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    Punti fermi per

    un progetto educativo

    Paola Bignardi

    Nell'enciclica Caritas in veritate Benedetto XVI scrive che «per educare bisogna sapere chi è la persona, conoscerne la natura» (n. 61). L'educazione assume valore e sviluppi diversi a seconda della visione antropologica di riferimento. In base all'idea che si ha dell'uomo, si sceglie come educarlo. Dalla considerazione delle dimensioni della persona si sviluppano le strutture dell'educazione: «Non esiste pedagogia senza antropologia. Come possiamo educare la persona se non sappiamo chi è la persona [...] . È la questione che porta a chiederci: chi è la persona umana? Chi è l'uomo? Quali le sue dimensioni di vita? È l'uomo a una dimensione, secondo un'antica espressione? Ha una propria dimensione corporea, spirituale, affettiva? O ha più dimensioni? E se sì, è egli un accostamento di frammenti? Ed ogni suo frammento ha proprie leggi e dinamiche proprie, autonome ed incomunicabili, tanto da farne un agglomerato e non una unità? E ogni singola dimensione – affettiva, corporea, intellettuale, spirituale – si muove ed agisce per sé o è riassunta ed espressa da una unitarietà? E se vi è unitarietà, quale ne è il punto di sintesi che dà senso e verità da un punto di vista teoretico e comportamentale?» (A. Bagnasco, Intervento al Consiglio nazionale dell'Agesc, 17 giugno 2007).
    Dunque l'idea che ci si fa dell'educazione dipende dall'idea della persona, della sua natura e del suo destino. Non si può non rilevare quanto il modo di pensare la vita influisca sul modo con cui si introduce e si inizia ad essa; quanto l'idea di uomo generi percorsi per diventare in concreto uomini e donne; quanto l'insieme dei valori creduti, ma soprattutto professati, generi progetti concreti di umanità. È evidente che se si ritiene che la persona si riduce al suo corpo, l'educazione sarà orientata alla ricerca del benessere fisico e alla cura dell'aspetto esteriore; se si ritiene che la persona abbia una dimensione sociale come costitutiva dell'identità personale, non si potra prescindere dall'educare la sua apertura verso l'altro e la responsabilità verso di esso... Si potrebbero moltiplicare gli esempi. Si può dire che osservando gli stili educativi oggi diffusi, si può risalire all'idea di persona che essi implicano.
    Dietro la crisi educativa che tutti constatiamo vi è una crisi della stima per la persona, o vi sono modi di concepire la persona riduttivi, mediocri, parziali. Pur non potendosi assumere uno stretto rapporto di causa – effetto tra questione antropologica e crisi dell'educazione, tuttavia si può affermare che le attuali difficoltà di educare dipendono in gran parte da come si è modificata l'idea di persona.
    La nuova questione antropologica, che in pratica riduce l'uomo ad un semplice "prodotto della natura", con le prospettive inedite che apre alla conoscenza, alla coscienza e alla progettualità umana, torna a suscitare la questione antropologica di sempre, cioè la domanda relativa a chi è l'uomo, chi sono io, qual è il destino che mi attende, qual è il senso delle giornate che mi è dato di vivere sulla terra.
    Chi sono io, in questo tempo in cui non ci sono appartenenze che delineano la mia identità e contribuiscano a sostenerla; in cui passato e futuro sembrano sfumare in una nebbia che li priva di interesse e il tempo sembra tutto raccogliersi sull'oggi?
    Qual è il confine tra ciò che vale e ciò che non ha senso, in un tempo in cui la fluidità delle esperienze sembra farle scivolare una nell'altra, in un'indeterminatezza che rende tutto uguale; in quell'assenza di regole che sfuma i contorni di senso delle esperienze che si vivono?
    Con quale energia affrontare le giornate grigie e quelle dure, se dentro di noi sembrano essersi installati, quasi ospiti inquietanti, il nichilismo e il vuoto?
    Esistono valori da assumere per definire la nostra identità sociale, in questo contesto frammentato e plurale, in cui ciascuno ha propri punti di riferimento, che sembrano diventati di esclusiva pertinenza dell'io, o delle sue scelte, o delle sue opportunità, o dei gusti personali?
    Sono alcune delle molte domande che oggi, più o meno confusamente, attraversano la coscienza delle persone pensose e dei giovani che si affacciano alla vita, e sono alla ricerca di ragioni di senso, o semplicemente dell'energia necessaria per affrontare una giornata dopo l'altra e la prospettiva del futuro.
    La nuova questione antropologica, indotta dai progressi delle scienze e della tecnologia, ha dunque coinvolto la visione complessiva della vita riaprendo a 360 gradi la domanda sulla vita umana.
    Agli interrogativi suscitati dal cammino delle scienze e della ragione umana oggi vengono offerte risposte già pronte; risposte facili, date come ovvie nella loro "bontà": sono quelle della società dei consumi che propone un'idea di uomo ridotto ai suoi bisogni, esaltato nei suoi desideri effimeri, lanciato nella corsa verso oggetti di consumo sempre più status symbol, o verso l'affermazione di sé, con lo scopo di trovare il modo di apparire sul grande palco dei media.
