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    Età e società

    nel mondo attuale:

    verso una nuova mappa

    della vita

    Alessandro Castegnaro

     


    Le età della vita in passato

    Lo strutturarsi del ciclo di vita in età costituisce uno dei momenti centrali dell'elaborazione culturale in ogni società. Difficile immaginare che così non sia, dato il collegamento strettissimo tra le età della vita ed eventi radicali come il nascere, il morire, il crescere e l'invecchiare, o il diventare padri e madri.
    In passato la naturalità, in realtà solo apparente, del ciclo di vita ha contribuito a rafforzare le rappresentazioni delle età, rendendole parte di quel mondo dato-per-scontato che fonda le interazioni sociali e a cui si collegano alcuni dei significati essenziali dell'esistenza umana. A differenza di oggi le immagini che un tempo si associavano alle età della vita erano molto chiare e condivise, costituivano anzi uno dei pilastri dell'ordine sociale. Il diverso valore che ad esse veniva attribuito e che configurava marcati rapporti di dipendenza, era codificato da un insieme particolareggiato di norme e di aspettative di ruolo. I passaggi da una età all'altra erano chiaramente visibili e avvenivano in forme ritualizzate. Le aspettative di ruolo che a ciascuna di esse si associavano erano elaborate in modo dettagliato e ricco di significati.
    L'articolazione in età del ciclo di vita era del resto semplice e ben delineata. Le fasi che lo cadenzavano erano poche e chiaramente distinte. Come un infinito patrimonio iconografico ci ha tramandato, il ciclo della vita era sostanzialmente tripartito: l'infanzia, la vita adulta, la vecchiaia. La vita adulta campeggiava al centro dell'immagine, segno della sua centralità sociale oltre che generazionale e riproduttiva; segno anche della sua maggiore estensione rispetto alle altre età.
    La terza età, come stupendamente rappresentato in un celebre cartone di Leonardo da Vinci [1], era un'età di commiato, un avviarsi sulla strada del distacco, un'età, destinata a trascolorare nella morte, della cui consistenza si poteva dubitare, in ogni caso breve e, nell'Occidente medioevale, poco significativa. L'età adulta, per i pochi fortunati che riuscivano a raggiungere un'età anagrafica sufficientemente lunga, estendeva il suo dominio fino al momento della perdita dell'autonomia e della capacità di lavoro, alle soglie della morte dunque. L'autorevolezza della persona anagraficamente in là con gli anni non era tanto legata al suo essere vecchio, quanto piuttosto al suo essere adulto ancora attivo, capace di lavoro e di esercizio del potere, dotato per di più di un'esperienza che agli altri manca.
    L'infanzia, per lungo tempo non è stata rappresentata (e non solo nell'iconografia) o se lo è stata ciò è avvenuto attraverso l'immagine del bambino Gesù, un infante del tutto particolare, con iscritta nello sguardo una consapevolezza che non è dei fanciulli, quasi che l'infanzia – età dell'insignificanza sociale – mal si confacesse al figlio di Dio, che poteva certamente venire compreso come vero uomo, ma non poteva essere accettato come vero bambino. L'infanzia era del resto un periodo molto breve. Non appena dimostravano di poter badare a se stessi e di poter lavorare, quelli che noi non esiteremmo a chiamare ancora «bambini» venivano aggregati al mondo adulto fino a confondersi con esso, sia pure in posizione per lungo tempo subalterna.
    La giovinezza come oggi la si intende non esisteva, se non come stato di moratoria e di dipendenza. Una condizione da cui si desiderava ardentemente uscire al più presto. Essa era del resto difficile da tematizzare come un'età distinta, dato che sotto il profilo anagrafico ad esser giovane era la stragrande maggioranza della popolazione. Quelli che allora venivano considerati adulti oggi in realtà ci apparirebbero nella grande maggioranza come dei giovani adulti. Ciò che caratterizzava quelli che noi ora chiameremmo giovani era, da un lato, l'obbligo di lavorare, che li accomunava agli adulti, e, dall'altro, la totale mancanza di autonomia. Del resto, solo una parte della popolazione, invecchiando, veniva a trovarsi nella condizione di abbandonare questo stato generalizzato di dipendenza, cui si associavano infinite obbligazioni e non poche umiliazioni. Per molti l'invecchiamento anagrafico non avrebbe portato alcuna liberazione.
    La cultura popolare rielaborava questa tripartizione associando le stagioni alle età della vita, dove la primavera corrispondeva all'infanzia, l'estate all'età adulta, l'autunno e l'inverno, alla vecchiaia e alla morte.
    L'età moderna ha ereditato questo quadro con alcune variazioni. È cambiata l'immagine dell'infanzia che ne è uscita meglio identificata e valorizzata. La giovinezza è andata assumendo progressivamente consistenza, come una fase a se stante della vita, in genere da guardare con sospetto e caratterizzata ancora da uno stato di sostanziale dipendenza. L'immagine delle altre età è rimasta sostanzialmente stabile, fin quasi ai nostri giorni. La tripartizione si è avviata dunque ad essere una quadripartizione; lo schema delle stagioni non ha potuto però essere applicato più coerentemente. Per molto tempo l'estate è stata infatti saldamente presidiata dall'età adulta, relegando infanzia e giovinezza nei limiti, giocosi ma inconsistenti, della primavera, fin quando, in tempi più recenti, l'età di mezzo ha finito per essere più incertamente collocata, fino al punto di venire implicitamente associata all'autunno da generazioni giovanili, la cui influenza culturale appare in forte crescita. Ciò naturalmente solo in senso metaforico, dato che la rappresentazione agreste del ciclo di vita ha ormai da tempo perso ogni significato nel mondo dell'industria e della tecnologia. Ma su questo ritorneremo.
    Per ora si desidera sottolineare che il quadro delle età della vita è stato per molti secoli fortemente statico; lo schema di lettura condiviso con cui gli individui affrontavano ogni nuova età è stato a lungo largamente semplificato e, al suo interno, l'immagine di ciascuna di esse era chiaramente delineata. Che cosa fosse una certa età, per quali percorsi ci si entrasse, che cosa il soggetto che transitava in una nuova età doveva attendersi sul piano sociale, quali aspettative di ruolo vi fossero associate devono essere stati tutti aspetti molto chiari. La conoscenza delle età della vita, come dei loro attributi di genere, doveva far parte del patrimonio culturale elementare tramandato dalla tradizione, incarnato com'era nelle regole di funzionamento e nei rapporti di autorità caratteristici della famiglia patriarcale che per lungo tempo ha dominato il quadro della vita quotidiana.

