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    Essere-per:

    la cura del senso

    e la cura di Dio

    Giuseppe Savagnone

     

    Un nuovo politeismo

    I problemi dell'educazione sono strettamente legati, oggi, alla crisi di senso, nella duplice accezione di "significato" e di "direzione". Alcuni anni fa Gianni Vattimo, rispondendo a chi gli chiedeva quali direzioni, nel nostro tempo, la filosofia additi ai giovani, si diceva convinto che oggi essa «non debba né possa insegnare dove si è diretti, ma a vivere nella condizione di chi non è diretto da nessuna parte (G. VATTIMO, Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l'ermeneutica, Feltrinelli, Milano 1984, p. 12)

    A questo punto diventa difficile capire come sia possibile educare. L'educazione ha sempre avuto lo scopo di far crescere delle persone ancora acerbe, di promuoverne lo sviluppo umano accompagnandole nel loro percorso. Non per nulla essa è stata sempre pensata in base alla metafora del viaggio (cf M. T. MOSCATO, Il viaggio come metafora pedagogica, La Scuola, Brescia 1994). Anche quando la meta non è ancora definita in partenza, la si cerca oscuramente mettendosi in cammino. C'è un abisso tra questo "andar verso" e il nomadismo a cui ama ispirarsi tanta parte della cultura contemporanea.

    Nella logica del viaggio è importante avere un punto di riferimento. Le figure di Virgilio e di Beatrice, che guidano Dante nel suo lungo percorso dalla «selva oscura», attraverso gli abissi dell'Inferno e le purificazioni del Purgatorio, fino alla pienezza della realizzazione di sé nell'incontro con Dio, sono emblematiche della funzione che la tradizione occidentale ha attribuito all'educatore in tale percorso. Né si discosta di molto da questo schema di fondo il ruolo della Fata Turchina, nel viaggio di Pinocchio per diventare uomo. Sono esempi che evidenziano la problematicità della situazione culturale di oggi. Vale la pena educare, e a che cosa, se non ci sono più mete? Se non c'è più un orizzonte di valori condivisi da comunicare?

    Se gettiamo uno sguardo all'ultimo secolo della storia occidentale, il processo ci appare nettamente delineato. Già all'inizio del Novecento Max Weber osservava che, col declino dell'unità culturale realizzatasi in passato sotto il segno dell'etica cristiana, «gli antichi dèi, spogliati del loro fascino personale e perciò ridotti a potenze impersonali, si levano dalle loro tombe, aspirano a dominare sulla nostra vita e riprendono quindi la loro contesa» (M. WEBER, La scienza come professione, in Il lavoro intellettuale come professione, tr. it. A. Giolitti, intr. di D. Cantimori, Einaudi, Torino 1980, p. 33). Secondo lui, la modernità secolarizzata è inevitabilmente esposta a vivere conflitti tragici e radicali di valori che, per definizione, non possono essere composti, perché derivano dall'«impossibilità di conciliare e risolvere l'antagonismo tra le posizioni ultime in generale rispetto alla vita» (Ivi, p. 37).

    Il grande sociologo svizzero non poteva immaginare che, a distanza di un secolo, il processo avrebbe raggiunto esiti molto più estremi di quelli da lui descritti. Perché il "politeismo" di cui egli parla implica che si sia ancora capaci di scegliere un valore, un "dio", fra gli altri e di affidare ad esso il senso della propria esistenza. Oggi non è più così. La frammentazione non colpisce solo la società, ma lo stesso individuo. Nella crisi degli ideali e delle ideologie, una sola di esse è sopravvissuta e si impone ormai incontrastata, ed è quella secondo cui non esistono più verità e valori a cui dedicare tutta una vita. Prevale, ormai un meticciato, un melting pot che confonde i confini rigidi tra una posizione e l'altra, dando luogo a nuove e sorprendenti metamorfosi. Cadono i muri, non solo tra gli Stati, non solo tra le visioni del mondo, ma all'interno delle persone. Nello stesso individuo, coesistono e si mescolano idee e comportamenti un tempo ritenuti inconciliabili.

    In questo modo si aprono prospettive impensate, si fanno strada inedite forme di pensiero e di vita, per gli individui e per le comunità, di fronte a cui non bisogna affrettarsi a lanciare anatemi. Un mondo nuovo sta nascendo, fuori e dentro di noi, e dobbiamo fare i conti con esso. C'è sicuramente una ricchezza in tutto questo, anche se il prezzo può essere la difficoltà di orientarsi. Educare a gestire tale difficoltà, in uno spirito di ricerca che esclude ogni compiacimento, è una sfida pedagogica alla quale non ci si può sottrarre.

    Ciò che è essenziale evitare è quella vertigine del nulla che vanifica questa ricerca. L'affermazione che «Dio è morto», in quest'ottica nichilista, significa che tutto è dio. Una folla di divinità depotenziate si spartiscono il cuore della stessa persona, senza però che alcuna di esse possa rivendicare il diritto di dare significato alla vita. Ed è logico, perché questi "dèi" rappresentano solo delle opzioni soggettive e il loro significato non è altro che quello della libertà del soggetto che di volta in volta sceglie di seguirli. Ma se un valore è tale solo perché scelto, tutti in fondo si equivalgono. Attendono solo il loro turno. E, a questo punto, che cosa può dire un educatore ai giovani, se non - parafrasando il titolo di un noto romanzo - di "andare dove li porta il cuore" in un dato momento e in una data situazione?

