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    Senso teologico

    delle varie età della vita

    Bruno Secondin



    Il titolo proposto per questo mio intervento chiaramente allude e suppone una risposta positiva, costruttiva, sulla possibilità che le varie età della vita hanno (o potrebbero avere) in una prospettiva teologica e spirituale. Ma prima di cercare di proporne una, o anche molteplici, vale la pena lasciarsi provocare dalla situazione culturale che tutti viviamo. Essa ci obbliga a molta cautela, a non dare per scontato molto in questo tema.

    In una società dominata dalla scienza, dalla razionalizzazione, dalla tecnologia, gli schemi valutativi del percorso di una vita seguono una traiettoria incerta. Siamo tutti obbligati a consumare in fretta esperienze e progetti, mitologie e delusioni: un ingorgo di emozioni e di ruoli che sbriciolano i significati più duraturi e le determinazioni cronografiche. Il tempo vissuto appare accelerato e sfuggente, superficiale e frammentato: non si riesce più a maturare esperienze profonde, durevoli, qualitative.
    Senso e mete, obiettivi e valori non sembrano determinare in maniera efficace le stagioni della vita: queste per loro natura postulano un'esperienza di tempo «assimilato» e «custodito», e perciò è imprescindibile il bisogno di «assimilazione» e «passaggi», di «semina» e «attesa», di «conversione» e «trasformazione». Invece siamo come avvelenati dal tempo «sospeso», sfocato, «differito». Si tratta quasi di una minaccia fatale per l'identità della persona, per le ragioni stabili che ne reggono lo scorrere nel tempo, per tutta l'umanità. Ce lo mostrano queste frasi di sintesi di un saggio sul senso cristiano del tempo oggi:

    Gran parte dei cristiani sono insensibili alla durata, proprio come i loro contemporanei. Il rapporto dell'epoca attuale con il tempo che scorre e si sviluppa è cambiato, almeno in Europa e in America del Nord. Lo prova l'impressione frequente e quasi generalizzata di non aver mai tempo disponibile. Si è sovraoccupati, molto presi; ci sono tante cose da fare, molteplici e spesso molto parcellizzate, che sbriciolano la durata, ma anche la saziano. Tanta gente prova il sentimento del tempo a bocconi, frantumato, perfino sfalsato su piani paralleli e senza comunicazione. A questa disseminazione incontrollata si aggiunge la sensazione penosa, anche se a momenti piacevole e inebriante, di una durata insieme piena e fuggente. Risultato: tanti si lamentano di non avere tempo per se stessi, per poter abitare la propria vita e libertà, per lasciar risuonare dentro a lungo le parole solide e forti che si mescolano nelle chiacchiere e nei discorsi superficiali. Niente di strano allora che si assista, impotenti, agli spettacoli e ai drammi del mondo come agli avvenimenti della vita quotidiana. Non c'è tempo per aspettare, decidere, fermarsi; si differisce, si rimanda, si aspetta che le cose cambino: «si vedrà» [1].

    Il tempo non è puro palcoscenico

    La vita umana ha fondamentalmente un aspetto evolutivo aperto, con i suoi rituali e i suoi chiaroscuri, le sue suture lineari e le sue spinte carismatiche imprevedibili. Come dice M. Schmaus in uno dei suoi trattati dogmatici:

    La fondamentale costituzione temporale dell'uomo non vuole significare che egli vive nel tempo come in uno spazio vuoto e vi svolge il suo compito. Il tempo non è come una forma vuota che egli riempie. Non è neppure come un palcoscenico su cui egli recita la parte che la vita gli assegna. La temporalità vuole piuttosto significare che l'uomo, per la sua natura più intima, vive egli stesso legato al tempo... e produce mutazioni continue nel mondo in cui egli vive e in se stesso [2].

