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    Educare al maschile

    e al femminile

    Maria Teresa Moscato *

    Non c’è dubbio che sia in corso, almeno nell’ultimo secolo, un percorso di ridefinizione dell’identità femminile, un percorso storico, sociale, culturale, di proporzioni tali da stravolgere una visione antropologica della differenza di genere che comunque ci accompagnava da secoli. Sono già tre o quattro le generazioni oggi adulte, di donne e di uomini, che hanno vissuto e in qualche modo superato un travaglio identitario. A ciò si aggiunge nell’ultimo decennio, un’enfasi culturale e sociale, fortemente ideologizzata, sul problema dell’orientamento sessuale e dell’omosessualità in genere. Tutti noi, in quanto donne per un verso e in quanto uomini per un altro, siamo stati e siamo personalmente coinvolti in questo processo. E non si può negare che esso ci interpelli continuamente, e che in esso si combattano dialetticamente sia pregiudizi e ideologie, sia rinnovate e profonde concezioni antropologiche, psicologiche, teologiche. Anche la nostra religiosità ne viene coinvolta, nella misura in cui si interpellano visioni e rappresentazioni, e perfino letture della Sacra Scrittura, su cui noi abbiamo fondato e rielaborato la nostra stessa personale identità. La responsabilità educativa che viviamo, infine, può acuire la percezione di questo travaglio culturale in termini dolorosi e/o stressanti. La questione è talmente ricca e complessa, e anche “profonda” in termini reali, che un ragionevole spazio di trattazione, anche solo in chiave pedagogica, starebbe in una settimana, piuttosto che in 45 minuti. Mi sono chiesta allora che cosa potesse essere prioritario, o comunque più funzionale per i nostri scopi di oggi, e ho ritenuto che l’essenziale fosse l’atteggiamento personale dell’educatore di fronte al tema.
    Un educatore deve potersi proporre con serenità, sia che espliciti posizioni, concetti, problemi, sia che si relazioni con la persona che cresce in termini impliciti (come prevalentemente accade su questi temi). E i bambini e gli adolescenti hanno bisogno di percepire la serenità dell’adulto, che sia un genitore, un insegnante, un catechista, su un tema come questo, soprattutto in quei momenti dell’età evolutiva in cui più forte, in colui che cresce, si avverte il problema della propria identità in via di definizione. In particolare nella nostra epoca lo sviluppo dell’identità personale avviene al confronto con orizzonti di senso, mediati dal sistema socio-culturale in cui viviamo, che sempre più convulsamente reclamano, in nome del progresso culturale e della liberà soggettiva, l’eliminazione di qualsiasi “punto fermo” che possa avere una funzione di orientamento (psicologico ed etico) per le condotte giovani e adulte.
    Viceversa la “serenità” di fondo esige almeno alcune chiarezze, perché l’incertezza intellettuale può determinare ansie eccessive anche negli educatori, e non solo nei ragazzi affidati alle nostre cure. Dunque, mi sono chiesta: che cosa è necessario oggi aver chiaro per chi educa, e per chi educa in una scuola cattolica, e in particolare per chi è una donna cattolica?
    Sottintendo in questo discorso una concezione dell’educazione come processo interattivo (non come discorso o come trasmissione intellettuale) in cui l’adulto è coinvolto con tutta la sua persona (con l’essere prima che con il dire o con il fare qualcosa), sebbene con una autorità sempre minore, via via che cresce l’autonomia dell’altro, e nel dinamismo di processi reciproci di identificazione fra lui e la persona che cresce. Ciò significa di fatto che l’educazione costituisce per un verso sempre un “evento”, un avvenimento dinamico mai totalmente controllabile, e per un altro verso, e in parallelo, essa è anche un progetto, una proposta, mediata da alcuni adulti significativi per l’immaturo, e che viene rivolta a lui “provocando” la sua crescente libertà, esigendo una risposta, e una progressiva condivisione personale del progetto: nessuno si educa da solo, ma nessuno può essere educato contro la propria volontà: occorre dirlo ai ragazzi, fin dalla preadolescenza. Educazione esige sempre il coraggio della proposta, ma anche il coraggio dell’adesione alla proposta, e la verifica personale di essa (la proposta deve essere “presa sul serio” perché ci sia possibilità di verifica).
    Oggi, proprio perché si afferma intorno a noi che l’interpretazione dell’identità di genere è legata alla cultura di riferimento, più che a una natura immodificabile, e si riconosce che il diventare uomo/ diventare donna, più che un destino biologico e al di là del destino biologico, è un “progetto”, proprio ammettendo questo, dobbiamo rovesciare la prospettiva nei confronti dei nostri allievi. Prima di tutto sottolineando che il “progetto” identitario, oltre ad essere personale, è dunque pedagogico-didattico, culturale, e perfino politico. E dunque soggetto ai rischi dell’ideologia (anche dell’ideologia degli altri, non solo della nostra). È vero che non c’è il modo “naturale” di essere uomini e donne: le culture reinterpretano continuamente anche il “naturale” e quindi definiscono e progettano i modi dell’essere e del farsi persona, uomo e donna. Dobbiamo spiegare ai nostri allievi che la forma della loro personale identità di genere costituisce anche un loro personale progetto, e dobbiamo assumerci la responsabilità di una proposta educativa, per la sua desiderabilità, ragionevolezza e bellezza (non perché sia un dogma e neppure perché sia l’unica possibile in assoluto).