    Si può ipotizzare una prospettiva che, senza chiudersi alle nuove opportunità che si delineano, e che per tanti versi appaiono affascinanti, non comporti il suicidio dell'educazione? Bisogna avere il coraggio di riconoscere che a questa domanda non è facile rispondere. Qui vogliamo solo fare il tentativo di mettere a fuoco alcune condizioni imprescindibili perché la ricchezza di cui si parlava non venga vanificata dall'insignificanza. E la prima di queste condizioni - in aperta sfida alle attuali mode culturali -ci sembra il recupero del senso della verità.

     

    Relativismo, senso della relatività e amore della verità

    Si sente spesso ripetere che ammettere l'esistenza di una verità genera inevitabilmente la violenza e chiude lo spazio della libertà. La forza di questa affermazione sta nel gran numero di situazioni storiche che i suoi sostenitori possono citare a proprio favore, dall'Inquisizione alle purghe staliniane, dalle guerre di religione alle Brigate rosse. Meno frequentemente si sente però ricordare che senza la fiducia nella verità non ci sarebbero stati, ad esempio, né Socrate né Galilei né Martin Luther King. Essi hanno contribuito in modo decisivo alla crescita dell'umanità proprio appellandosi a delle convinzioni che non ritenevano solo soggettive, ma valide universalmente.

    Forse non è la fiducia nell'esistenza della verità a generare il dogmatismo intollerante, ma il modo in cui ci si rapporta a questa verità. Perché è indubbio che ci sia stata, storicamente, e continui ad essere presente in molti, la tentazione di identificare la verità con le proprie certezze. Ma ciò che si tende ad assolutizzare, allora, non è la prima, bensì le seconde. In altri termini, il dogmatismo, di qualunque matrice sia, non nasce tanto dalla verità, quanto dalla pretesa di poterla catturare e ridimensionare a misura del proprio limitato punto di vista. Mentre la ricerca della verità costringe a rimettersi sempre in discussione, la fame di certezze a volte provoca una chiusura ad ogni altra voce. Vincere questa chiusura non è solo nell'interesse della libertà, ma della stessa verità.

    Che la verità non provochi necessariamente la violenza è del resto quanto afferma il più importante e famoso teorico della nonviolenza, Mohandas Karamchand Gandhi. Per lui c'è un rapporto strettissimo tra quella che egli chiama ahimsa (tradotto in italiano "nonviolenza") e la verità. Da un lato, infatti, la nonviolenza è condizione per arrivare alla verità ed è finalizzata ad essa: «Senza ahimsa» - egli scrive - «non è possibile cercare e trovare la Verità. L'ahimsa e la Verità sono legate così strettamente che è praticamente impossibile distinguerle e separarle (...) Tuttavia ahimsa è il mezzo e la verità il fine». (M. K. GANDHI, La resistenza non violenta, ed. it. a cura di F. Paris, Newton & Compton, Roma 2000, p. 50).

    Se la nonviolenza conduce alla verità, è valido anche il reciproco: non c'è autentica nonviolenza se non a partire dalla verità. Posto, infatti, che l'ahimsa implica in qualche modo l'amore, Gandhi ha tenuto a precisare che «questa legge dell'amore non è altro che la legge della verità. Senza verità, non c'è amore; senza verità, può esserci affetto, o infatuazione (...) Pertanto, il satyagraha è stato descritto come una moneta; su un lato c'è scritto amore, e sull'altro c'è scritto verità» (ID., La forza della nonviolenza, tr. it. A. Sessa, pres. di N. Salio, EMI, Bologna 2002, p. 43).

    Un'educazione che voglia essere tale non deve - anche perché non può - rinunziare alla verità, ma solo a quella sua caricatura, per cui si pretende che le proprie certezze coincidano, senza residui e indiscutibilmente, con essa. È da qui che nasce il fanatismo. Ma non si risponde ad esso col relativismo, che teorizza l'inesistenza di una verità in sé. Al contrario, per quanto paradossale possa apparire, questa posizione finisce per ricadere suo malgrado proprio in quella che vorrebbe combattere. Il relativista, infatti, sostenendo che ognuno, a cominciare da lui stesso, ha "la sua verità", deve accettare l'idea che questa non sia altro se non la certezza soggettiva. Né potrebbe essere altrimenti, perché se non c'è una verità oggettiva con cui confrontare le proprie idee, queste sono rese automaticamente inconfutabili (se non c'è verità, non c'è neppure errore e ognuno ha il diritto di pensare e dire ciò che vuole: vale solo per lui!).

    A questo punto non solo diventa inutile cercare la verità, dal momento che già la si possiede e non vi è una realtà in sé che possa cambiare o arricchire il proprio punto di vista, ma anche il confronto con gli altri diventa un gioco senza importanza. Mancando un terreno comune tra i diversi soggetti, ci si muove su piani non solo diversi, ma incommensurabili. Lo scambio di idee, allora, può servire soltanto, nella migliore delle ipotesi, a conoscere il proprio interlocutore.

    Educare al dialogo significa insegnare a rispettare la verità delle cose, qualunque essa sia, coltivando il senso della relatività delle proprie certezze e la necessità di confrontarle incessantemente non solo con la realtà, ma anche con i punti di vista diversi dal proprio.

