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    Spiritualità dalla

    «bocca dei lattanti»?

    Elaine Champagne



    Il primissimo periodo di vita può essere considerato un'"età dimenticata". Pochi adulti riescono a ricordare i propri anni prescolari, ancor meno hanno ricordi della propria prima infanzia. Da un lato, la psicologia ha aiutato genitori e adulti in generale a riconoscere come i primi anni di vita abbiano un valore fondativo per l'intera esistenza di un individuo. Di fatto, nella nostra società moderna viene rivolta molta attenzione alla cura di coloro che, com'è auspicabile, diventeranno persone adulte, individui compiuti. I bambini vengono assai spesso protetti, curati e amati, anche nel tumulto di tutte le sfide che la loro crescita e la loro educazione pongono ai genitori e agli adulti che amorevolmente stanno loro intorno. Ma, dall'altro lato, il primo periodo di vita è anche considerato in funzione del suo potenziale futuro piuttosto che per ciò che esso può essere nel presente, in quanto tale, forse perché i bambini "non sono ancora", specialmente quelli più piccini, quelli che muovono i primi passi e i bimbi di pochi anni.

    Gli adulti condividono una responsabilità enorme nella cura dei bambini. Assillati dalle preoccupazioni per la loro protezione e la loro educazione, i genitori così come gli adulti che si prendono cura dei bambini possono perdere di vista l'individuo reale e concreto con il quale essi sono costantemente invitati a relazionarsi, con la sua propria ricchezza e difetti, con i suoi limiti e qualità. Questo vale anche nel campo della spiritualità. Per gli adulti è più facile parlare della spiritualità dei bambini che condividere e comunicare esperienze spirituali con essi, specialmente quando sono in età pre-scolare o nella prima infanzia.
    Prima dell'"età della ragione" (intorno ai sette anni), nell'Impero romano il bambino piccolo era considerato in-fans, cioè "senza voce" [1]. La sua vita non aveva abbastanza "densità" di esistenza, di storia, di memoria perché gli adulti lo potessero considerare un "interlocutore". Ai nostri giorni, i cristiani e, tra essi, i teologi, che voce riconoscono ai bambini? In che modo tocchiamo la spiritualità quando ci rapportiamo con i bambini, specialmente quelli più piccoli?
    Attraverso una breve panoramica della letteratura sulla spiritualità dei bambini, dapprima vorrei mettere in rilievo come si sta cercando oggi di dare voce ad essi. Ma, se i bambini vengono uditi e ascoltati, in che modo noi adulti possiamo meglio riconoscerli, sostenerli e dare una risposta a loro e a ciò che essi esprimono riguardo a una vita spirituale? In che modo possiamo avviare la "danza" del dialogo con loro, anche con quelli più piccini? Quello che viene dalla «bocca dei lattanti» può far pensare, a volte può essere provocatorio: in che modo dovremmo accoglierlo? Come possiamo far sì che contribuisca al nostro personale cammino di fede? E in che modo possiamo rispondere loro in maniera adeguata, per rispettare il loro "essere uguali e diversi" rispetto a noi? Questo è quanto vorrei prendere in esame nel presente articolo attingendo a mano a mano ad alcune espressioni della spiritualità di bambini piccoli connesse con il Mistero pasquale.

    SPIRITUALITÀ, RELIGIONE, TEOLOGIA E AFFINI...

    Per cominciare, ritengo utile chiarire alcuni punti. Nel contesto del mondo occidentale – una società sempre più secolarizzata – in questi ultimi decenni è andato emergendo un crescente interesse per la riscoperta e la riformulazione di ciò che riguarda la spiritualità e la vita spirituale. Questa ricerca ha spesso preso una posizione diversa da quella offerta dalle diverse religioni. Radicata in fondamenti antropologici, influenzata da valori umanistici e portatrice di un interesse speciale per l'inclusività e l'universalità, questa nuova "visione" della spiritualità ha rivolto un'attenzione più profonda all'autentico coinvolgimento e al contributo del "soggetto", uomo o donna, nel proprio viaggio verso la realizzazione di una vita ricca di significato [2].
    Secondo questa visione, si può dire che le religioni offrano un linguaggio per esplorare, sviluppare ed esprimere la ricerca umana di compiutezza [3]. Attraverso miti e rituali fondanti le religioni non solo richiamano gli individui a una vita morale [4], ma sollecitano i credenti a fondare la propria comprensione di se stessi nelle loro relazioni con il prossimo, con se stessi, con il mondo come tale, così come nel loro rapporto con l'Immanente e il Trascendente, ovvero con Dio. La religione e la spiritualità sono, pertanto, distinte ma intrecciate, contribuendo entrambe al "divenire" del soggetto relazionale.
    In questo articolo prenderò in esame le espressioni dei bambini piccoli per la loro valenza spirituale - e quindi relazionale - cercando nel contempo di dischiudere il loro potenziale religioso, teologico-cristiano.