    Così, accanto alla questione antropologica, posta seriamente sul piano teorico, esiste una questione antropologica indotta dai costumi diffusi, che hanno un potere di influire sulla coscienza molto più forte ed insidioso di quello generato dal pensiero, dagli intellettuali o dagli opinion leader che animano i dibattiti. In questo caso, la questione antropologica, più che porre domande, è un catalogo di risposte pronte e facili, che inducono cambiamenti senza domande, nuovi costumi senza consapevolezza.
    La questione antropologica sfida l'educazione soprattutto a questo livello, e assume, nella percezione di tanti giovani, i caratteri di un vuoto esistenziale che inquieta e toglie senso alla vita.
    Per affrontare l'attuale crisi dell'educazione occorre tornare a riferirsi ad un progetto educativo, dando all'educazione prospettive di vasto orizzonte e togliendola dall'implicito, dalla spontaneità di un'azione affidata solo al buon senso o alla genialità personale, o alle abitudini consolidate: elementi che in passato hanno certamente contribuito a formare generazioni di donne e uomini veri, ma che oggi appaiono strumenti troppo fragili di fronte alla complessità sociale e a cambiamenti che modificano di continuo i quadri di esperienza entro cui l'educazione si svolge.
    Se l'educazione deve essere un'esperienza forte, intenzionale, dalla quale dipende la qualità della crescita in umanità delle nuove generazioni, occorre che essa sia sostenuta da un progetto esplicito, che è insieme pensiero e decisione, sguardo al futuro e radicamento nel presente. Il termine progetto parla soprattutto della determinazione con cui ci si dispone per raggiungere obiettivi che si hanno a cuore; l'avere un progetto realizza l'intenzionalità che deve contraddistinguere la pratica educativa.
    Un progetto si qualifica per il suo orientamento ai valori, per i principi fondamentali cui si ispira, per l'idea di persona che assume; per la coerenza con cui unifica gli aspetti ideali e quelli concreti; per la forza con cui l'idea di persona e i valori di essa ispirano i metodi, gli atteggiamenti quotidiani, le scelte e lo stile delle relazioni. È caratteristico di un progetto ricondurre ad unità i diversi elementi dell'esperienza educativa, in un processo che corrisponde all'unità della persona ed educa a vivere come persone unificate.
    Quale idea di persona porre a fondamento di un progetto educativo per il nostro tempo?
    Per il credente può essere relativamente facile rispondere a questa domanda; il suo riferimento è alla Scrittura e all'antropologia che nel tempo, nel dialogo con le diverse culture, è stata ispirata da essa.
    Ma al di fuori di una visione cristiana della vita, è possibile parlare di progetto educativo? Se ci si adatta ad assumere un'idea di laicità come neutralità, vi è il rischio di un progetto educativo quanto mai debole, tale da legittimare l'attuale crisi dell'educazione; anzi, vi è il rischio che non si possa proprio giungere ad un progetto, ma semplicemente individuare prassi educative, senza fondamento.
    Oggi, più che parlare di un progetto educativo, occorrerà parlare di progetti educativi, ispirati a idee differenti di persona, a culture che assumono in modi diversi i valori fondamentali di riferimento: progetti educativi in dialogo, culture educative capaci di confrontarsi. L'educazione ha bisogno di una ripresa del pensiero, di collocarsi in una prospettiva culturalmente fondata, per generare prassi consapevoli e critiche.
    La comunità cristiana, per la sua tradizione, la sua sensibilità culturale, il suo radicato senso della persona, per il suo amore ai piccoli, è tra i primi soggetti che debbono mettere mano all'elaborazione di un progetto educativo: grandioso ed entusiasmante, capace di osare: proprio come è alta l'idea di persona e del destino cui essa è chiamata. Anche nell'ambito ecclesiale vi è una molteplicità di visioni e di sensibilità: ma non è certo il lasciare nell'implicito le proprie idee di riferimento ciò che può contribuire ad affrontare la questione educativa con efficacia e pertinenza. Una ripresa di dialogo all'interno della comunità cristiana, proprio sulle questioni educative, potrà generare un nuovo slancio nell'assumere la responsabilità verso i più piccoli, ed educare la comunità stessa a stimare il confronto e ad apprezzare la crescita che deriva dal mettersi in relazione tra sensibilità e impostazioni diverse. E poi, un progetto educativo va sperimentato, approfondito di continuo, creando una relazione viva tra aspetti teorici ed esperienza concreta, tra progetto e progetto.
    Essere educatori che assumono con responsabilità questo tempo significa in primo luogo dedicarsi alla ricerca e alla elaborazione di un progetto educativo per l'oggi.
    Quali caratteristiche deve avere tale progetto per la nostra società complessa, plurale, frammentata, globalizzata e localista, tecnologica e tentata da un nuovo analfabetismo culturale?
    Coscienza, libertà, corpo, pensiero, affettività, socialità, responsabilità, limite, trascendenza: mi pare che un progetto educativo credibile debba oggi dichiarare come intende favorire la maturazione di ragazzi e giovani in ordine a questi aspetti che, come caratterizzano e qualificano la vita di una persona, cosi debbono qualificare i percorsi educativi che ne sostengono la crescita.

