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    Educare è possibile

    Educare è bello

    “Tu sei prezioso ai miei occhi” (Is 43,4)

    Lettera pastorale per l'anno 2010-2011

    Antonio Lanfranchi *


    INTRODUZIONE

    È con trepidazione che mi accingo a scrivere la mia prima Lettera Pastorale alla diletta Chiesa di Modena-Nonantola.
    Un pensiero mi si affaccia subito prepotente nel cuore e nella mente: non è senza significato che essa verta sull’educazione cristiana. La scelta è anzitutto determinata dalla decisione di voler legare le lettere pastorali d’inizio anno al cammino concreto della comunità cristiana, in comunione con quello di tutte le Chiese che sono in Italia. Per me però scrivere di educazione significa rivivere in sintesi tutti gli anni del mio sacerdozio, andare di fatto alla “cifra interpretativa” di tutto il mio ministero, rivivere passioni, sogni, gioie, speranze, ma anche fatiche e delusioni, potenzialità e limiti, positività e negatività, e soprattutto lasciare riemergere volti di persone di ogni età, con cui ho percorso un tratto di strada, nella consapevolezza di una comunione di destino e nella gioia dell’appartenenza ad una comunità.
    Se ogni Lettera Pastorale nasce dalla comunicazione di un “sentire umano e religioso”, questo vorrei che si potesse dire in modo particolare di questa Lettera, dove però il proprio sentire è dentro al sentire dei tanti, che insieme hanno riflettuto e si sono confrontati, e intendono continuare su questa strada.
    L’educazione di fatto coincide con la vita, ne investe tutti gli ambiti, tutte le dimensioni e tutte le età. Non c’è aspetto dell’educazione che oggi non costituisca una sfida. Di fronte a questa constatazione, può nascere un senso di impotenza o di inutilità o di volere abbracciare tutto e subito. Consapevole dell’importanza e dell’urgenza della scelta, la Chiesa italiana dedica al tema educativo un decennio.
    Una domanda viene spontanea: Quali aspetti considerare quest’anno?
    Un grande filosofo, Husserl, afferma che nei momenti di crisi prima di affrontare i vari aspetti del problema occorre “tornare alla cosa in sé”. Lo trovo vero anche in questo caso ed è la scelta in cui inquadrerei la Lettera Pastorale.
    La finalità principale è quella di contribuire a ridestare la passione educativa e quindi di porci di fronte alla sfida educativa in un atteggiamento di fondo positivo e di speranza, senza per questo sminuire la gravità della situazione che porta a parlare dell’educazione in termini di “emergenza”.
    La Lettera presuppone e rimanda al Documento degli Orientamenti Pastorali programmatici offerti dalla CEI, che ogni comunità deve porre al centro del cammino pastorale. La Lettera e gli Orientamenti, insieme, dovrebbero essere da supporto alla verifica della qualità educativa dell’azione pastorale della comunità cristiana e aiutare a scandire il tema educativo nel decennio.

    CAPITOLO PRIMO
    Osiamo l’educazione. Educare è bello, educare è possibile!

    Non c’è epoca della storia in cui il tema dell’educazione non sia stato presente. Oggi viene affrontato con accenti nuovi; si parla sempre più di sfida, di emergenza, di possibilità , di coraggio.
    Dando per assodate le riflessioni che stanno alla base di ogni termine, in questo primo capitolo vorrei richiamare alcune convinzioni di fondo, che fino a ieri potevano essere date per scontate, ma che oggi rischiano di essere come obnubilate dal contesto sociale e culturale in cui siamo immersi; ad esse è legata molto la passione che deve sostenere l’impegno educativo e che ci proponiamo di ravvivare.

    1. Rapporto stretto tra impegno per l’educazione e visione antropologica

    Nel discorso rivolto ai Vescovi, in occasione della loro Assemblea Generale, il 27 maggio 2010, Benedetto XVI invitava ad andare alle radici profonde dell’emergenza educativa per potervi rispondere adeguatamente. Credo importante richiamarle.
    Affermava Benedetto XVI: “Una radice essenziale consiste in un falso concetto di autonomia dell’uomo: l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo.
    In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, l’ “io” diventa se stesso solo dal “tu” e dal “voi”, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. E solo l’incontro con il “tu” e con il “noi” apre l’“io” a se stesso.”[1]
    Ogni progetto educativo presuppone sempre una determinata idea di umanità, un’immagine di uomo, che volenti o nolenti si trasmette, non solo con il proprio parlare, ma con il proprio essere e il proprio comportamento.
    In altre parole, ogni pedagogia è l’applicazione sul piano formativo di una precisa antropologia globale, che risponde alle domande fondamentali sull’origine della vita dell’uomo, sul suo destino, sul valore della persona umana e sul significato della convivenza umana.
    “L’altra radice dell’emergenza educativa – affermava Benedetto XVI – io la vedo nello scetticismo e nel relativismo o, con parole più semplici e chiare, nell’esclusione delle due fonti che orientano il cammino umano [...]. E se tacciono queste due fonti, la natura e la Rivelazione, anche la terza fonte, la storia non parla più, perché anche la storia diventa solo un agglomerato di decisioni culturali, arbitrarie, che non valgono per il presente e per il futuro”.[2]
    Nella prefazione al Rapporto La sfida educativa, il Card. C. Ruini annota: “Viviamo in una società dove sembra che tutto sia possibile indifferentemente; dove qualsiasi idea o stile di vita sembra avere lo stesso valore; dove il potere dell’apparato tecnico-economico sembra volersi emancipare da ogni istanza umana; dove i desideri sembrano diventare diritti e l’estetica sembra prendere il posto dell’etica […]. Come aveva intuito il sociologo Emile Durkheim, se lasciati a loro stessi, gli uomini sono destinati a cadere vittime dei propri desideri senza fine. Per questo ci vuole l’educazione e ci vogliono maestri capaci di insegnare. Ma è difficile avere l’una senza gli altri se non c’è un patrimonio di valori e di saperi, diciamo pure una tradizione, ritenuta degna di essere tramandata, per la quale, essendo considerata appunto un bene, è giusto esigere rigore, fatica, disciplina e fiducia nel futuro […]. Soprattutto è difficile educare senza avere in mente un modello di uomo, di esperienza umana, che sappiano costituire un fine per cui vale la pena impegnarsi”.[3]

    2. Rapporto tra evangelizzazione ed educazione

    Un altro presupposto da cui partiamo è lo stretto rapporto tra evangelizzazione ed educazione. In molti documenti della Chiesa non può sfuggire l’alternarsi continuo tra il discorso sull’educazione e quello sull’educazione alla fede. Compito specifico della Chiesa è certamente l’educare cristiano, ma non ci può essere educazione cristiana senza “educazione”, tra le due c’è una correlazione stretta. Nessun processo educativo può essere efficace se non fa perno sull’unità della persona, se non tiene conto di tutte le sue dimensioni e non accompagna ad una organica esperienza di vita. Ricorda Benedetto XVI: “La difficoltà di formare autentici cristiani si intreccia fino a confondersi con la difficoltà di far crescere uomini e donne responsabili e maturi, in cui coscienza della verità e del bene e libera adesione ad essi siano al centro del progresso educativo, capace di dare forma ad un percorso di crescita globale debitamente predisposto e accompagnato”.[4]
    A queste parole aggiungiamo quelle dell’ultima Assemblea in rapporto alla domanda di significato dei giovani: “La nostra risposta è l’annuncio del Dio amico dell’uomo, che in Gesù si è fatto prossimo a ciascuno. La trasmissione della fede è parte irrinunciabile della formazione integrale della persona, perché in Gesù Cristo si realizza il progetto di una vita riuscita: come insegna il Concilio Vaticano II: “Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo”.[5]
    L’incontro personale con Gesù è la chiave per intuire la rilevanza di Dio nell’esistenza quotidiana, il segreto per spenderla nella carità fraterna, la condizione per rialzarsi sempre dalle cadute e muoversi a costante conversione.”[6]. L’incontro con Cristo è incontro personale, che coinvolge cioè tutta la persona: il pensare, l’amare, il giudicare, l’agire.

    3. Rapporto tra educazione e speranza

    L’educazione ha come destinatari principali le nuove generazioni, che costituiscono non solo il presente ma anche il futuro della società e sono quindi il volto della speranza.
    Non è senza significato, a mio giudizio, che oggi la sfida non riguardi solo l’educazione ma anche la speranza, che ci sia crisi educativa, ma anche crisi di speranza.
    A pensarci bene educazione e speranza hanno la stessa finalità. La relazione educativa è fonte di speranza. Che cosa intendiamo quando diciamo speranza?
    Il filosofo francese Gabriel Marcel, nella sua analisi dell’atto della speranza, dice che la formula della speranza è: “io spero in te per noi” . Egli dice questo nel 1942, cioè nel momento terribile e più drammatico della seconda guerra mondiale. Per questo filosofo della speranza, sperare è la cosa più personale, ma non è possibile senza tenere per mano la speranza degli altri. La speranza è un atto che coinvolge il soggetto nella sua libertà.
    La speranza non va confusa con la previsione del bene futuro. Io posso prevedere che domani ci sia bel tempo e potrò anche sperarlo, ma questo non ha niente a che fare con la speranza. Domani, che ci sia o no il bel tempo, non dipende da me e nemmeno è legato all’atto di speranza che io sto facendo. C’è un vero atto di speranza quando io impegno me stesso nel futuro.
    La speranza non riguarda “il qualche cosa”: spero che qualche cosa avverrà. La speranza riguarda sempre il “tu”: spero in te, spero in qualche cosa che scaturisce da te, dalla tua libertà. In questo senso l’atto di speranza è notevolmente diverso da quello della futurologia. L’uomo che spera sa credere al bene sempre.
    Questa speranza è fondata sull’amore. II futuro è nelle mani di Dio ed è affidato alla libertà dell’uomo, quindi posso e devo impegnare me stesso nel futuro. Il futuro mi sta davanti come una chiamata di Dio, legata alla mia vita e che sollecita la mia libertà. Il sì che io do al futuro è un sì che io do alla chiamata del Signore.
    Dunque, riassumendo: io spero in te, cioè nella tua capacità di prendere decisioni responsabili e coraggiose da cui scaturisca non solo il tuo bene, ma il bene di tutti. Si parla della speranza in termini di “io-tu-noi”, come nell’educazione. Speranza e relazione educativa possiamo dire che hanno la stessa finalità. Oggi sono in crisi tutte e due. Ricuperare la passione educativa significa rilanciare la speranza e, viceversa, coltivare la speranza rimanda all’educazione.