    LA LETTERATURA TEOLOGICA SUI BAMBINI

    Alcuni autori hanno affermato che si possono riconoscere espressioni di una vita spirituale anche in bambini molto piccoli [5]. Il concepimento e la vita dell'embrione e del neonato sono stati oggetto di riflessione da una prospettiva metafisica [6]. È stato elaborato un approccio fenomenologico alla spiritualità dei bambini di età pre-scolare [7]. Tutti questi autori affermano l'esigenza di un maggiore riconoscimento della spiritualità infantile nella vita quotidiana. Invece, i bambini cui si è fatto più spesso riferimento in recenti articoli su indagini condotte in questo campo sono di età scolare.

    Parole sui bambini e l'infanzia, parole per i bambini

    Opere recenti di teologia cristiana hanno parlato "per" i bambini. Hanno messo in evidenza, da una prospettiva storica, come siano stati intesi "teologicamente" dal periodo patristico fino all'epoca contemporanea i bambini e l'infanzia [8]. Questi scritti hanno affermato il valore dei bambini come figli di Dio. Gli esegeti biblici nel loro lavoro ermeneutico di interpretazione del vangelo hanno messo in luce l'appello a diventare come bambini [9]. Altri teologi specialisti di teologia pratica hanno descritto la valenza teologica e le implicazioni pastorali della presenza di bambini nelle famiglie e nelle comunità [10]. Si sentono oggi voci che mostrano come la mera presenza dei bambini abbia qualcosa da dire, qualcosa da insegnare a noi adulti sul nostro cammino nel diventare gli esseri umani che siamo chiamati a essere.

    Parole dai bambini

    A partire dall'opera pionieristica di Coles [11], di più è stato fatto per dare ascolto ai bambini e per prendere sul serio la loro vita spirituale così come l'influenza delle convinzioni religiose nella loro ricerca di una vita realizzata e ricca di significato [12]. Delle linee operative innovative sono state sviluppate nell'educazione alla fede cristiana anche prima di Coles [13]. E stato pure sviluppato con ingegnosità un contesto interattivo per l'educazione religiosa con bambini dell'età dell'asilo-nido e di quella della scuola dell'infanzia, ispirato alle scuole montessoriane [14].
    I molti «Jahrbüch[en] für Kindertheologie» [collana dell'Editrice tedesca Calwer] testimoniano anche lo sviluppo del campo del "fare teologia con i bambini". Gli esempi che seguono possono essere letti in questa linea. Tuttavia, vorrei rilanciare qualche sfida che le parole dei bambini portano alla riflessione degli adulti e cercare di offrire alcuni suggerimenti per consentire un dialogo di fede più ricco, rimanendo nel contempo attenti all'espressione non verbale della spiritualità.