    La rivoluzione delle età

    Tutto questo oggi ci appare radicalmente cambiato. Un sovvertimento è avvenuto, soprattutto nell'ultimo secolo, della cui portata la coscienza collettiva fatica ad impadronirsi. Se si è insistito sulle immagini del ciclo della vita che ci vengono dal passato, è perché la nostra società è ancora fortemente debitrice nei confronti di quelle immagini, ma esse paiono giorno dopo giorno sempre più inadeguate a leggere la nuova configurazione delle età. Esse oscurano assai più di quanto non illuminino. La trasformazione ha investito:
    – la struttura del ciclo di vita: le età si sono andate moltiplicando e segmentando al proprio interno. Nuove età della vita hanno visto la luce;
    – le modalità e i tempi di passaggio, sempre più sfumati e allungati, fino a dover parlare di transizioni, invece che di passaggi; la prevedibilità e prescrittibilità sociale delle aspettative di ruolo connesse a ciascuna età;
    – i rapporti di autorità che tradizionalmente intercorrevano tra le diverse età strutturando con esse anche l'ordine sociale;
    - la desiderabilità sociale delle diverse età;
    – la consapevolezza ed il grado di elaborazione culturale con cui ci si approssima all'età successiva, oggi largamente insufficienti rispetto a quelli che sarebbero necessari per affrontare le nuove sfide che attendono ogni individuo.
    Descrivere il complesso dei cambiamenti è impossibile nello spazio di un breve intervento come questo. In estrema sintesi si potrebbe dire che quello che un tempo poteva essere descritto come un ciclo di vita, con i suoi caratteri di ripetitività e dunque di prevedibilità, è ora divenuto un corso di vita, dove molto rimane aperto e imprevedibile, legato com'è al mutare dei progetti di vita degli individui, al moltiplicarsi delle opzioni disponibili in una società complessa e altamente differenziata.
    Con il moltiplicarsi ed il segmentarsi delle diverse età inoltre, l'antica «mappa della vita» è divenuta inservibile ed oggi un quadro generale entro cui ordinare e rappresentare le diverse età non pare esistere.
    Due sono perciò le questioni aperte: la mancanza oggi di una immagine globale delle età della vita, di una nuova «mappa della vita»
    e la carenza di strumentazione culturale per affrontare le transizioni e l'immissione nelle nuove età. Queste giungono spesso inaspettate, in qualche caso paventate, ma in altri proprio non previste, e spesso senza che si sappia esattamente cosa comporteranno per il soggetto che pure si trova trascinato nel nuovo passaggio. Da questo punto di vista è davvero paradossale come tutta l'enfasi oggi posta sui processi formativi abbia prodotto così poca riflessione attorno a questi snodi e così poche iniziative. L'istruzione, anche in questo campo, continua a fare aggio sulla educazione. La società e la chiesa stessa sembrano in grado di esprimere qualche idea solo su quelle età della vita – le prime – parte delle quali hanno ormai già preso il volo e sembrano orientate a far da sé. Poco si sa dire su quella che per un attimo chiamiamo età anziana, quasi nulla sull'età adulta, ad onta di tutti i discorsi che si sprecano sull'educazione permanente.

