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    Il cristianesimo come stile,
    alla luce di papa Francesco

    Piero Coda *


    Ogni momento è di grazia: nel senso che il Padre destina a noi, in esso, un dono sorprendente e grande del suo amore. Questo si fa evidente, con particolare incisività, nel tempo liturgico della Pasqua, ma è una qualità connotante la storia tutta che Dio ha gratuitamente coinvolto nella sua vita con la morte e risurrezione di Gesù, il Figlio, il primogenito «tra molti fratelli» (Rm 8,29).
    Scrive Paolo: «n tempo (kairós) si è contratto, ha imbrogliato le vele» (cf. 1 Cor 7,29): la nave sta entrando in porto, la storia, la nostra storia, illuminata di radiose speranze e martoriata d'indicibili contraddizioni e sofferente per inenarrabili piaghe, è accolta nella luce e nella pace di Dio. Gesù asceso al cielo – ha detto papa Francesco all'A ngelus – porta in regalo al Padre le piaghe della sua/nostra umanità (cf. Francesco, Angelus nella solennità dell'Ascensione, 1.6.2014).
    E questo il mistero della Chiesa e dell'umanità che si fa oggi, a cinquant'anni dal Vaticano II, nel soffio profetico del ministero di unità e missione universale di papa Francesco, singolarmente percepibile. E ci spinge e ci incalza. Verso dove? Come? Occorre – ha detto papa Francesco ai vescovi italiani – «inforcare occhiali capaci di cogliere e comprendere la realtà e, quindi, le strade per governarla, mirando a rendere più giusta e fraterna la comunità degli uomini» (Regno-doc. 11,2014,340).

    Tre note di stile

    Una parola, per cominciare, sullo «stile» con cui, da discepoli di Gesù, siamo chiamati a riflettere insieme su ciò che lo Spirito ci suggerisce attraverso i «segni dei tempi»: ascoltando e dialogando, tra noi certo, ma insieme e prima e in ogni caso indirizzando il nostro cuore e la nostra mente all'ascolto della Parola nel soffio dello Spirito che illumina e discerne, come «spada a doppio taglio» (cf. Eb 4,12), la nostra storia. Mi pare essenziale, questa premessa: per non «correre invano» (cf. Gal 2,2), per non battere l'aria, ma per aprirci alla sorpresa di ciò che lo Spirito Santo ha in serbo per noi. Il momento dello Spirito e il momento dell'umanità che viviamo non ci permettono di menar il can per l'aria. Occorre avere il cuore pronto e occorre compiere il passo nuovo che ci è chiesto.
    Direi che sono tre gli atteggiamenti che ci sono donati e insieme richiesti – ma prima donati, e per questo poi anche richiesti – da Gesù risorto e che papa Francesco con vigore ci ripropone: apertura all'iniziativa di Dio che si fa dono oggi per noi; condivisione del «grido» che sale dal cuore dei fratelli; spirito contemplativo e sinodale.
    Innanzi tutto, il nostro cuore (in senso biblico, di cui la mente è espressione) va tenuto aperto, va dilatato anzi a percepire, accogliere, decifrare e seguire l'iniziativa dell'amore di Dio.
    Noi, tutti, siamo già da sempre, in Gesù, presi dentro dall'amore del Padre nella comunione dello Spirito. Sembra scontato dirlo, per un cristiano: ma non è scontato far sempre di nuovo scaturire la nostra vita, il nostro pensare e il nostro agire dall'esperienza di questo dono originario e permanente che definisce il nostro essere, il nostro guardare a noi e al mondo, il nostro operare.
    Noi siamo stati e siamo chiamati a vivere dentro questo spazio aperto e nuovo che è descritto dall'amore del Padre del Figlio e dello Spirito Santo. È di qui, dall'avere sempre presenti al cuore gli occhi dello sguardo d'amore di Dio per noi e per tutti, che diventiamo ciò che siamo in Cristo, «nuova creazione», e abitiamo con responsabilità e profezia il «kairós» del nostro tempo.
    In seconda battuta, o meglio in simultaneità, il nostro cuore, nascosto con Gesù nel Padre (cf. Col 3,3), ha da essere, in Gesù, ferito dal «grido» dei fratelli e delle sorelle e dalle piaghe incise nel loro corpo e nella loro anima. Come Gesù è sceso nell'abisso della povertà, della sofferenza, persino del peccato, così il nostro vivere, pensare, discernere, agire e servire da discepoli non può esser fatto se non ascoltando e facendo nostro il «grido del povero che invoca» – come canta il Salmo (34,7) –, se non calandosi sino in fondo nelle piaghe dell'umanità facendole nostre.
    Si tratta di grida e piaghe che alcune volte sono anche rimosse, camuffate o restano inespresse. Occorre avere lo sguardo e l'ascolto di Gesù crocifisso per scoprirle e amarle. Anzi, occorre scoprire e amare in esse Gesù crocifisso stesso. Scoprirle, guardarle e ascoltarle, perciò, queste ferite e queste piaghe, con amore: sino a riconoscere e a far sprigionare in esse e da esse, con cuore ricco di misericordia e gesti concreti, il profumo della speranza, la promessa della libertà, la compagnia della giustizia e della gioia.

