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    Scuola tecnologia

    società

    Giuseppe O. Longo [1]

     

    1. Premessa

    Viviamo in un'epoca di transizione e di trasformazione. Tutte le epoche lo sono state, ma oggi questa dinamica è forse più rapida e radicale che mai. Tramite l'ibridazione con la tecnologia cambia la natura umana, tramite la genomica l'uomo cessa di riprodursi e comincia a prodursi. Cambia il modo di fare i figli, di allevarli e di educarli. Cambiano gli strumenti della comunicazione, cambia il modo di apprendere e di insegnare, cambia la nozione di tempo, la percezione dello spazio, il concetto di realtà. Cambia il nostro rapporto con il resto del mondo vivente e si accentua il nostro distacco dall'ambiente. Tutti questi cambiamenti moltiplicano le scelte, offrono possibilità nuove, esaltano la creatività e insieme estendono l'omologazione e provocano lacerazioni e disadattamenti. Il lessico subisce trasformazioni e meticciamenti profondi. E la rappresentazione mediatica di tutti questi cambiamenti accelera le mutazioni e genera un "doppio" spettacolare del mondo che a volte è più reale del mondo reale. Ma in questa potente dinamica trasformativa le velocità di cambiamento non sono uniformi: certe componenti mutano più rapidamente di altre e questa disuniformità genera tensioni, disagi, conflitti e sofferenze. Ma la transizione è così rapida che non ci permette la messa a fuoco e continuiamo a vedere il futuro con gli occhi, i parametri e i valori del passato. Ciò provoca un disorientamento e una sensazione di inadeguatezza che possono sfociare in angoscia.

    2. Scuola e società

    Il caso della scuola è emblematico. Da una parte essa è, o dovrebbe essere, una sorta di organo di riproduzione della società, che, trasmettendo la cultura da una generazione all'altra, ne garantisce la continuità e la stabilità: la scuola tende a conservare il patrimonio culturale, evitando fluttuazioni troppo rapide e dirompenti. Quindi, e oggi più che mai, l'evoluzione della scuola è lenta rispetto all'evoluzione del mondo circostante. D'altro canto la scuola interagisce con la società di cui fa parte, ed è sollecitata a incorporare e a trasmettere le novità culturali che vi nascono e vi si propagano e, soprattutto, è chiamata a rendersi utile allo sviluppo (specie economico) della società.
    La scuola è al centro di un'altro nodo: essa è per tradizione il luogo deputato per la trasmissione del sapere codificato. Oggi tuttavia le fonti della conoscenza si sono moltiplicate e differenziate: la televisione, i telefonini e soprattutto internet, con le sue innumerevoli sfaccettature (il web, i blog, le chat ...), praticano nei confronti dei libri scolastici e degli insegnanti una concorrenza agguerrita e vincente (si vedano gli effetti sull'evoluzione della lingua). Le tecnologie della comunicazione stanno assumendo un valore preponderante nella formazione identitaria dei giovani. Rispetto alla tendenziale seriosità della scuola, che spesso è percepita dallo studente come una greve imposizione di passività e di attenzione, i media sono vivaci, coloriti, invitano dolcemente alla pigrizia (la televisione) o al contrario stimolano tutti i sensi titillandoli con l'interattività e la multimedialità e ponendo l'individuo al centro del processo comunicativo (nel caso della rete). Tutto ciò, tra l'altro, ha l'effetto di distogliere i più giovani dalla scienza intesa come metodo argomentativo e rigoroso per la costruzione di teorie.
    La questione di fondo diviene allora: deve la scuola opporsi alle perturbazioni culturali esterne, mantenendo quei filtri che smorzano le novità, accettando solo le innovazioni collaudate e di lungo periodo? Oppure deve innestarsi in presa diretta sulla società, adeguandosi alle sue tendenze e diventandone una cinghia di trasmissione?
    In altri termini: che rapporto c'è, o ci dovrebbe essere, tra la scuola (o la cultura in senso tradizionale) e il resto della società (produzione, mercato, economia, tecnologia e via dicendo)? Quesiti formidabili, che non possiamo certo risolvere qui, e nemmeno affrontare in modo articolato. Possiamo tuttavia osservare che la prima posizione, di resistenza, è resa molto difficile dalla globalizzazione economica: se la scuola non si fa volano della produzione, la posizione economica del Paese sulla scena mondiale s'indebolisce. Le componenti produttive invocano quindi un incremento delle ore dedicate alle materie tecno-scientifiche e, a livello più alto, un incremento della ricerca finalizzata. Ciò comporta una sostanziale rinuncia alla "missione" culturale della scuola (fatta salva la possibilità di un recupero culturale attraverso istituzioni vicarianti, come scuole private, accademie, circoli esclusivi) a vantaggio di un impegno di carattere economico e utilitaristico.
    Nonostante le difficoltà la tentazione di un atteggiamento reazionario è forte: di fronte allo spappolamento della cultura di ieri, alla concorrenza dei media, alle spinte efficientistiche, alcuni vedono nel ritorno all'antico, solido e collaudato, l'unica strada possibile per restituire dignità e sicurezza alla scricchiolante istituzione scolastica. Ma c'è da chiedersi se un recupero puro e semplice sia possibile nell'ambito di un contesto che nel frattempo ha subito trasformazioni imponenti. Tutto è cambiato e, per una sorta di legge coevolutiva, deve cambiare anche la scuola: ma come?
    Non lo sappiamo; molti degli "ammodernamenti" introdotti negli ultimi decenni sotto la spinta di un pedagogismo disorientato e velleitario si sono dimostrati deleteri: l'insiemistica invece delle tabelline, per cui gli scolari non hanno capito nulla degli insiemi e in compenso non sanno fare i conti; la soppressione dell'apprendimento a memoria, che ha privato i discenti (e taluni docenti) di un prezioso serbatoio lessicale; le fumosità verbali delle valutazioni, che si vorrebbero "oggettive" e sono soltanto esercizi di sofistica; la "didattica" teorica, che ha trasformato gli insegnanti in cavie e passacarte degli "esperti"; l'introduzione del "laboratorio" anche nelle aree umanistiche; l'attribuzione dei fallimenti individuali alla "responsabilità del sistema scolastico"; il rigoglioso imperversare di certi scienziati del vuoto pneumatico che, con la benedizione dei programmi ministeriali, hanno contribuito al trionfale regresso delle conoscenze e delle abilità di utilità quotidiana; la pedissequa adozione delle "nuove" tecnologie ... Di qui la necessità di far marcia indietro, ma in quale direzione?
    Non ho soluzioni certe. Tuttavia, per cominciare a formulare qualche risposta, è importante, credo, cercar di capire com'è cambiato, nel frattempo, il contesto in cui la scuola è inserita e con il quale interagisce. Questo contesto è fortemente segnato, tra l'altro, dallo sviluppo tecnologico, e di tecnologia voglio quindi parlare.