    Una precondizione essenziale per la serenità

    Parlando in questo contesto, mi permetto un richiamo alla sostanziale religiosità della nostra esperienza comune, e mi permetto richiamarvi alla fiducia in Dio e nel suo Spirito di amore e verità, che è molto più grande delle nostre comprensioni (o credute comprensioni), che sono sempre parziali, anche in presenza della divina Rivelazione. Questa fiducia nello Spirito è il primo fondamento della nostra serenità di educatori, un atteggiamento di umiltà e di apertura al possibile che deve impedire l’irrigidimento ideologico di posizioni precostituite, mantenendo tuttavia la certezza di alcuni “punti fermi” (però è possibile che si debba sempre ricomprendere quali siano i reali “punti fermi” nella prospettiva della rivelazione cristiana).

    I punti di certezza

    Non è la religione cristiana la matrice del maschilismo (androcentrismo) tanto presente nella tradizione dell’Occidente. Il creatore li ha fatti “maschio e femmina” e a sua “immagine e somiglianza” tutti e due. Dio fa venire in esistenza con un pensiero amorevole tutte le sue creature: veste i passeri e i gigli dei campi, conta i capelli del capo degli uomini (forse), ma anche, secondo un detto ebraico, “conta le lacrime delle donne”. L’unità del genere umano è intuita con l’occhio della fede da S. Paolo (Non c’è più ne giudeo né greco, né uomo né donna…) al di là dei suoi pregiudizi storici di ebreo osservante, di uomo del suo tempo (che ad es. gli faranno dedicare spazio di regolamentazione alla trascurabile questione del velo che deve coprire i capelli delle donne in chiesa).
    Le battaglie femministe, a partire dagli anni Settanta del Novecento, mischiandosi ad una serie di elementi culturali e ideologici che qui non vale la pena richiamare, hanno aggressivamente suscitato un “senso di colpa” anche nella nostra coscienza comune. Per chi come me era già nato prima del Concilio Vaticano II, può essere stato difficile elaborare una identità femminile in positivo ancor prima che un Pontefice parlasse finalmente del “genio femminile”. Ma la consapevolezza che la tradizione cristiana si è nel passato assimilata culturalmente ad un orizzonte culturale occidentale assolutamente andro-centrico (e per conseguenza maschilista) non deve interferire con la serena chiarezza che dobbiamo possedere e comunicare su questo punto.
    Dobbiamo umilmente (e serenamente) accettare i limiti storici e umani che si rintracciano anche nella parola dei Padri e perfino in alcuni dei testi biblici canonici (spesso in termini contraddittori), e soprattutto nelle nostre modalità di lettura di questi testi, che vengono continuamente interpretati nel corso della evoluzione storica della nostra umanità. È vero che la cultura influenza le nostre letture della Bibbia e della divina rivelazione; che la cultura ci porta a leggere come “naturale” (e quindi oggettivamente non modificabile) quello che del naturale abbiamo compreso (o crediamo di aver compreso). Questo è il primo punto che si deve oggi serenamente riconoscere: pregiudizi culturali di origine antica, e largamente diffusi, hanno determinato per secoli forme di subalternità sociale della donna nella maggior parte delle società umane, e dunque anche nelle società cristiane. Occorre anche riconoscere che l’evoluzione culturale della modernità ha determinato fra i suoi risultati positivi l’emancipazione delle donne, il riconoscimento effettivo e progressivo della loro pari dignità umana. Questo è stato per secoli un traguardo difficile e faticoso da raggiungere, per il quale c’è ancora molto da fare nell’epoca presente e in tutto il mondo. E sotto questo aspetto non ci sono motivi di nostalgia per i tempi antichi, per nessuno di noi, uomo o donna che sia.
    Nello stesso tempo non si può non denunciare che sul piano culturale la battaglia per l’emancipazione femminile si è giocata nei termini di una parità interpretata come “eguaglianza” assoluta e dunque in termini di competizione fra i due sessi. L’esito paradossale è oggi quello di un cresciuto conflitto fra i due sessi, di diffusi disturbi dell’identità giovanile (sia maschile sia femminile) in cui probabilmente confluiscono o si generano anche molti disturbi dell’identità sessuale (l’omosessualità come rifiuto di confrontarsi con l’altra identità di genere) [1]. Un certo femminismo sembra infatti pretendere una vera e propria supremazia del femminile (esito paradossale ed egualmente iniquo, rispetto alla dominante prospettiva androcentrica tradizionale).