    Spirito contemplativo e mistica della fraternità

    L'uno e l'altro atteggiamento che ho così rapidamente descritto, in verità, non sono che le due facce di un'unica medaglia: lo «stile» di sequela che oggi ci è chiesto. Papa Francesco lo definisce con due parole: «spirito contemplativo» e «mistica della fraternità». Non si tratta di uno stile spirituale soltanto, ma teologico, culturale, sociale: uno stile che immerge il nostro esistere, personale e comunitario, nella Pasqua di Gesù e che, perciò, ci fa morire e rinascere a vita nuova in lui.
    Spirito contemplativo: papa Francesco, nella Evangelii gaudium, lo descrive così: «Posti dinanzi a lui con il cuore aperto, lasciando che lui ci contempli, riconosciamo questo sguardo d'amore che scoprì Natanaele il giorno in cui Gesù si fece presente e gli disse: "Io ti ho visto quando eri sotto l'albero di fichi" (Gv 1,48). Che dolce è stare davanti a un crocifisso, o in ginocchio davanti al Santissimo, e semplicemente essere davanti ai suoi occhi! Quanto bene ci fa lasciare che egli torni a toccare la nostra esistenza e ci lanci a comunicare la sua nuova vita! (...) E urgente ricuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c'è niente di meglio da trasmettere agli altri» (Francesco, es. ap. Evangelii gaudium, n. 264; Regno-doc. 21,2013,689).
    Mistica della fraternità: ecco le parole di papa Francesco, sempre nell'Ev angelii gaudium: «Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la "mistica" di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po' caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio» (n. 87; Regno-doc. 21,2013,658). E spiega: «Quando viviamo la mistica di avvicinarci agli altri con l'intento di cercare il loro bene, allarghiamo la nostra interiorità per ricevere i più bei regali del Signore. Ogni volta che ci incontriamo con un essere umano nell'amore, ci mettiamo nella condizione di scoprire qualcosa di nuovo riguardo a Dio. Ogni volta che apriamo gli occhi per riconoscere l'altro, viene maggiormente illuminata la fede per riconoscere Dio» (n. 272; Regno-doc. 21,2013,690).
    Essere, dunque, contemplativi della Parola e insieme contemplativi del popolo di Dio (cf. n. 154). L'espressione è quasi paradossale e vuol essere senz'altro provocatoria: per renderci più consapevoli di un tratto fondamentale e qualificante dell'evangelizzazione – soprattutto oggi. Esprime infatti, questa espressione, un'esigenza intrinseca al Vangelo: «La contemplazione che lascia fuori gli altri
    scrive il papa – è un inganno» (n. 281; Regno-doc. 21,2013,692). Qual è, in realtà, il fine della contemplazione di Dio Trinità d'amore, in Gesù, sua Parola fatta carne, nel soffio dello Spirito Santo, se non servire lui, la Parola fatta carne, nella carne dei fratelli?

