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    Educazione

    ai valori

    Giannino Piana

    Oggi vorrei riflettere con voi sulla educazione morale intesa soprattutto come educazione ai valori, con riferimento alla famiglia, ma anche agli altri ambiti educativi. Dapprima farò qualche precisazione su ciò che si intende per educazione ai valori umani, per poi individuare la prospettiva in cui essi vengono riletti nella dimensione di fede ed evangelica. Infine cercherò di mettere a fuoco alcuni cammini relativi ai valori che ci aiutano a cogliere le istanze fondamentali della esperienza umana che reclamano attenzione ai valori. Penso all’identità personale, allo sviluppo delle relazioni interpersonali e in senso più allargato alle diverse forme di impegno sociale, che vanno costruite sulla base di alcuni valori.

    Educare n.on è solo insegnare

    Il processo educativo non è un processo di inglobamento della persona all’interno di un progetto che le è esterno, ma è un processo di aiuto alla persona a compiere un cammino a partire da se stessa: educare, come dice l’etimologia stessa della parola, cioè la sua origine, non vuol dire mettere dentro, ma tirare fuori, quindi aiutare ciascuno a diventare se stesso, a recuperare in senso profondo la propria identità; e dunque anche quei valori che sono connessi con l’insieme dei doni e dei carismi che ciascuno ha.

    Questo non significa che in questo processo non si debba anche fare riferimento ad un progetto, ma che il progetto va commisurato alle esigenze del soggetto cui si riferisce; quindi diventa importante l’attenzione alla persona nella sua unicità, nella sua irripetibilità, potremmo dire anche nella sua vocazionalità. Anche se la funzione educativa è specifica soprattutto dell’adulto, che ha il compito di aiutare chi cresce a diventare se stesso, non bisogna però dimenticare che il rapporto educativo è sempre un rapporto bilaterale: si educa solo autoeducandosi, cioè, senza venire meno alla propria funzione, non dimenticando che l’altro non è un soggetto passivo, una specie di recipiente da riempire, ma un soggetto attivo che interagisce con noi aiutandoci a crescere nella assimilazione di quei valori che cerchiamo di comunicare.
    Questa bilateralità presuppone ovviamente un rapporto di fiducia: l’educazione non può che avvenire in un contesto di relazione fiduciale, per cui reciprocamente ci si riconosce nella diversità dei compiti e delle funzioni, e si tende a dare e a ricevere nello stesso tempo. Soprattutto per quanto riguarda l’educazione ai valori, ciò che si trasmette non è tanto quello che si comunica attraverso le parole, ma attraverso la vita, la gestualità, soprattutto la capacità che si ha di aderire nella vita quotidiana a quei valori che si annunciano con le parole: si educa ai valori nella misura in cui si dà testimonianza che quei valori sono stati così profondamente assimilati da diventare punti di riferimento per le proprie scelte, le più impegnative, quelle che costano di più.
    Detto in altri termini, si educa non per quello che si dice ma per quello che si è, cioè per la capacità di rendere trasparente il proprio vissuto, se è un vissuto che si conforma a valori che in certi momenti possono essere difficili da mettere in atto, proprio perché aderire ad essi significa fare delle scelte impegnative, che comportano ad esempio la capacità di limitare i bisogni.
    L’educazione è diversa dall’informazione morale: quest’ultima è semplicemente il trasmettere delle conoscenze, sul bene e sul male, su ciò che è valore e ciò che è disvalore; l’educazione è un processo molto più lento e più complesso, che avviene in un contesto relazionale, con l’attenzione ad evidenziare i valori attraverso la testimonianza della vita: è qui che avviene l’assimilazione, che davvero si trasmette a qualcosa, non tanto attraverso i messaggi delle parole quanto con la testimonianza esistenziale resa 1dalla propria vita stessa.

