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    Per una fenomenologia

    dell'esperienza educativa

    Roberto Mancini

     

    1. L'essenza dell'educazione

    La riflessione che propongo in questa relazione intende formulare un'ipotesi sul senso dell'educazione ed evidenziare le forme salienti della struttura dell'esperienza educativa. Con una formula, direi che è oggi urgente provare a risalire a una visione dell'educazione, di ciò che essa è veramente. In tale prospettiva mi sembra che sia necessario considerare l'esperienza educativa attraverso un approccio che si avvale sia del metodo fenomenologico, sia della sensibilità ermeneutica.
    La valenza della fenomenologia [1], nel mio discorso, è soprattutto quella di un atto di memoria. Memoria non solo di un passato di esemplari esperienze educative da ricordare, ma anche e anzitutto dell'essenza dell'educare, che da tempo è rimasta oscurata da istanze prevalenti nella mentalità corrente. Mi riferisco a istanze estranee e spesso ostili al riconoscimento della dignità della persona umana, radicate in logiche che instaurano a criterio supremo il potere politico, economico o tecnologico. In una società non solo fondata su queste forme di potere, ma anche culturalmente inebetita dal "regime di verità" [2] in cui esse si cristallizzano, risulta compromesso tutto ciò che è richiesto da una lucida autocoscienza antropologica e dall'etica della dignità. In un contesto simile non c'è da meravigliarsi se l'esperienza educativa e la riflessione che la accompagna possano subire travisamenti di ogni genere.
    Il potenziale critico e controfattuale della fenomenologia, allora, sta appunto nello schiudere una visione che è la memoria dell'essenza di una data realtà proprio quando nei fatti questa essenza viene messa da parte. Il termine "essenza" non allude a un'entità ideale immutabile e avulsa dalla storicità, indica piuttosto un criterio istitutivo, una legalità riferita al senso, un modo d'essere senza i quali una cosa non può più essere se stessa. Vorrei dunque provare a richiamare ciò che è riconoscibile come nucleo essenziale dell'educazione tenendo conto, nel contempo, della situazione globale della società attuale, in cui la mentalità diffusa è fortemente segnata dall'ignoranza antropologica e disinteressata alla sapienza educativa.
    Questo secondo versante della riflessione - di recente esemplarmente esplorato da autori come Edgar Morin o Zygmunt Bauman o a suo tempo dallo stesso Gadamer [3] - lo qualifico come "ermeneutico" nel senso che, a mio avviso, un approccio di questo tipo deve comunque tentare di esercitare l'arte della prospettiva. Infatti interpretare una questione, un problema, un mondo di significati e il presente stesso in cui siamo immersi significa cercare di porre quanto man mano si comprende nella "giusta" prospettiva. La visione fenomenologica dell'essenza di qualcosa non si dà nel vuoto e non basta a se stessa; deve a sua volta essere appunto messa in prospettiva, correlata al contesto storico nel quale la visione è raggiunta.
    Quel senso di fissità atemporale che è stata spesso rimproverata alla concezione husserliana delle essenze insorge soltanto quando ci si dimentica di esercitare quest'opera di ineludibile orientamento ermeneutico, che implica anche la riflessione autocritica sulle condizioni concrete del proprio vedere. Tanto più che il vedere eidetico fenomenologico e il decifrare ermeneutico in cerca di una prospettiva fedele alla realtà si correlano in maniera più profonda di quanto non accada in una mera divisione del lavoro tra approcci differenti. In effetti, pur restando distinti, questi movimenti del pensiero si compenetrano.
    Lo sguardo fenomenologico deve poter mettere a fuoco ciò che punta a vedere essenzialmente. Quando Husserl evidenzia l'esigenza di adottare, con il metodo della riduzione, un metodo ausiliario della chiarificazione [4], che implica la continua messa a fuoco di ciò che deve essere visto nella sua essenza, siamo comunque molto vicini a un atteggiamento ermeneutico poiché la messa a fuoco non può limitarsi a vedere meglio un singolo dato, ma deve chiarire anche il suo divenire e il suo contesto. A sua volta in un approccio ermeneutico è vitale la capacità di vedere ciò che emerge dalla realtà interpretata, cosicché alla fine la prospettiva ritenuta più fedele alla verità non sarà costruita arbitrariamente dal soggetto conoscitivo, ma sarà in certa misura "ricevuta" nell'incontro e nella relazione con quella realtà. Su questa linea mi muovo in sintonia con la concezione di Ricoeur, secondo il quale fenomenologia ed ermeneutica sono i due versanti di uno stesso dinamismo della conoscenza filosofica [5].
    Oltre a questo rimando di metodo alla fenomenologia e all'ermeneutica, le fonti specifiche per la mia riflessione sull'educazione sono date dalla convergenza tra la tradizione dei maestri dell'educare nel Novecento - da Maria Montessori a don Lorenzo Milani, da Paulo Freire a Danilo Dolci, da Mario Lodi a Gianni Rodari [6] - e, più ampiamente, quella che può essere detta la sapienza antropologica custodita nelle culture del mondo [7].
    Attingere oggi a queste fonti aiuta a riconoscere gli elementi vitali di quel risveglio spirituale, etico e culturale che deve restituire valore sociale essenziale alla responsabilità di educare. E anzitutto ci consente di individuare i tratti costitutivi dell'identità pienamente e veramente umana che dobbiamo coltivare in ciascuno [8]. Essi, emergenti dal confronto e, in effetti, dalla convergenza tra le sapienze antropologiche del mondo, sono riassumibili in cinque caratteristiche fondamentali: l'unicità, per cui ogni persona è originale e insostituibile, la relazionalità, che è la trama vivente di ogni esistenza e inscrive ciascuno nella comunità umana; l'apertura all'infinito, al bene, alla verità, a Dio; l'integrità e la responsabilità.
    Vedremo tra poco come questi cinque tratti siano al centro della struttura dell'esperienza educativa e delle sue dinamiche principali. Intanto desidero esplicitare l'idea-guida del mio discorso, che deriva anzitutto dal riconoscimento fenomenologico, fatto valere dalle fonti che ho appena indicato, del dato per cui l'essere umano è una creatura nascente, ben oltre l'evento inaugurale della nascita biologica, ed è in cammino per divenire compiutamente persona unica, libera, responsabile, amorevole. Si tratta di un divenire delicato, esposto a rischi in ogni suo passaggio, ma anche capace di portare alla luce forze creative che esprimono nell'unicità della persona la trascendenza umana rispetto a tutto ciò che è strumentale, funzionale, oggettivo e anche meramente finito e calcolabile.
