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    Pedagogia e utopia:

    l’alleanza della speranza

    Jean Houssaye *



    Oggi in educazione manchiamo di speranza. Tendiamo a disperare quando osserviamo i risultati delle politiche educative. C’è il grande rischio di cedere ad argomenti specialistici, asettici e disimpegnati, fondati su criteri razionali che non tengono conto dei progetti sociali in educazione. Pertanto, si cede facilmente a un punto di vista che tende a valorizzare certi criteri (di valutazione, di performance, di competenza, di efficacia, di qualità) a tutto danno di una riflessione centrata sulle dimensioni sociali e politiche dell’atto educativo.
    Qui faccio riferimento a Paulo Freire, il simbolo brasiliano dell’educatore impegnato nella società. Tutta la sua opera teorica e pratica si presenta come una sorta di coscienza critica che ci mette in guardia contro la depoliticizzazione del pensiero educativo e della riflessione pedagogica. L’educazione deve essere intesa come progetto di liberazione perché la pedagogia deve portare a realizzare valori civili e democratici. Oggi, per noi in modo particolare, non si tratta forse di elaborare una concezione educativa che coniughi la teoria sociale, il compromesso morale e l’impegno politico? Non si tratta forse di realizzare quella Pedagogia della speranza che invoca Paulo Freire? «La sola speranza non trasforma il mondo. Agire sulla base di questa ingenuità è il miglior modo di cadere nella disperazione, nel pessimismo e nel fatalismo. Ma privarsi della speranza nella lotta per migliorare il mondo è un’illusione frivola. […] Perché la speranza è una necessità ontologica che ha bisogno di ancorarsi nella pratica, in modo da rendersi concreta nella realtà storica» (Freire, 1992, p.10-11).
    Il progetto di Paulo Freire, come quello di cui ci occupiamo noi, l’utopia si realizza, prima di tutto, con l’educazione; un’educazione che ci obbliga ad accettare compromessi sul piano etico, sociale e politico e che ci fa ripensare ai mezzi che organizzano la nostra azione pratica e la nostra riflessione scientifica.