    4. Rapporto tra educazione e vocazione

    Se forte è la relazione tra educazione e speranza, non meno stretto è il rapporto tra educazione e vocazione. L’emergenza riguarda l’educazione, ma anche la vocazione, ogni vocazione, quella al matrimonio, come quella al sacerdozio, alla vita consacrata; riguarda la vita stessa come vocazione. Per la sua rilevanza e l’urgenza con cui si manifesta, il tema della vocazione deve costituire una priorità pastorale.
    Tutta l’azione educativa deve essere innervata dalla tensione vocazionale. Educare vuol dire aiutare a cogliere la vita come un appello, una chiamata, e a rispondervi. Educare vuol dire trasformare la domanda, che viene spontanea soprattutto ai genitori: “Chi desidero che diventi questo figlio?” nella domanda: “Chi è chiamato a diventare? Lo guardo e lo educo per me, per un progetto mio, o mi sento al servizio di un destino, di una chiamata che porta dentro di sé?”. Ponendoci dalla parte dell’educando, educare cristianamente vuol dire trasformare la domanda: “Chi voglio diventare?” nella domanda: “Signore, qual è il tuo disegno su di me?”.
    Aiutare un ragazzo, un giovane, a scoprire e ad aderire alla sua vocazione significa assicurargli la gioia più grande: quella di avere trovato il motivo unificante per cui vivere. La prospettiva di tutta l’educazione deve essere vocazionale, per guidare al dono totale di sé nel matrimonio, nel sacerdozio, nella consacrazione.
    Nell’attenzione vocazionale confluiscono temi fondamentali, come quello dell’ascolto interiore, l’ascolto della voce di Dio, della voce della coscienza, l’ascolto degli altri, della storia, il tema del discernimento, della libertà interiore e della responsabilità, che si manifesta nella capacità di rispondere e nel vivere la vita come dono di sé.

    5. Educare è possibile

    Questi richiami ad alcune bipolarità che entrano in gioco nell’educare cristiano, a cui volendo andrebbero aggiunte tante altre, sono sufficienti per capire che l’educazione non è un semplice tema da trattare, ma investe la missione della Chiesa in quanto tale.
    Ai fini del discorso che vogliamo portare avanti, e cioè risvegliare e dare concretezza alla passione educativa, mi sembra utile richiamare pure alcune convinzioni di fondo o presupposti.
    Anzitutto la certezza che anche oggi educare è possibile.
    Se non mancano coloro che teorizzano l’impossibilità di educare, nel senso che la ritengono lesiva del libero orientamento della persona, molti di più sono quelli, soprattutto genitori, che sono coscienti della loro missione di dover-educare, ma di fatto si sentono impotenti a farlo, sono presi dallo scoraggiamento: educare è diventato impossibile. Si tratta di un sentimento di sconfitta di fronte a forze ritenute più potenti, se non invincibili.
    Non si vogliono certo sminuire le difficoltà oggettive che si incontrano, ma proprio queste devono spingere a risvegliare la convinzione della possibilità dell’educazione.
    Questa possibilità è radicata nella domanda che ogni persona porta con sé con la sua nascita: di essere messo in grado di accedere pienamente alla sua umanità, di sviluppare le potenzialità che porta con sé.
    Nessun clima culturale, nessuna situazione famigliare o sociale, riusciranno mai a spegnere il desiderio che ogni persona ha nel cuore di essere educato. È un desiderio insopprimibile che, se non è soddisfatto nella verità, cerca di esserlo in un modo falso.
    Nella parabola del seminatore (cfr Mt.13,1-23), Gesù ci parla di un seminatore che, uscito a seminare, non risparmia il seme, ma lo getta su ogni tipo di terreno che incontra: la strada, il terreno sassoso, quello pieno di rovi, il terreno buono, con un esito chiaramente diverso. È una parabola per l’uomo di ogni tempo. Leggendola attentamente possiamo cogliere alcuni messaggi importanti anche per il nostro discorso.
    Anzitutto va sottolineata la radicale apertura del terreno al seme; può cambiare la natura del terreno, ma per il seminatore non viene meno la possibilità di ricevere il seme; seme e terreno sono fatti l’uno per l’altro; dipende dall’incontro con il seme che il terreno rimanga steppa, deserto, luogo inospitale o diventi giardino, porti frutto.
    Possiamo trasporre il messaggio all’educazione. Per quanto cambino le situazioni, non verrà meno nell’uomo la radicale domanda dell’educazione, dipende dall’incontro tra domanda e offerta la possibilità dell’uomo di poter tradurre in progetto compiuto quell’intenzionalità d’amore con cui è venuto alla luce: “Per questi e altri motivi l’educatore non dovrà mai dire, nemmeno di fronte al caso difficile o umanamente impossibile: “non c’è più nulla da fare!”, “è irrecuperabile! Se egli ama alla maniera di Dio, non lo dirà mai per nessuno, come quelle madri e quei padri che non si danno mai per vinti di fronte alla insensibilità, alla ribellione o anche ai rottami del proprio figlio”.[7]

    6. Educare è bello

    Parlare di emergenza e di sfida in riferimento all’educazione potrebbe portare ad accentuare unicamente il sacrificio, la fatica, a cui va incontro l’educatore, e far dimenticare la bellezza di educare.
    La bellezza costituisce oggi una via privilegiata dell’evangelizzazione, per l’attrazione e il fascino che esercita sul cuore dell’uomo; su di essa si deve far leva anche per sostenere la scelta educativa.
    È a tutti nota la frase di Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo”. Berdjaev ne fa questo commento: “Trasfigurare e rigenerare realmente la natura umana è raggiungere la bellezza, che è anche la bontà ontologica. In effetti, quando il bene si compie realmente, senza limitarsi a un legalismo simbolico, si identifica con il bello. Il fine supremo è la bellezza della creatura e non il bene”. E Solov’ëv prima di lui aveva detto: “Il bene diviso dalla verità e dalla bellezza è soltanto un sentimento indefinito, uno slancio impotente; la verità astratta una parola vuota; e la bellezza senza il bene e la verità è un idolo”.[8]
    L’educazione è finalizzata alla bellezza ed è attivata e sostenuta dalla contemplazione della bellezza. C’è una bellezza nell’educare capace di far affrontare ogni sacrificio, di attivare la gratuità, il dono sincero di sé.
    Afferma il Card. Martini: “L’educazione è un’arte gioiosa; non può essere un lavoro forzato. Nemmeno può essere motivata in se stessa da un fine di lucro, ma soltanto dalla creazione armoniosa e felice il più possibile di una persona umana. La soddisfazione e l’appagamento primo e sommo sono dati a un vero artista dal capolavoro uscito dalle sue mani”.[9]
    Il Vangelo di Luca ci riporta le parole di una donna, che attratta dal fascino che la persona e l’agire di Gesù suscitavano in lei, non seppe trattenersi dall’esclamare: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato” (Lc, 11,27).
    Forse non ci pensiamo abbastanza, ma anche Gesù ha avuto bisogno dell’azione educativa di Maria e Giuseppe per dare alla sua umanità una “forma” bella, tale da poter veicolare in un linguaggio umano tutto l’amore di Dio Padre per l’uomo.
    Anche oggi non è sufficiente, come abbiamo tentato di ricordare, offrire conoscenze, sviluppare competenze, formare, in una parola, professionisti, ma occorre contribuire a formare “una persona”, a dare una “forma bella” alla sua umanità, un’armonia e una unità alle sue dimensioni.
    E quest’opera è impagabile e non è possibile se non si è educati alla gratuità, al dono di sé e se non si contemplano, con stupore, le possibilità deposte come germe nel cuore di ogni persona.
    iporto le considerazioni del Rapporto sulla sfida educativa: “Accompagnare un figlio nel compito e nella responsabilità di diventare se stesso è una straordinaria avventura umana, che permette anche all’adulto di scoprire aspetti nuovi della vita e della sua stessa personalità. Dedicarsi in oratorio o in un gruppo alla crescita dei più piccoli permette di toccare con mano come la vita si rinnova e ritrova di continuo freschezza. Significa partecipare all’aprirsi dei ragazzi alla vita; è stupirsi dei loro stupori per ciò che vanno scoprendo; è lasciarsi contagiare dall’ingenuità così profonda della loro preghiera, dei loro slanci.”.[10]
    Questo modo di intendere e di vivere l’educazione non significa annoverare tra le sue caratteristiche una nota in più, ma traduce la volontà di costruire comunità che credono nel valore di ogni persona, hanno fiducia nell’uomo, investono per questo sulla formazione di educatori, credono nel futuro. Leggiamo ancora nel Rapporto: “Si educa perché si crede nel futuro e si intende collaborare a costruirlo; si semina senza sapere se il seme gettato fruttificherà; si educa per un atto di fiducia, oltre che di responsabilità,verso le nuove generazioni. Il credente ha fiducia che Dio è all’opera nel cuore di ciascuno. La speranza dà un punto di vista inedito per guardare alla stessa emergenza educativa: quello di chi non si lascia paralizzare dalla paura o dal pessimismo che deresponsabilizzano, ma continua a lavorare con intelligenza.”[11]
    Questa visione di educazione ha una ricaduta sull’educatore stesso, sulla costruzione della sua personalità di adulto in quanto lo porta a capire e ad amare la vita, a lasciarsi sorprendere da essa, a prenderla sul serio.