    LASCIAR PARLARE LA PAROLA: PAROLE CON I BAMBINI

    Anche se non è possibile avere accesso all'esperienza interiore dei bambini piccoli, essi offrono a chi presta ascolto una espressione di quell'esigenza. Attraverso semplici eventi, essi possono iniziare un racconto. Cominciano una storia che sta poi a noi sviluppare. Ma quando la storia è spirituale? Robert Hurley precisa che «le storie sono interpretate come spirituali quando i lettori cominciano a considerarle tali» [15]. Così è l'adulto che è invitato a continuare la conversazione, ad entrare nel dialogo con il bambino. Siamo tenuti ad ascoltare la continuazione della storia e a scoprire qual è il suo significato per noi stessi. Allora sarà possibile condividerlo con il bambino.
    Un dialogo autentico richiede empatia. Una delle ragioni per cui non sempre sappiamo come continuare una conversazione con i bambini può essere semplicemente perché noi siamo molto diversi da loro. Un altro limite alla conversazione teologica con i bambini è costituito dal fatto che ciò che essi esprimono ci appare così strano che dobbiamo prima riflettere per noi stessi sulle realtà che essi evocano e suggeriscono. I bambini non solo di fatto hanno bisogni diversi o agiscono in maniera diversa dagli adulti, ma essi non pensano nello stesso modo. I bambini fondamentalmente guardano le cose da una prospettiva diversa: questo è il motivo per cui le loro domande, e anche le loro risposte, tanto spesso ci appaiono così strane e ci colgono di sorpresa.
    I bambini inducono noi adulti a guardare il mondo da un altro punto di vista. Esigono che abbandoniamo le nostre certezze - e persino i nostri dubbi. Ci sollecitano ad assumerci il rischio di riprendere il cammino e di continuare la nostra ricerca. Ci invitano, in maniera giocosa, a cercare, esplorare e scoprire, senza aver paura di ciò che è nascosto, di ciò che è Mistero. Nello stesso tempo, spesso in maniera sconcertante, i bambini hanno semplicemente i piedi per terra. Sono profondamente sensibili a ciò che percepiscono, a ciò che risveglia i loro sensi, alla realtà quale viene loro offerta.
    Per riconoscere le aperture dei bambini alla spiritualità e per entrare nella danza del dialogo con loro, dobbiamo, all'interno di noi stessi, attraversare la soglia delle loro parole - si tratti di un linguaggio verbale o di uno non verbale. Come adulti, pur facendo ricorso a tutte le nostre risorse e capacità "da grandi", dobbiamo entrare nel mondo interiore del bambino e sfruttare il suo piccolo potenziale creativo.
    In alcune situazioni il dialogo può sorprendentemente assumere la forma di una compresenza silenziosa, per esempio in un luogo in cui il sacro è percepibile. In altre situazioni diventa necessaria una verbalizzazione esplicita in cui il bambino assume una parte attiva. Ecco un esempio concreto.

    Un bambino di quattro anni una volta mise in imbarazzo suo padre con una domanda molto seria, mentre si trovavano in chiesa durante la celebrazione di un matrimonio. Sacha chiese ad alta voce: «Perché quell'uomo [sulla croce] è morto?». Il padre, un celebre attore, raccontò questo episodio su un rotocalco popolare. Spiegò che la cosa peggiore per lui non era tanto il fatto che il suo bambino avesse parlato a voce alta e fatto rumore, ma che lui non sapesse che cosa rispondergli.
    Decise tuttavia di correre il rischio e lasciò che la conversazione seguisse il suo corso. In un primo momento, la situazione sembrò degenerare.

    «Vedi, Sacha, quell'uomo è morto perché la gente non l'ha capito». «Ma questo non è un motivo, papi!».
    «Lo so, tesoro, ma dove trovi degli uomini, puoi trovare della cattiveria».
    «Che cosa?».
    «Le persone non sono sempre buone e gentili tra loro. Ma non preoccuparti, lui è ancora vivo».
    Non appena dette queste parole, il padre confessò che avrebbe voluto non averle dette. Suo figlio replicò:
    «Uno può morire (die) e "non morire" (undie)?».
    «No, tesoro, solo lui».
    «Ma perché lui sì e io no [16].

