiosa e irrilevante, la invitammo a riflettere almeno sull’annuncio del Vangelo, cercando qualche volta di riprenderlo in casa. “Se rinunci all’ascolto della Parola – le dicemmo – corri il rischio di diventare una pera rinsecchita, una cristiana che dice di aver fede ma è svuotata”.
    Su questa strada i nostri figli più grandi hanno incontrato educatori molto bravi, sia in parrocchia sia all’interno di gruppi ecclesiali. Persone in grado di far vivere la fede sul campo, attraverso esperienze di lavoro, di solidarietà e di condivisione. I giovani hanno bisogno di vedere un risultato concreto del loro impegno, altrimenti l’entusiasmo si spegne. Su questa strada la famiglia può trovare sostegno se ha la disponibilità ad aprirsi e ad ammettere che non può fare da sola e che rintanarsi nel proprio guscio sarà rassicurante ma non è mai una soluzione.
    Naturalmente non bisogna mai dimenticare che la fede può scaturire ed essere coltivata soltanto nella libertà. Benedetto XVI, nel messaggio per la Giornata mondiale della pace 2012 (Educare i giovani alla giustizia e alla pace), ricorda che “tale processo si nutre dell’incontro di due libertà, quella dell’adulto e quella del giovane”, con il primo che deve essere pronto a donare se stesso e il secondo che deve essere disposto a lasciarsi guidare. Due libertà, per incontrarsi veramente, hanno bisogno del rispetto. Il rispetto lo si guadagna sul piano della credibilità e la credibilità, la sola risorsa che possa garantire autorevolezza, la si ottiene con la coerenza fra ciò che si insegna e ciò che si vive.
    La questione dell’incontro fra due libertà mi permette di accennare subito a un problema che angustia tanti genitori, quella del fallimento educativo. Noi tutti, per bisogno di sicurezza e perché temiamo gli imprevisti, vorremmo predeterminare i percorsi. Ma l’avventura educativa ci porta su strade sconosciute. Proprio perché siamo nell’ambito della libertà, può succedere che le cose non vadano come noi avevamo sperato e che le persone scelgano percorsi diversi da quelli da noi indicati. Non ci dobbiamo rattristare, ma ringraziare il Signore per questo dono della libertà che è l’orizzonte della nostra grandezza. Se vivessimo nel determinismo verrebbe meno la libertà, e con essa la nostra grandezza.
    Il conflitto con i giovani, su questa strada, sarà inevitabile, ma è un conflitto benedetto e provvidenziale. Guai se non ci fosse. E’ proprio nel momento del conflitto che l’educatore è chiamato a dare ragione della sua speranza. E’ in questo rapporto problematico che si misura l’attenzione per l’altro.
    Ricordo bene quando Giovanni, deciso a lasciare la nostra casa per andare a vivere da solo, ci disse: “Non sono il figlio perfetto”. Temeva di averci delusi. In realtà abbiamo provato dolore all’idea di non averlo più con noi, non delusione. E comunque la sua scelta è stato un dono grande, perché ha spinto a noi due, papà e mamma, da in lato a interrogarci nuovamente, in un momento di verifica, sui valori al centro della nostra vita, e dall’altro a pregare di più insieme.
    Un amico, un religioso, mi ha detto una volta: “I genitori credenti devono assolutamente evitare di comportarsi da usurai”. L’educazione non può essere vissuta come un prestito, come un trasferimento di risorse dal genitore al figlio, con la pretesa di ritirare il capitale più gli interessi, e magari anche di stabilire i tempi. Non è così che funziona l’educazione. Specialmente se parliamo di educazione alla fede, da parte dei genitori non c’è trasferimento di capitali: c’è solo il dono. E non potrebbe essere altrimenti. L’esperienza del proprio limite non deve scoraggiare: Dio sa che cosa c’è in ogni uomo, anche nel nostro figlio che si ritiene non credente. Esteriormente può sembrarci lontano, ma se guardiamo meglio ci accorgiamo che certi valori sono stati interiorizzati. E anche se noi non lo sappiamo, un cammino di fede forse è in corso. A noi è chiesto di continuare a pregare, avere pazienza e testimoniare, tutto il resto è opera di Dio.
    Quando Gesù ha dodici anni, in occasione della festa di Pasqua, Maria e Giuseppe sperimentano lo smarrimento e il turbamento che coglie tutti i genitori quando non trovano più il loro figlio. Gesù, che ha l’età nella quale nella società ebraica si entra nella vita adulta e si viene riconosciuti capaci di scelte autonome, sparisce dal loro orizzonte e non si sa dove sia finito. E’ una metafora di quello che succede ai papà e alle mamme quando un figlio esce dal loro campo di visuale e si inoltra per conto suo lungo la strada della vita. Che ne sarà di lui? Ce la farà? Lo perderemo? Gesù sarà ritrovato nel tempio, a colloquio con i dottori della legge, e darà quella risposta apparentemente così dura: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Possiamo immaginare gli sguardi smarriti di Maria e Giuseppe. Ci siamo passati anche noi. E’ fatale che i genitori non riescano a guardare realisticamente la crescita del figlio. In fondo lo considerano sempre piccolo e bisognoso del loro aiuto. Questo lavoro di comprensione, da fare su noi stessi, non è semplice, e forse non si riesce mai a farlo del tutto. Ma è uno strappo necessario: i figli non sono nostra proprietà. Come dice Serena, la coppia incomincia il suo percorso di vita e di fede quando i figli ancora non ci sono, e lo finisce quando i figli se ne sono andati. Ma se ha maturato un’amicizia con Dio resta feconda sempre. E proprio per questo continua a porre, a se stessa e ai figli, le domande che contano.