    7. Educare è cosa del cuore

    Nell’educazione la bellezza è generata dall’amore.
    Ricordiamo le parole di San Giovanni Bosco: “L’educazione è cosa del cuore […]. Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani”. Rivolto ai ragazzi diceva loro: “Voi sapete quanto io vi amo nel Signore e come io mi sia tutto consacrato a farvi quel bene maggiore che potrò. Quanto sono e quanto posseggo, preghiere, fatiche, sanità, la mia vita stessa, tutto desidero impiegare a vostro servizio”.
    Don Bosco sa che “in ogni giovane, anche il più disgraziato, vi è un punto accessibile al bene, ed è dovere primo dell’educatore ricercarlo”. Per questo, fa dell’amorevolezza uno dei capisaldi del suo sistema educativo, insieme alla ragione e alla religione.
    Anche per questa nota dell’educazione mi limito a sottolinearne l’importanza. Nell’educazione e nella formazione si possono utilizzare diversi metodi, ma va sempre ricordato che la vita dell’uomo è segnata dall’intersoggettività e dall’affettività.
    Un processo formativo che non faccia leva sulla relazione e sull’affetto, è depotenziato in partenza.
    Questo significa che oggi, nell’azione educativa, alla comunità ecclesiale, all’educatore, è chiesto di accogliere le persone e di poter comunicare a loro il desiderio di bene. Questo significa dare al proprio servizio la capacità di smuovere, di attirare, di mettere in moto le coscienze. E ciò chiama in causa l’amorevolezza.
    È importante che l’educatore abbia la coscienza di una “comunione di destino”, che genera affezione, empatia, capacità di accettazione e accoglienza dell’altro così com’è, per quello che è e che può essere. Occorre maturare una conoscenza affettiva, approfondita e realistica delle persone che si vogliono educare, dei loro bisogni e aspirazioni, problemi e difficoltà.
    Vorrei citare alcune affermazioni di don Giussani, che trovo particolarmente espressive: “Il cammino educativo non è un interesse all’altro per un proprio progetto, ma è una comunione di umanità, nella quale abbiamo la consapevolezza del destino: la presenza di Cristo; per questo ci muoviamo con affezione capillare alla realtà umana dell’altro […]. Il cammino educativo è capacità di compagnia o di condivisione: sentire in sé il problema dell’altro nella sua concretezza, non applicarvi una teoria. Questa compagnia deve suscitare nel ragazzo la capacità di giudicare ciò che avviene e di vivere un’ascesi, deve cioè suscitare quella energia con cui l’uomo modula e governa i rapporti con le persone e con le cose. Ed è questo l’uomo che possiede se stesso. Il processo educativo è compagnia che fa nascere ed aumenta il rispetto del volto del ragazzo così come è, per cui per essere accolto e valorizzato non deve essere diverso da quello che è. Questa compagnia, determinata continuamente dal rispetto alla libertà del ragazzo, implica una grande agilità di sacrificio e di distacco dalle proprie istintive simpatie. Allora la forza che si mette normalmente nelle simpatie istintive, si mette nell’affezione all’altro in nome del valore. È questo un passaggio a cui tutti siamo chiamati, e non è difficile: basta essere veri nella nostra missione.”.[12]

    CAPITOLO SECONDO
    La pedagogia di Dio modello e sorgente dell’azione educativa della Chiesa

    1. Dio parla agli uomini come ad amici

    “Piacque a Dio nella sua infinità bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della natura divina. Con questa rivelazione infatti Dio invisibile, nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé”.[13]
    Con queste parole i Padri conciliari del Vaticano II, nella costituzione dogmatica Dei Verbum, definiscono in modo stupendo e affascinante il contenuto e il fine della Rivelazione. Dio si manifesta, prima di tutto, per far conoscere se stesso, il mistero della sua vita, affinché si possa instaurare un dialogo amicale con ogni uomo. Il punto più alto di questa manifestazione è l’incarnazione del Verbo, grazie al quale gli uomini per il dono dello Spirito Santo sono realmente resi partecipi della vita divina, chiamati alla comunione di vita con Dio, inseriti nell’amore trinitario.
    La Sacra Scrittura è il luogo privilegiato di questo dialogo, la memoria vivente dei numerosi incontri che Dio ha avuto con gli uomini. Un cammino reso possibile dalla condiscendenza divina che di volta in volta si è adattata alla situazione concreta dell’uomo. Si può, pertanto, leggere la Scrittura come l’immensa attività educativa e pedagogica, che Dio Padre, nel corso dei secoli ha compiuto per il suo popolo e per l’intera umanità. Leggendo e meditando la storia della salvezza, incontrando i volti dei nostri padri, contemplando come il Signore abbia agito nella loro vita e grazie anche alla loro disponibilità, possiamo comprendere le coordinate spirituali di quell’itinerario educativo che ha avuto in Cristo, il suo definitivo compimento. Un immenso fiume carsico, quello della grazia, che là dove è penetrato ha reso gli uomini profeti e amici di Dio.
    Oggi, facciamo forse fatica a leggere la Scrittura, perché partiamo da domande e presupposti non corretti. L’uomo contemporaneo si avvicina a Dio chiedendosi che cosa potrà ottenere da Lui, mentre in realtà la Parola di Dio intende rispondere alla domanda: che cosa Dio otterrà da te? Ci domandiamo che cosa potremo ottenere dalla vita, mentre, in realtà, dovremmo domandarci che cosa la vita otterrà da noi? La Scrittura ci aiuta a capovolgere l’interrogativo e a orientare decisamente il nostro itinerario educativo.
    La comunità cristiana, nel suo impegno educativo, è chiamata ad attingere, innanzitutto a questo immenso tesoro della storia della salvezza. In quest’ottica, si è pensato di scegliere per quest’anno pastorale dedicato ad approfondire il tema dell’educazione, il libro dell’Esodo. Questo libro costituisce – come sappiamo – la pietra miliare dell’esperienza religiosa del popolo d’Israele. In queste pagine avvincenti e drammatiche ci è consegnata una formidabile testimonianza educativa che coinvolge Dio, Mosè e quel popolo che non senza fatiche e ritardi diventerà il popolo sacerdotale che gli appartiene e la nazione santa (cfr Es 19, 5-6).
    Sono molteplici i temi che costituiscono la trama narrativa di questa storia di salvezza e di liberazione. Ora ci preme evidenziare alcune coordinate essenziali, utili per il nostro itinerario pastorale.

    2. La sollecitudine di Dio per il suo popolo

    Il punto di partenza di questo cammino è la rivelazione di Dio a Mosè al roveto ardente (Es 3,1ss.) A Mosè che finalmente sembrava aver trovato una sua serenità e stabilità, Dio si manifesta e affida una missione che cambierà radicalmente il corso della sua vita e quella di tutto il popolo di Israele. Come Dio si rivela? Dio manifesta se stesso e il progetto che ha in animo di compiere per il suo popolo con queste parole: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovraintendenti; conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto” (3,7-8).
    Sono importanti i verbi che hanno come soggetto Dio: ho osservato, ho udito, conosco e sono sceso. Dio non è spettatore neutrale e distratto della condizione del suo popolo, al contrario, mostra una singolare sollecitudine e attenzione che diventa progetto di liberazione. Troviamo qui una prima indicazione importante per il nostro percorso educativo. Dio ci insegna che per educare è necessario porsi in un atteggiamento di attenzione verso le necessità e le sofferenze dell’altro. L’udire, l’osservare e il conoscere rappresentano il punto imprescindibile di questo cammino di educazione alla libertà. Occorre farsi carico della situazione concreta del destinatario senza porre alcuna condizione, in piena gratuità. Questa apertura all’altro è già, in parte, comunicazione del contenuto del vangelo. La persona sentendosi conosciuta e accolta senza condizioni si apre senza paura e senza difese.

    3. Dio chiama all’autentica libertà

    Se Dio va in cerca del suo popolo, se Egli osserva, ascolta e conosce è per scendere a liberare il suo popolo.
    La cura e l’attenzione di Dio sono ordinati ad un cammino di liberazione di cui Israele solo in parte ne intuisce la portata e le conseguenze. Forse è bene precisare che Dio non esaudisce semplicemente il desiderio del suo popolo, ma è in grado – come sapiente educatore – di “trasformare gli obiettivi in bisogni, di tramutare il comandamento divino in preoccupazione umana.”[14]
    È vero che Israele vuole essere liberato, ma il cammino successivo rivelerà che questo desiderio ha bisogno di essere autenticamente educato e purificato. L’esperienza della dura schiavitù, infatti, ha prodotto nel suo cuore una dipendenza che - a più riprese - diventerà nostalgia delle cipolle, meloni, cocomeri, cetrioli, porri e aglio della terra egiziana (cfr Es 16,3; Nm 11,5). Si può dire che – paradossalmente - è stato più difficile per Dio togliere l’Egitto dal cuore di Israele che liberare Israele dall’Egitto.
    L’atto educativo, allora, si configura come azione che intende rimodellare il desiderio e orientarlo verso l’autentica libertà, quella da se stessi e da quei falsi bisogni che spesso ne impediscono la sua piena realizzazione.
    In tal senso, Dio si mostra realmente paziente e capace di sopportare le continue e persistenti mormorazioni del suo popolo. L’educatore non può pensare che sia sufficiente declamare la verità, perché questa sia accolta e vissuta, ma deve armarsi di quella pazienza che è capace di accompagnare, senza scoraggiamenti ma anche senza compromessi. Educare al desiderio di Dio significa desiderare di volergli appartenere liberamente, è questo l’obiettivo che deve diventare il bisogno di ogni uomo.