    Vale la pena soffermarsi un attimo a riflettere su ciò che stava accadendo nella loro conversazione. I bambini spesso si mettono di fronte ai loro genitori semplicemente essendo ciò che sono, facendo nel contempo da specchio ai loro genitori e rivelando ciò che essi, i genitori, sono. Questo si applica anche nel campo della spiritualità, della fede e della religione. La domanda di Sacha aveva sfidato suo padre a esprimere ciò che lui credeva veramente.
    La sfida ha molte sfaccettature. È veramente difficile esprimere a parole la fede e la spiritualità: sembrano effimere e fugaci, sfuggenti a qualsiasi definizione definitiva. Le parole non sembrano sufficienti a descriverle, come se la loro realtà si trovasse sempre al di là della nostra portata. In secondo luogo, esse fanno riferimento a una "realtà viva", unica e irripetibile in ogni essere umano. Non solo richiedono un certo sforzo comunicativo, ma si trasformano nel corso di questo processo.
    Quando si cerca di esprimere la propria fede in maniera articolata, e i propri valori e le proprie convinzioni, si rivela la propria vita spirituale. Credo che sia allora che si consente alla propria fede di chiarirsi e di venire rafforzata. Un dialogo autentico, che include l'essere aperti al nuovo, sorpresi da ciò che è diverso, turbati da ciò che è inatteso e anche sconvolti da dubbi, è in grado di essere fruttuoso. La spiritualità degli adulti li chiama a una maggiore coerenza di vita. Esige autenticità. Trovare le parole giuste anziché usare delle formule apprese richiede un lavoro incessante per integrare le realtà della vita che sono in gioco in prospettive religiose o filosofiche. E questo lo si compie nel modo migliore quando si è in dialogo con altri. Ciò è sufficiente da solo a giustificare per ogni cristiano, e non solo per i teologi di professione, la necessità di affermare la propria fede personale, e di condividere con altri la ricerca della verità.
    Ma quel padre ha ammesso che la sua preoccupazione principale non era di quel genere. Avrebbe reso partecipe il figlioletto del proprio scetticismo religioso? Ho incontrato molti genitori che si chiedono se sarebbe giusto nei confronti dei figli condividere con loro i propri dubbi o il proprio scetticismo. I genitori conoscono il potere della loro influenza sui figli. Essi sembrano anche apprezzare la capacità dei loro figli di "abitare" il mondo spirituale e desiderano "lasciarli credere". Se da un lato sono fortemente infastiditi da quanto si avvicini all'indottrinamento, dall'altro sembrano in qualche modo rammaricarsi di aver "perso la fede" o, piuttosto, desiderano aver fede. Quel padre decise di fare a sua volta una domanda al figlio.

    «Sacha, secondo te perché quell'uomo è morto e poi non era più morto?».
    Sacha si mise a riflettere.
    «Perché non aveva finito di dire quello che aveva da dire».

    Il padre raccontò di essersi sentito orgoglioso come non mai. Aveva trovato il commento splendido. Lo aveva trovato assai sensato. Suo figlio Sacha aveva avuto un'intuizione e aveva detto qualcosa che a lui – bisogna ammetterlo – non sarebbe mai capitato di dire. Con un certo umorismo, il padre poi riferì di essere uscito traumatizzato da questa esperienza. Accennò al fatto che la crisi di fede che aveva attraversato era finita. Aveva trovato un significato nuovo.
    I bambini possono apportare dei significati nuovi alle motivazioni e agli argomenti che sono ormai consueti. O, forse, a consentire questa scoperta sono la ricchezza e la forza di un dialogo autentico, capace di includere ciò che è "diverso". Quindi, ovviamente, ascoltare quello che l'altro ha da dire diventa assolutamente importante. Secondo Sacha, quello che Gesù aveva da dire era così assolutamente importante che Gesù non poteva "restare morto".
    Nel discorso di commiato di Gesù, secondo Giovanni, questa dimensione di ciò che Gesù aveva detto viene posta in risalto. «Vi ho detto queste cose perché...» si legge per sei volte, come un refrain [17].

    «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11).
    «Vi ho detto queste cose perché non abbiate a scandalizzarvi» (Gv 16,1). «Ma io vi ho detto queste cose perché, quando giungerà la loro ora, ricordiate che ve ne ho parlato» (Gv 16,4a).
    «Anzi, perché vi ho detto queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore» (Gv 16,6).
    «Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me» (Gv 16,33).

    Nel contesto di questa riflessione, due frasi in questa serie di citazioni attirano la nostra attenzione. Entrambe sono seguite da un riferimento allo Spirito santo.

    «Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,25s.). «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future» (Gv 16,12s.).