    3. Uomo e tecnologia

    Quando si considera il rapporto fra uomo e tecnologia, spesso si fa la tacita ipotesi che si tratti di due entità distinte e, inoltre, che l'evoluzione della tecnologia sia molto rapida, mentre quella umana sia lentissima o addirittura ferma. Qui partirò da premesse molto diverse: da un canto la distinzione tra uomo e tecnologia non è netta, poiché fin dalla comparsa di homo sapiens sapiens la tecnologia, intesa come la costruzione e l'uso di strumenti atti a modificare il mondo e a conoscerlo, ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella formazione della nostra essenza; d'altro canto l'evoluzione della tecnologia si è via via affiancata all'evoluzione biologica. Le due evoluzioni si sono poi strettamente intrecciate in una sorta di evoluzione "bioculturale" o "biotecnologica" che costituisce la premessa per la comparsa di una nuova (pseudo) specie, l'homo technologicus, un simbionte in cui si compenetrano intimamente biologia e tecnologia. Inoltre i simbionti individuali si stanno collegando a rete tra loro per formare - almeno sotto il profilo cognitivo - una sorta di creatura planetaria, la quale potrebbe costituire un nuovo stadio evolutivo di tipo supersocietario. Di questa creatura planetaria internet è il primo embrione.
    Da sempre il corpo umano è stato ampliato da protesi e apparati "artificiali" che ne hanno esteso e moltiplicato le possibilità d'interazione, in senso sia conoscitivo sia operativo. Tanto che non è facile stabilire dove termini il corpo: dire che esso è racchiuso nei suoi limiti "topologici", segnati dalla pelle, è - sotto il profilo comunicativo e operativo - arbitrario e sostanzialmente errato.
    Fino a tempi recenti, l'evoluzione biotecnologica è stata lenta e poco visibile, tanto da autorizzare, in molte filosofie e religioni, una visione fissista della natura umana. Oggi, per il continuo e rapido potenziamento della tecnologia, è piuttosto evidente che l'uomo si evolve di continuo: innestandosi nell'uomo, ogni nuovo apparato dà luogo a un'unità evolutiva (un simbionte) di nuovo tipo, in cui si attuano potenzialità - percettive, cognitive e attive - inedite e a volte del tutto impreviste, e di questa coevoluzione ibrida non è possibile indicare i limiti.
    Forse siamo solo all'inizio di un cammino che ci porterà molto lontano, così come ci ha portato molto lontano il cammino che abbiamo alle spalle. In questa prospettiva, di tipo storico-evoluzionistico, è importante saper distinguere l'essenzialità imprescindibile della tecnologia, che la rende destino ineludibile dell'uomo, dal fatto oggi evidentissimo che essa rischia di squilibrare il simbionte. Lo squilibrio si presenta almeno a due livelli: uno, che attraversa ciascun singolo simbionte, riguarda il disadattamento tra la componente biologica antica e le nuove strutture tecnologiche. L'altro è il livello planetario: i processi produttivi umani entrano sempre più in conflitto con i cicli biologici e con i processi ambientali, determinandone una crisi ormai palese e preoccupante.
    Aggiungo che le leggi evolutive che governano la biologia e quelle che governano la cultura (e la tecnologia) sono piuttosto diverse. In biologia opera il meccanismo darwiniano di mutazione e selezione, mentre nella cultura operano anche meccanismi diversi, di tipo sostanzialmente lamarckiano, che prevedono l'ereditarietà dei caratteri acquisiti e che, bisogna pur dirlo, a noi appaiono più naturali e intuitivi: non c'è alcuna barriera tra l'adattamento immediato alla novità e il radicamento profondo del cambiamento nella struttura della società. Rispetto alla lentezza dell'evoluzione biologica, l'evoluzione bioculturale è segnata da mutamenti sempre più rapidi e affannosi, come se mancassero retroazioni negative equilibratrici a frenarne la corsa. Questa rapidità di acquisizione e incorporazione si accompagna a una forte instabilità e provoca ancora una volta pericolosi squilibri, perché non consente l'adattamento graduale (della componente biologica) dell'uomo e in genere dell'ambiente alle novità.
    Il carattere "essenziale" (direi "ontologico") della tecnologia deriva dal fatto che l'adozione di ogni tecnologia particolare diviene ben presto irreversibile. La tecnologia cala in profondità, si radica nella fisiologia della società che la crea per modificarla in modo più o meno esteso. Inoltre una tecnologia tende a esplicitare fino in fondo tutte le sue potenzialità, nel bene e nel male. E si noti che queste valutazioni ("bene" e "male") andrebbero sempre rapportate a determinati valori, che comunque appartengono alla situazione che precede l'introduzione della tecnologia e quindi, in genere, non riguardano più la cultura da essa trasformata. Se non si tiene presente la prospettiva storica, il giudizio di valore rischia di ridursi a un'acritica posizione ideologica "conservatrice" o "progressista" priva di senso.