    Questa posizione richiede, da parte dell'educatore, una difficile ascesi. Non gli è chiesto di liberarsi delle proprie convinzioni, sia perché ciò non sarebbe possibile, sia perché, se lo facesse, non avrebbe più alcun orizzonte di valori da additare e, al limite, più niente da insegnare. Deve, però, purificarle da ciò che vi è di abitudinario, di non meditato, di non disponibile alla revisione critica. Non si tratta, insomma, di pretendere che si abbia sulle cose uno sguardo asettico e indifferente, uno "sguardo da nessun luogo", come dice Nagel. Bisogna, piuttosto, essere consapevoli che la propria prospettiva, frutto di una storia, nel rapporto educativo costituisce il punto di partenza e non quello di arrivo. Un educatore che faccia questo non sarà mai, ovviamente, super partes. Ma chi pretende di esserlo inganna - consapevolmente o no - se stesso e gli altri. La condizione da garantire ai giovani non è il vuoto di chi li educa, che sarebbe suicida, ma una visione aperta, sempre disponibile, proprio per amore della verità, a mettere in discussione anche se stessa.

     

    Educare alla cura del senso: la responsabilità verso il futuro

    Un'educazione alla cura del senso dovrà misurarsi con le derive, oggi molto forti nella nostra società, che tendono a negare che ce ne sia alcuno. Abbiamo citato prima la battuta - tutt'altro che umoristica - di Gianni Vattimo circa l'inesistenza di direzioni in cui andare. E a volte si ha l'impressione che questo nichilismo sotterraneamente abbia presa su tanti ragazzi e ragazze che "vivono alla giornata" e che alzano le spalle quando qualcuno chiede il perché di un loro comportamento. Un perché, intendono dire, non c'è. La vita va dove va. Giusto, sbagliato, buono, cattivo, appaiono a molti categorie convenzionali.

    Ma in questa logica tutto si equivale. Il nichilismo, ben lungi dal costituire una posizione di onestà esistenziale, nega la ricchezza dell'umana esperienza. Educare alla cura del senso significa risvegliare nell'altro la percezione e il gusto delle differenze, la piena capacità di sperare, di gioire e di soffrire, la consapevolezza del rischio di ogni scelta, ma anche del fascino insito in questo rischio. Significa restituire ai giovani la possibilità di avere una vita piena.

    La domanda di senso è ineludibile. Ci saluta la mattina quando ci svegliamo dal sonno: alzarsi dal letto diventa difficile, se la prospettiva è quella di una routine a cui non si attribuisce alcun valore e alcuna meta. Non c'è da meravigliarsi che la maggior parte delle persone cerchi di eluderla anestetizzandosi con mille droghe. (Non ci sono solo quelle tecnicamente definite tali: l'al-cool, le sigarette, la televisione adempiono spesso la stessa funzione.) Oppure si trasferisce in un mondo immaginario la propria esigenza di significato e si vivono a quel livello - purtroppo fittizio - gioie, entusiasmi e delusioni. (Si seguono le vicende della squadra del cuore, oppure quelle dei personaggi dello spettacolo, proiettandosi in esse, come se fossero decisive per la propria esistenza). Si cerca il senso al di fuori della verità.

    Nel film Matrix (1999), dei fratelli Wachowski, gli esseri umani vivono una vita puramente virtuale in cui sembra di ritrovare tutti i punti di riferimento della normalità quotidiana, al cui interno essi perseguono gli scopi che essi credono significativi. Ma questo mondo non esiste e serve solo a nascondere la condizione miserabile in cui l'umanità si trova di fatto. Gli individui si sviluppano all'interno di involucri artificiali e là consumano la loro intera esistenza di embrioni mai nati, utili solo ad alimentare con la loro energia biologica il sistema delle macchine, governato da una potente intelligenza artificiale (Matrix) che ormai ha preso il sopravvento sull'uomo. Le immagini e le sensazioni che invadono i loro cervelli sono prodotti da impulsi elettrici generati da un unico sistema di controllo capace di simulare la realtà. Ci sono però alcuni che, guidati da Morpheus (Laurence Fishburne), lottano per mantenere viva in se stessi, e per risvegliare negli altri uomini, la coscienza di come le cose stanno veramente.

    Sono loro a prendere contatto con un piccolo hacker, Neo (Keanu Reeves), facendolo incontrare con Morpheus. Questi pone il giovane davanti a una drastica scelta: continuare a vivere la sua vita di sempre, oppure accettare di imbarcarsi nell'avventura di scoprire la verità su Matrix. L'alternativa si materializza in due pillole, quella azzurra, che, se inghiottita, favorirà il ritorno di Neo alla normalità, e quella rossa che, viceversa, lo porterà al salto verso l'ignoto.

    Neo sceglie la pillola rossa. La sua prima sensazione è di morire. In realtà sta, in un certo senso, nascendo. Lo sottolineano le sequenze successive, girate in modo da rappresentare, con drammatica efficacia, una specie di parto. Il corpo nudo e inerte di Neo viene espulso da un contenitore metallico, in cui si trovava in uno stato di incoscienza.

    Morpheus vuole coinvolgere Neo in questa lotta e lo prepara ad essa attraverso una lunga educazione fisica e spirituale. Il rapporto tra Morpheus e Neo configura, in questo senso, un modello di discepolato. L'uno adotta nei confronti dell'altro uno stile maieutico che parte dalle sue percezioni e dai suoi pensieri, senza pretendere di sovrapporsi ad essi dall'esterno, anche se tende ad aprire i suoi occhi sulla realtà. E quando è il momento della scelta, non cerca di imporsi autoritariamente, ma, da buon maestro, si limita a prospettare chiaramente i termini dell'alternativa, pur senza rinunziare a sperare che il giovane faccia quella più giusta.