    È vero che da tempo le filosofie della finitezza sono spesso ritenute accreditate nel fotografare l'esistenza con realismo e disincanto, tanto che anche tra quanti sono ispirati dalla fede cristiana la categoria di finitezza gode di grande credito, come se essa da sola fosse la naturale e plausibile descrizione della condizione umana [9]. In contrasto con questa perdita del senso dell'eterno e della trascendenza che riguarda l'essenza dell'umano, è già la stessa fenomenologia del cammino educativo che conduce i piccoli dell'umanità all'età adulta a mostrare come, in realtà, l'unicità della persona sia intessuta grazie alla relazione di finito e infinito. Senza svolgere tale relazione, senza questa apertura all'eterno nell'uomo, per usare l'illuminante espressione di Scheler [10], nessuno può davvero fiorire e giungere al compimento della sua umanità. Compimento che, a sua volta, non è una fine e non coincide con il fatto della morte, poiché piuttosto è la piena partecipazione a una comunione amorosa infinita.
    A mio avviso l'elemento che ricapitola i cinque tratti evidenziati poco fa è proprio questa facoltà non dico di amare, ma di imparare ad amare in modo creativo, generoso, paziente, fedele, misericordioso. Più radicalmente delle caratteristiche che furono evidenziate a suo tempo nell'antropologia del pensiero greco classico - la socialità e l'indole politica, la razionalità e il linguaggio, la mortalità -, l'adesione a questo amore e la sua espressione, per quanto difficili e rare siano, bastano a portare alla luce la peculiarità della persona umana. In questo senso parlo della possibilità del compimento umano, possibilità che si tende a negare oppure a far coincidere con la morte. In quanto persone amanti secondo quell'amore cui ho accennato noi possiamo dare autentico compimento alla nostra esistenza, senza che esso segni una fine o sia sconfitto dal nulla [11].
    Questa paradossale costituzione antropologica, estremamente vulnerabile eppure capace di una forza inimmaginata, si può cogliere in due tratti tipici, osservabili nel cammino dell'essere umano e riconoscibili universalmente, al di là della prospettiva dischiusa dalla fede. Il primo riguarda il dato per cui ogni facoltà e qualità e ogni "sviluppo armonico della personalità", come si è soliti dire tradizionalmente nell'indicare il fine dei progetti educativi, ruotano attorno a un nucleo centrale che è quello dell'imparare ad amare, del giungere a vivere con e per amore [12]. Ebbene, l'amore - nella misura in cui si purifica dall'autocentramento del soggetto e dall'influenza di quei sentimenti oscuri che sono la paura, la gelosia, l'avidità, il senso del possesso - è apertura, tensione all'eterno, adesione e fedeltà a una comunione che neppure la morte può cancellare.
    Il secondo tratto tipico del nostro cammino, intrinsecamente correlato al primo, emerge nell'anelito umano a un orizzonte, a una destinazione e a una verità che siano più grandi della vita stessa e del suo ciclo biologico. Soltanto grazie a questo respiro e in questo movimento di trascendenza possiamo riconoscere un senso per l'esistenza che sia adeguato alla nostra dignità, fragile e immensa.
    In tale ottica mutano sia lo sguardo verso gli altri, sia l'orientamento verso la verità. Da un lato, come ha mostrato esemplarmente Lévinas, l'infinito a cui tendiamo non è una proiezione della mente, né il tema di un calcolo matematico. È invece un infinito etico che incontriamo nel valore vivente incarnato da ogni altro essere umano. Ed è in questo incontro che ognuno può avere l'esperienza del "ricevere da Altri al di là della capacità dell'Io" [13], espressione che, come dirò tra poco, è illuminante per comprendere la dinamica fondamentale dell'essere educati e dell'educare.
    Dall'altro lato, non solo l'alterità degli altri, ma la stessa alterità di ciò che chiamiamo verità rivela così una radicalità spesso elusa e impensata. La relazione tra la persona e la verità vivente, come ha indicato in maniera esemplare Luigi Pareyson [14], si rivela decisiva e irriducibile allo scenario di quelle concezioni che restringono la realtà della verità a una dimensione esclusivamente intellettuale, percettiva, cognitiva o dottrinaria, riducendola a una qualità del nostro giudizio, quando possiede esattezza e corrispondenza con le cose. Perciò non solo per la filosofia, ma per ogni impegno educativo è indispensabile il principio dell'indissolubile rispetto verso la persona e verso la verità.
    Il rispetto verso la verità non si attua certo nel fermarsi a una distanza di riguardo, al contrario esso esige quel coinvolgimento che nell'appello della verità stessa coglie una vocazione a nascere compiutamente. Contro ogni riduzione della verità alla ragione o al potere, María Zambrano ha ricordato che essa è per l'essere umano come una madre che suscita il pieno sviluppo di se stessi [15]. La corrispondenza e la fedeltà richieste dalla verità non sono identificabili con una dottrina razionale né con una ortodossia. Esse si realizzano dando alla luce la nostra vera identità di persone. Qui è fuori luogo pensare a un profilo puramente estetico o a una singolarità paga della propria bellezza. Zambrano allude invece a persone capaci di spezzare ogni complicità con il male per giungere a raccogliersi in un momento di solitudine suprema che poi si scioglie in quella conversione per cui l'esistenza si trasforma in dono.
    In una simile prospettiva di antropologia, insieme metafisica e interculturale, l'essenza dell'educazione può essere chiarita come risposta alle esigenze poste da questa condizione di creature nascenti e capaci di partecipare originalmente alla relazione con la vita del mondo e con la verità. L'educare consiste nell'esercizio della responsabilità maieutica sia degli adulti verso le nuove generazioni, sia, più ampiamente, di ciascuno verso gli altri, a qualsiasi età, lungo correnti di interazione interpersonale caratterizzate da una aperta e imprevedibile reciprocità.
    Guardando al cammino dell'essere umano si arriva a riconoscere che la sua umanità inizialmente non è né inesistente, né già compiuta, dato che piuttosto essa esiste come un seme da sviluppare, un seme tendente a fiorire originalmente in ciascuno. Di conseguenza educare significa appunto promuovere umanità, stimare e affinare ogni nucleo dell'essere della persona. In tal modo si potrà destare quella libertà germinale che, crescendo e confermandosi, permetterà all'individuo di partecipare alla vita universale divenendo propriamente persona unica, consapevole, responsabile, amante.

