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    Educare alla fede

    di fronte alla

    frantumazione dell'umano

    Adriano Fabris

     

    Alcuni odierni aspetti di ciò che possiamo chiamare la «frantumazione dell'umano»

    Molti momenti della nostra vita, in quest'epoca, sono vissuti con difficoltà e disagio. Non si tratta solo degli effetti della crisi economica. La crisi, infatti, è più profonda: è crisi di senso. Molto spesso non sappiamo perché facciamo certe cose, non abbiamo chiaro l'orientamento di fondo che motiva il nostro agire. Sovente ci troviamo in una situazione nella quale semplicemente ci adattiamo, anche con piacere, a ciò che gli strumenti tecnologici ci mettono a disposizione: rendendoci più comoda la vita, certamente, ma anche introducendo nuovi vincoli al nostro agire.
    Predominano modi di pensare frammentati, quasi schizofrenici, che rischiano di farsi mentalità comune. Si delinea una situazione che, utilizzando categorie filosofiche, potremmo definire come ambito, al tempo stesso, di un'esaltazione delle differenze e di un'indifferenza nei confronti di queste stesse differenze; come favorevole alla rivendicazione di una libertà assoluta e, insieme, alla richiesta di sempre più forti limitazioni a questa stessa libertà, allo scopo di controllarla; come luogo dell'imporsi di una razionalità tecnica, sempre più invadente e distaccata, e parimenti del proliferare di emozioni che risultano tanto più sporadiche quanto più sono intense. E potrei certamente continuare nella mia descrizione: offrendo altri esempi di un contesto ambiguo nel quale l'abbondare di proposte di spiegazione del mondo, e di sempre nuovi modi per il controllo di esso, cercano di eliminare il senso stesso della domanda di senso.
    Ecco dunque alcuni degli aspetti oggi più evidenti della frammentazione dell'umano. Che valgono non solo per il mondo degli adulti, ma anche, e ancor di più, per le generazioni più giovani. Anzi: proprio la difficoltà, da parte di molti adulti, di individuare un senso condiviso impedisce loro di comunicarlo ai figli. E così questi ultimi rischiano di crescere senza punti di riferimento, senza qualcuno che li educhi davvero alla vita. Sono in balia dei modelli veicolati dalla televisione; sono rinviati, tutt'al più, a un'istruzione che offre qualche nozione o qualche procedura di pronto uso. Viene meno la possibilità di condividere un patrimonio spirituale. Diviene sempre più difficile comunicare la fede.
    Nel contesto pedagogico, insomma, la situazione è alquanto problematica. Il rischio è che si sostituisca la procedura all'educazione; che la formazione si riduca esclusivamente all'apprendimento di una serie di abilità tecniche; che si spezzi il legame fra le generazioni, perché l'insegnamento si riduce a una mera trasmissione di dati: dati, poi, che non è neppure più necessario fare propri, perché possono essere recuperati, alla bisogna, dai vari supporti nei quali vengono conservati. E tutto ciò non è senza conseguenze anche nell'ottica di una «pedagogia della fede», quale quella che si è tradizionalmente esercitata in famiglia, nelle parrocchie, negli oratori.
    Ciò che stiamo vivendo, dunque, può essere inteso come una sorta di «emergenza educativa», che chiama a nuove sfide. In questo senso la Chiesa italiana, nei suoi Orientamenti pastorali, ha posto con forza l'accento sulla questione e ha messo al centro della sua riflessione e della sua azione la tematica dell'educare. È una sfida però che non riguarda solo la Chiesa, ma che coinvolge ciascuno di noi – genitore o insegnante, fratello o amico – per quanto gli spetta di fare a questo riguardo.
    Ma la questione educativa, considerata in generale, è anche lo sfondo per definire e promuovere, più specificamente, le forme e le modalità per costituire legami di fede. Anzi: si può dire che proprio su questo terreno la sfida educativa è messa alla prova e si manifesta in tutta la sua urgenza. Essa implica, a ben vedere, che venga affrontata di nuovo la questione dell'identità. Si tratta cioè, anzitutto, di aver chiaro chi siamo. Quando infatti non sappiamo bene chi siamo, risultaanche difficile comunicare alle generazioni più giovani le nostre convinzioni e il nostro credo.
    È in gioco, in altre parole, al di là dell'educazione, il senso stesso del nostro essere e del nostro agire. Nella sostanza, ciò che viene messo in questione oggi è come ci rapportiamo a noi stessi e al mondo, agli altri e, in primo luogo, a chi dà senso alla nostra vita. Si tratta di ripartire dal problema antropologico. Si tratta di ripensare un umanesimo adeguato alla nostra situazione e al nostro tempo.
    Per affrontare dunque, in tutta la sua complessità, il tema dell'educazione alla fede, tanto più nel contesto frammentato che ho brevemente descritto, compirò una serie di passi. Metterò in luce anzitutto tre problemi, urgenti, legati al modo in cui oggi possiamo confrontarci con la dimensione educativa. Offrirò poi alcune suggestioni riguardanti, più specificamente, il tema di come educare alla fede all'interno di un più ampio contesto educativo.