    La coscienza

    «Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa questo, evita quest'altro. [...1. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità» GS, n. 16). Con queste parole il Concilio Vaticano II ha indicato il cuore dell'uomo, punto di gravitazione della sua vita e al tempo stesso luogo in cui sperimenta l'attrazione a uscire da sé per entrare in relazione.
    Oggi come sempre la coscienza è spazio dell'interiorità, della solitudine con se stessi, dell'esperienza della libertà come grandezza, come rischio, talvolta anche come dramma. Ma come parlare di coscienza in un tempo in cui tutto sembra giocarsi nello spazio del visibile, del verificabile, del concreto? Quanta libertà hanno i giovani dentro di sé per fare della coscienza personale il punto di riferimento delle proprie scelte, nella libertà dalle mode e dalla pressione dei comportamenti diffusi? Eppure, propri nel momento in cui sono venuti meno i regolatori esterni del comportamento, risulta decisivo ciò che l'educazione riesce a costruire dentro la persona, la sua capacità di orientarsi autonomamente, di trovare dentro di sé i valori e i criteri per le proprie scelte.
    È un grande spazio che si apre davanti all'educazione. Esso riguarda almeno la consegna ai giovani dell'alfabeto dell'interiorità, inteso come capacità di riconoscere, di capire e di dare valore a ciò che accade dentro; è la possibilità di sperimentare le dimensioni che stanno oltre la superficie, le parole che stanno oltre la chiacchiera, le esperienze che costruiscono l'esistenza: il silenzio, l'ascolto, la gratuità.
    Alla coscienza dei più giovani gli adulti consegnano i valori più alti perché ciascuno possa interpretarli creativamente nel frammento di storia che gli appartiene. I giovani oggi sono forse meno sensibili ai valori tradizionali, ma sono aperti ad altri, come la pace, la solidarietà, la tolleranza, che possono costituire il punto di forza su cui fondare il lavoro di costruzione della personalità.
    Dentro la coscienza, l'educatore insegna a riconoscere e a sperimentare un altro dinamismo fondamentale: la tensione verso l'Assoluto, decifrata dentro le dinamiche inscritte nelle più comuni esperienze umane; e al tempo stesso la funzione di relativizzazione che l'Assoluto esercita nei confronti delle esperienze e delle realtà più comuni. Proprio il riconoscere che esiste un Assoluto che trascende la realtà costituisce una grande risorsa per imparare a ridurre i possibili dogmatismi. Proprio il riferimento all'Assoluto costituisce una riserva critica da utilizzare nei confronti di ogni realtà e di ogni esperienza, tirocinio di libertà, non come capricciosa possibilità di fare ciò che pare, ma come percorso verso la possibilità di diventare se stessi pienamente. Dentro la coscienza, l'educatore insegna anche a riconoscere il mistero del male, come dramma che è dentro ciascuno, che tende a imprigionare in noi desideri meschini, a farci chiudere il cuore agli altri, a mortificare l'umano che è in ogni persona. Dentro la coscienza, l'educatore insegna a declinare nel concreto l'incontro tra libertà e verità, a esercitarsi nella fatica di decisioni libere, a conoscere il dramma dell'incontro tra i valori nella loro assolutezza e le scelte storiche nella loro parzialità.