    Eppure siamo ancora agli inizi in questa riflessione: perché ci muoviamo in schemi piuttosto generici e astratti, basati sui principi universali di una maturità da raggiungere e mantenere. Si pensa in modo indiretto alle varie stagioni della vita, non si dà loro autonomia e originalità: perché il tempo della vita è anzitutto ricondotto al paradigma universale e astratto dell'ascesa alla «maturità» (o «perfezione» in campo spirituale).
    Di conseguenza i vari passaggi hanno un peso secondario, tenuti insieme piuttosto dall'incarnarsi di uno schema impersonale, essenzialista, oggettivo. Basta tener presenti i trattati di spiritualità, e si vedrà subito chiaramente come le «tre vie» o i «tre gradi», o altre proposte similari, non riflettono un'antropologia dinamica, non tengono conto delle stagioni della vita biologica. La biografia, entro cui vorrebbero iscrivere l'esistenza cristiana e la sua «pienezza», ignora la vera biografia, in nome di principi universali astratti, collegati con grandi categorie di virtù, di temi teologici, di esperienze estrapolate dal vissuto reale [3].
    Oggi ci rendiamo conto di dover scomporre il monolito della «vita» per dare maggiore attenzione e specificità anche alle singole stagioni biologiche e biografiche: esse non sono pura cornice di un quadro ricopiato altrove. Sono piuttosto il riferimento fondamentale
    se si vuole cogliere la persona nel suo vissuto più autentico, nella sua topografia umana e spirituale, religiosa e culturale.
    Le età della vita diventano così sempre più oggi oggetto di studio dettagliato, multidisciplinare, non solo empirico e socio-biologico, per capire quali risorse originali esse contengono, quali linguaggi religiosi esse possono generare ed esigere, come si rapportano le une alle altre le stagioni della vita, e non solo ai grandi schemi universali.

    L'anima si intesse in un corpo

    I cicli vitali ed esistenziali sono un tipico cantiere dell'autosperimentazione, non possono essere annullati in nome di visioni essenzialiste e generali. L'anima «si intesse» in un corpo, ha scritto bene G. Danneels:

    L'uomo non è un frammento di «corporeità», abitato per un momento da una scintilla spirituale. Egli è anzitutto spirito, persona unica e libera ed è tramite il corpo che il suo spirito si apre un cammino nella materia e nella storia. L'anima non viene ad abitare una casa preesistente, essa si «intesse» la sua «corporeità» a partire dalla materia. Così il corpo umano diventa l'esteriorizzazione dell anima. Una cosa del tutto diversa da un abito che si indossi  [4].

    Le conseguenze di queste affermazioni sono importanti per molti aspetti del «farsi persona», del «divenire» se stessi nella personalità spirituale. Non si può dimenticare che anche nella Bibbia si trovano,soprattutto in Paolo, delle categorie che segnalano il dinamismo della crescita: come per esempio questi paragoni evolutivi: bambini/adulti, imperfetti/perfetti, ignoranti/sapienti, carnali/spirituali [5]. Per cui possiamo dire che il cristiano è chiamato ad una crescita e maturità evidente e avvincente. Però non si vede del tutto chiaro in questo schema paolino il riferimento anche alle stagioni realmente vissute, alle fasi della vita, ai nuovi orizzonti in cui la stessa esperienza di adulti, di sapienti, di perfetti, di spirituali, conosce un sempre nuovo cominciamento e un sempre nuovo progetto, come anche un esodo e una spoliazione. Forse più adatte a questa prospettiva sono le metafore di Gesù sul seme, il lievito, il sale, la potatura, la costruzione, il banchetto, i talenti, ecc.
    Si tratta di continuità e di rottura, di prolungamento del passato, ma anche di nuova sintesi non puramente aggiuntiva, quanto creativa. È mia impressione che di questo parlino con ampiezza più gli esperti della psicologia e della antropologia biografica, che gli spirituali. Sono questi ancora legati alle grandi categorie essenzialiste e universali, cui tutt'al più aggiungono qualche annotazione marginale sulla relazione con l'età, i mondi vitali, la cultura, i modelli culturali.
    Come tutti sappiamo, l'esperienza vissuta dei grandi valori-virtù – purificazione, linguaggio, senso ecclesiale, esperienza di fede e di carità, gestione della responsabilità, discernimento storico, senso di oscurità e crisi, ecc. – non rimane una specie di cornice di fatto. Entra piuttosto nel tessuto più vivo dell'essere adulti, sapienti, spirituali, nella prospettiva detta; quindi ad ogni tornante della biografia bisogna re-impostare e re-imparare la sintesi, le modalità vitali, il percorso esistenziale.
    Ogni giorno è tempo di «ideali infranti», e di «nuove melodie» da comporre e strimpellare, da cantare e assimilare. Come direbbe Goethe, non si cammina solo per arrivare, ma anche per vivere mentre si cammina, e ogni stagione della vita ha delle risorse originali che bisogna cogliere per se stesse, mettere in gioco come elementi indispensabili di un paradigma da realizzare. Ogni momento della vita ha i suoi rituali espressivi [6].