    4. Il cammino comunitario verso la libertà

    È vero che questa esperienza di libertà è sempre chiamata personale, ma ciò significa che si inserisce nell’alveo vivo di una comunità che insieme impara l’arte di intessere mature relazioni.
    Nel cammino dell’Esodo, troviamo spesso questo richiamo alla totalità del popolo che è chiamato a celebrare la Pasqua in un contesto familiare e comunitario (Es 12,1ss). Israele si troverà alle pendici del Sinai unito e concorde nell’attesa di ricevere la Legge (cfr Es 19,1ss). Le dieci parole ricevute sulle tavole, saranno poi attualizzate in quel codice dell’Alleanza che espliciterà concretamente le conseguenze comunitarie della legge di Dio (Es 20,22-23,20).
    Dio ci educa come singoli a diventare membri responsabili e attivi di un popolo nel quale ognuno si sente realmente custode di quel fratello che ha condiviso la medesima esperienza di salvezza. Educare al senso vivo di una comunità contro le derive di un soggettivismo che fa dell’interesse individuale il proprio dio, sembra essere questa una priorità improcrastinabile della comunità cristiana.
    La Chiesa educa mostrando agli uomini che è realmente possibile – oltre che affascinante – camminare insieme, portando i pesi gli uni degli altri e che se proprio ci deve essere una gara, allora, sia quella di stimarci a vicenda (Rm 12,10).

    5. Dio educa traendo dal male il bene

    Il cammino di Israele – lo sappiamo bene – non è affatto lineare. Oltre alle mormorazioni e i rimpianti, ci sono gli evidenti tradimenti. Il celebre episodio del vitello d’oro ne è la prova più tragica (Es 32-34).
    Educare significa tenere conto della possibilità tutt’altro che remota del peccato e del rifiuto esplicito dell’amore di Dio e della sua volontà. Eppure il male pur rimanendo una folle esperienza dagli effetti devastanti, non è l’ultima parola. Qualcuno ha paragonato la storia della salvezza ad un immenso cantiere, sempre aperto, dove Dio continuamente ripara ciò che l’uomo ha corrotto.
    Anche dal grande male del gesto idolatrico del vitello d’oro, Dio sa trarre un più grande bene. Quell’esperienza diventa infatti l’occasione per una rivelazione ancora più luminosa della misericordia di Dio: “Il Signore, il Signore; Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà, che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato.” (Es 34,6-7).
    Senza voler indulgere a giustificare – nemmeno per un attimo - il peccato, è evidente che chi si impegna nell’attività educativa, deve mettere in conto – direi anticipatamente – questa resistenza attiva alla volontà di Dio. Tuttavia il sapiente educatore, impara da Dio a non lasciarsi vincere dal male, al contrario, egli è l’uomo della speranza e della fiducia e sa che da un grande male, con l’aiuto di Dio, può venire un bene maggiore. È ciò che noi cantiamo nel preconio pasquale nell’apertura della solenne veglia: “O felice colpa, che ci hai meritato un così grande redentore”. Chi educa non può non essere animato da questa incrollabile fiducia che si fonda su ciò che Dio ha fatto e fa per noi.

    6. Essere liberi per obbedire

    Il fine di questo cammino di libertà è l’obbedienza. Può sembrare contradditorio, ma in realtà è ciò che accade al Sinai con il dono della Legge (Es 19-24). L’adesione libera alla legge consente al popolo di continuare a vivere nella libertà e nella gioia. La legge così compresa e vissuta non è più concepita come mortificante della propria autonomia, ma è al servizio della custodia del dono ricevuto. In un celebre passo del Deuteronomio, il figlio domanda al padre quale sia il significato dell’osservanza dei comandamenti e delle leggi. Il padre dopo avere ricordato gli eventi della liberazione, così termina la sua risposta: “Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste leggi, temendo il Signore, nostro Dio, così da essere sempre felici ed essere conservati in vita, come appunto siamo oggi” (Dt 6,24). Essere conservati in vita e sempre felici, questo è il fine della legge donata dal Signore. Non c’è alcuna separazione dal Dio che ti libera e il Dio che ti dona la Legge. Egli vuole sempre la tua vita e la tua gioia, in entrambi i casi.
    Educare significa far percepire il carattere liberante della legge di Dio. In questo contesto matura la consapevolezza che la libertà si coniuga necessariamente con il servizio di Dio e del fratello. Si è liberi per amare senza condizioni e paure. L’apostolo Paolo pur rivendicando con forza la sua libertà, afferma, al tempo stesso di essersi fatto tutto a tutti pur di guadagnare ad ogni costo qualcuno (cfr 1Cor 9, 19).

    7. Mosè educatore perché educato da Dio

    Un’ultima preziosa indicazione per il nostro cammino ci viene dalla figura di Mosè. Egli è chiamato a guidare il popolo e fargli conoscere la volontà di Dio, pur in mezzo a numerose prove, egli rimane fedele alla sua chiamata: esorta, rimprovera, consola e intercede presso Dio. È un educatore maturo e saggio. Eppure anche per lui è stato necessario un cammino educativo.
    Cresciuto alla corte egiziana, profondamente colpito dalla sofferenza del suo popolo, interviene uccidendo il sovrintendente egiziano: Mosè rimane solo e fuggiasco (Es 2,11-21). Il testo sacro sembra dirci che non si può improvvisarsi educatori, e non è nemmeno sufficiente la buona volontà e una buona dose di compassione. L’esperienza insegna che colui che chiamato ad essere guida non può sottrarsi ad un impegnativo itinerario di purificazione e prova. Non si tratta, infatti, di comunicare delle idee pur belle e nobili, ma di trasmettere un’esperienza di comunione e relazione con Dio.
    In particolare, Mosè dovrà ricordarsi che lui stesso è stato salvato per pura grazia sulle sponde del Nilo e che solo affidandosi senza riserve a Dio e custodendo la sua parola, di cui per primo ha sperimentato la potenza ed efficacia, sarà una guida autorevole e fedele. Non dovrà mai dimenticare di essere una guida guidata.
    In un celebre passo del suo commento al Cantico dei Cantici, san Bernardo, con parole convincenti e non senza una pungente ironia, richiama ciascuno di noi alla necessità di questo cammino educativo su noi stessi, a guardarci dalla presunzione di poter guidare ed educare senza aver acquisito quell’umiltà che riconosce il bisogno di essere colmati, incessantemente, dalla presenza dello Spirito Santo:
    Per questo, se sei saggio, ti dimostrerai conca e non canale. Il canale, quasi istantaneamente riceve e riversa, la conca, invece, attende fino a quando è ricolmata e così condivide, senza proprio danno, ciò che è sovrabbondante […]. In verità, oggi ci sono nella Chiesa molti canali e ben poche conche. Coloro che riversano su di noi i ruscelli celesti hanno una carità così grande, che vogliono effondere prima di aver ricevuto l’infusione, più disposti a parlare che ad ascoltare, pronti ad insegnare quello che non hanno imparato, impazienti di dirigere gli altri, essi che non sanno governare se stessi”[15]

    8. Uno sguardo riassuntivo

    Se ora, volessimo riassumere sinteticamente le caratteristiche di questo itinerario, appare da una parte la ricchezza e anche la complessità dell’atto educativo. È infatti un’azione che per sua natura è personale, è, infatti, l’incontro tra due libertà che intessono un dialogo; dialogo personale e insieme comunitario, la persona comprende che la sua maturazione è indissolubilmente collegata al percepirsi come membro di una comunità di cui è attivamente responsabile. Educare, come emerge dalle pagine dell’Esodo, implica una progressione che deve fare i conti con momenti di rottura e di conflitto, nei quali è indispensabile che l’educatore eserciti una pazienza che non è mai arrendevolezza, ma capacità di richiamare energicamente e anche misericordiosamente gli obiettivi. Spesso, infatti, queste crisi permettono di compiere un salto di qualità. Il male, pur nella sua intrinseca negatività, può diventare il luogo dove l’offerta di grazia e misericordia diventa ancora più grande.
    Il cammino proposto da Dio al suo popolo è un percorso liberante non solo da condizionamenti esterni, ma soprattutto dalle conseguenze che questi hanno determinato nell’interiorità dell’uomo. In effetti solo chi è libero da se stesso può realmente obbedire e scoprire che più ci si conforma a Dio, più si sperimenta una grande capacità di amare senza condizioni: resi liberi per amare!
    Infine, Dio non fa nulla senza la collaborazione e la libera adesione di uomini che hanno accettato di consegnarsi a Lui, e che nella ferialità hanno continuato a lasciarsi educare dall’unico e insostituibile Maestro.

    CAPITOLO TERZO
    Per affrontare l’emergenza educativa: alcune piste da risignificare

    Educare è possibile; educare è bello; educare rende partecipi del prendersi cura da parte di Dio dell’umanità. Ma come dare concretezza a questi presupposti? Da dove cominciare? Che fare?
    Per il cammino pastorale di quest’anno propongo di rivisitare alcuni atteggiamenti di fondo a cui è legata la possibilità e l’efficacia dell’azione educativa.
    Mi rifaccio ancora alle parole di Benedetto XVI. Nella Lettera alla Diocesi di Roma, Papa Benedetto XVI parla della responsabilità della società tutta dinanzi all’emergenza educativa, liberando però subito il campo dalla possibile obiezione che dire società possa voler dire tutti e nessuno. Il Papa afferma che:
    “La società non è un’astrazione, alla fine siamo noi stessi, tutti insieme, con gli orientamenti, le regole e i rappresentanti che ci diamo, sebbene siano diversi i ruoli e le responsabilità di ciascuno. C’è bisogno dunque del contributo di ognuno di noi, di ogni persona, famiglia o gruppo sociale, perché la società diventi un ambiente più favorevole all’educazione”.[16]
    Comincio a educare, come abbiamo richiamato, quando mi coinvolgo concretamente con l’altro nella consapevolezza di un comune destino.