    Noi sappiamo con certezza che la giustizia dei rapporti umani non potrà mai realizzarsi fino a che permanga strutturalmente ingiusta la relazione fra l’uomo e la donna: si noti come nella narrazione mitica del peccato originale la caduta renda l’Uomo e la Donna immediatamente contrapposti l’uno all’altra (si accusano a vicenda) e il giudizio divino ne definisca l’inimicizia e il legame ambivalente. Una socialità matura, solidale, capace di cura reciproca, in questa umanità “nuova” che è sempre da educare, esige una giustizia profonda e intima in primo luogo fra i due sessi (sono i primi due reciprocamente “Altri”), prima che fra razze, etnie, religioni, ideologie e tutte le infinite serie di “differenze” umane che sperimentiamo.
    L’identità di genere ha una matrice biologica (certamente), ma non soltanto: essa ha una dimensione psicologica (non originariamente spirituale) che determina l’orientamento nei confronti della realtà, molte modalità di apprendimento e di comprensione, oltre che forme di espressione di sé. A livello psichico concreto, in ciascuno di noi, avviene un intreccio fra la biologia e la cultura, intreccio le cui forme sono di fatto orientate dall’educazione. In forza del processo educativo, l’essere personale coincide con un continuo “diventare” se stessi, nella materialità dell’esperienza esistenziale.
    L’identità è in primo luogo personale, per quanto la dimensione del genere la connoti fortemente (identità di genere è un concetto astratto, noi la incontriamo solo in persone concrete).
    L’identità personale di genere non coincide (e non è riducibile) all’orientamento sessuale di una persona. Questa identificazione è resa possibile nella nostra cultura da una sopravvalutazione della sessualità in sé (e le sopravvalutazioni in ogni campo sono sempre rischiose quanto le sottovalutazioni). Anche la biologia viene sopravvalutata in quest’ottica, e considerata la determinante unica. In realtà se non ammettiamo in partenza una correlazione (psiche biologia), che non è piena coincidenza, non riusciamo a comprendere una serie di dati di realtà che pure sono sotto i nostri occhi: non distinguiamo disturbi della sessualità specifici da disturbi dell’identità (molto più diffusi e comuni) e non riusciamo a vedere un altro elemento (che pure gli antichi hanno sempre intuito), e cioè la relativamente lunga “incertezza” che accompagna almeno un periodo dell’età evolutiva, e che si configura anche come incertezza nell’orientamento sessuale, in termini assolutamente inconsapevoli per il soggetto stesso (amicizie adolescenti che sono “innamoramenti”). Molte “incertezze” fisiologiche che si sarebbero fisiologicamente definite nella fase successiva possono essere oggi problematizzate e stabilizzate da sollecitazioni culturali, e o da esperienze sessuali precoci, sollecitate perché considerate “naturali” o addirittura “necessarie” (bambini di fatto che si sentono costretti a “comportarsi come tutti gli altri”, per rappresentarsi come “normali”).
    Una precisazione pedagogico-didattica Il tema dell’essere/diventare uomini e donne non è mai riconducibile ad un tema culturale isolato, non è oggetto di seminari di esperti: si tratta sempre di una risultato educativo complesso, di cui permane complessa anche la dimensione didattica in senso stretto. A monte, l’educarsi ad essere uomini e donne comincia precocemente nel nucleo familiare, e coinvolge tutti i rapporti significativi che i bambini instaurano, con gli adulti e con i coetanei, subendo certamente l’influenza del sistema mass-mediatico cui essi sono esposti. La scuola non potrà avere che una parte di responsabilità educativa sul processo identitario, sebbene questa parte sia importante. In campo scolastico, confluiscono sullo sviluppo dell’identità molte e diverse aree disciplinari e contenuti di riflessione che si intrecciano in maniera disorganica e spesso casuale, mentre l’esperienza personale dell’allievo li va progressivamente connettendo alle proprie supposte esperienze dirette. L’identità personale è quindi un risultato difficilmente controllabile a priori, e per conseguenza anche progettazioni didattiche mirate devono, in realtà, “partire da lontano”. Resta però la possibilità dell’educazione scolastica di guidare razionalmente le sintesi personali che gli allievi stanno sviluppando in merito alla loro identità di genere, per mezzo di proposte intellettuali organiche e mirate. E questo non è poco (è da contrastare fra noi la tendenza ad “evitare i temi scottanti”).