    Fuor di metafora, educare alla cura del senso significa spingere alla riflessione per discernere, nel proliferare dei miraggi proposti dalla società consumistica, quanto vi è di reale e quanto di puramente illusorio. «La vita non è sogno», ha scritto Salvatore Quasimodo. Oggi per molti lo è. Il problema dell'educazione è di destare da questo sogno senza gettar via, insieme ad esso, quelle aspirazioni e quei desideri la cui assenza rischia di essere paralizzante.

     

    Educare alla cura di Dio: l'apertura all'oltre

    L'essere-per implica che l'appartenente alla specie homo sapiens, a differenza degli altri animali, sia sempre sbilanciato verso un "oltre" che non si può ridurre alla sfera degli oggetti che soddisfano i suoi bisogni fisici o psichici. Oggi noi assistiamo al tentativo più o meno riuscito di anestetizzare l'inquietudine che ne deriva. Nella nostra società consumistica tutto diventa oggetto da comprare e da usare. La "qualità della vita" sembra ormai dipendere esclusivamente dall'appagamento delle aspirazioni relative al cibo, al sesso, al successo, al denaro. Oppure si cerca di dare sfogo a questa inquietudine attraverso un'attività inesauribile, che non mira ad appagarla, ma a esaltarla indirizzandola verso i più diversi obiettivi. Una scelta che rende giustizia, più della prima, al suo essere una risorsa e un potente fattore di creatività, ma che ne misconosce, ancora una volta, le vere radici.

    In questo contesto ha un significato introdurre il concetto di "cura di Dio". Se qui ci arrischiamo ad avanzare questa proposta, in un discorso educativo che intende rimanere rigorosamente laico, è perché speriamo di riuscire a chiarire che il suo significato non ha nulla di confessionale, pur volendo mantenere un richiamo che innegabilmente lo collega alla tematica religiosa.

    Aver cura di Dio significa, nel nostro discorso, riconoscere un senso, una direzione, un fine che riguarda ogni persona; riscoprire la necessità di una relazione fondante che dia consistenza e profondità a tutte le altre relazioni; percepire la relatività delle cose, delle singole situazioni e dei singoli eventi della vita, rispetto alla maestà della vita stessa. Il "Dio" di cui parliamo qui merita ancora la maiuscola, ma non perché se ne tratti a partire da una prospettiva di fede, bensì perché esprime il Mistero che si sottrae al piano degli oggetti afferrabili e manipolabili. Questo Mistero ogni essere umano, anche il non credente, forse anche l'ateo, può in qualche modo ipotizzarlo presente, proprio nella sua assenza irriducibile.

    Possiamo riproporre, in questa prospettiva, un'osservazione che viene dalla tradizione del pensiero occidentale: «Si dice che Dio non ha nome o che è al di sopra di ogni denominazione, perché la sua essenza è al di sopra di tutto ciò che noi possiamo concepire o esprimere a parole» (TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae I, q. 13, a. 1, ad 1m).

    Nella nostra cultura vi sono forti tendenze a considerare tutto misurabile, riducibile agli schemi della ragione tecnologica e assoggettabile alla logica utilitaristica. Forse proprio qui affonda le sue radici la cultura della violenza che caratterizza tanta parte della nostra vita sociale e personale. Come il dio Shiva, in cui coincidono il genio della creazione e quello della continua distruzione di ciò che è stato creato, l'uomo frantuma e ricostruisce incessantemente il suo universo, in una manipolazione senza limiti: manipolazione della natura, sfruttata e inquinata per garantire alti tassi di sviluppo della produzione industriale; manipolazione dello stesso essere umano, utilizzando i progressi dell'ingegneria genetica; manipolazione della psiche, attraverso i condizionamenti della pubblicità e della propaganda.

    Non si tratta di demonizzare la tecnica. Nessuno vorrebbe vivere, oggi, in un mondo senza gli immensi vantaggi che essa offre in innumerevoli campi (si pensi alle cure mediche). Il problema è di non trasformare se stessi nella misura di tutto. Proprio questo può consentire di servirsi degli strumenti della tecnologia in modo umano, senza rischiare di esserne asserviti. È la grande sfida del nostro tempo, in cui si gioca non solo il nostro destino, ma anche quello delle generazioni future.

    Educare alla cura di Dio significa destare nei giovani la consapevolezza del limite, aprire alla prospettiva di una fruizione dell'universo che non si fonda sullo sfruttamento, ma sulla contemplazione, esercitare a uno stile di vita ispirato al rispetto, piuttosto che alla voracità, allo stupore piuttosto che al calcolo utilitaristico.