    La transizione demografica

    Siamo ben lungi dall'aver inteso la portata veramente «geologica» delle trasformazioni che hanno coinvolto la nostra esistenza a seguito del processo di allungamento della vita media e del conseguente invecchiamento della popolazione.
    È noto che le nostre società stanno vivendo la fase terminale di quel processo, durato circa un secolo, che i demografi indicano con il termine «transizione demografica» ed in ragione del quale si è passati da un regime caratterizzato da alta natalità e mortalità ad uno segnato da bassa natalità e mortalità. Ma per lo più non si ha una idea esatta di quello che ciò comporta, la reale natura di quel fenomeno che Peter Laslett con un'enfasi certamente non eccessiva chiama «il processo secolare dell'invecchiamento».
    In termini descrittivi tale processo è caratterizzato essenzialmente da due fenomeni. Innanzitutto da un netto innalzamento delle speranze di vita. Poco più di un secolo fa le speranze di vita medie alla nascita erano solo di poco superiori ai quaranta anni di età; oggi sono praticamente raddoppiate. In secondo luogo esso è caratterizzato da una fortissima crescita della componente anziana della popolazione. In Italia, nel 1901, coloro che avevano compiuto i 65 anni erano il 6,1% della popolazione, attualmente sono il 14,8%, saranno circa il 20% nel 2011. In poco più di un secolo la quota di popolazione anziana è più che triplicata. Alla stessa data si prevede che una persona su quattro avrà più di sessanta anni.
    Accanto al processo secolare dell'invecchiamento altri fenomeni hanno contribuito a cambiare in modo sostanziale la struttura per età del corso di vita.
    Da un lato si sono straordinariamente allungati i tempi dell'ingresso, in forma compiuta, nella vita adulta. Questo processo, iniziato un paio di secoli fa, dapprima molto lentamente, è esploso nel corso del Novecento, in seguito al diffondersi della scolarizzazione di massa. La giovinezza ha cessato di diventare il tempo dell'attesa per diventare il tempo della formazione.
    Dall'altro – fino ad alcuni anni fa almeno; la tendenza in questi anni si sta rovesciando – il momento del ritiro dal lavoro, che sempre più connota nella coscienza collettiva la fase di abbandono dell'età di mezzo, è andato progressivamente anticipandosi. Ciò a seguito della diffusione del lavoro subordinato e dello sviluppo dei moderni sistemi di protezione sociale.
    Tutto questo ha comportato la contrazione, in termini relativi, della durata della seconda età e il corrispondente allargamento della terza e della prima.
    Altri fenomeni, di natura più propriamente socioculturale sono nel frattempo intervenuti modificando profondamente il significato che la società e gli individui attribuiscono alle singole età e contribuendo a modificarne la natura. Tra questi sono di primaria importanza da un lato l'accresciuta considerazione sociale della giovinezza e dell'infanzia, nonché in futuro della terza età, dall'altro la rivoluzione in atto nei rapporti tra i generi e la diversa dislocazione tra sfera produttiva e riproduttiva dei ruoli femminili.