    Contemplativi della Parola e del popolo di Dio

    Ciò che più colpisce, nella formula di papa Francesco: contemplativi della Parola e contemplativi del popolo di Dio, è il riferimento al popolo di Dio. Che cosa significa essere contemplativi del popolo di Dio? Significa – e la spiritualità di sant'Ignazio di Loyola, di cui il papa è figlio, lo incarna – cogliere e promuovere ovunque le tracce operanti della presenza di Dio tra gli uomini e nelle cose umane, in quanto tutto è creato e ricreato in Cristo ad maiorem Dei gloriam.
    Non è difficile riconoscere, in ciò, un'eco dell'insegnamento del Vaticano II sulla Chiesa popolo di Dio in cammino, che campeggia nel secondo capitolo della Lumen gentium e che, a ben vedere, illumina il magistero conciliare in tutte le sue espressioni. Così come ci è grato, in questo accento peculiare e appassionato dell'insegnamento di papa Francesco, veder rifluire nella comunione della Chiesa una e cattolica, il frutto spirituale e apostolico del cammino sofferto e della ricca esperienza di fede e condivisione vissuti, in questi ultimi decenni, dalla Chiesa in America Latina.
    Essere contemplativi della Parola e del popolo di Dio. Questa indicazione s'intensifica e ci ferisce al cuore ogni volta di nuovo, crudamente, quando anche a noi Dio rivolge la pressante e accorata domanda: «Dov'è Abele, tuo fratello?» (cf. Gen 4,9). In lui, «nel fratello – scrive papa Francesco facendosi eco del Vangelo –, si trova il permanente prolungamento dell'incarnazione per ognuno di noi: "Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Mt 25,40)» (n. 179; Regno-doc. 21,2013,675). Proprio per questo, «nel cuore di Dio c'è un posto preferenziale per i poveri», precisa (n. 197; Regno-doc. 21,2013,679), così che, «per la Chiesa, l'opzione per i poveri – scandisce – è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica» (n. 198; Regno-doc. 21,2013,679).
    Non si tratta solo di lavorare, con intelligenza, perseveranza, immaginazione profetica, comunione d'intenti e sinergia di iniziative, per l'integrazione, a tutti i livelli della vita sociale, di chi in qualunque modo è povero, emarginato, escluso, scartato (cf. n. 187), ma di disporsi con umiltà a imparare da loro: perché, «con le loro sofferenze, conoscono il Cristo sofferente. E necessario – esorta il papa – che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa» (n. 198; Regno-doc. 21,2013,679).

    Un cammino di «speranza viva»