    1. La relazione educativa

    1.1. La verità dell’uomo emerge nella relazione con Dio
    L’educazione passa attraverso le relazioni. Non consiste prima in attività da svolgere, ma in relazioni da vivere. A partire da quella relazione prima , che è la relazione con Dio, il suo amore incondizionato per l’uomo: “Egli lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo educò, ne ebbe cura, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le sue ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore lo guidò da solo.” (Deut. 32,10).
    Parlando ai giovani sulla fiducia con cui devono affrontare la vita, rimando spesso al bellissimo testo di Isaia: “Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe, che ti ha plasmato, o Israele; Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni […]. Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo […]. Non temere, perché io sono con te.” (cfr Is.43,1-7).
    La vita ci è data perché diventiamo sempre più “veri” e la verità dell’uomo è quella di “appartenere”: l’uomo è “creatura”, appartiene a un Dio che è Padre.
    Una persona, un gruppo, una comunità sono aperti al futuro, alla speranza, a tutto ciò che è positivo, nella misura in cui sanno a chi appartengono.
    Non è secondario, allora, nella vita sapere che all’origine della nostra vita c’è l’amore di Dio e che il nostro destino è vivere eternamente nell’oceano d’amore della Trinità.
    Siamo stati portati in una culla eterna, nel pensiero e nell’amore di Dio; e se un grembo di donna ci ha accolti in questo mondo, tale grembo è la prima immagine di Dio, in qualche modo impressa nel nostro essere fin dalle origini, profondamente scolpita in noi, assolutamente incancellabile, come un’icona della maternità di Dio, o di quell’amore che è la spiegazione di tutto, ma che è esso stesso senza spiegazione.
    Il vero mistero è la vita, non la morte. Il vero mistero è perché noi siamo esistenti, e non perché un giorno questo corpo finirà d’esistere; il miracolo è la gratuità assoluta di questa vita come esistenza ricevuta, ricevuta in dono da una Volontà buona che mi ha preferito alla non esistenza, da un Dio che mi ha disegnato sulle palme delle sue mani (cfr Is 49,16).
    Avere a cuore l’Eterno è al tempo stesso la sfida più profonda e l’offerta più grande che sia possibile vivere.
    Oggi rischiamo di “dare tutto, ma non l’essenziale”, come se fosse irrilevante per la vita la fede in Dio.
    Mi sembra questa la prima preoccupazione da ricuperare, come favorire l’incontro con Gesù Cristo in rapporto alla propria vita considerata nella sua globalità.

    1.2. Rendere “mondi vitali” i luoghi della propria esperienza, in particolare la famiglia, la parrocchia, il gruppo.
    Va ridestata e valorizzata la valenza educativa legata alle relazioni che si vivono nei luoghi significativi dell’esperienza umana perché non perdano o acquistino, di nuovo, la caratteristica di mondi vitali.
    Mondo vitale è uno spazio, frequentato normalmente, dove si vivono relazioni vitalizzanti, non formali, relazioni di familiarità, di amicizia, di interazione reciproca. È in questi mondi vitali che il cammino al vero, cioè alla realizzazione della propria vita, secondo il progetto di Dio, diventa esperienza. Mondo vitale sono, ad esempio, la famiglia, la parrocchia, il gruppo.
    Mi limito ad alcune riflessioni sulla parrocchia, sempre nell’ottica della relazionalità; sicuro che non mancherà l’attenzione anche alle altre realtà.
    Anzitutto, mi sembra importante ricuperare o focalizzare meglio a livello formativo il principio dell’atto costitutivo della Chiesa.
    Possiamo dire che la Chiesa è ciò che accade quando un gruppo umano accoglie l’Evangelo, cioè la “buona notizia” che Gesù è il Risorto, il Vivente per sempre, è Colui che può liberare da ciò che di antiumano la creatura si porta dentro: il peccato e la morte. In Lui possiamo essere pienamente umani. Gesù è il Signore! L’apostolo che ha conosciuto Gesù, che ha vissuto la sua esperienza con Gesù, l’apostolo che ha creduto nella Resurrezione di Gesù e che crede che Gesù è il Salvatore dell’uomo, mentre dice queste cose ad un’altra persona (e quest’altra persona le ascolta e le accoglie e, con la grazia dello Spirito Santo, vi crede), in quel momento fonda e costruisce la Chiesa. La Chiesa nasce dunque intorno all’esperienza dell’incontro con il Risorto e alla comunicazione di questa esperienza. La Chiesa si costruisce attorno alla comunicazione della fede come punto originario. Ciò che caratterizza la Chiesa nel suo costituirsi deve essere posto anche come esperienza essenziale della formazione dei credenti. I legami tra i membri dì una comunità sì consolidano e diventano sempre più veri attraverso la reciproca comunicazione della fede.
    L’apostolo Giovanni descrive l’esperienza dei primi discepoli in questi termini: “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita […]. Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi” (1 Gv 1,1-3).
    La comunità cristiana è fatta di gente ordinaria, che in sé non ha niente di speciale; condivide con altri un territorio, una cultura, una lingua, la vita sociale e civile. Ma queste persone sono state raggiunte da Gesù, dal suo amore, e questo evento deve tradursi in nuovo stile di vita.
    “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,3).
    San Luca, descrivendo la vita della prima comunità di Gerusalemme, traduce in alcuni sommari le caratteristiche di questo stile di vita: “Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere […]. Spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo”. (At 2,42.46-47). “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma tutto era fra loro in comune. Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore.” (At 4,32).
    È indubbiamente una descrizione idealizzata; quello che Luca vuole sottolineare è la novità di vita che nasce dall’incontro con Gesù Risorto, che si traduce in un modo nuovo di vivere i rapporti tra le persone, che ha in Gesù la sua sorgente e il suo modello.
    È ciò che dovrebbe caratterizzare ogni comunità cristiana: è la cordialità, fra le persone; la fraternità e la semplicità dei rapporti fra le persone e i gruppi.
    Senza questo, anche i programmi più belli, le realtà strutturali organizzative risulterebbero apparati freddi, senz’anima.
    La positività delle relazioni è il terreno su cui far germogliare e portare avanti con entusiasmo le iniziative, che esprimono intelligenza operativa, capacità di esprimere cammini di fede e di carità, che mettono le persone in grado di vivere pienamente l’amore di Dio e del prossimo.
    Quando la parrocchia, attraverso anche la mediazione del gruppo, è mondo vitale, i cammini formativi che in essa si mettono in atto sono in grado di portare a esprimere la fede in nuovi simboli, cioè in nuove modalità del vivere l’esperienza ecclesiale, sociale e civile. E di questo oggi c’è una forte domanda.

    1.3. La relazione educativa dell’educatore
    La coscienza educativa della comunità cristiana passa attraverso la capacità di esprimere, formare e sostenere educatori.
    Parlando di relazione in ordine all’educazione, non possiamo trascurare la relazione dell’educatore con l’educando, che diventa un po’ la sintesi delle altre relazioni.
    Alcune considerazioni sono già state espresse parlando dell’educazione come “cosa del cuore”.
    Abbiamo accennato alla coscienza di una “comunione di destino” che deve generare affezione.
    L’educatore non si pone in termini “neutri” rispetto alla proposta che fa; non è come l’arbitro di una partita, che è attento che siano rispettate tutte le regole del gioco, ma che fondamentalmente rimane ai margini della partita; non è neppure come un meccanico, osservatore attento degli ingranaggi di una macchina, pronto ad intervenire quando nota qualche guasto. Egli non si pone neppure come un “vissuto” rispetto a dei “viventi”, come colui cioè che mette tra parentesi le sue scelte, per fare una proposta che interessa semplicemente la vita degli educandi. Egli prende presto coscienza che nell’educazione è chiamato a vivere una relazione nella quale “ne va di lui”, nella quale si compromette. “Educare è proporre, ma sarebbe come buttare addosso dall’esterno qualche cosa, se non si propone una risposta a una domanda che si vive; se non si vive la domanda, la risposta che si propone è fittizia.”[17]
    Per educare occorre avere un progetto e prestarsi all’imitazione e offrire la propria testimonianza.
    Nella prima lettera ai Corinzi, san Paolo osa dire: “Fatevi miei imitatori come io lo sono di Cristo” (1Cor.4,16). Alla comunità di Tessalonica scrive: “Voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove” (1Ts.1,6).
    Chiaramente non si tratta di una imitazione, che tende a fare dell’altro una “copia” di se stesso, questo sarebbe la negazione dell’educazione; ma di lasciare trasparire che ci si mette in gioco in quello che si propone e si lascia così trapelare la vivibilità, la praticabilità della proposta. Osserva P. Sequeri: “Nessuno può sperare di educare dando semplicemente dei buoni principi e delle istruzioni accurate. Educare significa sempre, anche, proporsi all’imitazione. Forse sembra un po’ presuntuoso, in tempi di egualitarismo democratico, pronunciarsi ancora in questi termini. Ma è un fatto che, senza mostrare concretamente una strada reale, nessun percorso può essere persuasivamente indicato come possibile.
    L’educatore deve assumersi questa responsabilità: non vi si può in alcun modo sottrarre, accampando il pretesto che siamo tutti esseri umani, deboli, incerti e peccatori. Chi si assume la responsabilità di educare deve offrire un modello imitabile. In questo senso è perfettamente plausibile che Paolo, Pietro, Apollo, e tutti coloro che educano alla fede si siano proposti all’imitazione, abbiano suscitato un certo attaccamento. Colui che muove i primi passi non può essere soltanto istruito sulla tecnica della deambulazione: ha bisogno di qualcuno che cammini davanti a lui, poi insieme con lui: è l’unico modo per far capire esattamente che cosa significa. L’imitazione è la dimensione «personale» di ciò che un determinato progetto educativo articola ed elabora poi con molte istruzioni sul significato e sulla validità «universale» di determinati valori. L’imitazione è dunque il modo stesso della comunicazione personale di un progetto educativo”.[18]
    Sentire parlare di imitazione potrebbe scoraggiare dal rendersi disponibili per un servizio educativo.
    Certamente per essere educatore nel cammino di fede non basta avere capacità pedagogiche, occorre essere in grado di testimoniare quanto si proporrà a nome e per mandato della Chiesa.
    Questo non significa che un educatore debba essere perfetto, ma che sia provvisto dei requisiti essenziali in ordine ad una buona testimonianza e sia sempre in cammino di conversione e crescita spirituale.
    Oserei dire che si può essere testimoni anche nei limiti dovuti alla propria fragilità, quando questi sono riconosciuti e vengono portati davanti alla misericordia del Signore perché Lui dia la forza di riprendere il cammino sostenuti dalla sua grazia. Si testimonia in questo modo che il cammino dell’amore verso Dio e verso il prossimo impegna l’educatore non meno dell’educando e tutti conoscono la fatica della storia e il peso della propria fragilità, ma si può sempre contare sulla fedeltà del Signore al suo amore salvifico. Fa parte della testimonianza il tendere continuamente ad essere credibili ma anche la conversione. Fa parte dell’educazione sentirsi tutti e sempre in cammino.
    È importante che gli educatori della comunità cristiana creino tra loro legami di collaborazione e di comunione, condividendo momenti di formazione, durante i quali sia possibile darsi reciproca testimonianza di fede e crescere nell’arte educativa.