    Dio Padre, Chiesa madre

    Sarebbe quanto meno da presuntuosi immaginare di sfornare ricette circa l’educazione alla fede, e mi guardo bene da questo rischio. Sulla base della mia esperienza credo comunque di poter dire che un passo molto importante, da parte dei genitori, consiste nel proporre Dio come Dio Padre. Quando parliamo di Dio non limitiamoci a evocare una presenza generica e vaga, dal sapore sentimentale. Mostriamo Dio come presenza reale e precisa, il nostro Dio della Bibbia, al quale possiamo rivolgerci come Padre (come ci ha insegnato Gesù) perché è lui che, per amore, ci ha donato la vita e ci ha voluti a sua immagine e somiglianza. Parliamo non di una divinità indefinita e distante, ma del nostro Dio che ci ama così tanto da aver voluto incarnarsi nella storia dell’uomo, così da donarci la salvezza attraverso il sacrificio di suo Figlio Gesù.
    Anche a questo proposito sono i piccoli a educarci. Loro infatti intrattengono naturalmente un rapporto personale con Dio. Non temono di chiamarlo per nome, di sollecitarlo, di avere un dialogo con lui. Non immaginano una generica energia creatrice, ma una persona che vuol bene a ogni creatura, che conosce ognuno di noi per nome e sa tutto di noi. E’ a questo Padre buono che ogni sera, come abbiamo insegnato ai nostri bambini, prima di dormire possiamo rivolgerci dicendogli “mi metto nelle tue mani, tienimi stretto fino a domani”. E’ questo Dio che ogni mattina ringraziamo per il nuovo giorno e per tutte le cose belle che potremo fare.
    Un ostacolo che prima o poi si manifesta, su questa strada, è rappresentato dal problema del male. Come ci ha chiesto di recente la nostra Silvia, perché questo Dio che sa tutto di noi e ci ama, questo Dio che ci ha creati a sua immagine e somiglianza, permette che ci sia il male e che tanti innocenti soffrano ingiustamente? La risposta va data ragionando sulla libertà dell’uomo, che è anche libertà di rifiutare Dio e di scegliere il male. Perché Dio non ha voluto fare di noi semplici burattini nelle sue mani. Se la proposta di Dio costituisse una scelta obbligata, davvero questo Padre dimostrerebbe di volerci bene? Confronti di questo tipo, in famiglia, sono salutari per tutti, anche per noi genitori.
    In questo percorso, spesso accidentato, la Chiesa è con noi. La sentiamo vicina, dalla nostra parte. La Chiesa ci ha sempre aiutato e continua a farlo in tanti modi. Mia moglie ed io, per esempio, restiamo sempre stupiti scoprendo che ogni domenica le letture dicono qualcosa che riguarda proprio noi e la nostra situazione in quel momento. Come non potremmo immaginarci cristiani senza Cristo, non possiamo immaginarci cattolici senza Chiesa. Ai nostri figli lo diciamo e lo insegniamo fin dalla prima infanzia. La Chiesa è la nostra casa. Proprio come nella famiglia, anche nella Chiesa ci sono diverse funzioni, ma una sola è la fede e tutti, nella fede, sono legati gli uni agli altri. Stando nella Chiesa, proprio come in famiglia, vediamo che il rapporto con il Signore non può mai essere privato ed esclusivo. Riducendo il rapporto con il Signore a una questione privata si finisce con il costruire un Dio a propria immagine e somiglianza. Nella comunità la fede respira, si mette alla prova. Nella Chiesa ci misuriamo con le povertà, incontriamo le necessità dell’altro, troviamo aiuto ai nostri bisogni.
    Non dobbiamo aver timore di parlare della Chiesa come di una madre che è lì per noi, a braccia aperte, pronta ad accoglierci, con un grande e ricco deposito di tradizione e di sapienza dal quale attingere. È la nostra Chiesa maestra di vita ed esperta di umanità. I pregiudizi in proposito sono duri a morire. Per tante persone la Chiesa è un’agenzia che dispensa servizi sociali oppure un distributore automatico di sacramenti da vivere come momenti isolati e privi di collegamento col resto della vita. Inoltre è vista molto spesso fonte di divieti duri da digerire. Riconosco che certi esponenti della Chiesa contribuiscono non poco a diffondere questa immagine deformante, ma ciò non giustifica la scelta di allontanarsi e di rifugiarsi nella cosiddetta fede fai da te, dove siamo noi stessi la misura di tutto e Dio è preso in considerazione solo se e quando ci fa comodo.
    Nel Vangelo di Luca leggiamo che “i genitori di Gesù si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua”. La famiglia ha bisogno di questi appuntamenti che non sono soltanto una commemorazione, ma sono festa nel senso più pieno della parola: giorno solenne perché ricorda ciò che conta davvero, e giorno di gioia perché riconferma la nostra speranza in una vita che non si esaurisce qui. Il percorso di fede deve essere scandito da gesti visibili e concreti che ci immergano, anche con i simboli, in questa realtà così grande.