    4. Tecnologia dell'informazione e cultura

    E opportuno sottolineare che nella seconda metà del Novecento la natura delle macchine è cambiata radicalmente: mentre le macchine di un tempo trasformavano materia o energia, le nuove macchine trasformano dati e informazioni. Le nuove macchine (o meglio i nuovi simbionti uomo-macchina) "lavorano" le idee così come le macchine tradizionali lavorano il legno, il ferro o il vapore. Le potremmo chiamare "macchine della mente". L'avvento di queste macchine ha esteso e accelerato il processo di estroflessione delle capacità mentali: questo processo, cominciato millenni fa con l'emissione delle parole, intensificatosi con l'invenzione della scrittura e poi della stampa, subisce ora un'ulteriore accelerazione. Infatti vengono sempre più estroflesse non solo le capacità di memoria ma, tramite l'automazione di molte procedure simboliche, anche le capacità di elaborazione dell'informazione. E un processo di "delega tecnologica", mediante il quale trasferiamo, in tutto o in parte, molte delle nostre capacità alle macchine. Questa delega ha effetti cospicui.
    Per esempio in matematica l'introduzione dei calcolatori ha messo in crisi la nozione classica di dimostrazione e ha consentito lo sviluppo di intere nuove branche (la teoria degli automi, i linguaggi formali, la teoria della computazione), che si distinguono da quelle tradizionali per l'importanza attribuita alle risorse (tempo, denaro, potenza di calcolo), ai procedimenti per raggiungere i risultati e alla loro precisione.
    In fisica è stato proprio grazie al calcolatore che si sono scoperti gli effetti di complessità che hanno portato a una profonda revisione concettuale dei sistemi dinamici e alla formulazione teorica del cosiddetto caos deterministico. Il calcolatore ha consentito uno sviluppo straordinario della simulazione, condizionando notevolmente la nostra percezione del tempo.
    L'intelligenza artificiale simbolica ha avviato un'importante ricerca di epistemologia sperimentale improntata al riduzionismo (di cui, puntualmente, ha poi scoperto le limitazioni). La realtà virtuale ci promette fantastiche passeggiate in un ciberspazio di cui non si conoscono ancora né i confini né il paesaggio e ha inaugurato una profonda analisi del vecchio concetto di "realtà" che sembrava così ovvio e scontato, mettendo in questione il concetto di corpo e di esperienza sensoriale diretta.
    Infine, il surriscaldamento comunicativo ha portato, e sempre più porterà, alla formazione di una sorta di sistema nervoso del pianeta, composto di una rete le cui maglie mettono in comunicazione macchine informatiche ed esseri umani.
    La formazione di questa infosfera segna una crescente prevalenza della mente sul corpo: sembra un ritorno del "cogito" cartesiano, in forme subdole e implicite. Non dimentichiamo che la posizione di Cartesio era basata su una grande e devastante rimozione dell'inconscio e del territorio umbratile del sogno e dell'istintualità radicata nel corpo, cioè di quel luogo oscuro e baluginante cui tendiamo di continuo: il luogo della germinazione prima, dei defunti, delle premonizioni, dei consanguinei, dei figli, del pensiero primario. Un luogo dal quale ci siamo sforzati di uscire per riscattarci dalla condizione umana, ma che non cessa di chiamarci con una voce che si ode quando si attenua o tace il frastuono del mondo e delle macchine. È, questo luogo che la razionalità rifiuta, il punto delicato e sensibile in cui incontriamo noi stessi per diventare ciò che siamo, e riflette il carattere elusivo e peculiare della nostra umanità. Dobbiamo chiederci che cosa comporti il distacco dalla nostra linea germinale. La ricostruzione formale del mondo significherebbe appunto un rifiuto della nostra storia psicobiologica, del corpo e delle sue istanze fondamentali, una svalutazione del pensiero primario e del nostro rapporto psicofisico con il resto del mondo, di cui fanno parte gli altri umani, gli animali, le piante ... Teniamo presente che non tutto ciò che è importante si può razionalizzare e non tutto ciò che si può razionalizzare è importante.