    “Destino” biologico e corporeità

    Ritornando comunque, almeno per un momento alla biologia, vale sempre la pena di riflettere che la nostra biologia (e la sua differenza) non determina di per sé forme di superiorità/ subalternità, ma piuttosto esige socialità solidale. Siamo animali sociali, nel senso che non potremmo neppure sopravvivere da soli: nasciamo e moriamo con modalità che esigono la cura degli altri membri del gruppo. Nella più elementare delle forme di vita associata uomini e donne non si configurano mai come masse di individui “eguali” (sono sempre reti di famiglie, reti di relazioni, posizioni funzionalmente differenziate, per genere e per età prima che per le caratteristiche individuali). Sottolineo che l’ideale dell’assoluta “eguaglianza” come valore assoluto da perseguire è un pregiudizio di remota radice illuministica, in salsa laicista, scientista, marxista, assolutamente non funzionale nei processi educativi (e meno che mai nell’educazione di genere). Anche la lettura della differenza biologica deve essere inserita e riproposta in un quadro concettuale più ampio, quando diventa tema scolastico, deve essere connotata da subito nella sua storicizzazione sociale e culturale (es. stazione eretta = neonato testa molle etc).
    Un punto su cui nella scuola si deve lavorare espressamente, e in maniera progressiva, è la riflessione sul corpo umano, inseparabile dall’esperienza corporea personale che ogni allievo sta sviluppando nel frattempo. Questa area tematica per un primo verso ha una valenza didattica fortissima, che si collega ai contenuti delle scienze biologiche e naturali, nonché all’igiene e alla educazione alla salute in senso lato, con tutta la sua importante funzione preventiva rispetto alla qualità della vita presente e futura. L’educazione fisica e il movimento vi si collegano direttamente e implicitamente, in quanto, progettando il movimento, restituiscono immediatamente al bambino un’immagine di “messa alla prova” dell’Io corporeo che può rafforzare o indebolire la fiducia di base in se stessi (sono capace di / non sono capace di). Si osservi che, pedagogicamente parlando, il controllo del movimento corporeo è controllo del Sé già nel bambino piccolissimo e quando il pensiero infantile è ancora del tutto pre-concettuale.
    Per un altro verso il tema della corporeità, nello sviluppo di consapevolezza progressiva, dall’infanzia all’adolescenza, confluisce nello sviluppo dell’identità personale (come abbiamo già detto il genere è un aspetto, sebbene essenziale, dell’identità personale, non la sua totalità). La rappresentazione e il riconoscimento del corpo e della sua intimità come “me” (io sono anche il mio corpo/ il mio corpo sono Io), sarà il fondamento di una progressiva capacità di cura equilibrata in primo luogo nei confronti di se stessi. Il corpo è l’espressione del nostro limite creaturale personale, che si oppone ai narcisismi egocentrici dell’Io infantile. L’educazione allo sviluppo di una identità personale (e dunque di genere) non può saltare la sfera complessiva e profonda della corporeità: e questo comincia nella prima infanzia, quando è troppo presto per riconoscere nel proprio corpo bambino un “tempio di Dio”, ma non è troppo presto per riconoscervi la sua impronta creatrice, il pensiero creativo amorevole che mi fa capace di camminare, correre e saltare, e anche di annusare, vedere, sentire... e gustare le cose buone che altri cucinano per me…
    Attenzione al problema del corpo ferito da un handicap. A un’educatrice che gli aveva parlato del suo compagno come un “bambino speciale”, molto caro al Signore proprio per il suo handicap, M. (quattro anni) ha chiesto, dopo attenta riflessione, “Gli vuole più bene perché gli è riuscito male?”.
    Attenzione al tema della diversità come effetto di “cattivo esito” del processo creatore, che agisce nei confronti non solo dell’handicap, ma anche delle differenze etniche (colore della pelle, forma del naso, andatura) [2]. Ricordarsi che esistono molti miti d’origine arcaici che spiegano la differenza etnica come esito di “cattiva riuscita” creatrice, e vanno così a costruire implicitamente una gerarchia fra le differenze etniche [3]. Bisogna sempre sottolineare la differenza come “dono” (il dono è il presupposto infantile della “vocazione” e del “carisma”, concetti complessi che non si completano neppure nell’adolescenza, ma l’idea del “dono” è accessibile fin dalla prima infanzie e dopo sostanzia i concetti che si svilupperanno più avanti). La categoria del “dono” può essere utilmente usata anche per introdurre la differenza di genere, ma va subito connessa all’idea dei doni personali ricevuti da ciascun bambino, anche quando essi non siano ancora visibili per ragioni di età. (Il “dono” è “dato”, ma deve sempre essere “scoperto” e “riconosciuto”, e ci sono anche “doni misteriosi” che si riveleranno nel tempo lungo della vita). Dobbiamo spingere il bambino ad una progressiva introspezione e alla scoperta della propria psiche personale, che è a sua volta fortissima componente dell’identità personale.