    Contemplativi, attivi

    “Contemplazione nell’azione”, la formula usata da sant’Ignazio, mi sembra descrivere bene il tipo di spiritualità che cerchiamo di vivere. Una famiglia è un mondo in relazione con altri mondi. Va fatta funzionare nel contatto fiducioso con tutti, nell’apertura verso le altre realtà con le quali si è chiamati a interagire. Non c’è mai il rifiuto del confronto, non c’è mai l’opposizione preconcetta, neppure verso i mezzi che la cultura, la scienza e la tecnica ci mette a disposizione. Ogni strumento umano è visto come dono. Tuttavia c’è sempre il discernimento, c’è sempre il giudizio. Questa costante valutazione dentro la famiglia viene fatta da tutti, ma la responsabilità principale è e resta dei genitori, che la devono elaborare avendo ben presente il punto di riferimento: il volto del Figlio mandato da Dio per noi, per la nostra salvezza. Ecco che cosa intendo quando dico che siamo chiamati a essere contemplativi nell’azione. Mai distanti dal mondo, mai rintanati, mai ripiegati su noi stessi, ma sempre vigilanti, con gli occhi dell’anima ben puntati sul volto di Cristo.
    Osservata dal punto di vista di una famiglia, la realtà di tutti i giorni può sembrare caotica e senza senso, con tutte le sue ombre e la sua mutevolezza. Ma proprio questa è la via verso Dio nella quale, in quanto famiglia, siamo chiamati a vivere: restare ancorati a Lui stando dentro la complessità del mondo. Da questa unione, e non da una fuga, derivano le regole e le forme di disciplina che la famiglia si dà.
    La nostra disponibilità ad accogliere ci espone continuamente alle richieste d’aiuto che vengono dall’esterno e di solito nei momenti meno opportuni: un bimbo piccolo da accudire, lo sfogo da ascoltare, la puntura da fare, l’anziano da accompagnare. La tentazione è quella di evitare i fastidi e spesso la considerazione che viene fatta è “Perché proprio a noi capitano i noiosi e i disadattati?”, come se si potesse accordare attenzione solo al bisognoso bello, simpatico e organizzato. Andare incontro all’imprevista domanda di aiuto diventa occasione per riconoscere il volto di Gesù in chi ci vive accanto e quasi sempre si tratta di un volto contratto, sporco e poco riconoscente…
    Negli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, dove si spiega come la “mistica dell’unione” diviene “mistica del servizio”, si legge che “l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole”. L’amore consiste nello scambio reciproco, così che ognuno dà e riceve. E’ una verità che in famiglia tocchiamo con mano ogni giorno. Sono le opere quelle che contano. E’ la carità operosa, che si traduce in scelte concrete, in solidarietà fattiva, specie verso chi è più bisognoso. Così in famiglia si vive quotidianamente la questione della giustizia: fare ciascuno la propria parte, sostenere l’altro, non badare soltanto a sé, al proprio tornaconto, alla propria comodità.
    Così, dentro la famiglia, si impara anche che senza un rinnovamento personale profondo, senza una costante conversione del cuore, non c’è alcuna vera possibilità di cambiamento sociale. Ognuno è interpellato personalmente.
    Ecco perché noi non abbiamo mai dato la cosiddetta “paghetta” ai nostri figli come compenso per i servizi fatti in casa e per le loro piccole spese. Viviamo in una comunità all’interno della quale il servizio è la dimensione di ogni giorno: siamo tutti al servizio di tutti, altrimenti non saremmo una comunità. La disponibilità all’aiuto non ha bisogno di essere retribuita. Apprezzata sì, ma non nel senso di darle un prezzo. Allo stesso modo, quando qualcuno ha bisogno di denaro, semplicemente, lo dice e se ne discute. Così si impara a scegliere sulla base delle priorità. Così si impara a stabilire una gerarchia: che cosa è davvero importante e che cosa è superfluo sulla strada della pienezza umana. Sembrano questioni lontane dalla fede. Invece è anche così che si impara a essere in questo mondo senza essere totalmente di questo mondo. E’ anche così che il nostro orizzonte si allarga. Il papà e la mamma non devono mai temere di discutere le scelte fra loro e di coinvolgere i figli.
    Come papà, sono impegnato soprattutto nel suscitare il senso di responsabilità. Anche a causa dell’uso massiccio delle nuove tecnologie della comunicazione, i nostri figli vivono immersi nella cultura della facilità. Tutto appare facile e a portata di mano: amicizie, esperienze, amori, conoscenze. La dimensione della fatica e del sacrificio sembra eliminata, salvo scoprire, prima o poi, che non è così e non può essere così.
    Quando un papà insegna la responsabilità è molto facile che il figlio lo veda quasi come un nemico, o quanto meno un gran rompiscatole. E’ successo anche a me. Ma Giovanni, una volta, mi ha dato una risposta che per me costituisce un grande premio e un incoraggiamento. Mi ha detto: “Ora come ora non ti capisco e non sono d’accordo con te, con questi no che mi dici e con queste difficoltà che mi prospetti, ma forse un giorno ti ringrazierò”. Era riuscito a vedere le cose dal mio punto di vista, che non è poco.
    Ai nostri figli suggeriamo di usare senza timore la parola felicità, la parola verità, la parola amore, la parola libertà. Se ci fate caso, sono proprio le parole che papa Benedetto sta mettendo al centro del suo insegnamento. E sono proprio quelle che la mentalità dominante nasconde (è vietato parlare di verità), distorce (l’amore ridotto a sesso) e strumentalizza (la libertà trasformata in u assoluto).
    In un mondo in cui l’apparenza vince spesso sulla sostanza, il cristiano ha questa grande fortuna, e questo grande compito, di essere uomo della realtà e della libertà. Seguire Gesù ci permette di dare il giusto valore alle cose e di essere liberi dalle schiavitù.