    Elementi che caratterizzano comunemente le età e le unificano

    Per fare un buon ricamo, bisogna avere un «canovaccio» di sottofondo, che regge il tutto, ma che anche allo stesso tempo permette la creatività, e la integra in un progetto armonico e non disgregativo. Se finora abbiamo insistito sulla varietà e la irriducibilità delle varie fasi della vita, tuttavia siamo coscienti che v'è anche un «canovaccio» comune, entro il quale la vita stessa si compone in unità, e non si riduce semplicemente all'accostamento disorganico di parti sconnesse e giustapposte.
    Ci sono anche dei prolegomeni a questo canovaccio, che costituiscono dei fondamenti imprescindibili. Vale la pena almeno enumerarli [7] chiosando sul loro significato. Anzitutto v'è il legame stretto con le scienze umane, che non sono rese inutili dalla prospettiva religioso-morale, ma mostrano quale sia la densità antropologica del tempo vissuto e iscritto nell'organismo vivente. Vi è poi il principio della personalizzazione, che non è un sapere esterno sulla maturità, ma la coscienza di una unicità personale e del protagonismo del soggetto.
    Questa personalizzazione porta con sé un processo di trasformazione, che è insieme purificazione del desiderio, elaborazione del latente e del cosciente, l'accettazione di tensioni e antinomie, crisi e drammi. E tutto questo conosce momenti di intensificazione (o esperienze fondanti) e altri di coerenza e applicazione, e altri ancora di disincanto e distacchi, come pure passaggi che esigono discernimento e situazioni in cui prevale il paradosso esistenziale.
    Inoltre per tutte le stagioni della vita hanno un ruolo importante le mediazioni: sia quelle strutturali che sono correlative alle istanze della personalizzazione (autocoscienza, intersoggettività e comunità, lavoro, contesto socio-culturale, mondo simbolico); sia quelle della grazia, che sono quelle date da Dio nella storia della salvezza e che permangono nella chiesa (principalmente la liturgia, l'eucaristia e i sacramenti, la Parola e la predicazione, la chiesa come popolo in organica comunione, i segni dei tempi e dei luoghi, l'accompagnamento spirituale, i carismi). Fra le mediazioni – in prospettiva di esistenza spirituale – hanno un'importanza unica la mediazione cristologica e quella ecclesiologica, da intendersi però non solo in termini astratti o dogmatici, ma anche inculturati e dinamici.
    Infine per tutte le stagioni sono importanti le relazioni con una storia vissuta: sia la memoria e il passato, sia le vicende attuali e i con-
    testi quotidiani, sia la prospettiva futura, escatologica compresa. Questo legame molteplice con il tempo, segnala un principio da non
    dimenticare: si diventa sempre più se stessi nella misura in cui si integra nella propria esistenza l'alterità.