    Pur essendo cauti nell'interpretazione di questi ultimi due passi, si potrebbe concordare con Brown sul fatto che la rivelazione è stata data in Cristo una volta per tutte, ma la comprensione di questa rivelazione continua a dischiudersi nel corso dell'esistenza della chiesa [18].
    In un certo senso, l'intuizione di Sacha era giusta. Gesù, il Cristo, il Logos, non poteva essere ridotto al silenzio per sempre. Ora egli è vivo; è risorto, così che la Parola si possa diffondere. C'è qualcos'altro ancora che deve essere udito. E, dal momento che noi cristiani partecipiamo della vita di Cristo, noi - adulti e bambini insieme - siamo impegnati nei confronti di quella Parola che tutti dobbiamo condividere.

    VERSO IL COMPIMENTO, INSIEME AI BAMBINI

    Un altro esempio è tratto da un incontro domenicale di un gruppo di famiglie cristiane. Joachim, un bambino di trenta mesi, era inconsolabile. Come ogni mese, erano programmate un'attività religiosa per i bambini di età pre-scolare e un'altra per quelli di età scolare, mentre i genitori e altri adulti svolgevano la loro riflessione comune sui testi biblici del giorno. Poi, come di consueto, si riunivano tutti per il seguito della liturgia, che era seguita dal pranzo condiviso insieme. Quella domenica, Joachim piangeva disperatamente. Sua madre gli chiese se voleva giocare o se aveva sete; pensò a tutte le ipotesi possibili per consolarlo. Ma nulla fu d'aiuto. Ad un certo punto Joachim, ancora in lacrime, le tirò la manica e le mostrò la scala. Le attività del mattino erano state svolte al piano di sopra, ma a quell'ora non vi era più nessuno. La madre glielo spiegò, ma inutilmente. Anzi, andò ancor peggio: Joachim che strillava, sua madre disperata. Ma dopo un po' la mamma ritornò con un gran sorriso, con Joachim tranquillo e pacifico. E spiegò: «Sapete che cosa voleva? Beh, di sopra c'è la cappella. Non c'era ancora stato oggi. Ci è entrato da solo, è andato dritto fino in fondo, si è messo di fronte al crocifisso e si è messo a cantare con grande passione: "Luia! Luia!". E poi tutto felice è tornato indietro. Ed eccoci qua. Non l'avrei mai immaginato!».
    Credo che Joachim riassuma molte delle sfide principali che ho evidenziato in questo articolo sulla spiritualità dei bambini piccoli. Pur essendo un soggetto della propria esperienza personale, Joachim ha bisogno di adulti che possano parlare per lui e con lui, così da sentirsi protetto e sollevato in modo tale da aprire un varco alla sua propria parola. Joachim aveva bisogno di qualcuno che lo "portasse" all'interno dello spazio in cui egli potesse esprimere quello che già era presente dentro di lui, in attesa di rivelarsi. Secondo questa prospettiva filosofica, la parola autentica può manifestarsi, anche negli adulti, solo quando in molti tentano di esprimerla. E la tradizione cristiana professa che «dove sono due o tre riuniti nel mio nome (nel nome di Colui che è la Parola), io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Anche se il piccolo non lo sapeva, la parola "Luia!" di Joachim era biblica. Conteneva, in una maniera relazionale, tutta intera la professione di fede cristiana.
    Nello stesso tempo, le parole spirituali dei bambini condivise nel dialogo autentico sollecitano gli adulti ad approfondire la propria spiritualità, a continuare il proprio cammino di fede, a riprendere la ricerca, guidati dalla Parola proclamata dalla comunità di fede "in cammino", guidati dal Logos del quale noi partecipiamo.

    Nella relazione con il bambino, come in ogni relazione con l'altro, io non imparo discendendo dentro me stesso e scoprendo nella mia interiorità più profonda una saggezza al di sopra di tutte le cose, bensì uscendo da me stesso e aprendomi all'altro, mentre l'altro rivela se stesso a me [19].

    Pertanto dalla «bocca dei bimbi e dei lattanti» (Sal 8,3) possiamo veramente udire Dio e partecipare a questa lode.