    Problemi di educazione

    I tre aspetti su cui vorrei soffermarmi possono essere riassunti attraverso tre affermazioni, che concernono la pratica educativa anzitutto considerata in generale, e che poi cercherò di sviluppare con specifico riferimento all'ambito dell'educazione alla fede. Le affermazioni sono: 1) L'educare, in realtà, non è una tecnica e non può risolversi in una tecnica; 2) L'educare, oggi, non ha più soggetti privilegiati di erogazione, ma tende a configurarsi come un processo diffuso, dalle molteplici fonti, che richiede l'istituzione di nuove forme di autorevolezza; 3) L'educare è un modo di realizzarsi dell'etica e dall'etica, per il suo effettivo sviluppo, è propriamente richiesto.

    L'educare non è una tecnica

    Nella filosofia della Grecia antica, «tecnica» (techne) indicava una modalità di agire pratico guidato da competenze e conoscenze settoriali. Da questo punto di vista il sapere tecnico poteva certamente essere insegnato, ma risultava subordinato a una conoscenza più ampia: una conoscenza dei principi generali che sono oggetto di una determinata scienza e, ancora più a fondo, una cognizione dei principi primi che stanno alla base di ogni sapere. [1] Nel mondo contemporaneo, invece, il rapporto tra tecnica e scienza risulta, per così dire, rovesciato. Così come viene rovesciato il modo in cui era tradizionalmente inteso il nesso fra teoria e prassi. Tutto ciò accade in virtù della trasformazione, ormai compiuta, della tecnica in tecnologia. [2]
    È infatti la tecnica, con i suoi strumenti e con la sua capacità di modificare la realtà, ciò che oggi guida e indirizza lo sviluppo delle discipline scientifiche. È la tecnica trasformata in tecnologia ciò che orienta, con le sue esigenze di trasformazione e controllo, la ricerca del sapere. [3] E, in parallelo, la prassi diviene autonoma dalla teoria. Non è più guidata da essa: diventa piuttosto il luogo in cui a sua volta si definisce e si elabora il sapere.
    Se le cose stanno così, il risultato che ne deriva assume, anche su di un versante pedagogico, tratti paradossali. Pare che non vi siano più conoscenze definite da insegnare. Pare che non sia più necessario, a partire da tali conoscenze, domandarsi come svolgere nel modo migliore questo insegnamento. Perché le tecnologie assorbono in sé e determinano gli stessi contenuti del sapere. Predomina il prassismo a tutti i costi, senza orizzonte e senza motivazioni (che non siano quelle di una specifica utilità). E così l'insegnare si risolve, semplicemente, in un far fare.
    In altre parole, se la prospettiva tecnologica si riferisce a qualcosa che pretende di essersi definitivamente emancipato dalla subordinazione a un sapere – nella misura in cui, ripeto, solo la tecnologia è in grado di stabilire le condizioni per l'effettiva elaborazione del sapere stesso –, allora il rischio è che questo sapere venga a risolversi nell'esercizio di semplici pratiche, nell'attuazione di mere procedure. Ciò vale in generale e vale, in tutta evidenza, anche nell'ambito educativo. Sul piano della formazione, infatti, molto spesso ciò che conta è non già insegnare qualcosa, bensì apprendere ad apprendere; ciò che importa è non tanto unire le forze di tutti coloro che sono interessati a raggiungere un obiettivo, quanto il loro semplice stare insieme.
    Si tende quindi a sostituire la forma al contenuto. Imparare la forma, d'altronde, significa semplicemente metterla in pratica. E metterla in pratica altro non vuol dire che ripeterla. Senza sapere, in definitiva, il perché. [4]
    A un esito analogo giungiamo considerando il modo in cui, nel panorama contemporaneo, il processo educativo viene a compiersi. Le forme di quest'attuazione sono, da sempre, quelle del comunicare. Ebbene, già dalla metà del secolo scorso la dimensione comunicativa è stata appiattita nelle forme di una semplice trasmissione: la trasmissione di un messaggio, o di un'informazione, da un emittente a un destinatario. [5] Naturalmente questa trasmissione è stata intesa come qualcosa che va governato con tecniche appropriate e che dev'essere gestito a sua volta nel modo migliore, secondo i criteri dell'efficacia e dell'efficienza. Lo sfondo etico e motivazionale all'interno del quale si sviluppa un tale processo è dunque quello orientato, una volta di più, dal principio dell'utile.
    È chiaro però che non è questa la modalità comunicativa che è in gioco nei processi di apprendimento, neppure se si vuole dar spazio, per questo scopo, alle nuove tecnologie dell'e-learning e della formazione a distanza. Perché anche in questi casi ciò che si verifica, proprio attraverso l'utilizzo di queste tecniche di trasmissione, è la creazione di uno spazio, di un ambiente (lo stesso web, ad esempio), all'interno del quale può avvenire un effettivo incontro fra docente e discente. E se tale incontro non si verifica, la mera trasmissione di dati può essere bensì garantita, e i dati stessi possono essere a loro volta scaricati e conservati, ma in tal modo essa non giunge affatto a trasformare gli aspetti significativi delle idee e della vita di chi apprende. Non si ha, insomma, vera educazione.
    Questo, allora, è ciò a cui conduce il tentativo di trasformare, nel contesto contemporaneo e nel significato che il termine ha ormai assunto all'interno del mondo odierno, l'educazione in tecnica educativa. Ma è appunto tale esito ciò che bisogna decisamente ripensare. Appunto perché verrebbe meno, così facendo, il senso stesso del processo dell'educazione. Verrebbe meno ciò che propriamente lo caratterizza. Verrebbe meno, in una parola, il suo configurarsi come processo autentico di condivisione di senso.