    Un esempio di “destino biologico” rappresentato negativamente è legato, nello sviluppo femminile, all’esistenza del ciclo mestruale. Esso si configura tuttora nelle nostre rappresentazioni in termini di negatività, o come minimo di “imbarazzo”, di “impurità” e di “condanna”. Sembra contrassegnare una “differenza” di genere “contro” il femminile, condannato alla sofferenza fisica periodica, una differenza rivelatrice della sua natura irragionevole e umorale, di una periodica diminuzione di energie, di capacità di concentrazione e di competitività sociale, che colpisce le donne tutti i mesi della loro vita. Qui mi limito a segnalare che gli atteggiamenti delle bambine sono direttamente influenzati dai vissuti delle donne della loro famiglia, in maniera prevalentemente inconscia, ma determinante. E tuttavia la razionalizzazione in ambito scolastico, oltre ad una migliore e funzionale comprensione degli aspetti biologici e sanitari del ciclo mestruale, può avere importanti effetti educativi, e cambiare la rappresentazione dell’identità di genere a partire da una rilettura del significato del ciclo (che può essere letto come un “dono” esso stesso).
    Si ricordi che nella prospettiva religiosa la corporeità (non separabile dall’intelligenza umana) è il mezzo con cui Dio chiama l’uomo a continuare la creazione del mondo affidato alle sue cure. Ricordo il simbolismo del segno della croce che esprime un’identità religiosa cristiana: per il primo aspetto io riproduco simbolicamente, ma toccando il mio corpo, la croce di Cristo, come se inscrivessi e riconoscessi la croce cristiana “dentro” il mio corpo. Ma il segno della croce è esso stesso una preghiera, non solo l’inizio della preghiera”: toccando la testa, il petto e le spalle io “consacro” (“nel nome”) a Dio Padre la mia mente, al Dio Figlio il mio cuore, e al Dio Spirito le mie braccia, cioè il mio lavoro in questo mondo. Una volta si spiegava ai bambini questa simbologia, adesso non so. Fare notare che il segno di croce ripetuto consacra anche il gioco e il riposo, consacra tutto a Dio, ma ciò avviene con la nostra decisione consapevole (“Sia che mangiate sia che beviate fate tutto a gloria di Dio”). Siamo noi che ci doniamo liberamente a Dio già nel segno della croce.
    Si permette così al bambino di consacrare continuamente a Dio l’esperienza corporea, e questo aiuta a sviluppare in lui il senso della sacralità e del valore del corpo, della sua importanza e del suo significato. Ciò determina un nucleo pre-concettuale precoce che permane, ed continua ad essere generativo anche in una successiva laicizzazione totale della persona che cresce.
    Attenzione a nuclei di rappresentazioni (impliciti ed espliciti) che “lavorano contro”, oggi, all’educazione al valore della corporeità (e per conseguenza insidiano direttamente l’affronto del problema dell’identità di genere). Superare i limiti corporei come espressione del potere dell’uomo: ciò non emerge solo dalla costruzione di splendide protesi artificiali come quelle che permettono ai paraplegici di camminare. È soprattutto l’intervento chirurgico sul corpo, prevalentemente a fini estetici, e al limite fino alla modifica dell’apparato sessuale, che permette di “cambiare sesso”, (esperienze un tempo non sperimentabili) che introduce e rafforza una rappresentazione del corpo “cosificato”, animalizzato, ingegnerizzato, che noi possiamo piegare e modellare in rapporto al nostro desiderio (o al nostro capriccio), soprattutto in base al denaro che possiamo investire per rimodellarlo.
    Oggi la diffusione delle applicazioni della chirurgia estetica e lo sviluppo miliardario di interessi da essa scaturenti, minaccia nel profondo della psiche la rappresentazione della bellezza (e della giovinezza) come “dono”. E per conseguenza anche l’immagine della “vita come dono” si incrina. Tutto si riduce al potere del denaro, che sembra garantirci la bellezza e l’eterna giovinezza. Ne deriva l’implicito che, se il denaro può tutto, i giovani devono competere principalmente per conquistarselo e per null’altro. È un presupposto che agisce anche sulla costruzione dell’identità di genere (mercificazione del corpo, modellamento del corpo, sopravvalutazione dell’apparire e svalutazione dei compiti legati all’essere, falsa rappresentazione delle età della vita e del loro valore e della loro gerarchia etc.