    Etica umana ed etica religiosa

    Sul problema di quali valori trasmettere, va subito detto che l’educazione etica parte innanzitutto da un quadro di valori umani: l’etica non è un discorso che fa riferimento in maniera diretta ad una visione religiosa della vita, piuttosto quest’ultima ci aiuta a rileggere certi valori in una prospettiva nuova. Mentre in passato, in una società dominata dalla sacralità religiosa che permeava di sé tutti gli aspetti dell’esistenza, si riteneva che l’etica fosse una sorta di conseguenza dell’accettazione del discorso religioso, oggi siamo più convinti, anche per gli effetti positivi del processo di secolarizzazione, che non è necessario essere credenti per aderire a certi valori, che restano fondamentalmente umani.
    C’è una grande tradizione filosofica dell’etica laica, nata anche prima e al di fuori del cristianesimo, che ci insegna che l’etica è un fatto umano costruito sulla base di un insieme di valori che la ragione umana è in grado di afferrare, a prescindere dalla differenze ideologiche e confessionali. Oggi però è sempre più difficile rintracciare un’unica etica laica fondata sulla ragione, perché viviamo all’interno di una situazione di complessità in cui esistono molti modi di pensare ed è sempre meno facile identificare una ragione comune; certamente bisogna fare ancora molti sforzi in questa direzione per costruire una convivenza sociale e politica che si basi su scelte non esclusivamente efficientistiche ma ispirate anche a dei valori.
    Rimane il fatto che l’etica è innanzitutto una realtà umana e vivere secondo giustizia e verità è possibile anche al di fuori di un discorso religioso. A conferma di questo vorrei sottolineare come la stessa etica che si sviluppa all’interno del pensiero ebraico-cristiano è un’etica fondamentalmente umana, cioè un’etica che parte anzitutto dall’affermazione di alcuni valori che sono condivisi anche al di fuori dell’ebraismo.

    L’etica nella Bibbia

    Poniamo ad esempio il decalogo, che è per così dire la carta etica fondamentale cui si ispira la tradizione ebraica; esso, almeno nella seconda tavola, quella relativa ai doveri dell’uomo verso gli altri uomini (non ammazzare, non rubare,...) è costituito da un insieme di valori che sono fondamentalmente umani. Gli stessi valori li rintracciamo anche al di fuori di Israele nello stesso periodo storico, o anche in periodi storici precedenti, come p.es. nel codice di Hammurabi, che è stato scritto prima e piuttosto lontano dal contesto dove è nato l’Esodo. Piuttosto la vera novità del decalogo per Israele è soprattutto la prima tavola, che sancisce il legame tra l’impegno morale di Israele e l’esperienza di alleanza che stava facendo.
    Cioè il fatto di essere fedeli al decalogo e osservare la legge morale, significava in fondo per Israele crescere nella comunione di amore col Signore, conservare l’alleanza e farla maturare; tant’è vero che il decalogo rappresenta nel contesto dell’alleanza l’insieme delle clausole che il Signore dà al popolo perché egli si conservi fedele a questa comunione di amore, a questo patto che Egli ha realizzato con Israele.
    Nel Nuovo Testamento continua questa prospettiva, ma con una forte evidenziazione della novità del messaggio morale cristiano, che affonda le sue radici anzitutto in una realtà umana, ma allo stesso tempo si proietta molto oltre questa realtà: il messaggio evangelico, che non è innanzitutto un’etica
    ma una fede, cioè un annuncio di salvezza concretizzato nella persona di Gesù, dal punto di vista etico è l’assunzione di valori umani in una prospettiva nuova, più radicale.
    Pensate all’incontro del giovane ricco con Gesù, quando gli chiede: "Maestro, cosa devo fare per avere la vita eterna?" La domanda è essenzialmente morale e sintetizza le preoccupazioni dei credenti in quella fase della storia di Israele, che riguardano la salvezza, ed è una domanda che riguarda soprattutto il fare e non tanto la conoscenza. Gesù risponde immediatamente al giovane di osservare i comandamenti, cioè lo rinvia alla legge naturale, a quei valori che hanno costituito punto di riferimento per la vita e per l’agire di Israele e che conservano ancora intatta la loro validità. Quando il giovane ricco risponde a Gesù di averlo già fatto, dice il vangelo che egli lo guarda con simpatia ma aggiunge: "Se vuoi essere perfetto va’, vendi tutto e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi"
    Ecco, l’osservanza della cosiddetta legge naturale ("cosiddetta" perché sappiamo com’è complessa l’interpretazione di questa categoria di legge naturale) costituisce la base anche della morale dell’uomo nuovo, l’uomo del nuovo testamento, che così si trova in continuità con il passato. Gesù sembra però suggerire qualcosa d’altro: va’, vendi tutto poi vieni e seguimi. E’ la proposta della radicalità evangelica che va oltre l’osservanza della legge; tutto quello che hai fatto è buono, ma c’è qualcosa di più, che è costituito dalla sequela di Gesù, il "vieni e seguimi", la rinuncia a tutto per andare dietro a Gesù.