    2. Educazione come prendersi cura

    L’uomo è fatto per l’incontro e la relazione. E si realizza nella relazione. Non c’è educazione se non dentro ad un tessuto di relazioni. Per questo non possiamo uscire dall’emergenza educativa se non risignificando le relazioni.
    Un altro tema centrale, per me un “tema generatore” per il discorso sull’educare, è il concetto del “prendersi cura”, che ha come soggetto sia l’educatore che l’educando.
    Il prendersi cura dell’educatore indica l’avere a cuore che nasce, al tempo stesso, dal riconoscimento del valore incommensurabile dell’altro e dalla consapevolezza della sua fragilità.
    Il prendersi cura da parte dell’educando come preoccupazione che anima l’educatore, per “evidenziare che il compito di un educatore non consiste tanto nel trasmettere a qualcuno determinate conoscenze o nel fargli accettare determinate regole di comportamento, quanto piuttosto nel suscitare in lui o in lei questo stile di delicata attenzione , di “tenerezza” e di responsabilità, in modo che essi siano poi protagonisti, ognuno a modo proprio, dell’impegno che ne deriva.”[19]

    2.1. Educare come prendersi cura
    Tra gli atteggiamenti fondamentali che caratterizzano la figura dell’educatore c’è il prendersi cura. Potremmo parlare anche di spiritualità del “prendersi cura”, perché lo si impara da Dio, alla scuola di Gesù. Il prendersi cura del suo popolo da parte di Dio attraversa tutta la Bibbia, assumendo tonalità e contenuti sempre diversi a seconda della situazione concreta in cui ci si trova. Il prendersi cura è la caratteristica di Gesù, il Pastore, che ascolta e chiama per nome, che fa uscire e cammina davanti, che si fa agnello e dà la vita.[20]
    Il prendersi cura che a volte si manifesta come “cura” nel senso di fasciare le ferite, versandovi il vino che purifica e l’olio che lenisce, aiuto a estirpare le manifestazioni cancerogene del male, ma nello stesso tempo va al di là di tutto questo per risvegliare alla coscienza sempre più limpida del vero, del bello, della vera libertà, in una parola alla coscienza della dignità e della vocazione sublime dell’uomo.
    San Giovanni Bosco parlava di “sistema preventivo”, che riassume in una frase lapidaria: “Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la religione e l’amorevolezza”.

    2.2. Educare ad avere cura di se stesso
    Il prendersi cura dell’educando da parte dell’educatore si esprime nel renderlo protagonista, a sua volta, della cura di se stesso.
    Educare alla cura di sé comporta stimolare nell’altro la scoperta di se stesso come singolo unico e irripetibile, aiutarlo ad accettarsi, a lavorare su di sé per diventare sempre più “vero”, per realizzare la sua vera identità, a formarsi una personalità integrata.
    Oggi più che mai c’è il rischio della disgregazione del soggetto. A livello di fede, il “Rinnovamento della Catechesi” parla del rischio di dissociazione tra fede e vita, soprattutto nell’età evolutiva. L’adolescente va verso una struttura definitiva di personalità, verso la maturità. Tra i valori che va riscoprendo e interiorizzando e che entreranno a far parte in modo consolidato e stabile della sua personalità, la fede può trovarsi in una situazione di esclusione, o di marginalizzazione, o essere scoperta come valore centrale che proietta la sua luce su tutti gli altri: “La fede deve essere integrata nella vita, come si ama dire per indicare che la coscienza del cristiano non conosce fratture, ma è profondamente unitaria. La dissociazione tra fede e vita è gravemente rischiosa per il cristiano, soprattutto in certi momenti dell’età evolutiva, o di fronte a certi impegni concreti.”[21]
    Integrare fede e vita “significa lavorare educativamente per formare un’unica struttura di personalità i cui criteri valutativi e operativi (e cioè il modo di comprendere la realtà e di intervenire su di essa, in una parola: il modo di esistere come uomini) si rifanno a Gesù Cristo e al suo messaggio, vissuto e testimoniato nella Chiesa, non come a un dato imposto dall’esterno, ma come ad esigenza e a risposta connesse con l’esperienza della vita stessa, dei valori umani che la caratterizzano”.[22]
    Se in linea di principio si fa presto a definire l’integrazione tra fede e vita, in pratica ci si accorge di come le cose vadano diversamente. Dire integrazione fede-vita significare ripensare i due termini l’uno in riferimento all’altro.
    Non si lavora per l’integrazione quando la vita diventa semplice applicazione di contenuti elaborati ed espressi senza alcun riferimento alla cultura dei destinatari; non si lavora per l’integrazione quando la vita non viene assunta nella sua globalità e in una lettura che porta gradualmente al suo centro motivazionale, facendo emergere gli interrogativi fondamentali.
    Quest’ultimo pensiero mi porta a richiamare un altro grave rischio presente nella cultura di oggi, con ripercussioni preoccupanti sulla vita. Si tratta della “dimenticanza” se non della “censura” delle domande fondamentali, che ogni persona porta dentro di sé e che esigono una risposta adeguata.
    Tra le definizioni di educazione, c‘è quella nota di L. Giussani, che la considera una “introduzione nella realtà, alla realtà totale”. Educare significherebbe guidare la persona nel suo impatto spirituale con la realtà, caratterizzato dalle domande di verità, di bontà, di bellezza, di senso, dalle domande che accompagnano l’uomo dalla nascita alla morte e che riguardano appunto il senso della vita, la sua origine, il suo destino. Sono domande che non possono essere censurate, se si vuole vivere in una vita “sensata”.
    Ma l’uomo corre sempre il rischio di ridurre l’impatto con la realtà alla dimensione del piacere, dimenticando le altre dimensioni.
    C’è una pagina del Vangelo che trovo particolarmente significativa al riguardo ed è la parabola che ha come protagonista un uomo abile e determinato, che coltiva bene i suoi campi, che ha fortuna, che raggiunge un successo invidiabile, ottiene un raccolto così abbondante da decidere di demolire i vecchi magazzini per costruirne dei nuovi più capienti.
    Quest’uomo lo sentiamo dire: “Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni; riposati, mangia e, bevi e datti alla gioia”. Un uomo di successo, ma Dio gli dice: “Stolto. Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?”(cfr Lc 12,16-21).
    La parabola non dice che sia stato disonesto, che abbia derubato gli altri per arricchire se stesso.
    Non è il successo che viene condannato, ma ciò che a questo successo è stato attribuito.
    Dio lo chiama “stolto”. “Stolto” si oppone a “sapiente”; stolto è colui che prende un particolare della sua vita e vive per quello, lo fa diventare il suo idolo, dimenticando il resto. Quest’uomo non ha sbagliato a coltivare i campi, ha sbagliato a non prendersi cura del resto. È una parabola quanto mai attuale.
    Letta in chiave educativa possiamo dire che “la dimenticanza” o il “misconoscimento” dei fini rappresenta una delle questioni più preoccupanti relativamente all’educazione: “Oggi credo che questa questione sia decisiva a tutti i livelli e a partire dalle più concrete esperienze educative. Saper riproporre la domanda sui fini vuol dire riproporre la domanda sull’essere, sulla vita, sul mondo, sulla verità, sull’uomo, sugli altri, la domanda sulla speranza più grande, quella che ciascuno può ritrovare nel fondo del suo cuore, ma anche a partire dalla capacità di guardare oltre se stessi. La domanda sui fini non è perciò qualcosa che distanzia dalla vita conducendoci a una vuota astrattezza ideale, è piuttosto ciò che orienta la vita, ne fa emergere la direzione di senso, è ciò che conferisce a essa una forma, lasciando cogliere nella vita stessa una possibilità di unificazione.”[23]
    Anche il discorso del prendersi cura e dell’avere cura si rivela un “tema generatore”, dagli sviluppi ampi, che qui non affrontiamo ma che è possibile includere nelle due caratteristiche considerate e che sono la preoccupazione di un’educazione integrale e della formazione di una personalità unificata, armonica.
    Non posso tuttavia non fare almeno un cenno per i risvolti sull’emergenza educativa alla necessità di dedicare particolare cura ad educare la libertà e la coscienza e ad educare alla libertà e alla coscienza.

