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    Il fallimento,
    la misericordia e la speranza,
    il senso di colpa
    dell'educatore
    Claudio Burgio

     

    «Educare non è mai stato facile e oggi sembra diventare più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita”.

    Così si apre la Lettera di Benedetto XVI alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione. E’ esperienza consolidata mia e di ogni adulto impegnato in un rapporto educativo quella di confrontarsi con il peso della propria inconsistenza, della propria fragilità e impotenza educativa. Tanto più chi si trova a operare in situazioni di frontiera, come può essere un carcere minorile o una comunità di accoglienza penale per adolescenti. 
    Per quanto tu possa contare sulla competenza, sull’esperienza maturata negli anni, sulla conoscenza approfondita del mondo giovanile e di questi ragazzi in particolare, ti ritrovi comunque, prima o poi, a fare i conti con la tua povertà di educatore, con le aspettative fallite o apparentemente fallite e ti rendi conto realmente di quanto sia complesso potere  incidere almeno un poco nella  storia delle persone e di quanto sia difficile far ritrovare loro modi nuovi e più autentici di vita.
    Molti genitori e formatori si sentono sviliti, contestati, bocciati.
    Chiudere gli occhi di fronte a questa “selva oscura” che è il peso del fallimento educativo non serve che a fomentare tutte le forme paralizzanti del pessimismo pedagogico. 
    Chi non ha il coraggio di prendere coscienza dei propri limiti, si troverà smarrito nell'educare. Chi, invece, sa guardare in faccia la propria ombra, saprà esorcizzarla. Scrive S. Fausti: 

    “La cultura attuale non è deprecabile; è, invece, il kairòs, il momento opportuno per raggiungere ciò che più ci sta a cuore (….). Le situazioni nuove sono come strettoie, che aprono a paesaggi più ampi e belli… Ciò che consideriamo difficoltà da risolvere e inciampo da levare, in realtà sono una chiave: apre il baule che teniamo sulle spalle, dove sta il tesoro che da sempre abbiamo con noi. La nostra epoca ci interpella con la sua novità. Dobbiamo accoglierla, per scoprire il dono che ci fu elargito fin dal principio. (….) 
    Il nuovo sempre ci atterrisce e attrae insieme; ma, alla fine, prevale il fascino del conoscere. Conoscere, come amare, è sempre “trasgredire”, andare oltre il proprio limite. Solo una cosa so: più vado avanti, più si apre l’orizzonte; più cresco, più grande diventa il mio limite.
    Vedere da dove si viene è almeno capire la direzione in cui ci si muove”.

    Accompagnare l’esperienza dolorosa di molti ragazzi incontrati in questi anni nel carcere minorile e nelle comunità significa entrare con loro in uno straordinario desiderio di vita, vuol dire mettersi sempre nella logica di un inedito superamento del dolore attraverso la continua scoperta di risorse interiori che non si erano mai immaginate prima.
    Soprattutto, significa scoprire come nel dolore ci si raccoglie, ci si prende cura di sé e si impara ad instaurare con gli altri un rapporto molto più vero e più profondo.
    La sofferenza ti obbliga a guardarti dentro, a entrare in intimità con te stesso, ti spinge a una nuova e inedita costruzione di sé, ti fa entrare in contatto con la tua finitezza, intesa non come limite ma come possibilità.
    Questo vale per l’adolescente in difficoltà, ma ancor più per l’educatore che sperimenta il senso del proprio limite e la frustrazione di interventi pedagogici apparentemente infecondi. 
    Lo scoraggiamento e il senso di colpa possono prendere il sopravvento generando vissuti demotivanti e processi stressogeni, con conseguente scelta di resa e di abbandono (burnout).

    Anche Gesù è andato incontro a un iniziale fallimento della sua azione educativa: il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro, l’abbandono degli altri apostoli, l’insulto della folla che lo aveva osannato e della quale era stato catechista instancabile e competente sono segni non riconducibili certo alla negligenza, alla sconsideratezza e faciloneria nell’educare di Gesù.
    Eppure, anche il Figlio dell’uomo non si è potuto sottrarre alle delusioni che attendono ogni educatore. Il realismo di Dio arriva persino a prendere coscienza anticipatamente e, dunque, a prevedere i fallimenti dei suoi sforzi educativi: il tradimento di Giuda (Mt 26, 21; Mc 14, 18; Lc 22, 21-22; Gv 13, 21), il rinnegamento di Pietro (Mc 14, 30; Lc 22, 34; Gv 13, 38), e la fuga di tutti gli altri (Mt 26, 31; Mc 14, 27).
    Ogni storia educativa interrotta ci rattrista, ci scuote e ci spinge a interrogarci sui nostri itinerari, sui nostri interventi e programmi pedagogici.
    L’albero da cui Giuda pende impiccato resta pur sempre un esito possibile e un’immagine infinitamente dolorosa e amara da metabolizzare.