    Questo discorso ha una valenza che oltrepassa i confini della sfera privata. Esso apre prospettive relazionali più ampie: «Forse uno dei modi più efficaci e concreti per "resistere" alla globalizzazione è quello di dar corpo a nuovi stili di vita improntati alla sobrietà come vera e propria virtù sociale da far conoscere e proporre alle nuove generazioni. La sobrietà non è solo un problema di quantità e di riduzione dei consumi. Sobrietà è un concetto ricco di significati che evocano semplicità, equilibrio, essenzialità, senso della misura, armonia, leggerezza. Sobrietà è disponibilità alla condivisione dei beni, senza egoismi e senza sprechi. È collocarsi nel solco della tradizione francescana, è riscoprire una delle virtù cardinali, del tutto dimenticata: la temperanza. La sobrietà è anche vedere il mondo con lo sguardo dei poveri. C'è nell'idea di sobrietà qualcosa di sovversivo e di profetico, che è insieme una denuncia dello spreco e un'anticipazione di ciò che altri vivranno domani. La sobrietà di oggi è un investimento sul futuro di tutti, un segno di rispetto per le generazioni future e per la Terra. Proprio perché la sobrietà comprende queste importanti dimensioni culturali, antropologiche e politiche, non deve essere banalizzata in una casistica del più e del meno. Il cambiamento deve partire dalla coscienza personale, deve essere prima di tutto una scelta interiore, che poi si rende visibile nei comportamenti, nei gesti, negli stili di vita. Si tratterà spesso di piccoli gesti che si inscrivono però in grandi orizzonti perché accompagnati da una coscienza politica e dalla consapevolezza di prendere parte ad una strategia lillipuziana di cambiamento. Come a Lilliput oltre Lilliput» (A. NANNI, Una nuova paideia, EMI, Bologna 2000, p. 39).

    I minuscoli lillipuziani dei Viaggi di Gulliver riescono ad immobilizzare il gigante Gulliver attraverso una fitta rete di fili. La strategia lillipuziana intreccia molte azioni particolari, ognuna di per sé insufficiente, per creare nuovi contesti e nuove sinergie culturali, che possono contrastare il livellamento verso il basso imposto dalle multinazionali.

    In questo spazio di libertà potrà fiorire la percezione di una Presenza che pervade le più semplici esperienze di ogni giorno -lo studio, il lavoro, l'amore, l'amicizia - e che non le offusca ma, al contrario, ne valorizza la profondità, conferendo alla vita una nuova bellezza. Essa potrà anche manifestarsi nella forma di un Essere Altro che inquieta e strappa alla quotidianità. Non più solo un orizzonte, ma Qualcuno, che interpella e costringe, in qualche modo, a perdersi per ritrovarsi in Lui.

    Oggi questa radicale alterità viene spesso negata in nome dell'autonomia dell'essere umano. Da questo punto in poi, i percorsi educativi non possono che prendere strade divergenti a seconda che l'educare alla "cura di Dio" faccia parte o meno della prospettiva pedagogica. Ma l'educazione non sarebbe all'altezza degli esseri umani a cui è rivolta se nascondesse, anche solo con l'indifferenza, questa alternativa.

     

    Educare alla cura del senso e di Dio nella famiglia: l'amore che dà speranza

    Il primo ambiente in cui una persona percepisce che la vita è qualcosa di buono e che ha un significato è la famiglia. Allo stesso modo, è in famiglia che si apprende la grammatica di un sano rapporto con la trascendenza. Oggi non mancano intellettuali che sostengono la necessità - in nome della libertà dei figli - di astenersi da ogni forma di condizionamento, sia in senso valoriale che soprattutto religioso. Quando saranno adulti - si dice - saranno loro a scegliere. Non dovrebbero esistere bambini cristiani o musulmani. Nella misura in cui ciò accade, saremmo davanti -sempre secondo questi autori - a una intollerabile violenza.

    L'argomentazione a prima vista appare convincente. Ma solo a prima vista. Basta riflettere sul fatto che, assumendola in tutta la sua forza, ci si dovrebbe astenere dall'insegnare ai bambini qualsiasi regola, qualsiasi criterio educativo, dato che dietro di essi, normalmente, sta una certa costellazione di valori. Non si potrebbero correggere, in quest'ottica, neppure i comportamenti infantili di violenza e di prevaricazione, perché esprimono visioni della vita oggi ampiamente adottate dagli adulti e che potenzialmente potrebbero benissimo essere scelte e fatte proprie dai figli una volta cresciuti.

    In realtà, anche insegnare a parlare una lingua invece di un'altra, educare secondo lo stile di una data cultura e di una data tradizione familiare, sono condizionamenti che limitano gravemente la libertà di scelta di un bambino. Per seguire coerentemente l'indicazione da cui siamo partiti, si dovrebbe lasciare all'individuo il diritto di essere italiano o francese, di avere una mentalità occidentale oppure orientale, da contadino o da figlio di professionisti, e così via. Ma questo cozza irrimediabilmente con la realtà della condizione umana.

    La verità è che tutti siamo sempre condizionati da qualcosa. A rigore, anche dal semplice fatto di appartenere al genere maschile o a quello femminile. Il modello di libertà che sta alla base di una pretesa neutralità da parte della famiglia dimentica che, senza condizionamenti, non ci sarebbe alcuna identità e neppure la libertà di scegliere. I "bambini-lupo" non sembrano affatto più liberi dei ragazzi cresciuti in una comunità umana, che pure li ha sicuramente condizionati. I figli di una famiglia che non avesse voluto dare loro alcun orientamento valoriale o religioso, sarebbero dei bruti, a meno di aver ricevuto - come peraltro è inevitabile - degli stimoli, in un senso o nell'altro, dalla società in cui vivono. Nell'ipotesi che la famiglia potesse davvero dimettersi dal proprio compito educativo, essa potrebbe ottenere solo che questo compito venga svolto da altri, dall'ambiente, dalle situazioni, dagli amici, etc., che è molto dubbio lo adempiano meglio di lei. Ma stiamo parlando di un'ipotesi irreale: anche la semplice astensione dall'offrire certi criteri di valutazione è una forma di educazione e quindi di condizionamento. Ciò è particolarmente evidente nel caso del problema religioso: non dare alcuna idea ai propri figli su questo tema, equivale a non far sviluppare alcune potenzialità che invece sarebbero fiorite in caso contrario. Ma non è anche questo un modo di limitare la loro libertà?