    La novità di Gesù

    La sequela implica l’abbandono di tante cose per mettere al centro la ricerca del regno di Dio e la sua giustizia, andando dietro a Gesù non soltanto nel senso di imitarlo come punto di riferimento, ma condividendone la vita e l’esperienza: "gli uccelli del cielo hanno un nido, il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo"; sequela che infine significa far propria la vita di spoliazione e di povertà che troverà poi il suo momento culminante nell’accettazione della croce: "chi vuol essere mio discepolo prenda la sua croce e mi segua, perché chi perde la propria vita la troverà e chi cerca la propria vita la
    perderà ".
    Questa radicalità la troviamo poi più esplicitamente espressa nel "discorso della montagna" (cap dal 5 al 7 di Matteo); la montagna per l’evangelista ha un valore simbolico in quanto Matteo, rivolgendosi particolarmente al mondo dei convertiti dal giudaismo al cristianesimo, vuole presentare il vangelo e soprattutto questa parte come una nuova legge, annunciata da Gesù che viene in qualche modo contrapposto a colui che era stato l’autore della legge antica, Mosè: come Mosè ha parlato dalla montagna, così Gesù va collocato, in quanto autore di una nuova legge, su un’altra montagna: il Sinai viene in qualche modo contrapposto al monte delle beatitudini.
    Il discorso della montagna è proprio il luogo in cui avviene questa trasformazione dalla legge antica alla nuova, con l’assunzione da parte di Gesù della legge antica, ma con l’attenzione ad evidenziarne le novità. I due criteri in base ai quali avviene questo cambiamento dalla legge antica alla nuova vengono enunciati verso la metà, nei versetti dal 17 al 21 del cap. 5 di Matteo, e sono riassumibili così: non sono venuto ad abolire la legge, ma a portarla a compimento, alla sua pienezza, e neppure uno iota della legge antica cadrà finché io rimarrò: Quindi Gesù si pone in continuazione con la legge ebraica, le legge nuova è assunzione di quella antica e l’opera di Gesù non è di demolizione ma di compimento.
    L’altra chiave interpretativa del discorso della montagna è l’espressione che troviamo subito dopo, sempre al centro del cap. 5: se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Si tratta di recuperare la legge antica portandola a compimento attraverso un cambiamento interiore, un nuovo atteggiamento caratterizzato da una nuova giustizia, che supera quella della applicazione alla lettera della legge, che era la giustizia farisaica. Non più una giustizia del diritto che porti all’osservanza materiale della legge, ma la giustizia dell’amore e dell’interiorità, l’adesione con il cuore allo spirito profondo della legge.
    Le due linee di Gesù allora sono queste: portare a compimento e aderirvi nell’ottica di una giustizia interiore; non semplicemente nella prospettiva di adempimento di ciò che la legge dice nel suo contenuto materiale, ma nell’ottica di ciò che vuol significare in profondità dando ad essa un’adesione che parte dal profondo dell’uomo.
    Gesù sembra dire: non basta l’annuncio che nell’A.T. si faceva dei valori morali che costituiscono la base dell’etica, ma è necessario andare oltre. Ciò è indicato attraverso delle esemplificazioni, che vanno nella direzione del vivere la povertà, la mitezza, la giustizia (beati i poveri, beati i miti,...) cioè nella direzione di una radicalità, e che diventano per il credente il punto di riferimento per l’interpretazione della vita morale.
    Questa interpretazione della legge antica e dei valori umani in una prospettiva nuova ci viene soprattutto dall’ultima parte del discorso della montagna, nelle cosiddette antitesi, (fu detto agli antichi, ma io vi dico), dove Gesù mette in atto un processo rigoroso di radicalizzazione e di interiorizzazione delle istanze della legge nell’ottica della nuova giustizia. "Fu detto agli antichi non uccidere, ma io vi dico che chiunque dice raca (stupido) al proprio fratello è degno di giudizio".
    Sembrerebbe non esserci un rapporto fra il valore affermato dalla legge antica e il valore che viene proposto da Gesù; in realtà c’è una perfetta continuità, il valore in gioco è sempre quello della vita, se non che nella legge ebraica ciò che contava era tutelare la vita, difenderla attraverso la proibizione di uccidere, mentre ciò che ci dice Gesù, a proposito dello stesso valore, è di andare ben oltre, è la promozione di una vita autenticamente umana.
    Infatti chi dice raca al proprio fratello è degno di giudizio perché attenta alla vita del fratello, anche se non dal punto di vista fisico: ma se la vita dell’uomo non è pura vita fisica, ma è vita personale, che si alimenta in un rapporto costruttivo tra le persone, cioè nella costruzione delle relazioni umane autentiche, allora si capisce bene perché dire raca al fratello è attentare alla vita.
    Gesù sembra dire che al discepolo non basta non uccidere, se non vuole attentare alla vita, ma deve andare nella direzione di una vita qualitativamente umana, creando le condizioni perché la vita umana personale si sviluppi a tutti i livelli, vale a dire la creazione di contesti sociali nei quali si vivano autenticamente le relazioni. Laddove la vita umana perde di senso come vita personale, inevitabilmente anche la vita fisica viene ad essere svalutata, quindi la migliore difesa della vita è la promozione di una vita qualitativamente umana.
    Questo per esemplificare come in valore umano viene assunto ed interpretato in una prospettiva molto più radicale.