    1. Tra pedagogia e politica: l’utopia

    In ogni caso, oggi, se la pedagogia e la politica vogliono agire nel campo dell’educazione devono cercare di mettersi in relazione tra loro. Esse si sono sempre più allontanate: la pedagogia si è ormai collegata alla scienza e alla pratica scientifica al fine di esercitare meglio la sua funzione e assicurarsi credibilità ed efficacia. In un certo senso, la pedagogia e la politica arrivano a congiungersi ritrovandosi nella scienza, nella speranza della scienza, nella fiducia nella scienza, in quella relazione tra scienza e progresso che ha segnato l’epoca moderna e che oggi si è affievolita.
    Tutto ciò ci porta a chiederci a quale condizione politica e pedagogia possono entrare in relazione in modo abbastanza sereno e con un interesse comune. La scienza non basta a impegnarle entrambe in modo durevole. La scienza è fredda e potrebbe indurci a credere che la certezza sta nell’eccesso di razionalità. Ci vuole qualcosa in più, qualcosa di più folle, di più forte sul piano del desiderio, della speranza, di un impegno nell’educazione. Ci vuole un’utopia condivisa. Probabilmente ciò richiede più coraggio sia sul versante politico e che su quello pedagogico. Certo, la politica deve far sperare, ma spesso, immediatamente, di fronte a difficoltà insormontabili, è costretta a privilegiare la sicurezza della gestione in nome di un principio di realismo. D’altronde, è difficile prendersela con lei, perché è impossibile soddisfare le istanze oggetto della sua attenzione, soprattutto quando le ha alimentate.
    Per parte sua l’educatore, se ci tiene veramente a mostrarsi tale, è condannato all’utopia, proprio perché non vuole essere un semplice ingranaggio della macchina organizzativa
    dell’educazione. In educazione il nuovo appare sempre come un’utopia concreta perché è proprio tra ideologia e utopia che si colloca il discorso pedagogico. La pedagogia si nutre dell’insoddisfazione e della denuncia delle pratiche pedagogiche dominanti, cerca di promuovere nuove pratiche, di guardare avanti, di far sperare, rifiuta di accontentarsi dello stato delle cose. La pedagogia appare subito come qualcosa di critico: ogni discorso pedagogico è per natura innovativo perché è sempre animato da un intento critico e da una volontà di emancipazione nei confronti delle pratiche pedagogiche esistenti, quelle che non sono più oggetto di argomentazioni critiche, ma si accontentano della loro efficacia relativa (un’efficacia fondata sul carisma, sulla tradizione, sui pregiudizi). Queste due prospettive del discorso pedagogico, ideologico mistificatorio da un lato e utopico critico dall’altro, si congiungono al livello del potere politico; l’incontro si realizza con il passaggio dal discorso politico al discorso ufficiale, quando il discorso stesso, inizialmente solo valutativo, si trasforma in prescrittivo.
    L’originalità del discorso pedagogico consiste proprio in questa distanza tra ideologia e utopia. Un discorso pedagogico nuovo richiede che la prospettiva critica si renda concreta e reale nell’ambito delle tradizioni che la determinano, liberando tutte le potenzialità di questo contesto, quelle rifiutate dall’ordine esistente, aprendo così la prospettiva di un’utopia realizzabile. L’utopia educativa, infatti, esiste per incarnarsi, per non cedere alla rassegnazione, per non accettare l’inaccettabile, per aprire la porta alla speranza, per offrire ancora speranza, ben sapendo che mai i risultati potranno essere alla sua altezza, ma sapendo anche che ciò che si realizza non ci sarebbe stato senza di essa. L’utopia serve per fare un appello, andare avanti, progredire, non per indebolire o dissolvere.
    Pensare all’educazione come alla pura e semplice realizzazione di un progetto significa riportare la novità dell’altro, giovane o adulto, alle condizioni esistenti, ridurla a ciò che è qui ed ora. Non è però necessario fare dell’enigma di ciò che nasce un mezzo per produrre un futuro previsto in anticipo. Tutti questi idoli avidi del sangue dei giovani, il Progresso, lo Sviluppo, il Futuro o la Competitività hanno solo un sogno: catturare la novità, amministrarla, venderla. L’azione pedagogica consiste nel “fare” qualcosa di reale a partire dal possibile. Il problema è che più che di passare da ciò che è possibile a ciò che è reale si tratta di passare da ciò che è impossibile a ciò che è vero. Ciò richiede che si accetti di rinunciare alla volontà forsennata di sapere e di potere. La salvezza non arriva una volta per tutte: non c’è parusia e gli dei sono in esilio. Anche se la meraviglia non esiste, è necessario offrirle l’occasione di riapparire nel momento in cui meno la si attende per poter coniugare utopia e umiltà.
    È l’utopia che genera, nutre e fa sbocciare le dottrine pedagogiche. Ciò che le caratterizza è il fatto di legare a doppio filo il sapere e l’azione, il cognitivo e il prescrittivo, nella creatività e nell’incertezza dell’agire. Senza l’utopia, in educazione non è possibile far convivere la credenza in una scientificità che descriva le necessità e la credenza in una salvezza che procuri felicità. È l’utopia a dar vita all’alternanza, che induce a fare una cosa in modo diverso, a educare in modo diverso, a sospettare che, infine, il sogno sia più reale del reale stesso. Qui la politica e la pedagogia si ritrovano insieme: come pensare e fare senza proporre alternative? Come limitarsi ad accettare solo ciò che è? Come non insorgere quando si è responsabili? Come non rassegnarsi a rassegnarsi? Come non accontentarsi dell’efficacia relativa di ciò che è? Ritrovando e portando con sé la speranza, perché la speranza significa che dietro ogni realtà ci sono altre possibilità che possono essere liberate dalla prigione dell’esistente. Non è forse questo il senso sia dell’atto politico che dell’atto pedagogico? Non è forse questo il senso della possibilità e dell’urgenza di ciò che li lega? Che fare, in questo caso? Quali punti di riferimento possiamo darci?