    Nella Evangelii gaudium, ai nn. 276 e 278, Francesco descrive l'energia e l'efficacia di liberazione che scaturiscono sempre di nuovo da questa contemplazione di Gesù crocifisso risorto e da questa esperienza della fraternità nel popolo di Dio: «La risurrezione di Gesù non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali. E vero che molte volte sembra che Dio non esista: vediamo ingiustizie, cattiverie, indifferenze e crudeltà che non diminuiscono. Però è altrettanto certo che nel mezzo dell'oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto. In un campo spianato torna ad apparire la vita, ostinata e invincibile. Ci saranno molte cose brutte, tuttavia il bene tende sempre a ritornare a sbocciare e a diffondersi. Ogni giorno nel mondo rinasce la bellezza, che risuscita trasformata attraverso i drammi della storia. I valori tendono sempre a riapparire in nuove forme, e di fatto l'essere umano è rinato molte volte da situazioni che sembravano irreversibili. Questa è la forza della risurrezione e ogni evangelizzatore è uno strumento di tale dinamismo» (n. 276; Regno-doc. 21,2013,691).
    «Fede significa credere in lui, credere che veramente ci ama, che è vivo, che è capace di intervenire misteriosamente, che non ci abbandona, che trae il bene dal male con la sua potenza e con la sua infinita creatività. (...) Crediamo al Vangelo che dice che il regno di Dio è già presente nel mondo, e si sta sviluppando qui e là, in diversi modi: come il piccolo seme che può arrivare a trasformarsi in una grande pianta (cf. Mt 13,31-32), come una manciata di lievito, che fermenta una grande massa (cf. Mt 13,33) e come il buon seme che cresce in mezzo alla zizzania (cf. Mt 13,24-30), e ci può sempre sorprendere in modo gradito. È presente, viene di nuovo, combatte per fiorire nuovamente. La risurrezione di Cristo produce in ogni luogo germi di questo mondo nuovo; e anche se vengono tagliati, ritornano a spuntare, perché la risurrezione del Signore ha già penetrato la trama nascosta di questa storia, perché Gesù non è risuscitato invano. Non rimaniamo al margine di questo cammino della speranza viva!» (n. 278; Regno-doc. 21,2014,691).
    Ecco: «Non rimaniamo al margine di questo cammino della speranza viva!». Rinnoviamo dunque l'atto di fede, di amore e di speranza cui c'invita papa Francesco e, con questa luce nel cuore, chiediamoci: verso dove questo cammino? E come non rimanere ai margini di esso, ma percorrerlo insieme, responsabilmente, nella gioia del Risorto e in uno slancio nuovo e incisivo di profezia e di servizio ai fratelli, a cominciare dagli esclusi?

    Tre dinamiche per la missione della Chiesa

    Nel Nuovo Testamento, soprattutto in Paolo, troviamo descritte alcune dinamiche che l'esistenza cristiana reca in sé impresse perché si misura su Gesù morto come l'Abbandonato sulla croce e risorto: e cioè come il Figlio di Dio che risorge e invia il suo Spirito a partire non soltanto dall'essere crocifisso, ma dal patire sulla croce l'esperienza abissale e scandalosa dell'esclusione e dell'abbandono.
    Papa Francesco invita a fissare lo sguardo su questa esperienza di Gesù, per trarne luce di discernimento profetico ed energia viva di servizio. Le sue parole, i suoi gesti, il suo stile ci spingono a misurarci su questo Gesù (cf. At 1,11), per vivere in concreto la missione della Chiesa inviata «a portare il lieto annuncio ai poveri, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l'anno di grazia del Signore» (cf. Is 61,1-2; Lc 4,18-19), prendendosi cura ovunque dei semi della «nuova creazione».
    Scrive papa Francesco: «La gioia della Chiesa di comunicare Gesù Cristo si esprime tanto nella sua preoccupazione di annunciarlo nei luoghi più bisognosi, quanto in una costante uscita verso le periferie del proprio territorio o verso i nuovi ambiti socio-culturali. Essa si impegna a stare sempre lì dove maggiormente mancano la luce e la vita del Risorto. Affinché questo impulso missionario sia sempre più intenso, generoso e fecondo, esorto ciascuna Chiesa particolare a entrare in un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma» (n. 30; Regno-doc. 21,2014,646s).
    La forma e la qualità cristica di una missione ecclesiale che si misuri sulla Pasqua di Gesù, credo che oggi – seguendo l'impulso di papa Francesco –debba essere connotata da tre dinamiche: uscire; fare «città nuova»; farsi l'altro.