    5. La delega tecnologica

    All'interno della creatura planetaria si manifesta uno scollamento progressivo tra le capacità informative umane, che sono più o meno costanti da migliaia di anni, e quelle delle macchine, che aumentano con velocità impressionante. È quindi necessario un ricorso crescente alla delega tecnologica: l'inadeguatezza crescente dei nostri sensi e delle nostre capacità ci spinge ad affidarci sempre più alla tecnologia, e dal piano dell'analisi e dell'azione la delega si potrebbe estendere via via al piano della decisione, rendendo fra l'altro problematica l'attribuzione delle responsabilità, almeno fino a quando le macchine non avranno personalità giuridica.
    Nel nuovo stadio supersocietario l'intelligenza e le competenze manifesteranno un carattere ancora più sistemico e distribuito di oggi; inoltre gli scambi d'informazioni tra uomini e macchine diventeranno, se non preponderanti, certo cospicui rispetto agli scambi tra le persone.
    Ma questa nuova creatura planetaria è soggetta a limitazioni inattese: la facilitazione comunicativa prodotta dalla tecnologia (oggi comunicare è semplicissimo e non costa quasi nulla) può portare a un flusso di dati così intenso da paralizzare il sistema per un semplice effetto di accumulo o per riverberazioni patogenetiche (si pensi alla moltiplicazione dei virus informatici). Paradossalmente il mondo privo di ombre della comunicazione totale potrebbe non essere propizio alla comunicazione: non è casuale che la maggior parte dei processi informativi di una società restino sconosciuti a quasi tutti i suoi membri o, nel caso di un organismo, restino a livello di inconsapevolezza. Ciò dovrebbe metterci in guardia contro l'eccesso di trasparenza "democratica" all'interno di qualunque organizzazione: questo eccesso si tradurrebbe in un'alluvione di burocrazia (circolari, riunioni, momenti di valutazione, decisioni collegiali e via dicendo) che provocherebbe un contemporaneo decremento dell'attività specifica dell'organizzazione, fino alla paralisi.
    Per un altro verso, il dilagare del fenomeno comunicativo fa riemergere il sostrato mitologico profondo dell'informazione, che si manifesta in un'aspirazione all'onniscienza e, per il suo tramite, all'onnipotenza. Ma il mito dell'onniscienza resta tale: per quanto ricca sia la biblioteca, per quanto vasta l'enciclopedia, per quanto sterminata la banca di dati, ciò che ogni individuo ne può trarre è una quantità d'informazione che non supera le sue limitate capacità. Tutto il resto è superfluo, anzi rappresenta un eccesso che può portare allo smarrimento, all'ansia, all'angoscia. Oppure a scambiare il possesso dell'enciclopedia con la padronanza del suo contenuto, lo smistamento dei dati con il dominio della conoscenza. Questo fenomeno delinea e accompagna il passaggio dall'intelligenza individuale alla sua estroflessione collettiva (o meglio connettiva).

    6. Scienza e tecnologia

    È interessante notare che gli strumenti tecnologici sono usati con disinvoltura, specie dai più giovani, ma questa confidente manipolazione si accompagna a una profonda incomprensione del mondo tecnologico: quasi tutti usano mezzi, sistemi e dispositivi di cui non conoscono affatto il funzionamento intimo, né vogliono conoscerlo, adottando così un atteggiamento di tipo "magico". Infatti la conoscenza tecnica è scesa di livello, dalla zona della consapevolezza cosciente e tendenzialmente razionale a una zona analoga a quella dell'inconsapevolezza dei meccanismi corporei. Ciò avviene nel quadro di una profonda mutazione della cultura e della conoscenza. Rispetto all'apprendimento, tutto ciò comporta un rafforzamento dell'imitazione, tipico della bottega rinascimentale, rispetto alle forme libresche e teoriche tipiche della scuola più recente.
    La teoria, come momento fondante della conoscenza, ha perso via via importanza. È accaduto infatti che nella seconda metà del Novecento la velocità dello sviluppo tecnico ha superato quello della scienza e sono stati costruiti parecchi sistemi che funzionano più o meno bene, ma per i quali non esiste una teoria scientifica che ne spieghi il funzionamento (per esempio il software, Internet, le biotecnologie ...). Nei confronti della descrizione, spiegazione, previsione e costruzione degli strumenti la funzione essenziale che, dai Greci in poi, le teorie hanno avuto nella cultura occidentale è via via sostituita da un atteggiamento pratico e manipolativo che ricorda il bricolage. Questo trapasso ha portato a una frammentazione della cultura che è rispecchiata nella struttura reticolare del web. E ha portato anche a un calo di iscrizioni nelle facoltà scientifiche, ancora percepite come templi della teoria.
    Da sistematica e organica, la cultura diviene pletorica e parcellizzata, si alimenta dell'enorme capacità delle banche dati e dell'illimitata velocità degli elaboratori. Non più apprendere, dunque, ma documentarsi, non più studiare ma consultare, non più organizzare il sapere intorno a concetti e idee di fondo, ma accumulare dati relativi a parole chiave.