    Gesù assume i valori in modo totale

    Questo procedimento di Gesù lo troviamo anche in altri momenti del discorso della montagna, ad esempio dove dice: "Vi fu detto non commette adulterio, ma io vi dico che chiunque guarda la donna di un altro con cuore desideroso commette adulterio". Anche qui non conta più soltanto l’azione negativa dell’adulterio, ma conta l’interiorizzazione, l’eliminazione da sé del cuore adultero.
    La lettura in passato veniva fatta solo in direzione antifemminista, per la cultura maschilista che caratterizzava i valori solo nella direzione della tutela dell’uomo e dei suoi diritti; il significato invece per Gesù andava nei due sensi, ma soprattutto egli vuole andare oltre l’azione in sé negativa, perché ciò che conta è modificare il proprio mondo interiore, gli atteggiamenti più profondi.
    Realizzare i valori umani in questa ottica del "portare a compimento la legge" vuol dire radicalizzare le istanze; e secondo questa ottica dell’interiorizzazione in cui si realizza il passaggio dalla vecchia alla nuova giustizia, questa è la base su cui si costruisce l’etica nella prospettiva più propriamente educativa, che è quella che stiamo considerando.
    Se si vuole educare ad una comprensione evangelica dei valori umani, occorre andare nella direzione della loro radicalizzazione, poiché la sintesi del discorso della montagna è: "Siate perfetti come perfetto è il Padre mio", ma anche: "Siate misericordiosi come lo è il Padre". Quindi si tratta di avere come punto di riferimento un paradigma che ci sta sempre davanti ed oltre, che ci invita ad un cammino di costante conversione.
    Interiorizzare i valori significa coglierne lo spirito, viverli nell’ottica di una donazione di sé che va oltre l’osservanza materiale della legge, che implica la capacità di perdere se stessi, donando se stessi a Dio e ai fratelli, in una ricerca sconfinata.