    L'educare è un processo diffuso

    Il tentativo di ridurre l'educazione al semplice uso di tecniche o alla promozione di specifiche tecnologie comporta altresì il proliferare di soggetti addestrati a utilizzare e padroneggiare queste tecniche o queste tecnologie. Tali soggetti finiscono per essere caricati non solo dei compiti dovuti alle loro specifiche competenze, appunto di carattere tecnico, ma anche di una funzione e di un ruolo ben specifici in ambito formativo. Ciò accade sebbene essi non siano affatto educatori, ma risultino meri operatori: esperti, cioè, di specifiche pratiche. E questo si verifica in maniera evidente, ad esempio, quando queste pratiche risultano pratiche comunicative.
    Ne consegue, nell'attuale panorama, un diffondersi, un disseminarsi di soggetti educativi. Centri erogatori di sapere non sono più oggi, in maniera privilegiata, la famiglia, la scuola, una determinata comunità di riferimento. Perché esse non hanno, il più delle volte, la padronanza delle tecniche ovvero delle tecnologie necessarie per attirare l'attenzione e per legittimare questa loro attrattiva mediante la capacità di fornire informazioni quantitativamente ampie, accattivanti, in tempo reale. Oggi il principale agente educativo è la televisione. La fonte prioritaria per lo studio è internet. Modo di diffusione e di condivisione del sapere sono i social network.
    Si verifica dunque una sorta di virtualizzazione dell'educare, dovuta di nuovo al sopravvento dei mezzi tecnici rispetto ai contenuti da condividere. Ancora una volta, così, la potenza tecnica prende il sopravvento sulla capacità relazionale. O meglio, viene qui privilegiata un'unica forma di relazione, fra le molte che possono essere sperimentate e vissute: quella che si risolve nella capacità di colpire il bersaglio col massimo rendimento e col minimo sforzo. Ciò accade, in tv, riconducendo ogni forma di comunicazione allo spettacolo e all'intrattenimento; ciò si produce, su internet, trasformando il processodell'indagine, lungo e paziente, nell'immediato utilizzo dei risultati di un motore di ricerca.
    Tutto ciò influenza, ovviamente, anche la pratica quotidiana dell'insegnamento. Le modalità visive di presentazione dei dati (attraverso slides in Power point) sono ormai consuete nell'attività didattica: soprattutto in ambito scientifico, ma non solo in esso. E come tali, nella misura in cui manifestano una certa utilità, non vanno affatto demonizzate. Ma esse non debbono neppure egemonizzare la pratica educativa. Perché questa pratica, anche nelle forme concrete del suo svolgersi, è qualcosa d'altro rispetto al puro e semplice tentativo di mantenere desta l'attenzione e di accendere la curiosità dei discenti attraverso modalità che trasformano in spettacolo ogni contenuto da apprendere. La stessa ricerca, poi, non si compie semplicemente affidandosi a una banca dati, senza che siano chiari, ad esempio, i meccanismi di selezione che sovrintendono al loro modo di presentarli.
    Altrimenti l'educazione finisce per diventare una variabile accessoria dello spettacolo e dell'intrattenimento. Altrimenti si verifica un proliferare di agenzie formative, consapevoli o meno del loro scopo, che risultano spesso in concorrenza fra loro. E in parallelo avviene una ricalibratura, se non addirittura un fraintendimento, di quella nozione di autorevolezza, in relazione alla quale soltanto appare realizzabile un processo di formazione. Nel contesto contemporaneo l'autorevolezza verrebbe a dipendere, più che dalla capacità di orientare (in virtù del possesso e dell'elaborazione di determinati contenuti), dalla quantità di presenze all'interno dei mezzi di comunicazione di massa, dalla loro ricorrenza e dal gradimento che incontrano. E ciò finirebbe per subordinare la validità dei contenuti ai gusti della maggioranza. Si apre dunque, nei confronti di tali esiti, un ulteriore ambito di riflessione, in relazione al quale la sfida educativa dev'essere esplicitamente assunta ed effettivamente affrontata.