    7. La comunicazione filtrata

    È importante chiarire che ogni tecnologia è un filtro, che potenzia certe capacità umane e ne indebolisce o sopprime altre. I fautori della tecnologia sono portati a sottolinearne il carattere progressista e migliorativo. I detrattori, all'opposto, tendono sempre a mettere in luce gli aspetti negativi di ogni strumento. La verità, come spesso accade, sta nel mezzo. L'adozione di una tecnologia importante, per esempio di una tecnologia mentale, che ha un carattere fortemente invasivo anche se immateriale, ci permette certamente di fare (e di capire) meglio certe cose che prima facevamo o capivamo peggio; addirittura ci permette di fare cose che non ci sognavamo nemmeno di poter fare. Ibridandoci con questi strumenti scopriamo di possedere capacità latenti, sorprendenti e inattese. Una tecnologia mentale piuttosto antica, la matematica, ci ha consentito di scoprire ed esaltare la nostra capacità di astrazione formalistica, che oggi si è spinta molto avanti. In seguito, grazie al computer, il nostro modo di far matematica ha subito cambiamenti profondi...
    Allo stesso tempo, tuttavia, altre nostre capacità vengono indebolite, se non eliminate o del tutto atrofizzate. Tutto ciò conferma la natura dinamica e imprevedibile della trasformazione operata dalla tecnologia sull'uomo, un uomo sempre in cambiamento, che non è mai lo stesso uomo e che perciò, a rigore, non dovrebbe essere chiamato sempre con lo stesso nome.
    L'azione di filtro della tecnologia è evidentissima quando si ha a che fare con le macchine della mente perché comporta un mutamento nella natura della comunicazione umana. La vasta gamma dei nostri strumenti comunicativi, sviluppati nel corso dell'evoluzione biologica e poi culturale, deve venire a patti con la relativa rigidità dei calcolatori e delle reti. Sono gli uomini, più flessibili, a doversi adattare alle macchine, e non viceversa: quindi la comunicazione umana tende a somigliare a quella meccanica, tende a diventare più efficiente e meno sfumata, più logica e meno emotiva. Questo mutamento potrebbe causare sofferenza, poiché l'eliminazione di certe caratteristiche comunicative "naturali" ad opera degli strumenti artificiali può essere avvertita come un impoverimento del ricco e articolato fenomeno della comunicazione umana (verbale ma anche non verbale, specie corporea).
    La comunicazione si articola in codici flessibili, aperti in vario modo a orizzonti cognitivi, affettivi e collaborativi. Ed è proprio la volontà di collaborazione dei parlanti che ne costituisce forse l'aspetto più caratteristico e significativo: grazie a questa volontà e animati da essa, i dialoganti esplicano un controllo e un continuo aggiustamento dell'interazione, che porta alla condivisione di regole sempre diverse e alla costruzione di convergenze mutevoli, di volta in volta adatte agli scopi della comunicazione. L'aspetto collaborativo della pratica linguistica (che trova un suo correlato fisiologico nei cosiddetti neuroni specchio) si esplica in una continua ridefinizione e reinterpretazione, da parte dei dialoganti, dei dati e delle relazioni (dati e relazioni che non sono solo interni alla lingua, ma anche esterni: per esempio la relazione tra gli stessi dialoganti). Emergono così le componenti extra-grammaticali ed extra-linguistiche della comunicazione, che è fatta non solo di dati scambiati ma anche, e soprattutto, di intenzioni e di progetti, di scopi e di aspirazioni che riguardano il mondo dei soggetti, cioè un contesto quanto mai ampio e articolato.
    Per questo è fondamentale che, nella relazione tra docente e discente, si apra il canale della collaborazione empatica, dell'interesse affettivo e umano, della relazione personale, canale che è sempre bidirezionale, anche quando il discente tace: per quel canale passano poi tutte le informazioni, tutti i dati, tutte le nozioni. Se quel canale non si apre, non passa nulla.
    Questi pochi cenni fanno intuire le differenze tra la comunicazione umana e la comunicazione tra uomo e macchina oppure tra uomo e uomo attraverso la macchina. Quest'ultima è più o meno uno scambio di informazioni, quindi è un modello poverissimo del caldo e ricco fenomeno della comunicazione umana. Che modelli del genere siano stati costruiti e presi sul serio per molti anni dovrebbe farci riflettere sulla potenza delle metafore: la doppia metafora del cervello-calcolatore e del calcolatore-cervello, che non ha ancora esaurito la sua spinta di suggestione, se da una parte ha consentito progressi importanti nella comprensione di certi fenomeni e nella costruzione di programmi utili, dall'altra, come spesso accade nelle costruzioni formali, ha costretto la ricchezza dei fatti osservati nella povertà dei modelli.
    Si può dunque capire quanto l'interazione uomo-computer, e ancor più quella tra bambino e computer, condiziona le abilità comunicative ereditarie e il loro sviluppo. Quando viene al mondo, il bambino è un centro comunicativo di enorme ricchezza non solo potenziale ma anche attuale: già da piccolissimi i bambini imitano, si esprimono, fanno teatro, recitano fin dalla culla. Sono così perché hanno ereditato una capacità che per l'uomo è essenziale: la capacità di comunicare in tutte le sue variegate e delicatissime sfumature. In particolare sanno "mettersi nei panni dell'altro" e anticipare ciò che l'altro sta per dire o fare. Ma nel momento in cui i bambini si ibridano con la tecnologia, cosa che avviene sempre più precocemente, queste loro capacità comunicative ed espressive cominciano a essere filtrate e quindi, in qualche misura, vengono indebolite. Il bambino che venga indirizzato al computer o a qualunque altra tecnologia sottile e importante, diventa tutt'uno col computer e quindi non fa più ciò che faceva quando si ibridava, per esempio, con i libri. Acquista qualcosa, ma perde qualcos'altro.