    La trascendenza

    Non c'è esperienza umana che, in forme diverse, non esprima una tensione verso il superamento del limite entro cui è racchiusa la vita. La dimensione religiosa non rappresenta un elemento aleatorio dell'educazione, ma in qualche modo quello che si situa nella zona più profonda e misteriosa dell'esistenza dell'uomo. Ogni volta che questa dimensione viene cancellata, emerge in altre forme, più povere di quella religiosa: quella superstiziosa, magica o esoterica.
    È necessario che l'educazione affronti la dimensione religiosa della persona e ponga nuovamente in ambito educativo la questione di Dio.
    Penso in primo luogo alla famiglia, chiamata non solo a comunicare con il linguaggio suo tipico i contenuti dell'esperienza cristiana, ma a fare avvertire ai giovani il senso del mistero, comunicando la consapevolezza che la esistenza tende verso un oltre che è la sua pienezza e il suo senso e facendo vedere da vicino la bellezza della vita vissuta secondo il Vangelo.
    Lo stesso vale anche per la comunità cristiana, talvolta troppo presa da un attivismo che svuota l'interiorità, o chiusa in un intimismo che non consente di cogliere la responsabilità cui apre la vita cristiana.
    Un discorso a sé merita la scuola. Se il compito della scuola è quello dell'educazione di tutta la persona attraverso la cultura, la dimensione religiosa, che appartiene alla persona, non può essere sottratta all'attenzione educativa della proposta scolastica.
    Nella scuola vi è oggi la tendenza ad emarginare questa dimensione. Sembra che la salvaguardia, garantita dalla legge, dell'insegnamento della religione cattolica sia sufficiente a questo scopo. Ma il fatto stesso che di esso ci si possa o no avvalere, sta a significare che è frutto di una scelta. La presenza di alunni provenienti da altre culture e da altre religioni sta ponendo di nuovo in ambito scolastico in forme nuove la questione religiosa, da cui penso che la scuola non possa prescindere, anche in un tempo di laicità. Oggi, oltre a garantire a chi lo sceglie l'insegnamento della religione cattolica, occorre che si ponga per tutti, in termini culturali, la questione di Dio. La pone lo studio delle diverse espressioni culturali e artistiche della nostra civiltà; lo pone la sensibilità religiosa, spesso molto marcata, dei ragazzi che professano altre religioni. Rivolgendosi agli insegnanti e agli educatori, a Monaco, Benedetto XVI ebbe un'espressione molto esplicita e chiara: «Vi prego di cuore di tener presente nella scuola la ricerca di Dio, di quel Dio che in Gesù Cristo si è reso a noi visibile. So che nel nostro mondo pluralista è difficile avviare nella scuola il discorso sulla fede. Ma non è affatto sufficiente, che i bambini e i giovani acquistino nella scuola soltanto delle conoscenze e delle abilità tecniche, e non i criteri che alle conoscenze e alle abilità danno un orientamento e un senso. Stimolate gli alunni a porre domande non soltanto su questo e su quello – cosa buona anche questa – , ma a chiedere soprattutto sul "da dove" e sul "verso dove" della nostra vita. Aiutateli a rendersi conto che tutte le risposte che non giungono fino a Dio sono troppo corte» (Omelia dei vespri, Monaco di Baviera, 10 settembre 2006).
    È una questione che occorre affrontare con spirito laico, cioè senza fondamentalismi, senza dogmatismi, nella disponibilità al confronto, nella prospettiva di un reciproco arricchimento, che non significa sincretismo. Ma anche senza censure.