    L'educare è un modo di realizzarsi dell'etica

    Tutto ciò risulta decisivo, in ultimo, nella misura in cui il riferimento all'educazione è oggi importante sia in generale, sia, specificamente, come supporto all'agire etico e alla promozione di esso. Uno dei problemi più urgenti da affrontare per l'etica contemporanea, infatti, è quello riguardante il passaggio dai principi di comportamento, che la riflessione etica è chiamata a individuare e giustificare, alle situazioni concrete in cui è richiesta la loro applicazione. Non solo: uno dei problemi fondamentali in tale contesto è quello relativo alla motivazione che spinge ad assumere e a mettere in opera tali principi. Si tratta, in altre parole, di stabilire le effettive modalità di coinvolgimento che rendono l'agire qualcosa di propriamente impegnato su di un versante etico.
    Di fronte a questo compito l'indagine filosofica ha dato adito, molto spesso, a esiti che esplicitamente chiamavano in causa pratiche educative e ne richiedevano l'adozione. La stessa filosofia ha sovente chiesto aiuto all'educazione per far sì che i criteri morali, che venivano giustificati su di un piano teorico, risultassero davvero condivisi e diffusi. Potrei in proposito citare il Kant della Critica della ragion pratica e le sue riflessioni contenute nella «Dottrina del metodo». Potrei, prima ancora, fare riferimento all'Aristotele dell'Etica Nicomachea e alla sua trattazione dell'exis.
    In ogni caso da qui emerge uno stretto legame tra etica e educazione. Esso però, a ben vedere, si configura non soltanto nelle forme di un richiamo, che sarebbe compiuto dall'etica, alla formazione e all'esercizio morali, e neppure, unicamente, al modo di un bisogno della pedagogia da parte dell'etica stessa, allo scopo di dare attuazione ai principi generali che quest'ultima disciplina è chiamata a stabilire. La relazione vale anche all'inverso. La stessa educazione, nonché la riflessione che su di essa verte, necessitano infatti, a loro volta, di essere motivate e animate eticamente. Anch'esse possono venir valutate nelle modalità della loro attuazione, a partire dal riferimento a quei criteri morali che l'etica deve indagare e garantire.
    Vi è insomma una relazione circolare fra etica e educazione. Che va recuperata e sottolineata, proprio allo scopo di salvaguardare il senso dell'attività pedagogica. E che contribuisce a impedire, di nuovo, che l'insegnamento venga identificato con la semplice messa in opera di una procedura di tipo tecnico.

    Come si può educare alla fede?