    Come educatori posti di fronte ai fallimenti, siamo noi stessi educabili? Siamo pronti a mettere in questione il nostro modo di educare e riconoscere le nostre manchevolezze?
    Molti educatori vivono in segno di rassegnazione, di rinuncia; altri tendono a negare i problemi, attribuendo la colpa ad agenti esterni (la società, la famiglia, la scuola, la politica, la chiesa).  Parecchi di loro sembrano dire come Mosè: "Io non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me". 
    La tendenza alla deresponsabilizzazione è vicenda nota nel mondo adulto. Anche un’identità matura può correre rischi di regressione e di deriva nella fragilità. 
    Rapportarsi con adolescenti autori di reato o adolescenti in grave disagio di crescita può costare caro all’educatore che, senza volerlo, può ritrovarsi a fare i conti con il volto di un’identità infantile, impulsiva, immatura, frammentata.
    Prendere coscienza dei propri fallimenti educativi è momento necessario per non dover cadere in un’identità nomade e negativa, sottoposta al rischio del senso di colpa o di sentimenti di paura, di angoscia e di sofferenza psichica ed esistenziale.
    Non pochi educatori tendono a negare le difficoltà, ma negare è ferire la propria identità: ci si butta sull’organizzativo, si corre, si fa, si disfa, ma senza più sapere perché e per chi.
    La logica del “fare” tende a essere meno compromettente: si moltiplicano prestazioni professionali, protocolli di intervento, regole al punto che il ritmo ripetitivo del fare porta ad espropriarci sempre più della nostra soggettività. Un educatore corre così il rischio di essere solo un esecutore impersonale e di non svolgere un’”azione” veramente educativa.
    Il rapporto stabilito con i ragazzi nell’”agire educativo” è sempre un evento che si dà nel qui e ora, in un tempo puntuale (un kairòs), all’interno di un preciso momento storico, culturale, sociale, economico; l’incontro con l’altro, come sostiene E. Stein, non avviene a livello astratto, sulla base di categorie teoriche immutabili nel tempo, ma concretamente guardandolo negli occhi e guardando sempre la situazione storico-sociale-ambientale da cui proviene.
    L’essere umano è sempre collocato, perché non esiste un essere umano tipico destoricizzato.
    Ecco perché il “fare” non basta a estinguere la dimensione del vuoto che intercetta molti dei nostri adolescenti. Quale coscienza cerchiamo di risvegliare in loro? Quale concezione di uomo e di vita intendiamo comunicare e consegnare in questo momento storico di particolare crisi di tutto il sistema?
    L’educatore alle prese con il proprio fallimento formativo può anche ripiegarsi e cadere in derive di tipo narcisistico, totalmente preoccupato di apparire sempre riconosciuto e gradito, con conseguenti giochi seduttivi e autoassolventi. I sentimenti altruistici possono presto trasformarsi in ri-sentimenti personali, capaci di generare conflitti molto aspri, in grado di mettere a dura prova l’io psichico dell’educando e dell’educatore stesso.

    E’ vero, tuttavia, che come la moneta perduta è occasione per ripulire e riassettare a nuovo tutta la casa e insieme ritrovare la moneta, così ogni fallimento educativo ci interpella e può suscitare nell’educatore un rinnovato impegno.
    Come si può argomentare a partire dal cap.3 di Genesi e dai capp.1 e 2 della lettera ai Romani, Dio affronta l’insuccesso educativo, non se ne lascia scoraggiare, ma riprende e ripropone il suo piano fondamentale, addirittura con aperture che il processo educativo non avrebbe avuto senza queste delusioni.
    L’insuccesso educativo può trasformarsi, dunque, in kairòs, in momento opportuno, in occasione favorevole di cambiamento, come ben descrive il card. Martini commentando il dialogo tra Gesù e Pietro sulle rive del lago di Tiberiade:

    “Mi è venuto in mente il dialogo tra Gesù e Pietro sulle rive del lago di Tiberiade: in quel momento l’itinerario educativo portato avanti dal Signore nei confronti dei suoi era a una svolta decisiva. Il ricordo, la nostalgia e anche la tristezza delle cose passate potevano paralizzare i suoi, o aprirli a un nuovo, sorprendete inizio. È allora che Gesù mi sembra operare un salto che consente di fatto a Pietro e agli altri di cominciare non soltanto “di nuovo” ma “in modo nuovo”. 
    Rivolgendosi a Simone, Gesù gli chiede: «Mi ami tu più di costoro?». Richiesta esorbitante non solo perché rivolta a chi aveva rinnegato il suo Signore, non solo per quel curioso «più di costoro», ma anche e specialmente perché Gesù usa il verbo agapào, che indica l’amore totale, esclusivo, incondizionato. Pietro non osa rispondere con lo stesso verso (forse lo avrebbe fatto prima di conoscere l’amara esperienza del fallimento!): risponde semplicemente e poveramente «Ti voglio bene», usando il verbo dell’amore amicale, philéo. Nella seconda domanda Gesù insiste con la richiesta dell’amore totale; Pietro insiste nella seconda risposta con l’offerta del suo povero, umile amore. 
    Alla terza domanda e risposta non è Pietro che cambia il verbo: è Gesù. «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?»; e Pietro - sebbene «addolorato che la terza volta gli disse: Mi vuoi bene?» (che fosse cioè Gesù ad avere dovuto cambiare il verbo dell’amore) - gli risponde: «Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti voglio bene». 
    Si potrebbe quasi dire che non è Pietro a convertirsi a Gesù, ma è Gesù che si “converte” a Pietro, si adatta al suo linguaggio e alle sue possibilità. 
    È questa “conversione di Dio” che mi colpisce profondamente: anche perché è a partire da essa che Gesù pronuncia l’imperativo nel quale sbocca tutto l’itinerario educativo con cui aveva formato il suo apostolo: «Seguimi!». Il significato che colgo penso possa aiutare molto te e me: Gesù ha integrato il fallimento di Simone e, in fondo, il suo personale “fallimento educativo” perché ha molto amato: il suo amore è così totale da essere libero da ogni pretesa, da non imporre all’altro un’esigenza avvertita dall’altro come impossibile, da piegarsi sulla debolezza e povertà del suo discepolo per dargli nuovamente la speranza di amare, la fiducia di poter ancora date tutto, fino alla fine”. 

    Gesù sa che i frutti non si raccolgono subito e che, non di rado, chi semina non raccoglie; per questi e per altri motivi l'educatore non dovrà mai dire, nemmeno di fronte al caso difficile o umanamente impossibile: "non c'è più nulla da fare!", "è irrecuperabile!". Se egli ama alla maniera di Dio, non lo dirà mai per nessuno, come quelle madri e quei padri che non si danno mai per vinti di fronte all’insensibilità, alla ribellione o anche ai rottami del proprio figlio. 
    E’ possibile uscire dallo scoraggiante limite dell’impotenza educativa se ci si libera dall’io autarchico ed autoreferenziale che ci espone alla solitudine. 

    Scrive un sedicenne, cresciuto dentro la violenza respirata in casa e nel suo quartiere di Ponte Lambro a Milano; a scuola è arrivato fino alla terza media, ma la vita gli ha insegnato molto di più. Dopo un anno e mezzo di carcere, mi consegna questa pagina scritta:

    “Questa sera sono qui, su questo sfondo bianco della mia cella, per esprimere i miei pensieri. La mia testa sta esplodendo, perché ho mille pensieri che mi travolgono…Avrei bisogno per un giorno di chiudere la mente e riposare, ma questo non è possibile…. Ci sono ferite interiori impossibili da cicatrizzare e c’è tanta rabbia accumulata per troppo tempo, per le mille delusioni, per la quantità di colpi presi al cuore. E’ per questo che dall’amore sono passato all’odio.
    Ci sono persone che l’odio non lo esprimono, se lo tengono tutto dentro: sbagliatissimo, perché non ce la faranno mai a contenere questo sentimento così doloroso, ma allo stesso tempo così costruttivo. Sì, l’odio è anche un sentimento costruttivo, perché da tutte le delusioni impari molto; la vita di tutti i giorni ti insegna qualcosa e allora impari ad aprire di più gli occhi e a fidarti.
    Chi è passato dall’odio sa apprezzare la libertà, sapendo che la libertà assoluta non esiste; bisogna saper riconoscere i propri limiti, fino al punto di essere in sintonia con te stesso…”.