    Etica ed identità personale

    Oggi possiamo individuare tre grandi aree nelle quali concretizzare questo discorso, aree legate ai valori umani che, in questa prospettiva, ricomprendono i valori riletti in una prospettiva evangelica; penso all’area dell’identità personale,, quella delle relazioni interpersonali ed infine quella dell’impegno sociale.
    La prima area ha acquisito molta importanza soprattutto in questi ultimi anni, grazie all’emergere insistito di una cultura della soggettività, come forma di reazione verso una negazione della persona frutto dei processi di massificazione sociale e di omologazione; la cultura di oggi è sempre più centrata su un bisogno di identità, di autorealizzazione, ricerca di felicità e piena espressione di sé.
    Pensiamo a come sono diventate importanti in questi anni, soprattutto per l’effetto scatenante del movimento femminista, parole d’ordine come sessualità, eros, corpo, desiderio, piacere, bisogno, identità e così via, cioè tutte le parole che hanno a che fare con la sfera dell’identità soggettiva. Identità che invece era stata mortificata dall’omologazione sociale e culturale.
    Quest’area è diventata molto attuale ed al centro di molte riflessioni in questi ultimi venti anni, con i rischi però di cadute verso la privatizzazione e l’individualismo, rischi non astratti ma dalle conseguenze molto reali. Però questa domanda di identità va presa molto sul serio, anche nella direzione di un cammino verso l’identità che è anche un cammino di attenzione ai valori.
    Pensiamo p.es. al rischio che il cammino verso l’identità porti a centrare la propria vita su processi di interiorizzazione, nell’ambito di una società consumistica; ne deriva una moltiplicazione dei bisogni, spesso indotti, e non un aiuto a distinguere fra il livello dei bisogni autentici e liberanti e quelli alienanti.
    Bisogna stare molto attenti a non confondere i bisogni con i valori: certamente in ogni valore c’è il riferimento ad un bisogno, ma non necessariamente ogni bisogno è valore, perché molti bisogni sono indotti dall’esterno, dalla società che per alimentare se stessa ha bisogno di creare nuovi bisogni cioè nuovi consumi.
    Invece il processo di recupero dell’identità esige una forte interiorizzazione, una forte educazione al senso critico, alla creatività, al fine di far diventare ciascuno capace di essere artista di se stesso e delle proprie scelte; capace di non lasciarsi catturare dalla suggestione di bisogni che soltanto apparentemente gli sono propri ma in realtà indotti dall’esterno e spesso alienanti.
    Bisogna anche uscire dalla mitizzazione dell’onnipotenza che ormai sembra prevedere sempre più la nostra società, prendendo coscienza della limitatezza della realtà umana; più radicalmente vuol dire accettare il limite che la morte mette alla vita, e fare esperienza della morte come di un processo che accompagna tutta la vita, come ci insegna la biologia.
    Il corpo allora, così come p.es. la sessualità, sono una possibilità ma anche un limite: l’esaltazione, la mitizzazione del corpo che si è fatta nella nostra società è spesso legata al corpo bello, sano, atletico, mai al corpo visto anche nei suoi aspetti limitati, il corpo che invecchia o il corpo anche deforme.
    Accettare il limite è poi la condizione per scoprire le possibilità, che sono tanto più viste quanto più è introiettato il proprio limite, poiché solo allora si sanno utilizzare tutte le risorse possibili che si hanno dentro di sé; il cammino verso un’identità vera è quindi dall’esterno all’interno, ma anche dall’onnipotenza all’accettazione del limite.
    Qui emerge il valore dell’ascolto: ascolto di sé, che non è ripiegamento su se stessi ma ascolto delle profondità ultime, di quelle risorse che poi ci aiutano a cogliere le risorse dell’altro cioè ad ascoltare l’altro. Oggi sentiamo moltissimi messaggi ma ascoltiamo poco, ci passano sopra le nostre teste ma non riusciamo a farli sedimentare dentro di noi.
    L’incapacità di ascoltare noi stessi e incapacità di ascoltare l’altro, e poi anche l’Altro con la "A" maiuscola: in fondo tutta la religione ebraico-cristiana è una religione dell’ascolto ("Ascolta Israele").
    Poi c’è il valore della recettività, come capacità di fare il vuoto di noi stessi per riuscire a lasciarci fare, a lasciarci amare; non è affatto passività ma il massimo dell’attività, perché per essere recettivi bisogna fare uno svuotamento di sé, accogliendo il proprio limite, la propria povertà.
    Si potrebbe continuare col valore della solitudine: in una società di isolati non riusciamo più ad essere soli, l’isolamento ci porta fuori da noi stessi; in una società urbana si è isolati anche stando in molti insieme, ma quanto più si moltiplicano le possibilità di relazione, tanto più si dequalificano le relazioni in profondità: possiamo comunicare con tutti, ma appunto per questo non riusciamo a comunicare con nessuno.
    Tutto questo discorso dell’identità soggettiva si può condensare allora attorno al grande tema della vocazionalità: in una prospettiva più specificamente cristiana prendere coscienza della propria identità significa ripensare alla propria vocazione, nel senso etimologico dell’essere chiamati da Dio. E’ una chiamata che Dio rivolge a ciascuno per nome, dove l’unicità e l’irripetibilità di ciascuno è costituita dall’insieme dei doni, dei valori e dei talenti che ogni persona ha ricevuto.