    2. La struttura dell'esperienza educativa

    A questo punto, dopo aver evidenziato il significato essenziale dell'educazione, anziché tentare di approfondire il quadro specifico relativo ai differenti mondi vitali decisivi per i processi che la attuano - dalla famiglia alle comunità di natura religiosa o in vario modo ispirate all'umanesimo, dalla scuola all'università -, vorrei chiarire la struttura generale dell'esperienza educativa.
    Tutti gli studi delle scienze umane che seguono il paradigma relazionale [16] insegnano che il percorso dell'umanizzazione avviene per ognuno se è possibile contare su relazioni di buon rispecchiamento, nelle quali chi cresce trova come guide autorevoli persone adulte di riferimento imitativo ma liberante. Esse, credendo in lui o in lei, lo incoraggiano nel procedere sulla via del proprio sviluppo personale. Tale sviluppo, se implica la scoperta degli altri e del mondo, richiede sempre al soggetto umano anche di approfondire l'autoascolto e la coscienza delle dinamiche della propria vita interiore [17], tra le quali occupa un posto centrale la lotta tra le tendenze creative e quelle distruttive, tra la disponibilità a subire un torto piuttosto di non commetterlo e la propensione a fare torto agli altri. In una parola, è la lotta interiore tra il bene e il male [18], il cui buon esito è decisivo per il compimento della nascita radicale di ogni persona. Si vede qui come i tratti umani
    Per una fenomenologia dell'esperienza educativa dell'unicità e della relazionalità, stimati come irrinunciabili dalla sapienza antropologica delle culture, procedano di pari passo.
    La struttura della relazione educativa si qualifica anzitutto nel senso di un'interazione tra soggetti che è, nel contempo, asimmetrica e profondamente reciproca. Asimmetrica, perché il ruolo dell'adulto e quello di chi gli è affidato non si confondono. Reciproca, perché ognuno di tali ruoli deve essere espressione della persona coinvolta, che entra nella relazione con tutto il proprio essere e lo condivide con gli altri. Questa reciprocità non è pensabile secondo il tradizionale modello dello scambio. L'abitudine a far coincidere reciprocità e scambio è fuorviante perché porta l'attenzione esclusivamente su ciò che viene scambiato e non permette di vedere il coinvolgimento delle persone in quanto privilegia il riferimenti al ruolo che ciascuno riveste nell'interazione. Inoltre, la concezione incentrata sulla nozione di scambio lascia in ombra le essenziali dinamiche di interiorizzazione attraverso le quali chiunque partecipi alla relazione assume e rielabora personalmente il significato degli eventi e delle esperienze proprie della relazione stessa.
    In realtà nell'educazione è implicata una reciprocità qualificata e complessa. Si tratta infatti di una buona reciprocità [19], in quanto in essa ha luogo una condivisione di bene, di quel bene concreto che si sperimenta nella cura per le persone, nella dedizione, nella responsabilità, nella fiducia, nell'azione maieutica, nella compassione, nel perdono, nella speranza, nell'agire solidale, nella conoscenza partecipati-va e per intimità, nella liberazione dall'ignoranza, dall'incuria, dalla menzogna, dalla disperazione.
    La complessità della reciprocità è dovuta al fatto che, per un verso, è in gioco la libera reciprocità tra persone e, per altro verso, si delinea imprevedibilmente una libera reciprocità tra le dimensioni dell'esperienza educativa. Infatti quest'ultima non ammette mai una rigida e immodificabile separazione tra l'educare e l'essere educati. Al contrario, questi versanti si complicano in maniera che sia l'adulto, sia chi gli è affidato sperimentano l'intreccio dell'essere educati grazie all'azione di altri, dell'educare come contributo attivo al percorso comune e anche dell'educarsi, giacché non può darsi educazione se prima possibile non inizia nel contempo un atteggiamento di autoeducazione. Nessuno può educarci se non assumiamo personalmente la cosciente responsabilità di coltivare noi stessi e se non scegliamo di essere in un certo modo.