    La libertà

    Esistono molti equivoci, oggi, sulla libertà; il più grossolano è quello che la scambia per la possibilità di fare ciò che si vuole, che vorrebbe decisioni sottomesse a nessun vincolo, nella totale possibilità di obbedire alla propria volontà individuale, sciolta da ogni regola e da ogni limite. Ci si illude che questa sia la strada dell'appagamento e della realizzazione di sé; in effetti è la strada del disagio e dell'infelicità. In questo caso, la vita si trova esposta di continuo alla necessità di decidere, perché ha di fronte le indefinite possibilità che oggi sono offerte dalla società consumista, dalla mancanza di regole, di riferimenti certi, capaci di dare stabilità e, in definitiva, identità all'esistenza individuale. Altra è la prospettiva che l'educazione dovrebbe far intravedere: «È libero chi non è dominato dall'orgoglio, chi non è posseduto dalla ricchezza e dall'ossessione del consumo, chi non ha bisogno di sudditi per sentirsi importante, chi non teme di assumersi le proprie responsabilità» (C.M. MARTINI, Dio educa il suo popolo, cit., n. 15). La vera educazione non può che condurre alla libertà. E questo è talmente vero, che i regimi autoritari si sono curati di far cessare ogni attività educativa, lasciando sopravvivere solo la propaganda di regime; lo sa bene l'Azione cattolica, che nel 1931 vide chiusi con la violenza i suoi circoli proprio perché luoghi di educazione. Non di sovversione, ma di più: luoghi in cui i giovani imparavano ad assaporare il gusto della libertà.
    Oggi educare alla libertà significa consegnare un'idea alta di tale dimensione della persona, mostrando di essa la bellezza e le esigenze; facendo intravedere che si può essere liberi nella misura in cui si sceglie di diventare tali: «È la persona che si fa libera, dopo aver scelto di essere libera; la libertà non le è mai offerta come un dato già costituito; e nulla al mondo può darle la sicurezza di essere libera, se essa non si slancia audacemente nell'esperienza della libertà» (E. MOUNIER, Il personalismo, Editrice AVE, Roma 2004, p. 95).
    E poi significa allenare i più giovani (ma perché non dire che anche gli adulti hanno bisogno di riscoprire il valore e il senso di un tale allenamento?) a vivere secondo tale prospettiva, che richiede anche insegnare a riconoscere i condizionamenti, individuare le manipolazioni subdole di un consumismo che tende ad orientare comportamenti e stili di vita. Per la scuola, la sfida è quella di mostrare il rapporto che esiste tra libertà e cultura, tra la libertà propria e quella di coloro che ci vivono accanto. Per la famiglia, educare alla libertà significa insegnare a pensare in grande, a star dentro i confini che si definiscono, perché libertà è esercizio della propria vocazione umana e capacità di orientare la propria vita. Per la comunità cristiana, l'educazione alla libertà passa attraverso la capacità di mostrare l'ampiezza degli orizzonti che la fede apre, la vastità di cuore di coloro che credono al Vangelo, nella cui verità siamo fatti liberi (cfr. Gv 8,32).

    Il pensiero

    È la capacità di penetrare la realtà, di conoscerla, di interpretarla, di imprimerle un orientamento; esercizio critico che riconosce le strumentalizzazioni e vigila su di esse, contrasta gli atteggiamenti creduloni, assunti per superficialità o per superstizione.
    Certo, il pensiero richiede disciplina e impegno, ma ad essi si sottopone volentieri chi ha avuto maestri che gli hanno fatto scoprire che il pensiero allarga gli orizzonti della realtà e del cuore.
    Nel desiderio e nell'esperienza del conoscere, la persona si incontra con la grande questione della verità, che percorre la vita di tutti, fin dalla più tenera età: sono i perché attraverso cui i bambini cominciano ad esplorare la realtà; è la curiosità che li porta a fare domande via via sempre più impegnative; è l'inquietudine che spinge a chiedersi il senso delle cose.
    L'educazione del pensiero riguarda tutti i contesti di vita dei ragazzi, a cominciare dalla famiglia, in cui tale educazione si esprime nella capacità di motivare, di spiegare, di dare ragioni, di non spegnere le domande, di sostenere la fatica dello studio con ragioni vere, libere dalla preoccupazione della carriera o dell'affermazione di sé.
    È soprattutto la scuola il luogo in cui si cerca di rispondere alla domanda di conoscenza che vi è in tutti i ragazzi, che dovrebbero poter sperimentare che li si ritiene «degni di scoprire il mondo» (A. Camus, Il primo uomo, Bompiani, Milano 1994, p. 291).
    Qui sta la sfida della scuola: suscitare curiosità, introdurre al desiderio di andare sempre oltre, far crescere il gusto della conoscenza e di una comprensione della vita che non ammette superficialità e scorciatoie. Alla scuola, la responsabilità e la fierezza di non accontentarsi di rispondere agli interrogativi dei ragazzi come se fossero chiusi in se stessi, ma di avventurarsi con loro lungo la strada che sa aprirsi alle grandi domande: sarebbe «una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita» (Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell'educazione).
    Anche la comunità cristiana ha un ruolo importante in ordine all'educazione del pensiero; essa si esprime ogni volta che aiuta i più giovani a tenere insieme fede e ragione, quando li motiva a trovare ragioni oggettive e insieme personali per le loro scelte di fede. In un tempo in cui la fede ha bisogno sempre più di farsi personale, è importante renderla ricca di consapevolezza e di significati.