    Uscire. Uscire dall'accampamento per andare verso di lui. Questa prima dinamica tocca il modo in cui, sin dall'inizio, si configura l'identità cristiana (l'identità della comunità apostolica). Si tratta di un'identità in uscita, come ama dire il papa: un'identità che nasce dal rischiare la sicurezza di un'identità già acquisita – quella della comunità in cui sino ad allora si è vissuti – per affidarsi a un'identità che è donata nuova dal Padre nello Spirito per la fede in Gesù crocifisso e risorto.
    Questo processo rischioso di abbandono di un'identità già data per accogliere da Dio un'identità nuova, in Gesù, che non contraddice la precedente ma la allarga e la compie, implica – scrive la Lettera agli Ebrei – la decisione determinata e coraggiosa di «uscire dall'accampamento verso di lui portando il suo obbrobrio» (Eb 13,13). Si tratta di partecipare all'esperienza –umanamente disonorevole e persino ripugnante – dell'abbandono di Gesù, inoltrandosi dietro a lui in una dimensione non solo arrischiata e inesplorata, ma persino religiosamente non santa. Questo diventa possibile perché la fede cristiana intuisce – e Paolo lo esplicita – che bisogna passare attraverso una certa «perdita» di Dio stesso, o meglio di Dio così come lo si è concepito e vissuto fino a questo momento, per aprirsi a una nuova esperienza di lui.
    In ciò si annuncia una sfida tipica del nostro tempo. Gesù è ucciso «fuori» dalle mura di Gerusalemme, «fuori» dallo spazio della comunità dell'alleanza: per obbedire alla volontà del Padre e farsi uno con tutti. Paolo sottolinea (cf. Gal 3,13; 2Cor 5,21) che così egli è stato trattato da «peccato» e da «maledetto». E intuisce che ciò significa, in Gesù, il superamento del particolarismo dell'identità confessionale d'Israele come identità esclusiva ed escludente.
    La Chiesa, al seguito di Gesù, è chiamata a questa universalità. La Lettera agli Efesini (cf. 2,11-12) insegna che il Cristo, verso cui si deve uscire, è il luogo escatologico della convocazione e dell'incontro di Dio con e tra tutti gli uomini. Egli, nella sua Pasqua, ha compiuto due operazioni in una: nel suo uscire, ha distrutto «il muro di separazione che era frammezzo» (tra giudei e gentili) e si è fatto con ciò spazio personale di accoglienza di tutti e d'incontro tra tutti.
    È questa la realtà di cui la Chiesa ha da essere oggi, nell'esistenza concreta, nella sua forma e struttura, nel suo «stile» di profezia e di servizio, sacramento: e cioè segno e strumento, in Cristo, «dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium, n. 1; EV 1/284).
    «[La Chiesa] – ha detto papa Francesco ai vescovi italiani – è continuamente convertita dal Regno che annuncia e di cui è anticipo e promessa: Regno che è e che viene, senza che alcuno possa presumere di definirlo in modo esauriente; Regno che rimane oltre, più grande dei nostri schemi e ragionamenti, o che – forse più semplicemente – è tanto piccolo, umile e nascosto nella pasta dell'umanità, perché dispiega la sua forza secondo i criteri di Dio, rivelati nella croce del Figlio» (Regno-doc. 11,2014,340).