    Come ho già accennato, la buona reciprocità nell'educazione si svolge in relazioni di buon rispecchiamento che sono in effetti il luogo cruciale dell'azione maieutica dell'educatore. Da quest'ultimo viene non solo un'immagine che restituisce al piccolo o al giovane il senso di sé e delle proprie migliori potenzialità, ma anche un appello, un invito a seguire un cammino di vita vera. Tale invito è sostenuto da una fiducia fondamentale che conferisce all'altro quella stima di sé e quell'energia positiva che gli permettono di non cedere al timore, allo scoraggiamento o al senso di inadeguatezza.
    A un'osservazione attenta non sfugge come il percorso dell'urnanizzazione sia tutt'altro che garantito. Esistono ostacoli e minacce di vario genere. Li si individua attraverso un'analisi che muova dalla consapevolezza del fatto che, essendo il soggetto umano un essere relazionale, tali fattori negativi possono presentarsi in ogni forma di relazione: con se stessi, con gli altri, con il contesto naturale e sociale, con il senso della vita o, per chi crede, con Dio. Paghiamo allora il prezzo del cattivo rispecchiamento, in una sorta di maieutica rovesciata che ci abitua e ci adatta al peggio, inibendo la vera maturazione della nostra umanità.
    Sottolineo in particolare la forza antimaieutica che hanno, nella relazione interiore con sé, i sentimenti oscuri come l'angoscia, la paura, l'invidia, la gelosia, la superbia, l'avidità, l'odio; nelle relazioni interpersonali, i misconoscimenti dovuti ad amore mancato o sbagliato e l'influenza di modelli deformanti; nella vita sociale, l'imporsi di logiche che siano ostili inadeguate alla dignità umana, come quelle che privilegiano il potere e il denaro.
    Se si tiene conto del peso che simili ostacoli possono avere, si comprende che educare non significa certo indottrinare, conformare i piccoli a un modello dato o adattarli alle strutture già vecchie e spesso inique dell'ordine dominante nel mondo che trovano. Al contrario, educare significa liberare. Liberare per rendere chi cresce in grado di completare la propria nascita e di partecipare con la sua unicità preziosa alla vita del mondo [20].
    La struttura dell'esperienza educativa include anche un elemento ulteriore, oltre a quelli della buona reciprocità e dell'azione maieutica di cui ho parlato sin qui. Alludo all'azione mediatrice grazie alla quale il mondo stesso - o almeno il mondo nelle sue presenze di bene, di bellezza, di verità - si manifesta come educatore. A riguardo è opportuno riprendere adesso la citata espressione di Lévinas dove si pone inrisalto come nella relazione interpersonale accadano gli eventi che consentono di "ricevere da Altri al di là della capacità dell'Io".
    Letta nella prospettiva di una riflessione sull'educazione, questa indicazione sollecita un ripensamento del movimento fondamentale dell'educare. Esso solitamente viene inteso in chiave etimologica, come un ex-ducere, un estrarre dalla persona le sue qualità migliori affinché le sue potenzialità giungano all'attuazione. Ma questo movimento è soltanto un versante dell'educazione, quello che cerca di sviluppare il potenziale di doti e di facoltà delle nuove generazioni, facendo del resto attenzione a prestare ascolto anche agli impulsi e alle tendenze negative, in maniera che possano essere riconosciuti per quello che sono, riorientati e superati.
    Esiste però un altro versante, dove appunto si tratta di ricevere da altri, dal mondo, ciò che non è già inscritto nelle potenzialità del soggetto. Questo punto è stato efficacemente chiarito da Martin Buber, il quale afferma che l'educatore deve preparare l'incontro tra il bambino e le forze educative del mondo, selezionando quelle che sono davvero tali nella natura e nella cultura. Nel suo saggio Sull'educativo, del 1926, egli scrive:

    in verità, se si potesse analizzare un'anima, le disposizioni che si scoprirebbero nell'anima di un neonato non sarebbero altro che capacità di accogliere il mondo e di immaginarlo. Il mondo genera nell'individuo la persona. Il mondo, cioè tutto il mondo circostante, natura e società, "educa" l'uomo: ne suscita le forze, lascia che esse afferrino e compenetrino i suggerimenti del mondo. Ciò che noi chiamiamo educazione, quella consapevole e voluta, significa selezione del mondo agente operata dall'uomo; significa attribuire potere decisivo ed efficace a una selezione del mondo raccolta e mostrata nell'educatore. Si ha cura del rapporto educativo sottraendolo alla corrente priva d'intenzione dell'educazione universale: curandolo come intenzione.