    2.3. La cura della coscienza
    Nella sapienza popolare la persona virtuosa è indicata in riferimento alla coscienza e ai sentimenti; è la persona dalla coscienza retta e ricca di sentimenti.
    Il Concilio Vaticano II dà della coscienza una definizione sublime: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale”.[24]
    Nessuno può violare il sacrario della persona che è la coscienza. Ogni uomo ha il diritto di seguire la propria coscienza, ma ha per questo anche il dovere di formarsi una coscienza vera, certa e retta.
    “Siamo responsabili davanti alla nostra coscienza, perché è il portavoce di Dio, ma siamo anche responsabili della nostra coscienza, perché deve essere educata”.[25] “Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancora prima l’obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta”.[26]
    Si deve dunque educare la coscienza e ci si deve educare alla coscienza. Non possiamo nasconderci che oggi si educa poco alla coscienza e questo contribuisce ad acuire l’emergenza educativa in campo etico.
    Spesso si travisa il significato della coscienza, da “voce” che fa risuonare i valori e le norme da seguire, la legge scritta nel cuore dell’uomo, la si fa diventare essa stessa la sorgente di verità e di valori.
    Espressioni come “mi regolo in coscienza”, “agisco secondo coscienza”, “faccio quello che mi dice la coscienza”, sono locuzioni prive di significato, pronunciate a giustificazione di tutto, anche del male morale. Si può cadere in un soggettivismo che si presta a scelte di comodo e porta al disimpegno morale.
    La coscienza può essere buona o cattiva, sincera o falsa, debole o forte, macchiata o purificata. Essa va educata e purificata.
    L’itinerario di formazione della coscienza si compone di molti elementi, che vanno dalla totale disponibilità alla verità e al bene, alla purificazione del cuore, alla conversione continua, alla coltivazione della familiarità con la parola di Dio, alla partecipazione alla concreta esperienza ecclesiale, alla ricerca della volontà di Dio e alla conformazione sempre più profonda a Cristo.
    Lo riassumo nell’ammonimento dell’apostolo Paolo: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2).

    2.4. La cura della libertà
    Il tema della coscienza richiama da vicino quello della libertà.
    Essa è indubbiamente una delle conquiste dell’epoca moderna, ma l’uomo contemporaneo ha spinto la coscienza della propria libertà fino alla pretesa di “essere libertà che si auto progetta, anziché “libertà donata”. Si sente autenticamente libero quando si dà autonomamente un progetto di vita, si sente felice quando può seguire autonomamente il suo istinto. In particolare l’adolescente è quanto mai geloso della propria libertà. Egli vive come libere solo quelle scelte e decisioni che può prendere in prima persona e che gusta con immediatezza. Egli da una parte avverte la bellezza e la forza dell’esigenza della libertà, ma dall’altra, teme di assumersi tutte le conseguenze che derivano ed è acritico verso le molteplici proposte di falsa libertà che il mondo gli offre con insistenza.
    La libertà è un potenziale enorme, che può sprigionare energie di ogni genere e in qualsiasi direzione.
    Abbiamo parlato di coscienza buona o cattiva, sincera o falsa; così possiamo parlare di una libertà vera o illusoria. È illusoria, ad esempio, una libertà che significa totale autonomia dagli altri, radicale rifiuto di impegno.
    Ogni uomo ha il diritto di autodeterminarsi, di operare le sue scelte senza costrizione; si tratta di un diritto o una proprietà congenita; parlerei, più volentieri, di un dono incommensurabile dato e che deve essere riconosciuto a tutti. Ma non basta per essere autenticamente liberi. La libertà è anche una conquista. Sono autenticamente libero, quando utilizzo il mio diritto di autodeterminarmi (il libero arbitrio) per compiere scelte positive per il bene mio e degli altri. Non basta essere esternamente liberi, occorre essere liberi dentro, con la propria intelligenza, la propria ragione, la propria capacità di accogliere il mondo con lealtà e verità. R. Guardini afferma: “La libertà esterna è preziosa. Specialmente se l’abbiamo ottenuta con sforzo personale. Ma essa è solo il primo passo nel regno della libertà[…]. Libero è soltanto colui nel quale l’uomo interiore domina sull’esterno, la coscienza e la libertà del cuore sull’istinto e sulla passione. Questa solo è la vera libertà: la libertà morale. Essa fa sì che l’uomo viva in armonia con la sua più profonda essenza: la coscienza. Essa fa sì che la coscienza, e quindi Dio, dirigano ogni nostra azione, essa permette che l’uomo diventi una persona.”[27]
    Con un linguaggio più immediato potremmo configurare il cammino di maturazione per “ diventare” liberi in queste tappe: liberazione “da”, tutto ciò che in qualche modo pesa come negativo, libertà “per”, è il momento dell’interiorizzazione dei valori e degli ideali cui finalizzare le proprie energie, libertà “con” gli altri, il gruppo, la comunità, la società; il cammino verso la libertà è un cammino compiuto insieme.
    Liberi da, liberi per, liberi con, sono caratteristiche della libertà umana in quanto tale, ma sono caratteristiche, come abbiamo visto, del cammino che Dio fa compiere al popolo d’Israele, e poi della libertà cristiana. S. Paolo ci dice: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi. State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù.” (Gal 5,1).

    CAPITOLO QUARTO
    Orientamenti operativi. Alcune proposte concrete

    Quest’ultimo capitolo non intende proporre nuovi contenuti, ma semplicemente inquadrare in alcuni orientamenti operativi i contenuti privilegiati.

    1. Verifica dello “stato educativo” della comunità cristiana ai vari livelli in cui si esprime. Esperienze incoraggianti e punti di sofferenza

    Il cammino formativo della persona è fatto di occasionalità e sistematicità. A volte sono gli imprevisti che offrono gli spunti che fanno più presa. Il vero educatore, partendo dall’occasionalità, sa ricondurre ad una proposta organica, ad un itinerario sistematico. Parlando della pedagogia di Dio abbiamo visto che la sua azione educativa non è fatta di interventi sconnessi, ma tutto rientra in un piano, anche se non è sempre facile cogliere il senso dei singoli interventi. Non a caso si parla di “piano della salvezza”.
    La comunità cristiana, ispirandosi alla strategia di Dio e con il compito di darle continuità nella storia, è chiamata a porsi come soggetto e luogo educativo attraverso tutta la sua azione pastorale. Questa si articola fondamentalmente in queste dimensioni costitutive:
    1. la conoscenza del Mistero di Gesù Cristo e della sua Carità grazie all’annuncio e alla catechesi;
    2. l’esperienza di questo Mistero che ci viene offerta nella celebrazione liturgica e, in particolare, nei sacramenti;
    3. la verifica morale dei segni della conformazione a Cristo.
    Queste tre dimensioni non vanno mai separate perché l’una richiama l’altra. I cristiani di tutte le età vanno educati a scoprire e sperimentare che non c’è conoscenza di Gesù senza esperienza e che l’esperienza vera di Lui cambia la vita. In questo modo la comunità cristiana collabora con lo Spirito Santo per formare le coscienze secondo la Carità di Cristo.[28]
    C’è un valore pedagogico nelle funzioni ecclesiali ordinarie che va riscoperto e valorizzato. L’attenzione alle esperienze della vita quotidiana della parrocchia può significare la volontà di sottolineare una rinnovata connessione tra fede e vita, affinché quello che si celebra, si annuncia, si testimonia e si condivide, possa assumere davvero spessore e significatività educativa.
    Accanto ad una approfondita riflessione sugli obiettivi, caratteristiche e condizioni della nostra azione educativa, è importante allora procedere in modo sereno, ma anche con realismo e verità, ad una accurata verifica su quanto risultino significative queste dimensioni; una verifica degli itinerari, degli strumenti e delle esperienze educative, presenti in Diocesi, nelle parrocchie, nelle comunità religiose, nelle associazioni, nei movimenti.
    È importante individuare assieme quali aspetti dell’attuale azione educativa in Diocesi, ai vari livelli in cui si esprime meritano di essere valorizzati, quali vanno rivisti e riorientati, quali lacune vanno colmate. Due esigenze mi sembrano attraversare tutte le realtà ecclesiali: il bisogno di dare profondità alla motivazione del proprio impegno nella società e nella Chiesa, ancorandolo ad una forte spiritualità, e l’esigenza di comunione.
    In questi primi mesi di servizio episcopale a Modena ho cercato di venire a conoscenza della realtà. Ho colto un’immagine di una realtà ricca di presenze, di doni, di disponibilità; una realtà complessa e variegata, organizzata, che va sostenuta e incoraggiata, soffiando sulle brace del fuoco dello Spirito Santo per radicare il proprio cammino in una solida spiritualità, che faccia della vocazione alla santità “la misura alta della propria quotidianità”, e promovendo un’autentica comunione tra le tante espressioni ecclesiali, che considero un’autentica ricchezza, frutto dello Spirito e grembo fecondo della missione.
    La tentazione di indicare priorità che mi stanno a cuore è forte, ma non voglio restringere le possibilità di verifica delle singole comunità, da cui dovranno uscire indicazioni per le scelte prioritarie per la progettazione pastorale dei prossimi anni.

    2. La consegna e lo studio degli Orientamenti pastorali della CEI e della Lettera pastorale

    L’Assemblea Generale dei vescovi italiani ha approvato nel maggio scorso gli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020, che mettono al centro l’educazione, al fine di condurre un’approfondita verifica dell’impegno educativo della Chiesa in Italia e di promuovere con rinnovato slancio questo servizio al bene della società.
    La scelta dell’educazione va letta nel quadro complessivo del cammino della Chiesa italiana degli ultimi decenni, il cui filo rosso è l’evangelizzazione.
    Come ho ricordato nel primo capitolo, esiste infatti uno stretto rapporto tra evangelizzazione ed educazione. Il compito educativo – come ci ricorda Benedetto XVI - è “esigenza costitutiva e permanente” della missione della Chiesa.
    Il fatto di dedicarvi un decennio, denota la vastità e la profondità della sfida educativa da una parte, tanto che si parla di “emergenza educativa”, e dall’altra, indica che l’educazione non è un semplice aspetto dell’impegno ecclesiale che si ritiene necessario rinforzare, ma un “tema generatore”. Gli Orientamenti vanno ricevuti come un dono, vanno studiati per tradurli in scelte operative. Essi sono rivolti a tutto il popolo cristiano, ma in particolare agli operatori pastorali.
    Sono un documento espressione della collegialità dei Vescovi italiani, strumento della comunione tra le Chiese diocesane, al servizio delle responsabilità pastorali a cui sono chiamate.
    La Lettera pastorale raccoglie contributi offerti dalla consultazione di organismi ecclesiali di partecipazione ed è espressione del magistero e della sollecitudine pastorale del Vescovo per il cammino di fede di una Chiesa particolare, incarnata dentro ad un territorio, con tutto quello che significa questo, in comunione con le altre Diocesi.
    Le Assemblee del Consiglio Pastorale Diocesano e del Consiglio Presbiterale Diocesano, la “Tre giorni” pastorale di giugno, che hanno affrontato il tema educativo, sono state per me molto costruttive per la quantità e per la qualità degli interventi; segno di quanto il tema dell’educazione stia a cuore alla nostra Chiesa.
    Ho cercato di lasciarmi interpellare dai contributi, di comporli in unità . Non tutto è potuto confl uire nella Lettera, ma l’averlo condiviso è già stato un arricchimento per tutti. Orientamenti e Lettera Pastorale sono complementari, l’uno al servizio dell’altro.
    Mi auguro che possano servire per ridestare la passione educativa, per tradurla in scelte e percorsi formativi adeguati.