    Psiche e identità di genere

    Una seconda fondamentale dimensione del problema che stiamo affrontando riguarda la componente psichica della persona e il pensiero simbolico che ci caratterizza [4]. Si deve a C.G. Jung, già agli inizi del Novecento, la prima fondamentale intuizione che la psiche umana presentasse componenti maschili e femminili in tutte le persone, a prescindere dal loro sesso, e che quindi ogni identità personale risultasse intrecciata psichicamente in termini soggettivi anche molto differenziati. Già in un saggio del 1931 dedicato alle età della vita, Jung aveva osservato il trasformarsi degli uomini, invecchiando, in senso femminile, e delle donne in senso virile. Egli vide in questo un esito osservabile del processo di integrazione fra Io e Sé che egli considerava il compito dell’esistenza individuale [5]. Magari non vide totalmente gli aspetti sociali e antropologici di questa trasformazione (che è tuttora osservabile), e che dunque dipende soprattutto dalla maggiore “libertà di essere” conquistata dal tardo adulto rispetto alle pressioni sociali e ai modelli culturali con cui è stato posto a confronto.
    L’importanza della intuizione di Jung consiste nella migliore comprensione della psiche che essa consente, degli uomini e delle donne, dei loro conflitti (interni ed esterni all’Io), delle loro attrazioni e delle loro ripulse. Rispetto alle analisi di Jung, la lettura del femminile operata da Freud in termini di “invidia del pene” (ma anche del maschile in termini di “paura della castrazione” di una “vagina dentata”) appare banalmente superficiale, riduttiva e inappropriata. Ma si deve ricordare che tutta la teoria freudiana è costruita su un primato determinante della sessualità nella vita umana che la rende ampiamente falsificante. Jung ci permette invece di capire anche molti prodotti dell’esperienza culturale dell’uomo in termini diversi, e di comprendere in altri termini la storia e l’esperienza dell’uomo a partire dalla sua modalità di conoscenza. L’esplorazione dell’identità di genere attraverso la logica delle figura archetipiche si rivela non solo un percorso affascinante, ma anche per molti versi sorprendente.
    In estrema sintesi, Jung ci ha spiegato che esiste un modo di rappresentare il mondo, che passa attraverso “figure” della mente, che sono inestricabilmente emozionali e cognitive, spiegando così il permanere di alcuni elementi strutturali identici all’interno di un patrimonio narrativo infinito e infinitamente differenziato. Per questa strada, l’analisi del patrimonio narrativo rivela i grandi archetipi (il Padre, la Madre, il Maestro; il Figlio/eroe, la figlia/principessa, il discepolo).
    È necessario osservare subito che i grandi archetipi non sono mai “buoni” o “cattivi”, ma sono piuttosto ambivalenti (l’equilibrio dell’Io, secondo Erikson, è sempre quello “dell’acrobata sul filo”), e bisogna riconoscere la potenziale spinta verso il Tanathos di Freud che caratterizza l’umano (Jung parla di Doppio e di Ombra).
    È necessario per me farmi capire con degli esempi e userò tre miti strettamente legati all’archetipo femminile materno (ma non crediate che l’analisi degli archetipi maschili sia meno affascinante):
    Pandora: non la causa dell’ingresso del male, ma piuttosto la portatrice e la custode della speranza. Attenzione però al metodo di proposta: occorre far fare la lettura ai ragazzi limitandosi a pilotarla e accompagnarla. Già a 11 anni è possibile razionalizzare a posteriori il significato del mito e cominciare a parlare di psiche degli uomini e delle donne.
    Demetra e Kore (NOTA1)
    Iside e Osiride (NOTA2)
    L’esempio, nella sua limitatezza, mi serve a dimostrarvi l’oggettiva rilevanza dell’uso di un patrimonio narrativo (letterario, drammatico, filmico) e soprattutto del metodo di lettura di esso, collocando questo uso fra i compiti specifici della scuola e della sua dimensione educativa piuttosto che didattica.
    Notare che la narrazione introduce significati della realtà (interna ed esterna) nella fase pre-concettuale (importanza delle fiabe per i bambini), e non a caso è in corso una azione di attiva rielaborazione culturale ad opera di alcuni gruppi fortemente ideologizzati, che riscrivono le fiabe classiche per introdurre orientamenti omosessuali come “altra possibilità”.
    Invece le narrazioni depositate nella tradizione culturale, hanno il potere di tematizzare la differenza di genere come dato esistenziale, favorendo però la comprensione (se pilotiamo il lavoro) del che cosa significa avere in sé anche le componenti psicologiche dell’altro genere. I bambini (anche se non lo sanno) hanno sempre bisogno di vincere la paura del “diverso”: per il “diverso/straniero” (o per il diverso/handicappato), la via maestra è la scoperta intuitiva della comune umanità (l’universalità della condizione umana); per la diversità di genere la sola via è la scoperta della coesistenza di elementi psichici maschili e femminili in ciascuno di noi, in primo luogo perché questo permette di intuire una somiglianza nella diversità che tranquillizza; in secondo luogo perché questa intuizione può anticipare l’esperienza della “incertezza” transitoria che può verificarsi per ciascuno dei bambini e bambine e che non deve impaurire in termini tali da indurre negazione e rigidezza. Discorsi specifici vanno riservati a colloqui individuali e non prima dei 13/ 14 anni.
    La sintesi provvisoria è che la scuola ha in suo potere un enorme materiale culturale da far confluire in una educazione di genere possibile e progettata, anche se metodologie e percorsi specifici andrebbero progettati nel dettaglio anche con uno sforzo collettivo e prolungato da compiere dentro le nostre scuole.