    Non si cresce da soli, si cresce soltanto in una relazione: in risposta a un appello, accordando la propria fede a una parola... Colui che non ha relazioni vere non crescerà; e, parlando di relazioni, io penso tanto alle relazioni interpersonali quanto all'inserimento in gruppi o in comunità costituite. È stato detto che le età della fede coincidono con le età della relazione... Ciascuno di noi riproduce nella sua relazione con Dio le caratteristiche della sua relazione con gli altri: possessività o oblatività, aggressività o fiducia [8].

    Elementi che sono propri delle singole fasi

    Tutto il fascicolo, nei vari contributi, segnala la specificità inconfondibile delle singole età della vita, e ciò dimostra come sia urgente
    portare sempre più avanti e in profondità questa specificazione. Non si tratta di una mania di trovare la diversità: si tratta di una ricchezza che bisogna sempre di nuovo individuare, apprezzare, riconoscere, esaltare e perfezionare. Potremmo dire che sarebbe una falsa impostazione quella prospettiva antropologica che vedesse nelle varie fasi della vita una pura assimilazione – delimitata in età e biologia – di valori standard comunque supratemporali.
    Sarebbe una ingenuità ermeneutica, e una forzatura antropologica, per esempio voler condurre una educazione al fine di far acquisire una data esperienza e far accettare l'esperienza già fatta da altri, in modo da mantenere le cose in una data identità costrittiva, e non aperta a nuove distinzioni. Si imporrebbe il mito del puro idealismo o della conservazione più irrigidita, come accade a volte in certi regimi totalitari e nelle società chiuse [9].
    Ad ogni svolta culturale e socio-religiosa corrispondono anche nuovi paradigmi di maturità, di esperienza religiosa sia ordinaria che eccezionale. Chi conosce la storia della spiritualità lo può facilmente constatare. Ma anche chi vive in contesti familiari o sociali dove si trovano insieme generazioni differenti, si rende conto che se ci sono elementi di intensa comunione, ci sono anche distinzioni e originalità proprie di ogni età della vita. Ogni età, si potrebbe dire, basta a se stessa, ha una sua compiutezza di identità e autonomia, un suo mondo di valori e progetti, di processi e di crisi, di trasformazioni e di distacchi.

    Sia per la storia generale sia per la storia individuale, è sbagliato fare di una precisa fase della vita lo scopo delle fasi precedenti, prescindendo dall'arroganza di una tale autoesaltazione. Si può anzi dire che il bambino, qualora sia visto solo nella prospettiva del diventare adulto e venga influenzato in tal senso, non può neppure diventare un vero adulto, giacché il fatto di aver autenticamente vissuto la propria infanzia non solo costituisce una delle tappe che cronologicamente precedono l'età adulta, ma rimane anche come elemento durevole di tutto l'ulteriore cammino dell'esistenza [10].