    Queste riflessioni sincere nascono dalla consapevolezza dell’essere fragile; al contempo sono parole cariche di speranza, attraverso le quali è possibile comprendere quanto davvero “la fragilità rifà l’uomo”, lo ricrea, lo restituisce alla Verità.
    Non di meno per un educatore è indispensabile sapersi riconciliare con la propria ombra e saper guardare in faccia il dolore senza illusorie vie di fuga. Come Gesù, sulla via per Gerusalemme: conosceva il rischio, sapeva che avrebbe dovuto affrontare il dolore e la morte, eppure “si diresse decisamente”.
    Entrare in Gerusalemme, attraversare la città, significa per Gesù, come per ogni educatore, sapersi assumere le proprie responsabilità fino in fondo; significa attraversare, con fiducia intatta, le terre seminate di dolore che sono, innanzitutto, dentro di noi.

    Anche chi vive il ministero ordinato non è estraneo a momenti di disorientamento:

    “Quando fui ordinato sacerdote, l’8 Giugno del 1996, nel Duomo di Milano, per le mani del cardinal Martini, mi sembrava di avere definitivamente scelto la mia strada una volta per tutte. Non sapevo che c’è una vocazione nella vocazione, come una seconda chiamata, da attraversare e da accogliere prova dopo prova, incontro dopo incontro. 
    Non immaginavo che ogni giorno devi scegliere, devi ritrovare le ragioni delle tue scelte, devi riconsegnarti al Dio della Vita.
    Stando con i miei ragazzi in comunità e in carcere ho compreso: ogni istante è un kairòs, è un momento favorevole, un’occasione importante per non consegnarsi all’angoscia ed all’inutilità della vita. Il giorno dell’Ordinazione sacerdotale, il Vescovo domanda a colui che presenta i candidati: “Sei certo che ne siano degni?”. No. Non ne sono degno; spero di diventarlo. Perchè non finisci mai abbastanza di entrare nella tua vocazione, perché non puoi veramente sperimentare la misericordia di Dio se non tocchi le profondità abissali del male, se non ti immergi nella sproporzione creaturale.
    So che il mio esserne degno non verrà misurato su quanti ragazzi e persone avrò saputo aiutare e convertire alla fede. Non sono io la soluzione ai problemi della vita di questi adolescenti; non coltivo l’illusione di trovare la risposta pronta per tutto e per tutti.
    Sarò degno di essere prete se saprò custodire per sempre quelle parole che un ragazzo mi consegnò appena uscito dal carcere: “Non capisco. Tu hai una vita sola e l’hai regalata tutta a noi”.
    E’ così! Sarò veramente prete se saprò regalare per sempre questa vita della quale non sono padrone, se saprò regalare quella Parola che salva “nelle” e non “dalle” tempeste della vita. Ti guida solo la certezza che tutto è impossibile all’uomo con le sue sole forze e che, al contrario, “nulla è impossibile a Dio” . 
    Soltanto dentro questa certezza la debolezza diventa opportunità”.

    La sola dimenticanza non produce vera conversione, non porta ad un reale cambiamento: 

    “Ma guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno visto: non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita. Le insegnerai ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli”.

    Solo quando il dolore diviene dicibile allora è sostenibile.
    E’ così per ogni persona: la sofferenza ti spinge verso una domanda di senso, verso un perché, ti costringe a trovare le parole per riuscire a esprimerla. 
    Nell’impotenza educativa, quando tutte le tecniche e i saperi scientifici sembrano inefficaci, ritorna la Sacra Scrittura: “Tutto posso in Colui che mi dà la forza”, di paolina memoria.
    Ti accorgi che, nonostante tutti gli sforzi, solo un “Dio ti può salvare”; solo Dio può consegnarti quel significato dell’esistenza che è in grado di rendere bella la vita.
    Solo il Vangelo ti dà gli strumenti per guardarti in faccia senza la paura delle tue fragilità, senza l’ansia delle prestazioni. Proprio la croce di Gesù è il segno di questa impotente fragilità della condizione umana e, nello stesso tempo, di questa pienezza di vita.