    Vivere in lui la «città nuova». Una seconda dinamica dell'essere Chiesa che segna il kairós dell'oggi si esprime in quell'atteggiamento che Paolo chiama kenosi. Si tratta, forse, del luogo cristologicamente più profondo nel Nuovo Testamento: Gesù, che era uguale a Dio, si è «svuotato» di quest'uguaglianza per farsi uno con noi, fino alla morte e alla morte di croce.
    Paolo, in questa logica, esorta i Filippesi a edificare una «città nuova», e cioè una vita di comunità misurata sull'evento di Gesù: «Politeúesthe– scrive – (siate città, vivete il vostro essere città) in modo degno dell'evangelo di Cristo (...) per stare saldi in un solo spirito, con una sola anima, lottando per la fede dell'evangelo» (cf. Fil 1,27).
    In questo contesto campeggia l'inno del capitolo secondo, esortazione alla comunità a vivere secondo il modello e la radicalità di Gesù. L'inno è introdotto dall'invito ad «avere lo stesso sentire (phrónesis: pensiero e atteggiamento), la stessa agape, essendo un'anima sola e pensando l'uno» (cf. Fil 2,2). L'esortazione alla medesima phrónesis, alla medesima agape ecc., non va letta come un invito all'uniformità, ma come l'esortazione a convergere nella medesima intenzionalità nel concepire e impostare l'esistenza e la missione.
    Al versetto 3, Paolo prende di mira due tentazioni che minano alla base la vita della comunità: lo spirito di parte (eritheia) e la vanagloria (kenodoxia). È questo, con altre parole, un leit motiv insistito dell'insegnamento di papa Francesco. L'atteggiamento da avere è invece la tapeinophrosyne (sentirsi e atteggiarsi in umiltà): sia ritenendo gli altri superiori a sé stessi, sia mettendo al primo posto il bene e l'interesse degli altri. «E dono e responsabilità, l'unità – ha detto il papa alla CEI –: l'esserne sacramento configura la nostra missione» (Regno-doc. 11,2014,337).
    Al versetto 5 viene introdotto Gesù come colui in cui i Filippesi, per la fede, sono costituiti «città nuova»: «Pensate e agite tra voi ciò che (è) anche in Cristo Gesù». La phrónesis da esercitarsi tra i membri della comunità è quella che essi ricevono dall'essere in Cristo. L'essere in Cristo regola sia la vita personale sia la vita sociale.
    Dal versetto 6 al versetto 11 segue l'inno: con probabilità pre-paolino, inserito in questo contesto con qualche aggiustamento. In esso si descrive come Gesù, che sussisteva nella forma di Dio, si «svuota» di essa (nell'incarnazione e nell'obbedienza spinta sino alla croce), e come è proprio per questo che Dio gli dona il Nome che è al di sopra di ogni altro nome, e cioè lo riconosce Kfrios, Signore. Questo atteggiamento è proposto come il modello per vivere in lui e come lui la dinamica della vita sociale inaugurata dalla Pasqua del Figlio. È così che nasce la «città nuova»: città che è la comunità dei discepoli, sì, ma nel suo offrirsi crocifissa come lievito della città degli uomini regolata e animata dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla fraternità.

    Per lui e in lui farsi l'altro. Una terza dinamica è quella che tocca il rapporto della comunità dei discepoli con ogni altro: è il «farsi uno» sino a «farsi l'altro», sino a metterci cioè nella sua pelle e a camminare con le sue scarpe.
    Ecco come Paolo si esprime nella Prima lettera ai Corinzi: «Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne il maggior numero; con i Giudei, mi sono fatto giudeo, per guadagnare i Giudei; con quelli che sono sotto la legge, mi sono fatto come uno che è sotto la legge (...), per guadagnare quelli che sono sotto la legge; con quelli che sono senza legge, mi sono fatto come se fossi senza legge (...), per guadagnare quelli che sono senza legge. Con i deboli mi sono fatto debole, per guadagnare i deboli; mi sono fatto ogni cosa a tutti, per salvarne a ogni modo alcuni» (1 Cor 9,19-22).
    La logica esplicitata dall'apostolo è netta e incalzante. La possiamo riassumere nell'affermazione: «Mi sono fatto come uno che è senza legge (anomos) con chi è senza legge». La «legge» di cui qui si parla, ovviamente, è la Torah. Farsi come uno che è «senza legge» significa – per chi come Paolo viene dal giudaismo – distaccarsi dalla propria identità e forma di vita più profonda per mettersi nei panni dell'altro. È l'abbandono di Gesù che spinge Paolo a far questo: Gesù rischia la sua identità che gli viene dall'unione col Padre per amore degli uomini. Non è che così abbia perso la propria identità: perché essa si manifesta precisamente nella capacità di amare l'altro fino al punto da accoglierlo così com'è. Così agisce Dio.
    Lo stesso Paolo, riferendosi agli ebrei, i cui capi hanno eliminato Gesù escludendolo dalla comunità dell'alleanza, seguendo l'esempio di Gesù dice di voler diventare, con Gesù e come Gesù, egli stesso «anatema» affinché i suoi fratelli accedano alla pienezza della salvezza: «Dico la verità in Cristo, non mento, poiché la mia coscienza me lo conferma per mezzo dello Spirito Santo. Ho una grande tristezza e una sofferenza continua nel mio cuore; perché io stesso vorrei essere anatema, separato da Cristo, per amore dei miei fratelli, miei parenti secondo la carne, cioè gli israeliti» (cf. Rm 9,1-4).
    Anatema, dal greco ana-títhemi, significa «porgere verso l'alto», fare un'offerta a Dio, fare un sacrificio, e così offrire a Dio qualcosa in luogo di sé, come pegno del dono di tutta la propria vita. «Anatema», a partire di qui, diventa sinonimo di espiazione: perché nel sacrifico si offre qualcosa come segno dell'offerta di sé al fine di vincere il peccato. In questa logica, Paolo dice di volersi fare egli stesso anatema perché gli altri, attraverso Cristo, possano accedere alla piena comunione con Dio e tra loro. Non solo, dunque, farsi uno con l'altro, ma prendere il posto dell'altro.
    Paolo, dunque, vuol vivere, rispetto agli ebrei, suoi fratelli e consanguinei, la stessa dinamica che Gesù ha vissuto a favore di tutti. Farsi «anatema» significa, paradossalmente, preferire «staccarsi da Cristo» per dare agli altri Cristo stesso, «perdere Dio» per comunicare Dio. Un paradosso: il massimo dell'amore, la sua «divina» follia. Ciò che dà al nostro amore la misura e la qualità dell'amore di Dio.