    8. Tecnologia e complessità

    L'interazione con l'informatica tende a esaltare le capacità analitiche e comunicative a scapito di quelle espressive e poetico-teatrali. Nel mondo artificiale che ci stiamo costruendo intorno, gli aspetti formali dell'attività mentale e del sapere sono sempre più importanti; vi è addirittura la tendenza a identificare l'intelligenza umana con le sue componenti logiche. Ciò è dovuto alla trasformazione del nostro ambiente: gli aspetti razionalcomputanti dell'intelligenza umana, che in passato avevano scarso valore di sopravvivenza, sono diventati sempre più importanti, e proprio per effetto delle modifiche indotte nell'ambiente dalle "tecnologie della mente": la scrittura, la stampa, il calcolatore, la rete, la televisione ...
    Allora ci dobbiamo porre la seguente domanda: cosa vogliamo che diventino i nostri figli? Vogliamo che sappiano interagire bene con le macchine? Vogliamo che sappiano interagire bene con gli altri? Vogliamo che facciano l'una e l'altra cosa? E poi non dobbiamo chiederci solo che cosa vogliamo noi, dobbiamo anche chiederci che cosa vogliono loro, i bambini, altrimenti si rischia di cadere in un odioso paternalismo autoritario. Ma capire o immaginare che cosa sia meglio per un altro non è facile. Tuttavia qualche responsabilità gli educatori se la devono assumere. Per esempio debbono chiedersi quanto sia da incoraggiare la tendenza al distacco (anzi alla contrapposizione) tra uomo e natura, che porta a considerare l'ambiente come un territorio da sfruttare o depredare. Non si dovrebbe piuttosto insistere su un'educazione agli aspetti sistemici, all'apprezzamento della complessità, della flessibilità omeostatica e della diversità che individui i limiti (e i rischi) della semplificazione e del riduzionismo di stampo cartesiano? Se viviamo in un mondo segnato dall'incertezza, non dovremmo anche insegnare ad affrontare le situazioni incerte senza la supponenza di chi vuol tutto ricondurre a modelli deterministici? Le nuove conquiste del pensiero e la nascita di concetti nuovi potrebbero e dovrebbero trovar posto nella scuola: potrebbero davvero contribuire a quella svolta culturale e quella rivalutazione etica dell'agire umano che da decenni s'invoca come unico antidoto all'aggressività e alla spoliazione dell'ambiente. La domanda di fondo diviene: come può la tecnologia informatica aiutarci nel riconoscere la complessità e nel valorizzare la diversità?
    Se la scuola dev'essere matrice di cultura, non può limitarsi a ripetere stancamente le ricette di un tempo, e adeguarsi ai cambiamenti non significa necessariamente diventare un supporto al modello di "sviluppo" produttivo: può significare anche vivificare la cultura con forti iniezioni di quel pensiero creativo che gli uomini più avvertiti (scienziati, filosofi, scrittori e artisti) stanno coltivando.
    In tutto questo discorso non si può ignorare il problema del senso e il radicamento della comunicazione nel sostrato emotivo. Di fronte alla vastità e complessità del mondo dato, gli umani hanno sempre cercato di ricostruire la realtà, o una sua parte, per creare un ambiente a loro misura e dotato di senso. Per compiere questa ricostruzione, gli uomini sono sempre ricorsi agli strumenti e ai linguaggi dell'arte, del mito, della poesia, della narrazione, della scienza e della tecnologia. Homo sapiens ricostruisce il mondo soprattutto secondo criteri di economia o addirittura di sopravvivenza. Ma la ricostruzione artistica o poetica contiene anche componenti emotive, espressive, etiche ed estetiche e bisogni, spirituali, religiosi e simbolici che non si possono ricondurre facilmente a motivazioni materiali o utilitaristiche. L'uomo ha bisogno di esprimere la sofferenza, l'amore, la bellezza, il mistero della vita, la terribile realtà della nascita e della morte. Questi sentimenti e bisogni scaturiscono dalla nostra immersione nel mondo e hanno profonde radici nell'evoluzione biologica e culturale. Potrà, e in che misura, condividerli homo technologicus? E quali saranno i suoi nuovi bisogni espressivi e i suoi inimmaginabili sentimenti? Quali storie si racconterà? Questi interrogativi devono essere affrontati per cominciare a capire che tipo di società (e di scuola) si sta preparando.