    “I fallimenti educativi sono in certo senso provvidenziali, perché ci aiutano a entrare nel mondo dello spirito, che è mondo di libertà, e ci alleano con quel Dio che non strumentalizza né meccanicizza nessuno, che rispetta fino allo scrupolo la libertà del più piccolo dei suoi figli, contento di attrarre con la forza straordinaria del suo amore e della sua grazia”.

    Non sono i principi educativi che salvano l’uomo, perché l’uomo non è una macchina; quando si ha a che fare con la libertà di un ragazzo non bastano le “istruzioni per l’uso” perché sia garantito il successo educativo.
    Ogni itinerario proposto non può essere pensato in alcun modo come “tecnica di successo”, perché ogni persona è unica, originale, irripetibile e come tale va accolta e accompagnata in un percorso ben lontano da ogni sorta di meccanicismo educativo.
    All’origine di ogni processo pedagogico c’è sempre la domanda: “Adamo, dove sei?”.
    I nostri sono ragazzi sofferenti, a crescita bloccata, perché vedono spegnersi la speranza di potere realizzare nel futuro i loro sogni, la loro vocazione, il loro talento: non riescono a nascere come soggetti sociali e hanno una tremenda paura che il loro futuro si allontani e rischi di morire. Non possiamo davvero ignorare questa lettura della realtà. 
    Così scrive Gustavo Pietropolli Charmet:  “E’ necessario aiutare i ragazzi a sperare perché, per un giovane, non riuscire a sperare significa essere dis-perato e avere la certezza che non esista più il futuro”. Questo è il compito educativo più urgente; non tanto l’eterna sfida sui regolamenti e sui valori, quanto la capacità di generare speranza. 
    Cosa significa “generare speranza”? L’istanza della felicità oggi non è certo garantita dalla società e dalle istituzioni; anche i nostri giovani sanno che il futuro non è il luogo del progetto, ma è il luogo dell’imprevisto e dell’improbabile, spesso del vuoto.
    Dunque, cosa può far crescere la dimensione della felicità nei nostri ragazzi?
    E’ l’essere valorizzato, al di là di quello che un ragazzo è riuscito concretamente a realizzare per il suo futuro. E’ l’essere ascoltato e apprezzato come persona, come soggetto unico, a generare sorrisi e apertura alla felicità. Non si tratta di illudere i nostri adolescenti con progetti improbabili; si tratta, piuttosto, di “abitare con loro il presente”, perché il presente sia già luogo di valore e di senso. Solo aiutando i nostri ragazzi ad abitare il presente, a governare la contingenza, generiamo in loro una possibilità concreta di futuro.
    Un adolescente frustrato e arrabbiato perché non valorizzato nel presente, difficilmente potrà costruire un futuro felice. In assenza di lavoro a 18 anni sembra che il mondo crolli: senza disconoscere la situazione di gravità che specialmente un minore straniero non accompagnato vive, tuttavia è fondamentale non lasciare che un ragazzo si abbandoni a derive depressive. 
    E’ importante aiutarlo a capire “cosa posso fare oggi”, perché il presente non diventi solo il tempo di un’attesa inutile e vuota, ma torni a essere considerato un tempo opportuno per costruire comunque qualcosa di importante.
    Sento questa riflessione doverosa soprattutto quando penso ai nostri sempre più numerosi giovani senza lavoro e apparentemente senza prospettive; è triste vederli dis-perati, è frustrante vederli abbandonarsi a consumi facili per un po’ di felicità, con il rischio di morire di piacere. E’ possibile generare ancora in loro speranza se incominciamo a valorizzare il loro presente come un tempo di impegno, di costruzione di sé e non come tempo vuoto, di logorante attesa.  Al centro del nostro pensare pedagogico va rimessa la parola “formazione”.
    Intendo una formazione al sapere che incentivi l’intelligenza creativa dei nostri ragazzi, perché un adolescente può ritrovare valore quando si sente all’altezza dei suoi compiti umani. 
    Ancor più, al centro del nostro agire pedagogico va messa la parola “testimonianza”.
    Solo di fronte alla parola fragile, ma coerente di un educatore-testimone la conoscenza potrà generare ri-conoscenza.

    1 febbraio 2014 - Simposio “Educazione e nuova evangelizzazione”


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