    Uno dei principi classici, che già Aristotele aveva segnalato, è la stabilità interiore della persona intorno al giusto mezzo, ossia la mesotes, che altro non è se non un saggio equilibrio all'incrocio delle facoltà attive del pensiero, del sentimento e della volontà con i valori personali che danno il baricentro. Anche il salmista osava implorare: «Insegnaci a contare i nostri giorni, e giungeremo alla sapienza del cuore» (Sal 90). Questa sapienza è tutt'altro che una forma standardizzata e irrigidita di valori: è piuttosto ad un tempo la totalità di una vita che da tutte le sue fasi acquisisce e distilla senso e pienezza; e dall'altro la capacità di vivere ogni fase facendo sintesi fra polarità contrapposte e assimilando l'unicum specifico.
    Certamente ci possono essere delle situazioni contraddittorie: giovani già vecchi e tediati e anziani rimasti fanciulli capricciosi e irrequieti. Anche la Bibbia presenta di questi capovolgimenti delle leggi biologiche, sia per scelta del Signore, che per colpa delle persone stesse. Si pensi alla vicenda di Samuele, e alle varie volte in cui si pone l'accento sull'età molto giovane di questo chiamato (1Sam 1,24; 2, 21.26; 3,1.7.19), ma come anche lui fosse vittima dei pregiudizi quando si trattò di scegliere Davide (1Sam 16,1-13). Nel circolo degli anziani maestri di sapienza e amici di Giobbe, irrompe il giovane Eliu, deluso dai discorsi dei tre amici: «Non sono i molti anni a dar la sapienza, né sempre i vecchi distinguono ciò che è giusto. Per questo oso dire: Ascoltatemi; anch'io esporrò il mio sapere» (Gb 32,9s). E anche lo scettico Qohélet esprime la stessa convinzione: «Meglio un ragazzo povero ma accorto, che un re vecchio e stolto che non sa ascoltare i consigli» (Qo 4,13). Tuttavia normalmente vale la legge dell'età. Il Sal 92,15 loda i giusti che restano fedeli nel tempo: «Nella vecchiaia daranno ancora frutti, saranno vegeti e rigogliosi, per annunziare quanto è retto il Signore».
    Il travaglio dell'anima in questa ricerca di senso piéno e di creatività esplorativa, la vigilanza di fronte alla seduzione della volontà di perfezione che mette il «compimento» in una linea puramente ascensionale e accumulativa, la mestizia di un passaggio sempre aperto a nuove ferite e nuove stagioni dell'anima, sono anch'essi sapienza di vita e frutti di differenti stagioni. Le nuove sintesi chiedono anch'esse delle lacerazioni: «Ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto» (Gv 15,2).

    Non si vive per finire di vivere, ma per vivere oltre

    La vita è un dono e un progetto: non si vive per chiudere un ciclo già catalogato, come fanno certi turisti che visitano luoghi e monumenti per constatare che è vero quello che è scritto sulle guide, e poi passano oltre. Non si vive per accumulare anni e date, per avere vissuto le varie stagioni: si vive per manifestare fedeltà alla vita, e manifestarla in modo così autentico e generoso da offrirla con «slancio generoso» nel migrare degli anni e delle esperienze [11].
    Entrare nella vita significa acquisire progressivamente le sembianze proprie e definitive, perdere progressivamente riferimenti esterni, per essere semplicemente se stessi, senza inutili riporti, né incrostazioni tumefatte. La vecchiaia è la verifica della opacità o della trasparenza raggiunta: se cioè si è andati avanti nella vita con incoscienza dissipatrice e materialismo edonistico, storditi dal molto fare e dal molto consumare; oppure si è coltivata una interiorità vitale, attraversata da molteplici presenze, ma anche dalla fedeltà ai valori direzionali.

    Se non si raggiunge questa disposizione oblativa, l'uomo subisce la morte come un furto — ha scritto C. Molari — che gli sottrae le cose che egli ritiene sue. In realtà nulla appartiene all'uomo se non il suo nome, quello che fissa la sua identità definitiva: il nome scritto nei cieli (cfr. Lc 10, 20). Ma questa disposizione non si acquisisce se non attraverso l'esercizio di un amore gratuito e disinteressato. La morte chiede ad ogni uomo di aver imparato ad amare al punto da non trattenere nulla per sé, neppure il proprio corpo e da sapere, quindi, consegnare tutto. L'esistenza perciò è palestra per imparare ad amare in modo così oblativo da diventare capaci, nella morte, di offrire senza riserve ciò che la vita ci aveva consegnato perché diventassimo definitivamente viventi [12].

    È evidente che bisogna imparare e insegnare ad investire sulla vita, ben sapendo che l'orientamento delle cose avrà bisogno di integrare anche il suo estremo, cioè il «passaggio» ultimo. È compito dell'uomo confrontarsi con la totalità della sua esistenza, sapere prendere posizione anticipatamente, oltre il quotidiano frammentato, sulle mete del suo itinerario, per padroneggiarne le tappe e gli esiti, con sapienza, misura e autenticità. Si tratta di abitare il «mistero» della propria vita, accettando che in essa ci sia anche un investimento di fiducia da parte di Dio sull'uomo (Dt 32,6).
    Vivendo sul serio la vita secondo certi orientamenti «oblativi» sopra ricordati, si potrà esorcizzare la paura magica della morte e della senescenza, ma anche evitare il mito della giovinezza e dell'efficienza a tutti i costi, per afferrare la vita da un capo all'altro rimanendo vigilanti e «mortali», ma fecondati dall'immortalità: «Questa è la risurrezione: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; si semina ignobile e risorge glorioso; si semina debole e risorge pieno di forza; si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale» (1Cor 15,42).