    Pregare, respirare

    La preghiera è la grande risorsa. La preghiera dei genitori, ma anche quella dell’intera famiglia. Ci sono occasioni, come l’Avvento e la Settimana santa, in cui, la sera, ci riuniamo e preghiamo. Magari qualcuno è mezzo addormentato e “contratta” sul numero di Ave Maria (“Dobbiamo proprio farle tutte queste decine?”, ma sono sicuro che il Signore ci perdona. La fede in famiglia si nutre di questi piccoli grandi gesti. Piccoli perché costano davvero poco, grandi perché oggi spegnere la televisione, rinunciare al divertimento e dedicarsi al Signore ha qualcosa di rivoluzionario. Ma proprio per questo è ancora più bello.
    Di recente, quando io ho avuto qualche problema nel mio lavoro, con Serena ho fatto una “trentena” (novena di trenta giorni) a san Giuseppe lavoratore, quest’uomo di poche parole che però ha respirato a pieni polmoni la santità e ha protetto Maria e Gesù. E’ stato bello. E’ stato come entrare in un mistero che non possiamo penetrare del tutto, ma che ci dà forza. Anche nella vita di tutti i giorni, nella vita feriale, è possibile far irrompere questa luce. I figli hanno osservato con stupore il papà giornalista affidarsi a Dio piuttosto che a qualche raccomandazione terrena. La preghiera a Giuseppe ha permesso a me di giudicare gli avvenimenti quotidiani in modo più lucido e sereno, e ai figli di sperimentare questa dimensione di affidamento fiducioso.
    Recitare il rosario tutti insieme e pregare per qualche intenzione particolare sono gesti che avvicinano tutti a Dio e all’amicizia con lui. Nella preghiera sentiamo Dio con noi e diventiamo più forti.
    Il “non abbiate paura” del beato Giovanni Paolo II è l’invito che rivolgiamo sempre ai nostri figli. Non abbiate paura di essere cristiani e di manifestarlo nella preghiera e nelle scelte di vita, non abbiate paura di andare controcorrente, non abbiate paura di mettervi in gioco ogni giorno. Non è un sacrificio, ma un’avventura degna di essere vissuta. Ricordate san Paolo? “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente”. E’ stata la prima lettura scelta per il nostro matrimonio.
    In casa, quando parliamo della visione cristiana della vita, non nascondiamo mai le difficoltà, non indoriamo la pillola. Essere cristiani, oggi più che mai, vuol dire avere una visione più ampia e più grande, infinitamente più ricca. I banchi di prova quotidiani sono i più disparati. Dalla televisione alla scuola, dai giochi con gli amici alle attività sportive.
    Tempo fa per un certo periodo decidemmo di fare a meno della televisione per dedicarci ad alcune letture. La sera, con la tv spenta, ognuno di noi leggeva, a turno, qualche pagina di un racconto o di un romanzo. Ci siamo sentiti uniti. Abbiamo avvertito un bisogno (sottrarci all’invadenza della tv), ne abbiamo discusso, abbiamo condiviso una scelta (dedicarci alla lettura) e abbiamo imparato a usare gli strumenti della conoscenza per il nostro bene, non a essere usasti noi da loro.