    Così solo nell'educatore il mondo diventa il vero soggetto del proprio agire [21].
    La relazione educativa non si consuma tra l'adulto e chi gli è affidato, richiede una sapiente partecipazione alla vita del mondo. La sua scoperta, nei molti territori naturali, sociali e spirituali che esso possiede, è un elemento costitutivo dell'avventura educativa. E la scoperta non è una conquista, è un'esposizione all'azione maieutica del mondo stesso nelle sue forze e presenze migliori. Tra esse, la più radicale ed essenziale è la verità stessa, la verità vivente che invita e attrae ognuno verso una vita vera. Si coglie qui la congruenza di questa riflessione sull'educazione con l'indicazione interculturale dell'apertura all'infinito, al bene, alla verità e a Dio, considerata quale uno dei tratti irrinunciabili del divenire persona.
    In questa ottica l'educatore non è un modello cui adeguarsi, è una guida e un mediatore che predispone le condizioni più feconde per l'esperienza di chi cresce. Si noti lo spostamento di prospettiva: l'educazione non deve selezionare le persone, per farne avanzare alcune e respingere le altre, ma le forze del mondo: deve allontanare quelle che sviano o bloccano lo sviluppo umano e far intervenire quelle che sanno promuoverla.
    L'incontro dialogico tra l'io e il tu, continua Buber, rimane il cuore delle dinamiche educative. Esse sono irriducibili a una tecnica didattica e organizzativa poiché coinvolgono le persone, il loro contatto intimo, il libero apprendimento reciproco. Si comprende qui che la relazione non è un mero strumento per le finalità dell'umanizzazione, ma è un valore in se stessa, è comunione che ha significato in quanto tale. E ciò comporta che in ogni forma di comunità impegnata nel cammino dell'educazione - che sia ad esempio la famiglia o la scuola - ogni singolo sia sempre più importante di quello che sarebbe riducibile alla stregua di un ruolo, di una funzione, di uno strumento. Ciascuno è unico e irripetibile, è un fine in sé, e il riguardo per questa unicità è fondamentale nelle relazioni autenticamente educative. Buber, in proposito, parla qui di "esperienza della parte opposta" [22] alludendo al fatto che l'educatore deve riconoscere l'alterità dell'altro, del "tu" che gli sta dinanzi, per averne cura senza tentare di ridurla a qualcosa che la inglobi.
    D'altronde l'esperienza educativa ha luogo per lo più al di là dei confini di una relazione duale tra genitore e figlio o insegnante e allievo. La situazione della dualità rimane piuttosto rara e non va confusa con il fatto che ogni relazione interpersonale tra l'io e il tu sia unica. In effetti l'esperienza educativa comporta tendenzialmente l'esistenza di una comunità fatta di una pluralità di soggetti, di altri adulti e di altri bambini o giovani. Questo dato è fondamentale per rendersi conto di un'altra componente strutturale dell'educazione. Mi riferisco alla socializzazione e alla competenza politica legata dell'appartenenza alla comunità umana, incarnata di volta in volta in comunità particolari [23].
    Ciò implica, tra l'altro, non solo la scoperta dell'esigenza di norme e regole, ma anche quel confronto democratico che consente di correggere insieme i riferimenti normativi o anche di rinnovarli.
    L'evidenziazione di questa dimensione politica, se ricondotta all'educazione di bambine e bambini, potrà sembrare prematura e forzata, visto che chi si trova nell'infanzia potrà sperimentarla soltanto diversi anni più tardi e con ben altra maturità. Ma quanti danno una simile valutazione non riflettono sul fatto che non solo il rapporto con norme e regole, ma anche quello con il potere sono ben presto rilevanti nella vita di chi cresce visto che vivere è convivere. Sottolineo in particolare il rapporto con il potere nella sua ambivalenza. Infatti occorre imparare presto che la quota piccola o grande di potere che possiamo avere in termini di influenza sulla vita altrui dovrà qualificarsi secondo la seguente alternativa: o diviene potere verticale, che usiamo sopra e contro gli altri, oppure diviene potere orizzontale, cioè energia di cooperazione [24], dedizione e servizio al bene comune. E questo si impara nel modo più fecondo da bambine e da bambini, più tardi sarà difficile interiorizzare l'adesione a un rapporto nonviolento con l'uso del potere. Siamo ormai in grado di cogliere la conferma di un'altra indicazione emergente dalla sapienza antropologica delle culture, quella che richiama l'attenzione sulla responsabilità. Un essere umano che crescendo non diventa responsabile non è un essere umano.
    Proviamo ora a sintetizzare i nuclei della struttura dell'esperienza educativa. Essa si delinea nella correlazione organica tra intersoggettività dialogica e buona reciprocità, conoscenza della realtà e apertura alla verità, conoscenza di sé e socializzazione sino alla partecipazione politica, azione maieutica e mediazione con le forze educative del mondo. Si comprende come in tale struttura la trama sia contemporaneamente relazionale e spirituale, affettiva e cognitiva, etica e politica, per cui l'esperienza educativa è compromessa quando qualcuna di queste dimensioni sia tralasciata.