    Tracce di un nuovo cammino

    Uscire, fare nuova città, farsi l'altro. Tre icone bibliche che sono altrettante parole performative che ci chiamano a scoprire e fare «nuova creazione» nel kairós dell'oggi e che ispirano lo slancio profetico e diaconale che papa Francesco vive in prima persona e intende imprimere alla vita della Chiesa.
    C'invitano a uno stile personale ed ecclesiale che non vale solo per noi: ma traccia il cammino di un nuovo umanesimo. «Il bisogno di un nuovo umanesimo – ha detto Francesco alla CEI – è gridato da una società priva di speranza, scossa in tante sue certezze fondamentali, impoverita da una crisi che, più che economica, è culturale, morale
    e spirituale» (Regno-doc. 11,2014,340).
    E l'umanesimo che germoglia dalla Pasqua di Gesù per la forza dello Spirito nella storia dell'umanità, a tutte le latitudini, in tutte le esperienze e situazioni, anche se tra mille contraddizioni che attendono – per essere sciolte nell'amore – la luce del Vangelo di Gesù.
    Vogliamo, per concludere, spendere una parola per declinare in pochi tratti ciascuna di queste tre icone nella sua ricchezza antropologica e sociale per il kairós dell'oggi.

    La prima icona: uscire. Ci dice che la persona umana è per sé esistenza esodale, eccentrica. Essa, cioè, ritrova se stessa solo nel continuo rischio di sé, nel mettersi in gioco, nell'andare oltre. «Giungiamo a essere pienamente umani quando siamo più che umani – scrive papa Francesco nella Evangelii gaudium –, quando permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi perché raggiungiamo il nostro essere più vero»
    (n. 8; Regno-doc. 2 1,2013,642). Questa
    uscita è, in definitiva, uscita verso l'alto, verso Dio: ma si realizza, in Gesù, come uscita verso il basso, il povero e l'escluso. Questa uscita vale per i singoli, ma vale anche per le società, specie nei momenti più acuti di transizione verso un'epoca nuova. È il kairós antropologico dell'oggi.