    Accompagnare il bilancio

    Nell'ambito ecclesiale questi bilanci della vita devono essere accompagnati, perché diventino un percorso sapiente e profetico, a una «rilettura» del passato e a un'«ermeneutica» del presente, non solo nella pace, ma anche nella gratitudine e nella speranza. Vale a dire che si deve compiere un passaggio verso una fede più determinata in Dio che guida la storia e ci ama donandoci non un'«altra vita» qui (che sarebbe una specie di perenne giovinezza o reincarnazione, libera da guai e ansie), ma una vita «altra», cioè chiamandoci ad una fiducia più profonda in lui e nella «vitalità eterna» che ci viene promessa.
    E catastrofica una visione della giovinezza come il tempo della libertà più assoluta e del rifiuto del passato come condizione del proprio realizzarsi; ma è egualmente deleteria una rilettura esacerbata «contro il deperire» della propria vitalità umana, e quindi l'affanno o la mestizia. Bisogna andare oltre queste tentazioni, per interpretare il deperire all'interno della sua stessa «discesa nella debolezza» e la «ascesa» della giovinezza come assunzione di responsabilità costruttiva, non distruttiva.
    In altre parole è in gioco in ogni caso un processo di verifica e di nuova identità che consente di cogliere nella nuova situazione un'offerta vitale insospettata e spesso non subito decifrabile, ma che deve portare a riscoprire il senso della fede in Cristo crocifisso e risorto per noi, il Vivente. Non solo per la vecchiaia si è smarrito spesso il senso del mistero, ma anche per le altre fasi della vita: perché la vita è più spesso manipolata e gestita da altri – tutti i persuasori occulti o palesi, tutte le mode e le biotecnologie, tutti i miti e le derive culturali –: «Molte persone oggi si muovono entro un orizzonte conoscitivo privo di quegli spiragli verso la trascendenza che aprono la strada alla fede» (Giovanni Paolo II ai vescovi europei).
    C'è una bellissima poesia di Tagore che esprime questa scoperta di «inedite possibilità»:

    Credevo che il mio viaggio fosse giunto alla fine,
    all'estremo delle mie forze,
    che la via davanti a me osse sbarrata,
    che le provviste fossero finite
    e fosse giunta l'ora di ritirarmi nel silenzio e nell'oscurità.
    Ma ho scoperto che la tua volontà non conosce fine per me.
    E quando le vecchie parole sono morte,
    nuove melodie sgorgano dal cuore;
    dove i vecchi sentieri sono perduti,
    appare un nuovo paese meraviglioso [13].

    In conclusione, dobbiamo ribadire che l'uomo non è «condannato» alla perfezione, ma è «chiamato alla santità», fondata e ricevuta in Gesù Cristo: il che vuol dire diventare «figlio di Dio», attraverso rotture e ricomposizioni, attraverso immagini di sé lacerate e sogni infranti, restauri, ritrovamenti e alterazioni di immagini. Identificare in maniera stretta santità e perfezione morale, e correlarle poi con il trascorrere degli anni come se essi servissero solo ad accumularle, fa correre il rischio del perfezionismo fanatico e conduce a delusioni notevoli. La nostra fedeltà è segnata dalla capacità apocalittica: andare incontro a Colui che domina il futuro. E andargli incontro nel tempo, nei ritmi della vita, breve e lunga che sia, nella povertà di un cuore semplice e umile:

    Per le creature che vogliono vivere, ma sono costrette a morire, tutto ruota attorno alla morte. E se la morte dovesse rappresentare la fine, tutta la gioia di vivere sarebbe destinata a svanire, come svanisce la nostra vita sulla terra. Ma se la vita viene dalla pienezza di Dio, essa sarà vita divina, quella che si manifesterà in noi nella vita da risorti... Nella gioia che questa pienezza di Dio ci infonde, e dalla quale noi attingiamo non soltanto «razia su grazia», ma anche — come ora possiamo dire — «vita su vita», fin d ora la nostra esistenza viene «trasfigurata» in una vita festosa... È una vita non solo ri-stabilita, ma anche rap-presentata: davanti a Dio e davanti agli uomini, e che si traduce essa stessa in un inno di lode. Nelle stesse sofferenze ed angosce di cui essa è disseminata, la comunione con il Cristo crocifisso fa sprizzare scintille di fiducia e accende luci di speranza [14].


    Sommario
    A partire da un'esperienza problematica del tempo nella nostra cultura, si sviluppa dapprima il principio che la vita umana ha un aspetto evolutivo aperto, e quindi il tempo «esperito» non è un puro palcoscenico, ma elemento fondamentale. Poiché «l'anima si intesse in un corpo» (Danneels), il farsi persona, il divenire se stessi va illuminato con modelli biblici dinamici (Paolo, Vangeli) ed evitando categorie essenzialiste. Ci sono elementi che caratterizzano le età e le chiamano ad unità intrinseca, come un canovaccio che sostiene un ricamo; e ci sono elementi che sono propri delle singole fasi e anche questi vanno individuati e valorizzati.
    In conclusione, la vita è un dono e un progetto: non si vive per finire di vivere, ma per vivere oltre, per acquisire atteggiamenti oblativi, per giungere alla vera sapienza del cuore, che non è una «perfezione» imposta astrattamente, ma fedeltà all'attesa apocalittica.


    NOTE

    1 L'expérience chrétienne du temps, Cerf, Paris 1987, pp. 175s.
    2 M. SCHMAUS, I novissimi, Marietti, Torino 1964, pp. 14s.
    3 Una presentazione delle prospettive della tradizione in AA.VV., Spiritual Progress. Studies in the Spirituality of late Antiquity and early Monasticism, Sant'Anselmo, Roma l 994.
    4 G. DANNEELS, Le stagioni della vita, Queriniana, Brescia 1998, p. 232.
    5 Cf. su questo ST. DE FIORES, «Itinerario spirituale», in Nuovo Dizionario di Spiritualità, Paoline, Roma 1979, pp. 794s.
    6 Cf. A. GRÜN, I rituali della vita, Queriniana, Brescia 1998; in forma più ampia D. ZADRA, Il tempo simbolico: la liturgia della vita, Morcelliana, Brescia 1985.
    7 Seguiamo qui lo schema del libro di I. GARRIDO, Proceso humano y gracia de Dios, Sal terrae, Santander 1996.
    8 AA.VV, La crescita spirituale, Dehoniane, Bologna 1988, pp. 15s.
    9 Cf. R. GUARDINI, Le età della vita, Vita e Pensiero, Milano 1992, pp. 56s.
    10 Ibid., p. 52.
    11 Riprendo qui alcuni concetti che ho espresso ampiamente nel libro: La spiritualità nei ritmi del tempo, Borla, Roma 1997, pp. 138-160.
    12 C. MOLARI, Mezzi per lo sviluppo spirituale, in BR. SECONDIN - T GOFFI (edd.), Corso di Spiritualità, Queriniana, Brescia 1989, p. 495.
    13 R. TAGORE, Poesie, Gitanjali, XXXVII, Newton, Roma 1988, p. 75. 367.
    14 J. MOLTMANN, L'avvento di Dio. Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 1998,

    (da: Credere oggi 109, 1(1999), pp. 61-71)


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