    Ho messo in luce fin qui alcuni aspetti che contraddistinguono l'odierna pratica educativa. Ne ho evidenziato luci e ombre. All'inizio, però, ho detto anche che l'educazione alla fede non è solo l'esempio di un'esperienza educativa considerata in generale, ma è soprattutto il luogo in cui quest'ultima può trovare, in una maniera essenzializzata, la sua forma, il suo modello ispiratore. Voglio ora, concludendo, dire il perché. E voglio in tal modo offrire qualche sollecitazione sul modo in cui si può educare alla fede nel mondo contemporaneo. Perché – nonostante vi sia chi non lo ritiene possibile – educare alla fede oggi si può. Ma va fatto nella maniera giusta.
    Non ho usato finora un'espressione alquanto diffusa: quella che fa riferimento a una «trasmissione della fede» stessa. Il significato di questa parola, «trasmissione», è certo ben diverso da quello che ho in precedenza descritto e criticato. Ma ho preferito usare, nel mio discorso, parole come «coinvolgimento», «legame», «comunicazione». Infatti ciò che si trasmette sono per lo più contenuti. Nel caso della fede, tuttavia, questa trasmissione di contenuti non è sufficiente. Non è poi sufficiente, e non è oltretutto adatto allo stile della pedagogia di cui oggi abbiamo bisogno, elencare una serie di asserzioni relative a ciò che costituisce il depositum fidei. La fede, per essere trasmessa, deve anzitutto venir messa in opera. Dev'essere contagiosa, per contagiare di senso un mondo e un essere umano che si scoprono in sé, talvolta, disarticolati. Lo mostra costantemente, con le sue parole che generano relazioni e con i suoi gesti significativi in grado di produrre effetti, lo stesso papa Francesco.
    Ecco allora che il terreno su cui si gioca l'educazione alla fede è proprio quello della comunicazione. Ma si tratta di una comunicazione che è intesa appunto come possibilità di creare una dimensione di comunità, come capacità d'istituire uno spazio comune tra gli interlocutori. È questo, infatti, il compito di chi educa alla fede: mettere in opera con la parola e con l'azione quello spazio sensato che viene offerto a tutti, e che tutti può coinvolgere e accogliere. Al di là delle tecniche usate per realizzarlo.
    Per far ciò ci vuole autorevolezza, certo. Ne abbiamo parlato. E ci vuole una capacità di differenziarsi dallo stile di altri modelli comunicativi fin troppo diffusi oggi, ai quali ho fatto in precedenza riferimento. Sono modelli di autorità di solito legati alla logica che predomina nella società dello spettacolo. Essi non vanno certamente demonizzati. Tuttavia copiare questi modelli, pur con le migliori intenzioni, credo che possa essere fuorviante per i motivi che prima ho menzionato. Ma alla base di questo processo d'inclusione e di comunanza, attraverso cui è possibile comunicare la fede e educare alla fede, ci dev'essere una motivazione di fondo. Ciò che induceva a rispondere alla sfida educativa, e che poteva essere riscontrato in una ben precisa vocazione etica, nel caso dell'educazione alla fede non può che essere rintracciato se non nella fede stessa. Sembra banale dirlo: solo chi ha fede può educare alla fede. Può farlo in modo credibile. Può essere vero testimone.