    NOTE

    1) Non affrontiamo qui questo tema delicatissimo, ma sospettiamo che molti disturbi di identità dei giovani siano conseguenza indiretta o remota di un conflitto intrapsichico determinato dal conflitto coniugale vissuto nella famiglia d’origine. I conflitti coniugali di norma esasperano, nel vissuto dei figli bambini, la contrapposizione maschile /femminile, e non ne permettono la rielaborazione.
    2) È pericoloso pedagogicamente leggere l’omosessualità come difetto/ handicap/ malattia, perché favorisce la nascita di stigmi precoci. Con i bambini meglio parlare di “doni misteriosi” e difficili da comprendere. Con i preadolescenti e più importante introdurre l’idea della “incertezza” fisiologica, purché si chiarisca che questo travaglio non ha una base unicamente biologica (banalmente ormonale), ma ha una matrice psichica.
    3) Però non ho mai trovato miti d’origine che spieghino la differenza di genere con un difetto del processo creativo della divinità. In epoca storica si trovano invece miti che evidenziano la “tessitura” e la “costruzione” della donna in un “altrove”, e fanno di lei il “dono” per eccellenza del Creatore all’umanità (la Prima Madre Algonchina, Eva/Pandora nel pensiero occidentale). Cfr. M. T. Moscato, Il sentiero nel labirinto. Miti e metafore nel processo educativo, Brescia, la Scuola, 1998.
    4) La dimensione psichica non è spirituale in senso metafisico: lo spirito immortale non ha problemi di identità di genere, e non “prende moglie o marito”, ma esso diventa consapevole di sé attraverso la mediazione dell’esperienza corporea e psichica, in una storia di vita umana (perciò veneriamo i Santi nella loro identità di genere).
    5) Non possiamo neppure accennare al discorso junghiano, che presenta anche una sorta di metafisica troppo difficile da argomentare, e comunque per noi irrilevante nell’economia di questo discorso. È vero però che l’esperienza conferma che nelle trasformazioni adulte positive (media età adulta e tarda età adulta) la maturità psichica si rivela più che come una “crescita”, come una integrazione interna delle componenti psichiche (conscio e inconscio, maschile e femminile etc.) con una sempre maggiore unità funzionale e una tendenziale auto-trasparenza.

    * Università di Bologna

    Relazione tenuta alla Settima Giornata Pedagogica organizzata dal Centro Studi per la Scuola Cattolica (CSSC) – Roma, 18 ottobre 2014 dal titolo Crescere a scuola come uomini e donne.