    2. Fare la scelta dell’utopia della fraternità

    La domanda che oggi si pone a noi sul piano dell’impegno pedagogico è con ogni probabilità la seguente: quale utopia rivendicare e mettere in atto? Io difenderò la seguente tesi: bisogna privilegiare la fraternità o la solidarietà.
    Forse siamo ancora in tempo per far rivivere l’utopia delle pedagogie della fraternità. Siamo ancora in tempo per riprendere pienamente (l’utopia ha il potere di catapultare il passato nel nostro avvenire) la coscientizzazione di Freire, la convivialità di Illich, l’amore dei diritti del bambino di Korczak o la costruzione della legge di Oury.
    Dovendo scegliere, desidero partire dall’Educazione Nuova e in modo particolare da Dewey, che oggi torna in auge, e non a caso. Ricordate: nel 1916 Dewey scrive Democrazia ed educazione, un grande libro che affronta le sfide della scuola. A cosa serve la scuola? Che cosa serve? A cosa deve servire? Si converrà che non si tratta di questioni di poco conto. La sua analisi è senza appello. La scuola, ci dice, nella sua forma attuale, quella dell’inizio del XX secolo, è caratterizzata dal formalismo, dall’individualismo, dall’intellettualismo, dalla deresponsabilizzazione scolastica e sociale. Un secolo più tardi, dove siamo? Possiamo veramente affermare che non siamo più lì?
    Attenzione: la fraternità non può essere un premio di consolazione! Naturalmente potrebbe funzionare secondo questo schema. Infatti, molto spesso, allievi, genitori, insegnanti hanno interiorizzato l’idea secondo cui l’insuccesso scolastico è un problema dell’individuo, che non ha fatto sufficienti sforzi, che non è fatto per gli studi, che …ecc., la fraternità può essere presente per testimoniare che si ha attenzione, compassione, nei confronti di tutti gli allievi che non “ce la fanno”, come si dice. È un modo per fare qualcosa senza mettere in discussione l’ordine delle cose, l’ordine sociale e l’ordine scolastico. La fraternità come nuova forma di pedagogia del sostegno? Non è impossibile.
    Torniamo piuttosto a Dewey e a ciò che ci dice in Democrazia e educazione. Non ci sono ambiguità. La scuola è soprattutto un’istituzione sociale reale e vivente. Soprattutto, non è possibile adottare due teorie morali, una per la vita a scuola, e l’altra per la società. Il ragazzo non è prima di tutto un soggetto che frequenta la scuola, è un membro della società e nel senso più ampio del termine: sta alla scuola renderlo capace di comprendere la sua dipendenza nei confronti della società e di accettare questa solidarietà. Ma attenzione! L’affermazione è a doppio senso: si suppone che la scuola sia un’istituzione sociale reale e viva. Dunque, come farvi crescere la fiducia, la cooperazione, la fraternità?
    Se si vuol seguire Dewey nella sua riflessione e nella sua azione educativa, qui sta proprio la difficoltà. Se la scuola non è un’istituzione sociale reale e viva, come lui sostiene, che cosa è diventata e che cosa favorisce? Un intellettualismo dei saperi civili e morali da un lato, un formalismo delle attitudini morali dal carattere particolarmente artificiale dall’altro. La morale, e la fraternità in primo luogo, non è questione di atti ben delimitati, di saperi specifici o di virtù da studiare, integrare e riprodurre. La morale è prima di tutto questione di intelligenza sociale e di potere sociale.
    Che cosa si deve intendere con ciò? L’intelligenza sociale è il potere di osservare e comprendere la solidarietà umana; il potere sociale è la capacità di controllare il proprio carattere. Pertanto l’educazione alla fraternità è un tutto e non una parte dell’educazione a scuola e grazie alla scuola.
    Far vivere la fraternità a scuola è tentare di assicurare le condizioni di una fraternità democratica. È ragionevole pensare di far vivere la democrazia a scuola? Non è forse più semplice accontentarsi di favorire l’intelligenza di un certo numero di segni della democrazia e della fraternità? Certamente. Ma Dewey (un incurabile utopista, senza dubbio!) reagisce per ricordarci i limiti e le contraddizioni di questa posizione. Se si pensa che le strutture sociali di tipo democratico sono più essenziali, più favorevoli, più “educative” di quelle di tipo contrario, se si pensa che il dialogo reciproco e le convinzioni basate sulla persuasione sono migliori dei metodi impositivi o di coercizione, non abbiamo scelta. Siamo costretti a permettere ad ogni allievo, insieme agli altri, di farne concretamente esperienza, con gli altri. Questo è il ruolo capitale della scuola.
    Certo, tutto ciò ci porta molto lontano ma, come che sia, bisogna ben scegliere. O la fraternità è una cosa a parte, senza necessariamente essere marginale, oppure è legata all’insieme del funzionamento della scuola. Se è questo il caso, nello stesso modo in cui la fraternità si coniuga con la democrazia, essa è anche in relazione a nozioni capitali come l’autonomia e la socializzazione. Prendete l’autonomia. Non si è autonomi da soli. L’autonomia trova la sua coerenza solo in un’interdipendenza e una socializzazione crescenti; coniuga i sentimenti d’indipendenza, libertà, responsabilità e convivialità. Lì sta proprio la fraternità!
    L’autonomia indica un modo di vivere insieme, viene enunciata in termini di pratiche sociali, ci fa capire ciò che deve essere rispettato nel vivere insieme, nella costruzione di una legge che si fa e si rifà. È un atteggiamento generale nei confronti della vita. Dunque non si insegna, si apprende, si prova. Richiede educatori veramente attivi e una nuova concezione della relazione pedagogica.
    Socializzazione, autonomia, relazione educativa, fraternità in qualche modo si equivalgono. Perché?
    Perché riguardano il funzionamento tollerante e democratico delle strutture sociali. La scuola è una di esse, ma è una struttura molto particolare, perché è lì che si dovrebbe imparare a praticarle. È nella scuola che deve essere costruito il crogiolo democratico del futuro. Cosa non facile, vero? O molto semplicemente, utopico.
    Per concludere, prendete i “Trenta punti” di Ferrière. Di che si tratta? Senza alcun dubbio di un’utopia in azione, di un “programma massimo” perché una scuola possa definirsi nuova, come ricorda Ferrière. Educatore avversato, cronista globe trotter dell’Educazione Nuova, Ferrière fa una sintesi del patchwork delle pratiche pedagogiche innovative che ha incontrato. Nessuna istituzione dell’epoca ha mai realizzato l’insieme dei “Trenta punti”. Sono un’utopia, portatrice sia di pratiche pedagogiche reali che di un invito ad andare oltre, un appello ricco di speranza per gli educatori dell’inizio del ventesimo secolo. Per questo, questi “Trenta punti” per noi oggi, cent’anni dopo, possono ancora costituire un’utopia portatrice di speranza? Toccherà a voi dircelo.
    In ogni caso, ancor di più oggi la pedagogia resta legata all’utopia. Se non fosse così si ridurrebbe a qualcosa che sta al servizio della politica. Qui è necessario prendere le distanze da Dante che, all’inizio della Divina Commedia (Canto III), pronuncia le parole che stanno sopra la porta d’ingresso dell’Inferno: «Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate».Al contrario, ispirati e preceduti da Paulo Freire, John Dewey o Adolphe Ferrière, noi dobbiamo rallegrarci se in educazione ci sono ancora e sempre luoghi e progetti in cui sia possibile dire: «Voi che educate ritrovate la speranza». A patto di aggiungere che solo l’utopia può mantenere e alimentare questa speranza.