    II corpo

    L'unicità della nostra persona è custodita anche nel nostro corpo. Compito arduo quello dell'educazione in questo ambito, in un tempo in cui il corpo è oggetto esibito e strumento di affermazione di sé, oggetto di cura esagerata nell'esercizio fisico e nella pratica sportiva e al tempo stesso trasceso nella realtà virtuale che nega la fisicità. Costruire una relazione positiva con il proprio corpo non è un passaggio scontato nella crescita di una persona: il corpo dice rapporto con se stessi, con la realtà, con l'altro. È molto più della sua fisicità: esso custodisce il mistero della persona.
    In questa prospettiva, parlare del corpo in dimensione educativa significa affrontare anche la questione dell'identità di genere e quella della sessualità. La libertà dei costumi sessuali di oggi, quali si riflettono ad esempio nella programmazione televisiva, fa sì che i ragazzi ricevano molte informazioni quasi spontaneamente. Oggi non c'è bisogno di insegnare ai ragazzi che i bambini non li porta la cicogna, ma non c'è più chi insegni loro il significato umano della sessualità, il suo essere dimensione – e non funzione – della persona; non c'è chi ponga le premesse di valore per comprendere certe norme morali, che, sganciate dal loro senso, appaiono incomprensibili e fuori tempo. Gli atteggiamenti che si riferiscono al corpo hanno bisogno proprio di questa rivisitazione sul piano del senso; basti pensare al pudore. Il pudore è una forma di rispetto. Riguarda non solo il corpo, il suo aspetto, i suoi atteggiamenti, ma anche i pensieri, i sentimenti... Insegnando il pudore, si comunica ai ragazzi l'idea che hanno il diritto-dovere della riservatezza sui loro sentimenti, sui loro pensieri, sui loro diari, sulla loro corrispondenza. Anche il pudore verso il proprio corpo è insieme dovere e diritto. Siamo abituati – o eravamo? – a presentarlo come un dovere, nella prospettiva difensiva del corpo e della sessualità, quella che ha portato a misurare il senso del pudore in centimetri di maniche o di gonne. Ma il giorno in cui il moralismo ha terminato la sua funzione, allora è stato come rompere gli argini. Oggi occorre recuperare il senso del pudore come atteggiamento del custodire il mistero racchiuso nel corpo dell'uomo e della donna. Allora questo valore non ci sembrerà più un dovere, ma un diritto da rivendicare, soprattutto da parte della donna; da rivendicare anche nei confronti di un costume che con grande disinvoltura fa dell'esibizione del corpo femminile uno strumento di mercato.
    Questi aspetti oggi sembrano non appartenere più a nessuno: né alla famiglia, che non sa da dove iniziare, né alla scuola, che ritiene che non le competa, né alla comunità cristiana, se non talvolta in termini piuttosto lontani dal sentire comune di ragazzi e giovani.

    L'affettività

    È la forza che attrae una persona verso l'altro, che porta a stabilire relazioni e legami.
    Gli affetti, per la loro componente passiva, coinvolgente, quasi naturale, sembrano essere sottratti all'area dell'educazione: c'è chi pensa ancora che la vita affettiva cresca quasi per spontanea maturazione, così come con il tempo si cresce di statura e di età. Oppure c'è chi pensa che alla forza dell'emozione non ci si possa sottrarre e che dunque l'educazione in questo ambito sia inutile. E c'è anche chi ritiene che sia bene lasciare agli affetti la naturalità di un'espressione spontanea. Eppure oggi più che mai c'è bisogno di educare gli affetti, che significa, in fondo, impegno a prendere in mano il progetto complessivo della propria vita e rifiutare di restare in balia di forze di fronte alle quali siamo passivi. Educare gli affetti è dare valore e ordine all'intensità delle emozioni e dei sentimenti, riconoscerli e orientarli all'incontro con l'altro; imparare tutti i linguaggi, a cominciare da quelli del corpo, che generano comunicazione, che aiutano a superare i conflitti, a fare degli affetti una forza per una socialità forte e personale; significa aiutare a dare armonia ed equilibrio, e dunque benessere, alla propria vita.
    Anche la scuola non può lasciare gli affetti fuori dalla porta: molto di ciò che resterà nella vita di tanti ragazzi passa attraverso le relazioni vissute in classe, il clima di accoglienza sperimentato tra le mura scolastiche. Gli affetti – emozioni, sentimenti, relazioni – non possono restare fuori dalla scuola, perché non sono fuori dalla vita.