    L’etica nelle relazioni interpersonali

    Vorrei ora illustrare alcuni valori che mi sembrano essere alla base di un’educazione che aiuti le persone a crescere in relazioni vere. La situazione attuale sul piano dei rapporti intersoggettivi mi pare preoccupante, la conflittualità che ancora negli anni ’70 era più diretta verso l’esterno, verso le strutture sociali, ora non lo è più, e ricade all’interno dei rapporti fra le persone; mai come oggi i rapporti sono stati conflittuali, penso p.es. ai rapporti di coppia, sempre più carichi di aspettative, ma molto spesso lacerati da difficoltà che nascono proprio da quella mitizzazione dell’onnipotenza soggettiva che poi si riflette nel rapporto fra le persone.
    La conflittualità riversata all’esterno, sulle strutture, costituiva una valvola di sicurezza anche per dare il giusto significato ai rapporti intersoggettivi, senza viverli in termini così radicalmente conflittuali proprio perché appunto maggiorati di significato. Quello che constatiamo è l’esistenza di una conflittualità esasperata, con una rimessa in discussione ma anche con il venire meno di rapporti profondi. Allora bisogna che ci interroghiamo sul perché di questi fallimenti, che avvengono magari anche a pochissima distanza dal matrimonio, non per fare del moralismo, ma per capire che cosa non funziona.
    Una delle ragioni forse sta anche nell’incapacità di elaborare i conflitti: ci diciamo tutti, oggi più di ieri, che la diversità è una ricchezza, una risorsa, ma in realtà sappiamo ancora ben poco fare i conti con la diversità. Probabilmente le identità soggettive sono molto fragili, la diversità viene sentita come un attacco all’identità, o al contrario accade che un’identità troppo forte diventi chiusa, integralista e autosufficiente.
    Il problema è quella di costruire delle identità abbastanza forti da poter stare in piedi anche senza bisogno dell’altro, e capaci di vedere la ricchezza di cui l’altro è portatore. Solo quando si è persone mature si sente tutta la bellezza di vivere la relazione con l’altro, non in termini di appoggio reciproco ma come relazione fra due persone che hanno ciascuno una identità precisa, forte ma nello stesso tempo in dialogo.
    Il problema è quello di come riuscire a caricare di significato positivo la diversità e nello stesso tempo sviluppare dei processi di elaborazione delle conflittualità.
    Intanto non bisogna mai considerare il conflitto come negativo: di per sé il conflitto fa parte della vita, è elemento di arricchimento, se si è abbastanza maturi da saperci stare dentro ed elaborarlo positivamente.
    Il valore della riconciliazione è questo: l’elaborazione della conflittualità. Non il facile "vogliamoci bene", ma la capacità di elaborare positivamente i conflitti che possono derivare dalle diversità.
    Un altro valore è allora l’accettazione di sé nella differenza, a cominciare dalla differenza fondamentale che è quella sessuale, l’essere uomo e l’essere donna che, se lo si vive con reciprocità, costituisce il luogo fondamentale dove elaborare positivamente la conflittualità e vivere l’esperienza che ogni diversità è fonte di arricchimento.
    Ci sono però situazioni dove questa elaborazione positiva non è possibile, e qui pensiamo al valore del perdono, che implica la cancellazione della colpa, non perché la colpa non viene riconosciuta, ma perché devo trasmettere all’altro di poter passar sopra alla colpa in quanto resisto alla tentazione che ho di fronte che è quella di vendicarmi.
    Questo atto di gratuità, la rinuncia alla vendetta, mette l’altro di fronte alle sue responsabilità, e nello stesso tempo, rinunciando a fargliele pagare lo immetto in un cammino di conversione, di cambiamento radicale.
    Altro valore che richiamo è quello della povertà come fuoriuscita dalla logica del possesso: in fondo la tentazione più grossa nelle relazioni, soprattutto dove ci sono squilibri nei rapporti, è quella del possesso o del lasciarsi possedere. La vera povertà è il superamento del possesso per andare nella dimensione della comunione, che poi non è soltanto quella fra le persone superando la logica del possesso, ma anche condivisione delle cose, capacità di compartecipare ciò che si ha.
    La povertà è convivialità, nel senso proprio eucaristico del termine; pensiamo alla descrizione della chiesa che ci fa il libro degli atti nei capp. 2 e 4: "vivevano insieme la comunione fraterna, mettevano insieme i loro beni, spezzavano insieme il pane". La convivialità eucaristica era espressione di una convivialità vissuta insieme attraverso la comunione fraterna e la condivisione delle cose.