    9. La sofferenza del simbionte

    La retroazione trasformativa delle tecnologie sull'uomo è evidente: ma, come ho accennato, per effetto di questa ibridazione, i vari aspetti (cognitivo, emotivo, percettivo, fisiologico, fenotipico, genotipico) dell'umano mutano con velocità diversa. Ci sono caratteristiche, per esempio quelle emotive ed espressive, che manifestano un'evoluzione molto più lenta di altre, per esempio quelle cognitive. Sono le prime che, se da una parte autorizzano alcuni a parlare di "natura umana" come di un dato immutabile, dall'altra causano i problemi più gravi e le sofferenze più acute in seguito all'invasione della tecnologia: è in nome di queste caratteristiche quasi immutabili che molti inclinano alla prudenza, se non al rifiuto, nei confronti dell'innovazione tecnologica. Nonostante l'effetto trasformativo che le tecnologie hanno sulla natura umana, alcuni continuano insomma ad aderire a una visione fissista e a difenderla.
    Molti filosofi poi parlano preoccupati di una disumanizzazione dell'uomo a causa delle tecnologie. Ma se le tecnologie fanno parte intrinseca dell'uomo, non possono disumanizzarlo. Il problema è un altro, e in un certo senso è ancora più serio: il problema è che questo simbionte di biologia e tecnologia vive in uno squilibrio permanente e crescente tra componente biologica e componente tecnologica. È all'interno di questa unità che bisogna individuare e risolvere i problemi, in particolare quelli che si manifestano alla superficie di separazione tra biologia e tecnologia. Dobbiamo insomma riequilibrare il nostro rapporto con la tecnologia sia a livello individuale sia a livello planetario.

    10. Modifiche cerebrali

    Poiché sono le caratteristiche cognitive e razionali del simbionte homo technologicus quelle che oggi mutano più rapidamente, la nostra attenzione si concentra su di esse, tanto che è diffusa la tendenza a trascurare gli aspetti non razionali dell'intelligenza umana, in particolare quelli narrativi ed emotivi. Ma questa tendenza offre dell'intelligenza un quadro molto parziale. Se si trascurano le altre dimensioni dell'intelligenza umana, l'inevitabile confronto tra uomo e macchina si svolge sempre più sulla pista formale, dove ormai la macchina prevale, anzi costringe l'uomo ad abdicare: assistiamo infatti al paradosso che proprio nel momento in cui le attività razional-computanti tendono a prendere il sopravvento su quelle espressive, esse vengono di fatto delegate alla macchina, che le svolge meglio degli umani.
    I segni di questa abdicazione sono ormai evidenti: come possono testimoniare gli insegnanti di più lunga esperienza, le capacità computazionali, logiche e argomentative dei giovani stanno subendo un declino progressivo perché le elaborazioni logico-formali sono affidate sempre più spesso alla macchina. Non è un fenomeno superficiale, perché questa delega di competenze corrisponde a una trasformazione cerebrale che conferma la simbiosi uomo-tecnologia. L'ibridazione tra uomo e macchina ha conseguenze importanti sul piano fisiologico: nei bambini che hanno una forte interazione precoce con la televisione e con il calcolatore, le connessioni cerebrali si sviluppano in modo diverso rispetto ai bambini che esercitano un'intensa attività di lettura e scrittura o un'intensa attività corporea. Oggi nella scuola vengono a contatto due generazioni (gli insegnanti e gli allievi) che, per le loro diverse esperienze cognitive precoci, hanno strutture cerebrali diverse e perciò dialogano con grande difficoltà. Questa è, credo, una delle principali ragioni della crisi della scuola.