    NOTE

    1 O.M. BAKKE, When Children Became People. The Birth of Childhood in Early Christianity, Augsburg Fortress, Minneapolis 2005.
    2 R.S. WEBSTER, An Existential Framework of Spirituality, in International Journal of Children's Spirituality 9/1 (2004) 7-12; S. SCHNEIDERS, Theology and Spirituality. Strangers, Rivals or Partners?, in Horizons 13/2 (1986) 253-274.
    3 R. JACQUES, Le"spiritual" et le "religieux" à l'épreuve de la transcendence, in Théologiques 7/1 (1999) 89-106.
    4 D. HAY – R. NYE, The Spirit of the Child, Imprint of Harper Collins, London 1998; P. BERGER, A Rumor of Angels in Modern Society and the Rediscovery of the Supernatural, Allen Lane - Penguin Press, London 1967 [trad. it., Il brusio degli angeli. Il sacro nella società contemporanea, il Mulino, Bologna 1995].
    5 W. SHAFER, The Infant as Reflection of Soul. The Time Before There Was a Self, in Zero to Three 24/3 (2004) 4-8; A.M. DE CASABLANCA, L'enfant capable de Dieu. Développement psychologique et éveil religieux avant trois ans, Paulist Press, New York 1988 [trad. it., La percezione di Dio nell'infanzia. Sviluppo psicologico e risveglio spirituale prima dei tre anni, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Mi) 1992].
    6 G. SIEWERTH, Aux sources de l'amour. Métaphysique de l'enfance, Parole et Silence, Paris 2001 [ed. orig., Metaphysik der Kindheit, Johannes, Einsiedeln 1957].
    7 E. CHAMPAGNE, Reconnaître la spiritualité des tout-petits, Novalis - Lumen Vitae, Montréal - Bruxelles 2005.
    8 M.J. BUNGE (ed.), The Child in Christian Thought, Eerdmans, Grand Rapids/MI 2001; BAKKE, When Children Became People, cit.
    9 Per una esegesi di Lc 18,16 («Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio») e dei suoi paralleli, S. LEGASSE, Jésus et l'enfant. Enfants, petits et simples dans la tradition synoptique, Gabalda, Paris 1969.
    10 Tra gli autori più noti: P. COUTURE, A Practical Theology of Children and Poverty, Abingdon Press, Nashville 2000; B.J. MILLER-MCLEMORE, In the Midst of Chaos. Caring for Children as Spiritual Practice, Jossey Bass, San Francisco 2007; K.M. YUST, Real Kids, Real Faith, Jossey Bass, San Francisco 2004.
    11 R. COLES, The Spiritual Life of Children, Houghton Mifflin Company, Boston 1990 [trad. it., La vita spirituale dei bambini, Rizzoli, Milano 1992].
    12 Per più di dieci anni la rivista International Journal of Children's Spirituality si è andata specializzando nell'offrire le idee più recenti in questo campo pratico.
    13 In francese, su questo tema vanno citati F. Darcy-Bérubé e C. e J. Lagarde.
    14 Cf. S. CAVALLETTI, The Religious Potential of the Child, Paulist Press, New York 1983 [orig. it., Il potenziale religioso del bambino. Descrizione di un'esperienza con bambini da 3 a 6 anni, Prefazione di M. Searle, Città nuova, Roma 1979, 20002]; J. BERRYMAN, Godly Play, Augsburg Fortress, Minneapolis 1991.
    15 R. HURLEY, La littérature et la vie spirituelle de l'enfant, in Lumen Vitae 62/1 (2007) 52s.
    16 M. LAROCQUE, Jésus, Sacha et moi, in Enfants Québec 18/6 (2006) 96.
    17 R. BROWN, The Gospel according to John (xiii-xxi), The Anchor Bible, Doubleday & C., New York 1970, 650 [trad. it., Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, II: Capp. 13-21, Cittadella, Assisi (Pg) 1979, 782].
    18 Ibid., 714 [trad. it. cit., 866].
    19 R. BURGGRAEVE, The Ethical Voice of the Child. Plea for a Chiastic Responsibility in the Footsteps of Levinas, 8: si tratta di una Conferenza tenuta a Leuven, nei giorni 11-13 gennaio 2007, per l'Expert Seminar «Children's Voices. Children's Perspective in Ethics, Theology and Religious Education».

    (da Concilium 5/2007, pp. 91-102)


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