    La seconda icona: fare nuova città. Per i cristiani non significa costruire una città altra e fortificata, ma, in mezzo al mondo, essere lievito d'invenzione e costruzione di legami freschi e solidi di prossimità, di solidarietà, di fraternità. I legami veri e giusti, le «relazioni di qualità» (come le ha definite papa Francesco) individuano la questione sociale del nostro kairós. Diventare lievito di legami nuovi e liberi, palestra e luogo d'incontro e di dialogo, a livello locale e su scala universale: è questo l'obiettivo realistico che i segni dei tempi ci chiedono.
    Occorre arrivare – scrive papa Francesco – «là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell'anima delle città», senza «dimenticare che la città è un ambito multiculturale» (n. 74; Regno-doc. 21,2013,655). La città è profezia che spinge da dentro l'uomo verso quel se stesso che è al di là di se stesso. Non è la compressione o l'estenuazione delle diversità, ma definisce lo spazio entro cui le diversità possono dispiegarsi come tali – nell'incontro con le altre diversità. La «nuova Gerusalemme», profezia di questa città, è il luogo della risposta libera dei molti alla gratuita convocazione dell'Unico.
    «Si dirà di Sion: / "L'uno e l'altro in essa sono nati / e lui, l'Altissimo, la mantiene salda". / Il Signore registrerà nel libro dei popoli: / "Là costui è nato". / E danzando canteranno: / "Sono in te tutte le mie sorgenti"» (Sal 87,5-7). Di questo, la città è profezia: «L'uno e l'altro in essa è nato». «Non siete più stranieri né ospiti – scrive la Lettera agli Efesini – ma concittadini (sumpolítai) dei santi» (cf. Ef 2,19). Guardando a Gesù, crocifisso «fuori» dalle mura: non per demonizzare la città, ma per risvegliare in essa la vocazione esodale che la fa tale e, proprio per questo, ospite dello straniero, luogo dell'esercizio di quell'umanità condivisa e fraterna che nel nostro kairós bussa con forza alla porta. «La carità – così papa Francesco – è il nostro modo di vivere e interpretare la vita».

    La terza icona: farsi l'altro. È l'ultima icona e, in qualche modo la chiave e la risoluzione delle altre due. È la figura di uomo che Gesù nella sua Pasqua ci fa toccare con mano, aprendo uno squarcio sulle profondità nascoste e luminose dell'abisso di Dio – la Trinità – che diventa balsamo di vita nuova per gli uomini. «Io in te e tu in me». «Come tu, Padre, sei in me e io in te – Gesù prega il Padre – così siano anch'essi uno in noi» (cf. Gv 17,21).
    Tutti siamo interpellati da un kairós antropologico e sociale inedito, straordinariamente affascinante e tremendamente impegnativo. Che chiede conversione del cuore, dello sguardo, del pensiero e dell'agire. Occorre «imparare sempre – esorta papa Francesco nell'Evangelii gaudium – a toglierci i sandali davanti alla terra sacra dell'altro (cf. Es 3,5)» (n. 169; Regno-doc. 21,2013,673); anzi – precisa, rifacendosi a Tommaso d'Aquino – occorre «considerare l'altro come un'unica cosa con se stesso» (n. 169; Regno-doc. 21,2013,673. Cf. Tommaso d'Aquino, Summa theologiae ll-II, q. 27, a. 2).

    In conclusione

    Il teologo e vescovo Klaus Hemmerle scriveva: «Ciò che viene dal cielo deve crescere dalla terra». E dallo spazio interiore aperto del nostro cuore e dallo spazio interiore dilatato di relazioni segnate dall'accoglienza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dal servizio, che cresce il seme seminato nella storia dalla grazia di Dio in Cristo.
    Papa Francesco, con le sue parole, i suoi gesti, il suo stile, ci offre due piste d'impegno che – lo si tocca con mano – sgorgano in lui da una profonda e perseverante esperienza di preghiera e contemplazione: assaporare l'aria pura dello Spirito e avviare processi di trasformazione. Scrive: «Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali! Questa mondanità asfissiante si sana assaporando l'aria pura dello Spirito Santo, che ci libera dal rimanere centrati in noi stessi, nascosti in un'apparenza religiosa vuota di Dio. Non lasciamoci rubare il Vangelo!» (n. 97; Regno-doc. 21,2013,660).
    «Iniziare processi più che possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» (n. 223; Regno-doc. 21,2013,682).
    Mi sembrano davvero due buone piste.

    * Preside e docente di Teologia sistematica presso l'Istituto universitario Sophia di Incisa e Figline Valdarno 'FI'.

    (da IL REGNO-ATTUALITÀ 14/2014, pp. 520-524)


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