    La socialità

    Gli "altri" costituiscono un'esperienza imprescindibile nella esistenza di ciascuna persona. Vissuti come una presenza ovvia e naturale, oppure come oggetti della nostra responsabilità e del nostro impegno; percepiti come un intralcio all'autoaffermazione o come dono e risorsa; amati o disprezzati; cercati o respinti.
    La gamma degli atteggiamenti di fronte alle persone che incontriamo o con cui viviamo e condividiamo è vastissima e dipende in larga misura da come nel tempo è stata educata la disponibilità all'incontro, da come è stata formata la capacità di relazione, è stato costruito l'atteggiamento verso chi ci circonda.
    Educare alla socialità significa indicare la strada per uscire dall'isolamento e insegnare il valore del sentirsi parte di una comunità, in cui si maturano responsabilità e solidarietà, ma anche il senso di un bene che trascende tutti e interessa ciascuno.
    Benché oggi sia sempre più raro che i ragazzi facciano parte di una comunità fraterna che offra il primo apprendimento di una socialità tra pari, la famiglia resta la prima scuola in cui si impara a tener conto degli altri, ad accorgersi che siamo parte di una comunità umana che è una risorsa e una responsabilità. Questo la famiglia riesce a fare se sa aiutare i ragazzi a uscire di casa, a stabilire relazioni con gli amici, a cimentarsi con scelte di gratuità. Alla scuola poi spetta di insegnare l'alfabeto della convivenza civile, di far apprezzare la democrazia, con i valori di tolleranza, di rispetto, di dialogo che essa porta con sé, con la necessità di acquisire il senso delle mediazioni, il valore degli strumenti che danno forma al vivere insieme, la responsabilità che essi comportano. Un capitolo oggi problematico e molto importante dell'educazione alla socialità è quello che riguarda la politica, intesa come dimensione della cittadinanza; essa è stata travolta nella considerazione dei più giovani dalla crisi che ha investito la politica stessa; ma a maggior ragione si pone oggi l'esigenza di educare i giovani a misurarsi con le esigenze del bene comune. La socialità diviene, in forma stringente, responsabilità: le forme che essa prende nella vita di una persona costituiscono quasi il segno di una socialità adulta e cresciuta.
    È tuttavia difficile chiedere ai ragazzi atteggiamenti di responsabilità quando non sono stati educati al senso di appartenenza ad una comunità di cui sono parte; quando in famiglia si sentono ospiti; a scuola, clienti; in parrocchia, parcheggiati per qualche iniziativa.

    La responsabilità

    È l'apprendistato verso la maturità, attraverso la capacità di rispondere di sé, dei compiti affidati, della possibilità di prendere parte, da protagonisti, in maniera affidabile, della comunità familiare, scolastica, civile, ecclesiale di cui si è parte. Si apprende la responsabilità potendo essere protagonisti, in forme proporzionate alle proprie capacità; riconoscendo ai più giovani la possibilità di sbagliare e di ricominciare. Anche così si impara che non siamo chiamati a vivere per noi stessi ma per raggiungere scopi che vanno al di là di noi.
    Il rapporto tra educazione e responsabilità è di grande attualità: c'è bisogno di aiutare le persone a divenire capaci di rispondere a se stessi e agli altri, a misurare le conseguenze delle proprie azioni, ad assumersele, a riflettere su di esse. Oggi si ha l'impressione che tanti ragazzi - ma anche non pochi adulti - si rendano conto della portata dei loro comportamenti solo dopo che li hanno realizzati, e si trovano di fronte alle conseguenze di azioni su cui non hanno riflettuto prima, che non hanno saputo accompagnare con la ragione e con la consapevolezza.
    Un'esperienza fondamentale in questo senso è quella che passa attraverso la responsabilità stessa: si impara a rispondere di sé e delle proprie azioni quando ci si sente protagonisti di esse, incaricati di portare a termine qualche impegno: l'assunzione di responsabilità passa attraverso la fiducia ricevuta dagli adulti o comunque dalle persone che stanno vicino. L'essere ritenuti all'altezza di un compito aiuta a tirar fuori le energie migliori e la responsabilità ricevuta diviene atteggiamento che plasma il proprio rapporto con la realtà. Ma se per la paura che i ragazzi sbaglino o si scontrino con le difficoltà si ímpedísce loro l'esperienza della fatica e del mettersi alla prova, essi non matureranno mai e non approderanno a questa caratteristica tipica della vita adulta. Gli atteggiamenti fortemente protettivi di oggi, sperimentati soprattutto in famiglia, tengono al riparo dal rischio di sbagliare e di fallire, ma non fanno crescere.