    3. Le dinamiche essenziali

    Da quanto ho messo in risalto sinora si comprende che una simile struttura è per sua natura aperta, diveniente, perché ognuno degli elementi della sua trama è processuale, mai statico. Perciò, nell'ultimo passaggio della mia riflessione, vorrei almeno accennare ad alcune dinamiche essenziali dell'educazione. Penso precisamente a tre di esse: l'affidamento, la strada comune, il dialogo.
    Quella basilare attiene allo stabilirsi della confidenza necessaria a generare l'esperienza educativa nella sua configurazione di relazione interpersonale. C'è un affidamento iniziale che deve potersi svolgere come approfondimento della fiducia reciproca. L'affidamento da un lato consiste nel fatto che dei piccoli sono portati nel campo di responsabilità di alcuni adulti: per esempio da parte della vita stessa o da Dio, se si tratta della condizione dei genitori, o da parte della famiglia, se si tratta della scuola.
    Dall'altro lato saranno i piccoli ad affidarsi a chi fa loro da guida educativa. Ma anche gli educatori, a propria volta, dovranno in un certo senso affidarsi ai piccoli, nel senso che dovranno credere in loro, averne stima, sviluppare la considerazione per la loro dignità e per lo sviluppo del loro futuro giorno per giorno. Quanti, nei diversi ruoli, partecipano all'avventura educativa dovranno anche imparare a condividere una fiducia di fondo nella vita e nel suo senso, altrimenti la condizione di chi è costretto a crescere in un clima culturale segnato dalla depressione, dalla disperazione e dal cinismo sarà simile a quella di una pianta a cui vengono negati l'acqua e la luce.
    C'è poi quella dinamica globale che può essere detta la strada comune. Con tale espressione intendo il dato per cui l'esperienza educativa si attua come un fare strada insieme. Per l'adulto tale compito si presenta anzitutto con la rinuncia ad andare avanti da solo e con la disponibilità a tornare indietro per "rifare la strada" con le persone nuove che gli sono affidate. D'altro canto però egli deve sapere che la strada non è la stessa, non si tratta di "rifarla" per la seconda volta, bensì di scoprire ulteriormente la vita aiutando chi è più piccolo nel proprio viaggio. Quindi in realtà è una strada nuova per entrambi, seppure in modo differente. Per l'adulto il cammino potrà approfondirsi grazie alla cura, alla responsabilità, alla dedizione, all'ascolto. Egli non sbarrerà il passo ai piccoli né si sostituirà a loro. Sarà una guida che incoraggia il cammino di ciascuno. E questo accrescerà per l'adulto stesso la conoscenza e la realizzazione di sé.
    Per chi è più piccolo il cammino comporterà lo sviluppo di facoltà e competenze, la partecipazione sempre più consapevole al mondo comune e, soprattutto, la maturazione della propria libertà. Voglio sotto lineare, in proposito, come la libertà in noi non sia una dotazione bell'e pronta, meccanicamente uguale in tutti. L'uguaglianza sta nella dignità della libertà di ciascun essere umano, ma essa prende forma gradualmente e si manifesta originalmente nel modo d'essere di ogni persona. Data la fragilità di un simile percorso di maturazione, per cui la libertà può essere inibita, soffocata, sviata, la grande responsabilità degli educatori è quella di promuovere e tutelare la formazione della libertà in ogni bambina, bambino o giovane che contano su di loro.
    Abbiamo visto, infine, come non sia possibile educare se non nell'elemento vivente del dialogo. L'incontro dialogico è fatto di silenzio ospitale, di ascolto, di rispetto, di fiducia, di condivisione, di parole vissute insieme, di apprendimento. E può anche prendere la forma del conflitto, là dove però, se la relazione resta comunque dialogica, nessuno punta a vincere sull'altro o a umiliarlo, bensì a trovare un'intesa reciproca, per quanto vi siano posizioni, idee e sensibilità divergenti, e a riconfermare il valore della relazione. Il dialogo è essenzialmente ricerca, non si risolve mai in una situazione a due perché in ogni caso vuole l'apertura comune a ciò che risulta "terzo": gli altri, il mondo, il senso delle cose, la verità e una vita rinnovata.
    È chiaro che la struttura dell'esperienza educativa e le sue dinamiche troveranno conformazioni diverse a seconda dei mondi vitali a cui ci riferiamo, la famiglia o la scuola, l'università o un qualsiasi altro luogo della convivenza. Desidero tuttavia precisare che gli elementi connaturati all'essenza dell'educazione, seppure in misura e con modalità differenziati, dovranno essere presenti e coltivati. Altrimenti avremo a che fare con situazioni ed esperienze che saranno non già umanamente neutre, ma diseducative e oppressive lungo la china di quella antimaieutica perversa di cui ogni giorno siamo costretti a constatare gli effetti velenosi nella vita della società.
    Avendo dedicato attenzione sia alla struttura che alle dinamiche essenziali dell'esperienza educativa, devo anche indicare, benché in maniera estremamente sintetica, come possono essere concepiti i traguardi dell'umanizzazione. Il termine "traguardo" è chiaramente inadeguato sia perché fa pensare a una gara, sia nel suggerire che, una volta raggiunta la meta, poi subentri una sorta di stasi. Tuttavia lo impiego per significare quelle forme di compimento nel diventare persa ne che possiedono una loro unità, una configurazione stabile e sono ormai divenute essenziali nel modo d'essere di un soggetto. È naturale che, peraltro, il dinamismo con cui queste forme di compimento sa no sperimentate continua a essere vivo e aperto.
    Nella prospettiva che ho cercato di proporre i "traguardi" dell'umanizzazione e dunque dell'impegno educativo possono essere riassunti, in primo luogo, dal termine "fedeltà". Qui la fedeltà è riferita alla dignità umana [25], alla propria unicità, al valore vivente che incontriamo negli altri, alla vocazione che ci chiama a una comunione profonda. Quando nutriamo il cuore e la coscienza, la ragione e il corpo, l'anima e la libertà di una persona facendo sì che impari ad assumere liberamente la fedeltà così intesa, allora possiamo dire di aver svolto il nostro impegno educativo.
    In secondo luogo penso alla parola "creatività". Con essa alludo certamente alla capacità di esprimere l'unicità personale e di rinnovare le situazioni date. Ma intendo nel contempo quel lento e arduo apprendimento che ci permette di rinunciare al ricorso a mezzi distruttivi in ogni ambito dell'esistenza preferendo invece modi e mezzi creativi, nonviolenti, generativi. Creatività significa riuscire ad accogliere il dono della vita cercando il più possibile di non tradirlo con la resa alla complicità con il male. Se coltiviamo tale sensibilità spirituale ed etica nelle nuove generazioni, svolgiamo un'azione realmente educativa.
    Infine riprenderei qui la parola "servizio". L'unificazione di sé, la cura dell'integrità personale, l'attuazione della propria dignità e il cammino del completare la nascita sono dinamiche che vanno essenzialmente verso gli altri e verso la vita condivisa [26]. Non si nasce per nascere, ma per entrare in una comunione più grande. E la libertà non è per se stessa, deve potersi dedicare a ciò che la conferma e la in-vera. In questo senso una persona che gode di un grado avanzato di educazione esprimerà la sua maturità nel servizio: agli altri, alla giustizia, alla verità, al bene comune. Per questo, come la filosofia ha sempre ricordato, non esiste il cittadino se manca l'educazione della persona, in modo che sappia divenire soggetto responsabile, creativo e pronto al servizio nella famiglia, nella politica, nell'economia e nell'educazione stessa intesa come impegno dovuto alle nuove generazioni. È evidente che molti dei disastri che colpiscono attualmente la vita pubblica sono dovuti alla mancanza o al fallimento di processi autenticamente educativi di sviluppo dell'umanità delle persone, di quelle persone che poi diventano formalmente cittadini e, in alcuni casi, amministratori, governanti, statisti.