    La parola chiave dell'educazione alla fede è infatti la parola «testimone». Il testimone, qui, è colui che mostra nelle parole e nei fatti ciò in cui crede. E proprio perciò può essere coinvolgente: credibile e, come tale, capace di far credere. Il testimone è inoltre colui che, anche al di là del successo o meno della sua azione, continua a incarnare un modello di vita, e per questo resta comunque punto di riferimento delle persone. Ciò accade, ripeto, anche se la sua attività educativa non ha successo, o non ne ha immediatamente: dato che non è questo solamente – voglio dire: non è solo il metro dell'efficacia e dell'efficienza – l'unità di misura in base a cui si giudica la validità del suo operare.
    Insomma: comunicazione accogliente, motivazione di fede attraverso la fede, pratica della testimonianza. Sono questi alcuni degli elementi che rendono possibile rispondere, nel caso specifico dell'esperienza di fede, alla sfida educativa alla quale siamo tutti chiamati. Tanto più come cristiani. Ma questo è anche il modello di base che può offrire ispirazione e motivazione a chiunque operi in un contesto educativo, pure da una prospettiva laica: perché ciò che importa, affinché vi sia vera educazione, è l'incontro con l'altro, la condivisione dei saperi, la messa in opera di esperienze comuni.


    NOTE

    1 Cf. il modello gerarchico di rapporto fra techne ed episteme esposto da Aristotele nel libro A dei suoi trattati di Metafisica.
    2 La tecnologia è definita come «il sistema della tecnica». A differenza della tecnica, non ha bisogno di un costante impulso umano per essere utilizzata, ma possiede un'autonomia, una capacità di autoalimentazione che in molti casi rischia di subordinare l'essere umano ai processi impersonali che di essa sono propri. Si pensi a ciò che accade nella nostra epoca riguardo all'uso che facciamo di molti dispositivi ai quali quotidianamente ci adattiamo, invece di far sì che essi si commisurino a noi. Ho approfondito questi temi in A. FABRIS, Etica delle nuove tecnologie, La Scuola, Brescia 2012.
    3 Su ciò si veda, da un punto di vista filosofico, M. HEIDEGGER, «Anchibasie», in ID., Colloqui su un sentiero di campagna (1944/45), Il Melangolo, Genova 2007.
    4 Un esempio evidente del privilegio di questo approccio si ha nell'ambito dell'insegnamento delle lingue straniere.
    5 Per una breve storia di questa concezione e per una sua approfondita discussione mi permetto di rinviare al secondo capitolo del mio A. FABRIS, Etica della comunicazione, Carocci, Roma 2014.

    (Da: Fede, cultura, educazione. Nodi e prospettive per la missione della Chiesa nella cultura contemporanea, EDB 2014, pp. 53-62)


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