    Il punto, allora, non è di inseguire una impossibile e peraltro nefasta neutralità della famiglia, ma di far sì che la sua influenza si realizzi in modo tale da garantire al giovane di poter valutare criticamente, nel corso della sua crescita, l'educazione ricevuta. Ciò comporta la rinunzia ad ogni forma di indottrinamento fanatico e l'impegno a far maturare le doti di riflessione e di scelta dei propri figli. C'è un modo di trasmettere i valori e la stessa fede religiosa che rifugge dalle domande, che anestetizza le obiezioni, che punta volontaristicamente sull'adesione incondizionata, e ce n'è uno che invece valorizza la consapevolezza, i problemi, la ricerca, anche da parte di bambini molto piccoli. La famiglia ha il compito di perseguire la strada più difficile, ma anche più corretta, che è la seconda. Solo allora le prospettive aperte con l'attività educativa saranno in linea di principio, a prescindere dal loro contenuto, compatibili con la libertà dei giovani, in quanto potenzialmente sempre riformabili. I genitori devono amare questa libertà, anche se spesso dovranno misurarsi dolorosamente con le scelte dei propri figli.

    Per educare, la famiglia non ha bisogno di tener corsi, lezioni, o di altre attività intellettuali specifiche. Questo sarà il compito della scuola. A lei bastano la testimonianza dei genitori, sia nei confronti del mondo esterno, sia negli stessi rapporti familiari, e la conversazione che quotidianamente dovrebbe svolgersi a casa. Davanti a certi gravi casi di deviazione giovanile e allo stupore desolato del padre e della madre, la domanda che sorge spontanea è: "Ma di che cosa parlavate la sera a tavola?". La risposta sarebbe, nella stragrande maggioranza dei casi, che a cena non ci si ritrovava mai tutti insieme, oppure - ammesso che ci si ritrovasse - che non si parlava di nulla, perché si guardava la televisione. È nella conversazione che i genitori dovrebbero essere messi a conoscenza delle esperienze, dei problemi, delle prospettive dei loro figli ed è qui che dovrebbero maturare il confronto, le indicazioni, le eventuali correzioni.

    È da qui, da questo scambio incessante, che deve poter emergere un orizzonte di senso, offerto fin dalla prima infanzia e poi sempre di nuovo, tenendo presente la crescita del soggetto e le sue sempre diverse esigenze. E da qui deve svilupparsi l'educazione religiosa, che insegni ai figli a trovare Dio non in formule astratte, ma nella loro concreta esperienza di vita. La più decisiva è quella dell'amore che lega gli sposi e che essi riversano sui figli. La tradizione spirituale dominante dell'Occidente, quella cristiana, si fonda sulla verità primordiale che «Dio è amore» (1 Gv 4,8). Questo amore adombra una realtà che supera le vicende quotidiane e si manifesta in una misteriosa paternità, di cui il rapporto genitoriale è figura. Essa insegna ai figli ad affrontare l'ignoto con speranza e li prepara a donare a loro volta la vita che hanno ricevuto (Su educazione e speranza, oggi, cf G. MARI, Sfida del nichilismo e educazione alla speranza, in AA.Vv., Educare alla speranza, a cura di M. L. De Natale, Atti del Seminario di studio (Milano, 10.3.2006), ISU Università Cattolica, Milano 2006, pp. 63-84).

     

    Educare alla cura del senso e di Dio a scuola: oltre il supermarket

    Fino a circa quarant'anni fa la scuola italiana aveva una fisionomia compatta, monolitica, non solo a livello strutturale, ma anche valoriale. I princìpi etici e culturali a cui si ispirava erano rigidi e implicavano una precisa scala di fini sociali dati per scontati. Il sistema d'istruzione aveva il compito di trasmetterli, in primo luogo alla futura classe dirigente, ma più in generale a tutte le componenti della società. In base a questa griglia di criteri assoluti si operava anche una selezione tra quanti riuscivano ad integrarsi e quanti invece rimanevano dei disadattati, rispetto alla "normalità" imperante.

    L'esplosione di questo schema è legata alla crisi della comunità etica in cui tutti, sia pure con diverse sfumature, si riconoscevano, e al cui interno anche i grandi conflitti ideologici si svolgevano. A una estrema rigidezza è subentrata, per reazione, un'altrettanto estrema frammentazione. La fine dell'idea di una "normalità" a livello morale e la sua riduzione a un piano puramente sociologico, dove assume la valenza deteriore di "conformismo", hanno aperto la strada a una varietà indefinita di punti di vista soggettivi, tutti egualmente validi, in quanto esprimono le esigenze personali di ciascuno, incommensurabili con quelle di chiunque altro.

    In questa prospettiva, il sistema scolastico non solo non si è più fondato su una visione precostituita e omologante della vita e della realtà, ma non ha neppure potuto ispirarsi a un orizzonte di valori condivisi e ha finito per rinunziare a fornire messaggi significativi riguardo a tutti i problemi di fondo. La convinzione che "ognuno ha la sua verità" è diventata la sola certezza comune a famiglie, docenti e alunni. La scuola si è così trasformata in un grande supermarket, in cui ognuno va a cercare singole "cose", funzionali al proprio progetto individuale di autorealizzazione, secondo i canoni della società consumistica, e i cui "commessi" -i docenti - non hanno se non il compito di dare istruzioni per l'uso degli strumenti, lasciando la questione dei fini ai loro "clienti".