    Conclusione

    Il vero significato della riflessione che ho proposto guarda a un cambiamento radicale delle condizioni presenti della relazione tra le generazioni adulte e quelle nuove. Ho cercato di mostrare che non basta affatto coltivare le doti richieste dalla società attuale, né addestrare gli individui o incentivare la formazione professionale. Bisogna ritornare a educare. E questo richiede una riconsiderazione profonda dell'essere famiglia, del fare scuola, del costruire la vita dell'università, dell'attuare comunità di fede religiosa, di volontariato o di altro genere ancora.
    Prima ancora di ritenere che sia urgente investire nella scuola, nella conoscenza e nella ricerca, occorre credere nelle nuove generazioni, smettendo di guardarle con quel malcelato disprezzo che subito le identifica con qualcosa di negativo (si pensi agli appellativi con i quali di solito si indicano i giovani: "minori", "sfigati", "bamboccioni", "esuberi", "emergenza educativa") o con qualcosa di solo apparentemente positivo (si pensi al termine "risorse", che è pur sempre di natura strumentale, e all'espressione "siete il futuro", che serve a negare ai giovani la partecipazione attiva al presente).
    In proposito la Bibbia continua a custodire una grande saggezza quando, anziché chiedere subito agli uomini la conversione a Dio, chiede una preliminare conversione, quella del cuore dei padri verso i figli [27]. Significa che il primo cambiamento è quello del modo di sentire e di esistere degli adulti. Un cambiamento che deve ricondurli alla capacità di sognare e desiderare la relazione con i più piccoli, come forse accade nel volerli generare e nel considerarli un dono inestimabile. Di conseguenza, per quanto sia urgente svolgere direttamente l'azione educativa con i bambini, con le bambine e con i giovani, la condizione più concreta di questo agire è ripartire dall'educazione degli adulti.
    Di fronte alla desertificazione spirituale e antropologica indotta dalla società di mercato e dalla sua monocultura, servono luoghi vitali, occasioni di incontro, percorsi di ascolto e di verifica di sé che consentano di rinnovare la vita delle generazioni adulte, di riorientarla al senso della vita piuttosto che ai cupi imperativi della mera sopravvivenza economica, della competizione universale, della docilità automatica ai sistemi organizzativi globalizzati e agli effetti di alienazione che producono.
    Senza tale attenzione alla situazione esistenziale e interiore degli adulti mancheranno le condizioni affinché sia loro restituita la concreta responsabilità educativa che comunque li investe e allora ogni prospettiva sull'educazione oggi resterà astratta e velleitaria [28]. All'inizio degli anni Sessanta del secolo scorso Hannah Arendt ha ricordato alle generazioni adulte il dovere ineludibile di preservare la novità vivente dei nuovi nati con queste parole:

    L'educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l'arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell'educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione di intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa di imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti [29].