    * Jean Houssaye è Professore emerito in Scienze dell’Educazione presso l’Università di Rouen (Normandia - Francia).

    Bibliografia

    Dewey J. (2018) Democrazia ed educazione. Roma: Anicia.
    Freire P. (1992) Pedagogia da Esperança: Um reencontro com a Pedagogia do Oprimido. São Paulo: Paz e Terra (edizione italiana 2014, Pedagogia della speranza. Torino: Edizioni Gruppo Abele).
    Hameline D. (1986) Courants et contre-courants dans la pédagogie contemporaine. Sion : ODIS.
    Hameline D. (2013) «Adolphe Ferrière», in Houssaye J. (direction) Quinze pédagogues. Idées principales et Textes choisis, Paris: Editions Fabert.
    Houssaye J. (1992) Les valeurs à l’école. Paris: PUF.
    Houssaye J. (2004) «Utopie: le chant du monde». Utopies et Pédagogies. Waldersbach: CIVIIC-Musée Oberlin.
    Rey Herme A. (1979) «La liberté d’enseignement: liberté de qui?». Le sujet de l’éducation. Paris: Éditions Beauchesne.
    Touraine A. (1995) «L’école du sujet». Les entretiens Nathan. Paris: Nathan.

    FONTE:
    https://www.sird.it/wp-content/uploads/2021/07/Pedagogia-e-utopia.-Houssaye.pdf


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