    Ciò si riflette inevitabilmente sulla dimensione comunitaria. I clienti del supermarket si trovano accanto, ma non cooperano a un'impresa comune né si sentono responsabili gli uni degli altri. Venendo meno ogni riferimento a fini condivisi, si attinge al repertorio di mezzi che l'istituzione mette a disposizione, per perseguire i propri obiettivi. La tanto reclamizzata "personalizzazione" rischia allora di tradursi, di fatto, in un individualismo del tutto in linea con la cultura dominante nella nostra società.

    In questo modo, però, è il senso dell'autonomia ad essere tradito. Essa avrebbe dovuto implicare una comunità scolastica capace di mettere a fuoco, nel dialogo con il proprio bacino di utenza, un orizzonte valoriale appropriato, traducendo i princìpi di fondo nel linguaggio di un ambiente concreto. È accaduto, invece, che gli aspetti meramente mercantili del nuovo regime hanno soffocato tutti gli altri, facendo concentrare l'attenzione sul problema dei finanziamenti e del loro utilizzo. Porta chiaramente in questa direzione, del resto, la scelta di trasformare il vecchio preside, tradizionalmente attento ai problemi didattico-educativi, in un dirigente-manager assorbito da questioni amministrative.

    È chiaro, alla luce di quanto detto, che un ritorno alla prima forma di scuola non solo non è possibile, ma neppure auspicabile, e che tuttavia quella attuale è esposta a tutte le disfunzioni educative che stanno sotto i nostri occhi. La sola via praticabile, per uscire da questa impasse, potrebbe forse essere la creazione di un clima culturale che stimoli docenti e alunni alla ricerca comune. Ciò comporta il recupero, da parte della scuola, almeno dei valori connessi a questa ricerca, primo fra tutti quello del confronto con la realtà, per smascherare i miti, i luoghi comuni, gli slogan imposti spesso dalla cultura dominante sull'onda delle mode, e riscoprire nel mondo e nella vita reali i semi di verità e di senso presenti in essi.

    In quest'ottica, si potrebbe recuperare uno stile comunicativo, fondato sull'idea che esista una misura del vero e del falso, del giusto e dell'ingiusto, a cui rapportarsi nel confronto tra le diverse prospettive. Ciò comporterebbe una formazione intellettuale ed emotiva non puramente autoreferenziale, ma volta a quel continuo "esodo" verso ciò che sta oltre il soggetto e su cui ci si può incontrare senza annullare le differenze. Comporterebbe, altresì, un'educazione all'analisi critica delle proprie certezze, per poterne rendere ragione agli altri e, innanzi tutto, a se stessi.

    Può essere illuminante a questo proposito il significato del termine greco lógos, che oggi traduciamo "ragione". Il verbo léghein, da cui questo sostantivo deriva, significa "pensare", "ragionare", ma anche "parlare" (da dove "dia-logo"). La comunicazione è costitutiva di questo concetto di razionalità, al di là di ogni soggettivismo unilaterale. Può forse esserne una conferma il fatto che un altro significato di léghein è quello di "unire", "collegare" i diversi senza annullarne la diversità e permettendo così di coglierne il significato globale. Le discipline insegnate a scuola contengono una immensa ricchezza di spunti per questo approccio multiforme e dialogico, che dalle differenti prospettive dovrebbe far emergere un quadro infinitamente complesso, ma non risolubile in una pura somma di opinioni disarticolate e incomunicabili.

    In questa logica "esodale" può rientrare anche una educazione alla cura di Dio, che deve intendersi non tanto come un indottrinamento confessionale (cristiano o islamico o di qualunque altra religione), quanto piuttosto come apertura di orizzonti irriducibili alla pura e semplice soddisfazione dei bisogni o all'efficienza tecnica, come sensibilizzazione alla dimensione del Mistero nascosto non fuori, ma nel cuore della stessa esistenza umana, e che la pura indagine razionale non può mai finire di esaurire.

     

    Educare alla cura del senso e di Dio nella comunità cristiana: la profezia del Regno

    È un fatto che, delle tre virtù teologali inscritte nella tradizione della Chiesa, la meno valorizzata è la speranza. La fede è spesso identificata con il cuore del cristianesimo; la carità ne è per ammissione universale la regola; della speranza, invece, molti sembrano non saper bene che ruolo possa avere. Ciò forse si collega a una strana trasformazione che ha fatto scambiare la Chiesa stessa con il compimento sulla terra del Regno di Dio. Da qui una ricorrente insistenza sul presente, quasi che il cristianesimo si riducesse a ciò che già si è realizzato e in base a questo si dovesse giudicare il senso della storia della salvezza.

    Troppe volte si dimentica che l'annunzio di Cristo riguarda un divenire di cui non si conosce in anticipo il compimento e che lo stesso Regno viene presentato nei vangeli in forme dinamiche, che privilegiano il futuro. È il seme sparso a piene mani, ma di cui solo in seguito si saprà se è caduto sulla strada, sul terreno sassoso, tra le spine, oppure sulla buona terra; è la rete piena di pesci sia buoni che cattivi; è il campo dove crescono insieme il grano e la zizzania, e che sarebbe follia voler ripulire prima del tempo dalle erbacce; è, ancora, il seme che, per quanto minuscolo, cresce silenziosamente, anche mentre il seminatore dorme, e diventa un grande albero su cui riposano gli uccelli del cielo. Il Regno è lo sposo che tarda a venire ed è atteso lungamente dalle vergini, alcune sagge altre imprudenti; è il signore che ha affidato ai suoi servi la gestione dei talenti e che al suo ritorno ne chiederà conto; è il padrone che arriva di sorpresa quando nessuno se lo aspetta e che punirà il servo infedele; è il ladro che giungerà nella notte, senza preavviso.