    ALTRE NOTE

    Riportiamo qui – circa i miti accennati e detti a voce nella conferenza – quanto documentato da internet

    1) Demetra era figlia di Kronos e di Rhea e sorella di Zeus, da questi ebbe una figlia: Persefone, chiamata anche Kore.
    Il mito narra che mentre Persefone raccoglieva fiori, nella pianura sotto il monte Nysa, venne rapita da Ade. Demetra, la madre, cercò la figlia per nove giorni, girando per tutto il mondo conosciuto. Esausta, alla fine, si fermò ad Eleusi, presso il pozzo di Callicoro, per riposare lì prese le sembianze di una vecchia. Vedendola affranta, la figlia del re Celeo, danzò per distrarla, e la portò alla reggia del padre, dove fu accolta con grande benevolenza. In cambio la dea donò a Trittolemo, primogenito del re, un chicco di grano che nessun altro mortale aveva mai visto, e gli rivelò il modo per farlo fruttare, gettando le basi per lo sviluppo dell'agricoltura. Elios, rivale di Ade, rivelò alla dea che la figlia era stata rapita da quest’ultimo e che Zeus aveva deciso di dargliela in sposa. La dea irata, fece appassire ogni pianta e provocò una terribile siccità, minacciando ogni forma di vita. Zeus tentò convincere la dea a riprendere il suo posto, ma lei rispose che non l'avrebbe fatto fino a quando Kore fosse stata costretta a vivere nel mondo sotterraneo. Messo alle strette, Zeus chiese ad Ade di restituire la giovane, Ade acconsentì, ma indusse la fanciulla a mangiare un chicco di melograno, cibo dei morti, di conseguenza, Persefone, avrebbe dovuto trascorrere, almeno una parte dell’anno, nel mondo sotterraneo, proprio come il seme, che vive nel sottosuolo, per germogliare, poi, alla luce del sole e portare frutti. Kore venne quindi restituita alla madre, con la condizione che un terzo dell'anno avrebbe dovuto trascorrerlo con Ade nel regno dei morti. Il ritorno di Kore sulla terra pose fine alla siccità, il grano tornò a germogliare. Questo il mito.

    2) Il mito di Iside ed Osiride è il mito più famoso della mitologia egizia. Esso è narrato nelle iscrizioni sui templi egizi, sia nel testo Isidis et Osiris, scritto da Plutarco. Qui lo riportiamo nella sua versione più completa.
    La dea del cielo Nut e il dio della terra Geb generarono Osiride, Iside,Nefti e Seth. Iside, dea dell'amore, sin da quando erano insieme nel ventre materno amava Osiride e i due, dopo la nascita, divennero faraoni e civilizzarono il mondo.
    Un giorno Osiride, ubriaco, ingravidò Nefti che era la sposa di Seth, che decise di uccidere il fratello. Assieme ad alcuni complici costruì quindi un sarcofago riccamente decorato in oro, argento e lapislazzuli e, durante una festa, proclamò che l'avrebbe regalato a chiunque fosse riuscito ad entrarci perfettamente.
    Mentre Osiride, incoraggiato da Seth, tentava di entrarvi, il fratello lo chiuse dentro e gettò il sarcofago nel Nilo, uccidendo il malcapitato all'interno. Il sarcofago discese il fiume fino al mare per poi arenarsi aBiblo, dove un'acacia lo avvolse coi propri rami. In tempi successivi l'acacia venne tagliata e dal tronco si ricavò un pilastro per il palazzo del re di Biblo, Malcandro.
    Nella disperata ricerca dell'amato, Iside giunse a Biblo dove, sotto le sembianze da comune mortale, riuscì ad entrare a far parte della corte reale, a guadagnarsi la fiducia della regina Nemano ed a divenire nutrice del giovane principe della città. Un giorno Nemano scoprì Iside mentre poneva il principe bambino sulle braci ardenti: non consapevole del fatto che si trattava di un rito atto a garantire l'immortalità al bambino, la regina si allarmò ed Iside fu costretta ad assumere le sue vere sembianze ed a svelare il vero motivo per cui si trovava nella città. Messa al corrente, Nemano consegnò il sarcofago, che ancora era contenuto nel pilastro d'acacia, alla dea.
    Iside tentò vanamente di resuscitare Osiride, ma ne rimase fecondata. Ne nascose quindi il corpo aButo, mentre qualche tempo dopo partorì Horus e lo allevò in segreto nelle paludi del Delta.
    Un giorno Seth trovò il corpo di Osiride. Furibondo, lo smembrò e ne disperse i pezzi per l'Egitto, sicuro che Iside si sarebbe arresa ed infine, per maggior sicurezza, mise Iside e Nefti sotto chiave. Queste vennero liberate successivamente da Selket e altre sette dee, e si misero subito alla ricerca delle parti del corpo di Osiride. Dopo averlo ricomposto lo mummificarono, affinché il dio potesse rinascere neicampi Aaru, una sorta di paradiso egizio. Iside sarebbe poi andata, insieme ai cari di Osiride, nell'Oltretomba per vivere in eterno con Lui.
    Sarebbe spettato ad Horus, il figlio di Iside ed Osiride concepito a Biblo, sconfiggere lo zio Seth in una serie di battaglie e divenire faraone.


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