    11. Navigare a vista

    Che fare dunque delle macchine e degli strumenti che la tecnologia ci offre con insistenza? Macchine sempre più economiche, potenti, veloci ... Abbiamo davvero bisogno di tutta questa potenza? Chi ci insegna a sfruttarla? È una nostra aspirazione autentica, usare questi dispositivi, oppure c'è, sotto sotto, una spinta imitativa e concorrenziale, per non parlare della pressione commerciale e pubblicitaria? Alcuni si arroccano in difesa, e aspettano stoicamente che il tempo passi per andare in pensione e poter uscire dall'arena, altri si gettano nella mischia cercando di fare con l'informatica, in modo goffo e faticoso, ciò che facevano meglio prima. Altri impiegano le risorse della tecnologia a mano a mano che ne sentono il bisogno o che ne scoprono i vantaggi ... Non ci sono risposte uniche e definitive, emanate da un'autorità benevola e infallibile: dobbiamo inventarcele giorno per giorno, le risposte, usando coraggio e flessibilità, ricorrendo alla solidarietà e alla collaborazione, elargendo consigli senza imporli, elaborando ciascuno la propria esperienza e offrendola agli altri pur sapendo che il trasferimento di esperienza è una pratica (quasi) impossibile.
    Questo comportamento "minimo", questa navigazione a vista, urta contro il desiderio di avere ricette particolareggiare e onnicomprensive, che prevedano tutti i casi. Ma se si rinunciasse alla flessibilità in nome della codificazione definitiva si rischierebbe di ingessare il funzionamento di qualunque organismo. Tra il fumo e il cristallo vi sono strutture semifluide, che sanno organizzarsi in modo da ricostituire un loro equilibrio dopo una perturbazione, senza rinunciare a un minimo di permanenza e ciò grazie alla loro (parziale) autonomia e a certi valori primari, consistenti nella preservazione dell'integrità (delle parti vitali, a scapito di quelle non vitali) e dell'equilibrio (mutevole e dinamico). Questa capacità automedicatrice, omeostatica, è in fondo la caratteristica principale dei sistemi viventi. In essa si fondono da una parte la creatività, cioè l'invenzione degli equilibri nuovi e la ricerca e l'utilizzo delle perturbazioni positive, e dall'altra la resistenza di fronte alle perturbazioni devastanti, insieme con l'accoglimento delle novità misurate. Una miscela, dunque, di innovazione e di permanenza nel nome della saggezza sistemica. Come dice Gregory Bateson, l'innovazione senza conservazione conduce alla follia, la conservazione senza l'innovazione conduce alla morte.
    È dagli organismi viventi, dalla loro tenace aderenza alla propria identità nel mutamento, che dobbiamo prendere esempio di fronte alla sfida epocale costituita dal susseguirsi di perturbazioni sempre più frequenti e spesso destabilizzanti. Vogliamo, spero, continuare ad essere sistemi viventi immersi in una vasta ecologia vivente. Vogliamo, spero, evitare l'omologazione (che quasi sempre è verso il basso) e accrescere la complessità, la varietà e la differenza. Vogliamo, soprattutto, interagire con gli umani piuttosto che con le macchine.

    12. A mo' di conclusione

    Riassumendo, ho cercato di segnalare due grandi temi: in primo luogo l'uomo e la tecnologia sono inseparabili, e questo c'impedisce di prendere nei confronti della tecnologia una posizione rigida di accettazione o di rifiuto, come se essa fosse esterna a noi e si potesse accogliere o respingere. Questo però non c'impedisce di avere una posizione critica, che anzi è necessaria: la tecnologia è inevitabile, ma occorre riequilibrare la sua posizione all'interno del simbionte ciborganico homo technologicus, che essa tende sempre più a dominare, e questo è il secondo punto che volevo sottolineare. Le nuove componenti tecnologiche si contrappongono fortemente alle eredità ataviche della biologia e ciò è causa di profondi disadattamenti e di gravi sofferenze. li simbionte che tutti noi siamo è un simbionte che soffre, perché l'Etica, l'Estetica, l'Emozione, l'Espressione e l'Esperienza sono sconvolte dall'invasione tecnologica. Queste componenti ancestrali, queste cinque "E", ingabbiate, non spariscono, ma dolgono, fanno male. Il simbionte che soffre ha diritto alla nostra compassione, alla nostra considerazione e alla nostra analisi, per fare in modo che soffra meno. Perché il simbionte siamo noi.

    NOTE

    1. Dipartimento di Elettrotecnica Elettronica Informatica Università di Trieste

    BIBLIOGRAFIA

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    [5] LEVY, PIERRE, L'intelligenza collettiva. Per un'antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996.
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    [7] LONGO, GIUSEPPE O., Homo technologicus, Meltemi, Roma, 2001.
    [8] LONGO, GIUSEPPE O., Il simbionte. Prove di umanità futura, Meltemi, Roma, 2003.
    [9] LONGO, GIUSEPPE O., Uomo e tecnologia. Una simbiosi problematica, Mondo Digitale, IV, 2, giugno 2005, n. 14, pagg. 5-18.
    [10] LONGO, GIUSEPPE O., Il senso e la narrazione, Springer Italia, Milano, 2008.
    [11] LONGO, GIUSEPPE O., Il computer tra complessità e narrazione, Mondo Digitale,VI I, 3, settembre 2008, n. 27, pagg. 3-10.
    [12] McLUHAN, MARSHALL, La galassia Gutenberg. Nascita dell'uomo tipografico, Armando, Roma, 1998.
    [13] TEILHARD DE CHARDIN, PIERRE, Il fenomeno umano, Queriniana, Brescia, 2006.
    [14] VEEN, WIM E VRAKKING, BEN, Homo Sapiens. Growing up in a Digital Age, Network Continuum Education, Londra, 2006.


    CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI ROSMINIANI
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