    Un’altra scelta controcorrente è stata fatta da Silvia quando, per i diciotto anni, ha deciso di abbandonare l’idea di una festa per gli amici in un locale. I prezzi erano esorbitanti, al di fuori della nostra portata, e così Silvia ha deciso di invitare gli amici a casa, per un pranzo festoso che, nella sua semplicità, è stato molto apprezzato.
    Essere cristiani vuol dire anche chiamare le cose con il loro nome. Il male è male e va denunciato, anche se tutti fingono di non vederlo o lo chiamano bene. La stupidità esiste e va smascherata, anche se gli altri la chiamano progresso. Non è vero che tutto è uguale, che ogni scelta è lecita, che non ci sono gerarchie di valori. Non è vero che ogni esperienza va provata e che solo dopo averle provate si può scegliere. Ciò che ci rende creature umane è l’uso del giudizio morale e quindi la capacità di riconoscere e applicare le virtù.
    Serena paragona la vita di fede in famiglia all’atto del respirare. La fede è come l’aria: quando la facciamo entrare guardiamo in noi stessi, facciamo il punto sul nostro cammino; quando la lasciamo uscire ci dedichiamo agli altri con spirito di carità.

    Affidarci alla Provvidenza

    “Dobbiamo imparare ad affidarci di più alla Provvidenza divina”, ha detto Benedetto XVI (Udienza generale, 1 febbraio 2012). Dobbiamo imparare sempre di nuovo a dire “sia fatta la tua volontà”, come disse Gesù nell’orto dei Getsemani. ”Anche noi – ha commentato il Papa - nella preghiera dobbiamo essere capaci di portare davanti a Dio le nostre fatiche, la sofferenza di certe situazioni, di certe giornate, l’impegno quotidiano di seguirlo, di essere cristiani e anche il peso del male che vediamo in noi e attorno a noi, perché Egli ci dia speranza, ci faccia sentire la sua vicinanza, ci doni un po’ di luce nel cammino della vita”.
    Maria osservava, ringraziava e “serbava tutte queste cose nel suo cuore”. Certamente lo faceva anche il silenzioso Giuseppe. Non capivano tutto, ma erano pazienti. Questo “serbare nel cuore” è ciò a cui siamo chiamati noi genitori, specie quando proviamo smarrimento. Spesso non capiamo, non siamo capaci di afferrare il senso degli accadimenti. Ma, proprio questo, ancora di più dobbiamo abbandonarci a Dio.
    “Dapprima impariamo, poi insegniamo poi ci ritiriamo e impariamo a tacere. E nella quarta fase l’uomo impara a mendicare”. Il proverbio indiano citato dal cardinale Martini in uno dei suoi ultimi libri mi sembra appropriato alla condizione di genitore così come la sto vivendo oggi. Nei confronti di alcuni figli sono ancora nella fase dell’insegnare, ma nel rapporto con i più grandi devo soprattutto imparare a tacere affidandomi alla testimonianza. Mendicante lo sono verso il Signore.
    Al quale mi rivolgo così: “Signore, aiuta questo mio figlio, non abbandonarlo, dagli il coraggio nel cercare il bene e nel praticare la giustizia. Aiutalo a essere buono, non lasciarlo cadere”. Basta che sostituisca “mio” con “tuo” e la preghiera va bene anche per me!


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