    Il limite

    L'uomo è una creatura ferita; nell'inclinazione al male che non vorrebbe (Cfr. Rm 7,14-25) sperimenta anche dentro di sé il mistero del male. Educare a vivere da persone significa abituare a fare i conti con il limite, che appare sempre più dimensione invalicabile dell'esistenza umana, uno dei segni di una creaturalità segnata dal peccato.
    L'uomo non si arrende al limite, eppure solo se lo vive da uomo questo lo realizza, rendendolo signore, e non padrone, della terra. Prometeo e Ulisse hanno sfidato il limite, rivelando al tempo stesso che il cuore dell'uomo è fatto per andare oltre i confini fisici o materiali della sua esistenza, ma anche che chi "sfida gli dei", per rubare le loro prerogative, soccombe. E soccombe anche Narciso, che fa dell'amore di sé e della sua immagine l'abbaglio della propria vita.
    Nel comune modo di vivere, si notano segni del modo disinvolto con cui si considera e si affronta il limite: le trasgressioni del mondo giovanile, l'evanescenza delle differenze generazionali, la contaminazione dei ruoli e dei generi, l'antagonismo crescente tra individui, popoli e soggetti sociali. Ma tutto questo non sembra aver dato alla vita delle persone – nel dissolversi delle identità – maggior appagamento al bisogno di pienezza che inquieta tutti.
    Oggi ci rendiamo conto che sí può essere donne e uomini veri solo sapendo fare i conti con il limite, integrandolo, o reintegrandolo, nel nostro modo di pensare la vita.
    Occorre imparare a pensare la vita dentro i confini che la costituiscono. Questo non significa arrendersi, ma piuttosto cercare la strada per essere se stessi, nella tensione a superarsi: nell'incontro con l'altro, nella reciprocità, nello scambio, nel dialogo, nel desiderio. Ma occorre anche educare a vivere il limite delle cose e della realtà. È l'esperienza della pazienza e del desiderio. La logica del "tutto e subito" è infantile e capricciosa; per superarla, bisogna imparare a desiderare, a essere creativi, ma anche a darsi una disciplina, ed essere costanti nell'andare nella direzione che il desiderio ci indica. Educare a vivere il limite significa anche saper rielaborare il fallimento, non lasciarsi sconfiggere dai propri errori, saper ricominciare ogni giorno senza lasciarsi cadere le braccia.
    Imparare a vivere il limite significa anche trovarsi di fronte alla sofferenza. Anche la sofferenza «fa parte della verità della vita» (Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell'educazione). Ogni genitore e ogni educatore vorrebbe evitare ai propri ragazzi l'incontro con il dolore, ma esso fa parte della nostra umanità. Un ragazzo che non ha imparato a fare i conti con il dolore che c'è in ogni esistenza, rischia di non essere in grado di affrontare le inevitabili difficoltà del vivere. Solo chi ha imparato a misurarsi con la prova, avendo al fianco qualcuno che sostiene e dà coraggio, può affrontare nella libertà e nella fiducia l'avventura della vita.
    Le dimensioni che sono state toccate in questi appunti sono quelle che costituiscono la struttura fondamentale della persona. Solo educando ciascuna di esse ed educandole tutte nella loro interdipendenza è possibile veramente parlare di educazione della persona e dare ad ogni ragazzo che cresce una struttura armonica, che è anche condizione per il suo benessere. Mi piace concludere questi appunti per un progetto educativo con le parole del decreto conciliare sull'educazione, che afferma che i ragazzi e i giovani devono «essere aiutati a sviluppare armonicamente le loro capacità fisiche, morali e intellettuali, ad acquistare gradualmente un più maturo senso di responsabilità, nello sforzo sostenuto per ben condurre la loro vita personale e la conquista della vera libertà, superando con coraggio e perseveranza tutti gli ostacoli. Debbono anche ricevere, man mano che cresce la loro età, una positiva e prudente educazione sessuale. Debbono inoltre essere avviati alla vita sociale, in modo che, forniti dei mezzi ad essa necessari ed adeguati, possano attivamente inserirsi nei gruppi che costituiscono la comunità umana, siano disponibili al dialogo con gli altri e contribuiscano di buon grado all'incremento del bene comune» (Gravissimum educationis, n. 1).


    T e r z a
    p a g i n A


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