    Queste immagini parlano di un Regno irriducibile a quell'assetto socio-politico-religioso che a lungo è stato chiamato "cristianità" ed è stato confuso con esso. Irriducibile anche alla Chiesa, intesa come istituzione particolare inserita nella storia, con il suo "dentro" e il suo "fuori", con le sue provvisorie vedute, inevitabilmente esposte ad essere rivedute e in parte modificate. Il Regno abbraccerà tutto l'universo e la sua preparazione passa attraverso tutti gli eventi della storia, anche se la Chiesa e la sua vicenda nel tempo ne rappresentano una singolare primizia, in cui oscuramente risplende, come in un sacramento, il mistero del compimento.

    Ciò significa che la vera identità del Regno non è né nel passato né nel presente, ma nel futuro. C'è della verità nella convinzione degli Ebrei che il Messia deve ancora venire. Troppo spesso i cristiani lasciano in ombra l'affermazione di Gesù secondo cui il Figlio dell'uomo ritornerà. Solo allora la verità risplenderà in tutta la sua plenitudine, di cui, finché siamo nel tempo, intravediamo solo dei riflessi «come in uno specchio»; solo allora saranno rivelati i segreti dei cuori e sarà manifestato il senso delle vicende storiche; solo allora saranno asciugate le nostre lacrime.

    Educare alla cura del senso, nella Chiesa, significa credere -come dice Paolo di Abramo - nel Dio «che dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4,17). Nel Dio, cioè, che risana le ferite della storia e ne riscatta i vinti e i calpestati, e che fa nuove tutte le cose. Nel Dio del futuro.

    Prendere sul serio questa prospettiva porterebbe, in realtà, a rivoluzionare una pastorale, come quella oggi dominante, incentrata sul mantenimento dell'esistente e ben poco proiettata verso «le cose che ancora non esistono». Porterebbe a costruire comunità profetiche, inserite nella realtà sociale entro cui vivono, per operare rispetto ad esse come il lievito e il sale, invece che per restare ghetti chiusi in se stessi. Porterebbe ad anticipare ciò che ancora deve accadere, cogliendone i segni con vigilante sagacia, per additare a tutti gli uomini e le donne vie nuove su cui procedere, invece di lasciarsi rimorchiare da loro, a fatica e con diffidenza, su piste già scoperte e ampiamente battute da altri.

    Non basta una buona organizzazione, non basta il moltiplicarsi delle iniziative a un ritmo talvolta frenetico, per alimentare la speranza. Queste cose anzi rischiano spesso di mascherarne l'assenza. Oggi in molte comunità parrocchiali mancano una direzione, dei fini. In realtà, il rapporto di molti fedeli con la Chiesa è di stampo consumistico. La parrocchia è per tanti cristiani una stazione di servizio in cui ci si reca per attingere sacramenti, soprattutto quelli che hanno assunto nella nostra società il valore di veri e propri "riti di passaggio": il battesimo, la prima comunione, il matrimonio. Chi ne fruisce, non si pone, a volte, il problema di una condivisione più profonda, fondata su idee, valori, prospettive effettivamente comuni. Non si sente neppure il bisogno di confrontarsi, tanto meno quello di camminare insieme nella stessa direzione.

    È necessario, ancora una volta, quel discernimento comunitario che, mentre unisce i fedeli e li aiuta a conoscersi e a diventare una comunità, fa emergere dalla loro conversazione degli orizzonti condivisi e degli obiettivi concreti da perseguire insieme. Ciò comporta un'educazione non solo al dialogo, ma, più a monte, alla riflessione, alla consapevolezza, alla valutazione critica dei fatti. Più profondamente, alla vita interiore.

    È urgente un'educazione non solo a pensare, ma a vivere in modo serio e profondo il rapporto con Dio. Bisogna che la comunità cristiana - si tratti della diocesi, della parrocchia o dei movimenti - sia una scuola di autentica preghiera, in particolare di quella contemplativa. La speranza è il fiore dell'intimità con Dio e dell'abbandono fiducioso nelle sue mani. Il che non implica in alcun modo rinunzia all'impegno, ma libera quest'ultimo dall'attivismo e dall'efficientismo, che sono le caricature del vero spirito missionario, conferendo alla pastorale il suo segreto entusiasmo nonché il suo stile sobrio e intelligente.

    Contro l'autoreferenzialità di un certo genere di apostolato vale più di ogni altra cosa la capacità di aprire gli occhi con lo stupore dei bambini sulla grandezza, la bellezza e la novità che risplendono nel vangelo e che trapelano dall'esperienza della natura e da quella degli esseri umani.

    È questa la via per l'esodo cristiano, vale a dire per quel dimenticarsi di sé che è il modo più breve per salvare la propria vita. Se non brilla la stella della meraviglia e della promessa, non ci possono essere la forza e la gioia di uscire dai propri schemi e di avventurarsi, sulla parola di Dio, senza sapere dove si va. Imparare a percepire questa stella anche nel più buio cielo notturno è, per certi versi, un dono, ma, al tempo stesso, il frutto di un'educazione. Da questa collaborazione tra l'uomo e Dio nasce la speranza.


    T e r z a
    p a g i n A


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