    Queste parole riassumono a mio avviso il cuore del problema dell'educare nel nostro tempo e indicano il compito che dobbiamo assumere ora, senza dilazioni o riserve.

    NOTE

    1 In proposito si vedano i seguenti studi: W Lippitz, Differenz und Fremdheit. Phänomenologische Studien in der Erziehungswissenschaft, Peter Lang, Frankfurt 2003; W. Schneider, Phänomenologie und Pädagogik, Ergon, Würzburg 2010; M. Brinkman (Hrsg.), Erziehung. Phänomenologische Perspektiven, Königshausen & Neumann, Würzburg 2011. Per una giustificazione del mio modo di intendere la fenomenologia rimando a quanto ho proposto nel volume Visione e verità. Un viaggio nella fenomenologia attraverso le "Ideen I" di Edmund Husserl, Cittadella, Assisi 2010.
    2 M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005.
    3 Cfr. rispettivamente E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina, Milano 2000; Id., I sette saperi necessari all'educazione del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2001; Z. Bauman, Conversazioni sull'educazione, a cura di R. Mazzeo, Erikson, Trento 2012: H. G. Gadamer, L'eredità dell'Europa, Einaudi, Torino 1991.
    4 Cfr. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 2002, vol. I, p. 164.
    5 Cfr. P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977, pp. 225-281.
    6 Cfr. M. Montessori, Il segreto dell'infanzia, Garzanti, Milano 1986; L. Milani, Esperienze pastorali, L.E.F., Firenze 1957; E. Balducci, L'insegnamento di don Lorenzo Milani, Laterza, Bari 2002; P. Freire, L'educazione come pratica della libertà, Mondadori, Milano 1973; D. Dolci, Esperienze e riflessioni, Laterza, Bari 1974; M. Lodi, C'è speranza se questo accade al Vho, Einaudi, Torino 1974; G. Rodari, La grammatica della fantasia, Einaudi, Torino 1975. In merito rimando a quanto ho approfondito nel volume Il dono del senso. Filosofia come ermeneutica, Cittadella, Assisi 1999.
    7 Cfr. G. Ferretti, R. Mancini (a cura di), Essere umanità. L'antropologia nelle filosofie del mondo, EUM, Macerata 2007.
    8 Cfr. M.C. Nussbaum, Coltivare l'umanità, Carocci, Roma 1999.
    9 Per un ripensamento complessivo della posizione dei cristiani oggi rimando al volume di G. Ferretti, Essere cristiani oggi, LDC, Torino 2011.
    10 M. Scheler, L'eterno nell'uomo, Bompiani, Milano 2009.
    11 Cfr. A.J. Heschel, Chi è l'uomo?, SE, Milano 2005.
    12 Qualcosa di analogo ricorda Paul Ricoeur nel sottolineare "il desiderio di vivere bene con e per gli altri" (P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1990, p. 342).
    13 E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1980, p. 49.
    14 Cfr. L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971.
    15 Cfr. M. Zambrano, Chiari del bosco, Bruno Mondadori, Milano 2004. A riguardo rinvio al mio volume Esistere nascendo. La filosofia maieutica di María Zambrano, Cittadella, Assisi 2012.
    16 In proposito si può vedere la sintesi efficace proposta da David J. Wallin nel libro Psicoterapia e teoria dell'attaccamento, il Mulino, Bologna 2009. Dal punto di vista filosofico si veda ad esempio il saggio di K. Löwith, L'individuo nel ruolo del co-uomo, Guida, Napoli 2007.
    17 Cfr. R. Guardini, Accettare se stessi, Morcelliana, Brescia 1992.
    18 Gandhi richiama costantemente l'attenzione su questo cuore del cammino educativo: cfr. M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino 1996.
    19 In merito rimando a quanto ho approfondito nel libro La buona reciprocità. Famiglia, educazione, scuola, Citadella, Assisi 2008.
    20 Cfr. G. Girardi, Educare: per quale società?, Cittadella, Assisi 1975.
    21 M. Buber, Sull'educativo, ne Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 168.
    22 Ivi, p. 175.
    23 Cfr. K. O. Apel, M. Niquet, Diskursethik und Diskursanthropologie, Alber, Freiburg - München 2002.
    24 Cfr. H. Arendt, Sulla violenza, Mondadori, Milano 1971.
    25 Cfr. E. Mounier, Il personalismo, A.V.E., Roma 1964; G. Marcel, La dignità umana e le sue matrici esistenziali, LDC, Torino 1983.
    26 Cfr. F. Montuschi, Fare ed essere. Il prezzo della gratuità nell'educazione, Cittadella, Assisi 2002
    27 Cfr. Sir 48, 10; Mal 3, 24; Lc, 1, 17. Sul tema dell'ascolto degli adulti verso i più piccoli cfr. F. Montuschi, Diventare piccoli per essere grandi, Cittadella, Assisi 2011.
    28 Cfr. Ph. Meirieu, Pédagogie: le devoir du résister, Éditions Sociale Frangaise, Paris 2007.
    29 H. Arendt, La crisi dell'istruzione, in Ead., Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, p. 255.

    (da: Mario Signore, a cura, Ripensare l'educazione, 2013, Pensa MultiMedia editore, pp. 61-68)

     


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