    3. Lectio e percorso biblico sul libro dell’Esodo

    Da diversi anni la Diocesi ha fatto la scelta di ancorare il cammino pastorale dell’anno all’approfondimento esegetico-spirituale di un libro della Sacra Scrittura.
    La scelta per il cammino di quest’anno pastorale è il libro dell’Esodo.
    Mi preme sottolineare che non si tratta semplicemente di acquisire una competenza biblica – pur importante - ma di lasciarsi guidare e illuminare da quella Parola che costituisce l’orientamento di fondo del proprio cammino spirituale. In altre parole, ci deve essere la consapevolezza che la Parola di Dio è un organismo vivente, è Dio che si rivolge a noi, che intende stabilire un dialogo nel quale le redini sono saldamente nelle sue mani.
    Come più volte evidenziato, la sorgente prima e ineludibile del nostro pensare è la Rivelazione che Dio ha fatto di se stesso.
    Il cammino che Dio ha proposto ad Israele diviene pertanto un modello e un punto di riferimento essenziale anche per noi. È chiaro che ogni cosa deve essere riletta e attualizzata alla luce di quanto compiuto da Cristo, ma, in ogni caso, vale quanto scriveva Paolo alla comunità di Corinto: “Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio e sono state scritte per nostro ammonimento.” (1Cor 10,11).
    Il sussidio biblico, proposto dall’Ufficio Servizio biblico diocesano può essere un prezioso aiuto per aiutare le nostre comunità a pregare con la Parola, secondo il ritmo della Lectio divina. Anche qui, mi pare importante precisare, che una lettura orante della Scrittura presuppone, certamente, una lettura attenta e meditata, ma anche la risposta a questa Parola da parte di chi l’ha attentamente letta e meditata. In altre parole, si tenga conto della totalità del cammino della Lectio che deve sfociare nella preghiera e nella contemplazione e non fermarsi alla pur necessaria meditazione.
    In quest’ottica, la preghiera sul libro dell’Esodo, potrà aiutarci a rinnovare spiritualmente le nostre comunità, premessa indispensabile per rivitalizzare anche il nostro impegno educativo a servizio dell’intero popolo di Dio.
    È, pertanto, auspicabile, per non dire necessario, che si offrano, in ogni comunità parrocchiale o unità pastorale, incontri di Lectio sul libro biblico scelto.

    4. La collaborazione tre le realtà educative presenti sul territorio

    Nell’introduzione della Lettera pastorale, di fronte alla vastità, all’urgenza, in cui si pone la sfi- da educativa, sottolineavo l’importanza di “tornare alla cosa in sé”, al significato e alla possibilità dell’educazione, prima di soffermarci su un aspetto o l’altro.
    Ora, giunto alla conclusione, ritengo importante richiamare la necessità di un patto educativo, o un’alleanza educativa, o anche semplicemente una collaborazione vera tra le realtà educative presenti nel territorio.
    La collaborazione deve caratterizzare la vita interna delle parrocchie, espressione della pastorale integrata. Famiglia, gruppi, associazioni e movimenti ecclesiali, figure ministeriali, in rapporto ad ambiti pastorali specifici, devono sentirsi membri attivi della propria comunità, sostenersi reciprocamente con la testimonianza di fede, contribuendo con il loro specifico dono a far crescere fino alla pienezza il corpo di Cristo, che è la Chiesa. Nella Lettera agli Efesini l’apostolo Paolo esorta: “Agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo. Da lui tutto il corpo, ben compaginato e connesso, con la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, cresce in modo da edificare se stesso nella carità” (Ef 4, 16).
    La collaborazione deve permeare i rapporti della Chiesa con la società civile.
    La Chiesa è presente attivamente nel territorio e vive, attraverso le parrocchie, in mezzo alle case degli uomini. È pronta a offrire e a ricevere collaborazione per favorire una valida educazione specialmente alle nuove generazioni secondo quei valori che, ispirati al Vangelo, hanno contribuito a formare la nostra cultura.
    Nel saluto alle Autorità il giorno del mio ingresso a Modena (14 marzo 2010), riprendevo l’immagine a me cara della “Chiesa nella città”. La Chiesa e la città, pur essendo realtà distinte, hanno bisogno l’una dell’altra. Esse non sono chiuse l’una all’altra e nemmeno impermeabili tra loro.
    La presenza della comunità cristiana può essere determinante per dare un’anima alla vita di un paese, alla periferia della città, ad un quartiere, ad un centro storico, attraverso anzitutto quella presenza quotidiana che non fa clamore, ma di fatto è determinante per la coesione sociale e per il perseguimento del bene comune.
    Modena possiede un patrimonio sociale ricco di esperienze associative e di volontariato, di cultura della partecipazione, che si esprime anche nella collaborazione nel campo educativo.
    Occorre proseguire su questa strada della collaborazione in quelle forme che si sono rivelate ricche di frutti per il bene comune, aperti nello stesso tempo a nuove modalità che la situazione potrà richiedere. Insieme sarà possibile costruire il nostro futuro, che si rispecchia soprattutto nelle nuove generazioni.

    CONCLUSIONE

    A conclusione di queste note, vorrei rivolgermi ancora a tutti coloro che a vario titolo si prestano per l’opera educativa: genitori, insegnanti, sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose, persone consacrate, educatori di gruppi, di associazioni e di movimenti, volontari in vari ambiti della vita religiosa, sociale e civile. È una schiera numerosa di educatori, che nella ferialità della vita si spendono con generosità, con creatività e con competenza a favore delle nuove generazioni.
    A loro il grazie sincero.
    Possano essi sentire l’affetto, il sostegno e l’accompagnamento della comunità cristiana e ricevere da essa gli aiuti necessari per la loro formazione. Possano guardare ad essa come al grembo materno in cui la vita nuova portata da Cristo può essere concepita, generata e coltivata fino a raggiungere la piena maturità. Possano essi portare avanti la schiera di testimoni educatori, che arricchiscono la diocesi, le parrocchie, gli istituti religiosi, le associazioni, i movimenti.
    Invito a riscoprire le figure più significative che hanno segnato la vita e la missione educativa della comunità perché la loro testimonianza possa suscitare e sostenere una nuova generazione di educatori. Ed essere di stimolo a tutti.
    Come ci esorta la Lettera agli Ebrei: “Anche noi, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento” (Eb 12,1-2).
    Ci accompagnino con la loro intercessione i nostri santi patroni Geminiano e Silvestro.
    Protegga il nostro cammino e sostenga il nostro impegno educativo la Beata Vergine Maria, che come madre ha contribuito con S. Giuseppe , suo sposo, a formare, a dare “una forma” bella all’umanità di Gesù, suo figlio e, come sua discepola, si è lasciata formare da Lui.

    8 settembre 2010
    Festa della Natività della Beata Vergine Maria

    * Arcivescovo Abate di Modena-Nonantola

    (fonte: https://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/allegati/2789/LETTERA%20PASTORALE%20Lanfranchi.pdf)


    NOTE

    [1] Benedetto XVI, 27 maggio 2010.
    [2] ibid.
    [3] C. Ruini, La sfida educativa, a cura del Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, Ed. Laterza 2009, pp. XIV-XV.
    [4] Benedetto XVI, Allocuzione alla 59° Assemblea Generale C.E.I., Roma 28 maggio 2009.
    [5] Gaudium et Spes n. 41.
    [6] Benedetto XVI, 27 maggio 2010.
    [7] C. M. Martini, Dio educa il suo popolo, 1987/1988, n. 24.
    [8] citati da T. Špidlìk, in G. Morandi, Bellezza. Luogo teologico di evangelizzazione, Ed. Paoline, pp.10-11
    [9] C. M. Martini, Dio educa il suo popolo, n. 27.
    [10] La sfida educativa, pp.83-84.
    [11] La sfida educativa, p. 86.
    [12] L. Giussani, Il rischio educativo. Come creazione di personalità e di storia, SEI, pp.93-94.
    [13] Dei Verbum, n 2.
    [14] A. J. Heschel, Il canto della libertà, Edizioni Qiqaion, p. 38.
    [15] Sermoni sul Cantico dei Cantici, XVIII, 3.
    [16] Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008.
    [17] L. Giussani, Il rischio educativo, p. 109.
    [18] P. Sequeri, L’oro e la paglia, Glossa, pp.61-62.
    [19] G. Savagnone, A. Briguglia, Il coraggio di educare, LDC, p.14
    [20] cfr E. Bosetti, Sandali e bisaccia. Percorsi biblici del “ prendersi cura”, Cittadella, 2010.
    [21] CEI, Il Rinnovamento della Catechesi, n. 52.
    [22] R. Tonelli, Dire Gesù Cristo nella vita quotidiana, LAS, p.138.
    [23] F. Miano, “La vita come vocazione e come responsabilità”, in Servizio Nazionale per il Progetto. Culturale della CEI, Persona, intelligenza, libertà, amore, EDB, p.187.
    [24] Gaudium et Spes, n.16.
    [25] CEI, La Verità vi farà liberi, n. 917.
    [26] Giovanni Paolo II, Veritatis splendor, 34.
    [27] R. Guardini, Lettere sull’autoformazione, Morcelliana, pp.109.115.
    [28] cfr Concilio Vaticano II, Gravissimum Educationis, n. 2.


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