    L’etica nei rapporti sociali

    Quest’area oggi è un po’ in disuso, proprio per la spinta verso la soggettività che abbiamo visto prima e che ha portato al cosiddetto riflusso, con il rischi che tutti i valori rivolti al sociale siano sempre meno considerati come attuali. Si tratta di recuperare la spinta verso l’apertura sociale e l’impegno politico, con un’attenzione a comprendere ciò che è avvenuto.
    I valori da recuperare mi sembrano quelli di sempre: la solidarietà, la militanza, la partecipazione; ma vanno recuperati in una prospettiva post-ideologica, perché probabilmente è stata l’eccessiva ideologizzazione di questi valori che ha messo in mostra la difficoltà di attuazione e ha portato a quello stato di frustrazione per il quale poi sono stati abbandonati.
    Anche qui si tratta di trovare dei percorsi che siano più in grado di far vedere le possibilità di incarnazione di questi valori, meno totalizzanti forse, meno ideologici, ma più capaci di mettere in atto forme di impegno concretamente realizzabili.
    Per esempio il valore della solidarietà, che è passato dal soffrire un atteggiamento di sospetto, ad un periodo in cui tutti si riempiono la bocca di solidarietà, anche se poi a questo corrisponde invece molto individualismo, corporativismo e privatizzazioni di ogni genere. Forse bisogna rileggere la solidarietà partendo dal piccolo, dalle solidarietà di vicinato e di quartiere, per creare le condizioni per ricostruire un tessuto solidale, senza dimenticare la solidarietà su grande scala, cioè il fatto che siamo sempre di più in una società interdipendente e che a livello mondiale dobbiamo muoverci nella direzione di un impegno più allargato.
    L’educazione passa attraverso le piccole solidarietà che si attivano anche in ambiti molto ristretti ma che hanno sempre una progettualità politica molto più allargata, che occorre far emergere partendo dal piccolo; il piccolo mondo in cui vivo e nel quale attivo forme di solidarietà, ha bisogno per sussistere di aperture sempre più grandi.
    Analogamente la partecipazione è stata troppo intesa in senso ampio, dimenticando le piccole realtà dove essa ha la possibilità di portare a qualche cambiamento visibile. Se invito a partecipare ma poi non do la possibilità a chi partecipa di decidere, anche se magari in termini limitati, oppure invito a partecipare su argomenti che la gente non conosce, o sui quali so che poi sono altri coloro che possono decidere, allora frustro la partecipazione.
    Bisogna ripartire da piccole realtà dove la partecipazione ha la possibilità di operare qualche cambiamento, dove c’è un decentramento dei poteri effettivo, e non soltanto consigli dati a chi decide, che continua a decidere in base ad altri criteri riducendo la partecipazione appunto ad un consiglio inutile. Anche questo valore va ripensato tenendo presenti le possibilità effettive.
    Nella prospettiva evangelica la solidarietà, la partecipazione e la militanza diventano valori in quanto li rileggiamo nell’ottica dell’ esperienza che noi facciamo di un Dio solidale, di un Dio che ci chiama ad essere solidali proprio perché a sua volta è stato solidale con noi. Il Dio che è entrato in noi, nella nostra storia, soprattutto in Gesù Cristo attraverso l’incarnazione, nella Pasqua, ha manifestato questa sua attitudine si radicale solidarietà verso l’uomo, che è dare totalmente se stesso per la vita degli uomini.

    (Relazione tenuta all’incontro con le comunità di base ad Albugnano il 26 maggio 96.  Testo tratto dalla registrazione e non rivisto dall’autore)


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