    Le età di mezzo

    Che la declinazione al femminile delle età abbia contribuito sostanzialmente a modificarne le immagini lo si vede soprattutto guardando all'età adulta. In tutti i paesi occidentali, dopo un periodo che fu di relativo [2]' boom delle nascite, sviluppatosi nel corso degli anni '60, la natalità è progressivamente diminuita fino a portarsi su livelli molto bassi, in modo particolare nel nostro Paese, come è ampiamente noto. Il tasso di fecondità si aggira oggi attorno all'1,2 figli per donna ed è probabile che quando l'attuale generazione adulta avrà terminato il periodo fertile essa avrà dato alla luce in media non più di 1,5 figli per donna.
    Il periodo riproduttivo dunque – che una volta copriva un tratto molto lungo della vita della donna, connotando l'intera seconda età come età della riproduzione e della cura dei figli, essendosi ridotte le nascite – si è concentrato nel breve volgere di pochi anni della vita adulta. Detto periodo, che la donna trascorreva di norma a casa facendo nascere ed allevando figli, è ora largamente disponibile per altri progetti, mentre la durata della vita si è allungata. Emergono così nuove età della vita, che i soggetti devono riempire in modo nuovo.
    La vita adulta si presenta perciò scandita da molteplici fasi, che in parte sono del tutto nuove, e per le quali la tradizione non ha molti suggerimenti da dare: la coppia sposata prima della prole, impegnata a sperimentare il rapporto di coppia e a progettare le proprie scelte professionali e procreative; la coppia con figli, il vero punto di svolta nella vita delle famiglie ormai; il «nido vuoto», dopo la dipartita di quelli, dominato dalla sindrome dell'abbandono e dall'apertura di nuove opportunità.
    Questi calendari sociali e riproduttivi si intrecciano con altri di cui la coscienza collettiva sembra aver perduto memoria, come il passaggio all'«età di mezzo», intesa qui in chiave psicosociale, come quel periodo nel quale l'individuo è costretto, per la prima volta, a fare seriamente i conti con il carattere finito della propria esistenza.
    Chi supera questa soglia ha un senso diverso del tempo, come ha magistralmente narrato Dino Buzzati nel suo libro più celebre [3]. Se quello della giovinezza può essere descritto come una prateria illimitata da esplorare e quello della vita giovane adulta può sembrare uno spazio in parte esplorato, ma di cui si possiede una consapevolezza ancora limitata (perché il tempo davanti è ancora ampio e perché la vita attuale costringe a starvisi immersi senza nemmeno trovare il tempo di chiedersi quello che si sta facendo); il tempo dell'adulto-adulto, se così si può dire, appare come uno spazio finito, di cui si sono già attraversati i principali sentieri. Altri ve ne sono, ma si comincia ad avvertire che molti non potranno essere percorsi e la vita ha ormai una piega inconfondibile. Per molti aspetti è già stata. Non si può evitare di accorgersi che la prateria si va facendo ogni giorno più stretta e che il suo limite è ormai visibile ad occhio nudo.
    L'ingresso in questa fase, sulla quale insistiamo per esemplificare il caso di una età della vita rispetto alla quale la consapevolezza sociale appare prossima a zero, è spesso accompagnato da crisi (di cui la storia della letteratura è piena), da nuovi amori, da fughe, da nuove strategie professionali, che tuttavia vengono riletti, dagli interessati e da chi li conosce, al di fuori di qualsiasi rapporto con le età della vita. E finiscono perciò per sembrare stranezze inspiegabili. La rimozione del senso della morte agisce fin da molto prima che l'evento diventi prossimo, escludendo i soggetti da una vera possibilità di leggere le dinamiche profonde che si nascondono dietro le proprie vicende personali.
    Ulteriori punti di svolta vengono introdotti dalle scelte professionali, sempre più variabili, che oggi inoltre coinvolgono entrambi i coniugi, in modo non sempre convergente, e dalla crescente instabilità del rapporto coniugale. Riprendendo quest'ultimo tema c'è da osservare che ogni passaggio comporta mutamenti nei ménages domestici, fa emergere nuovi dilemmi e nuovi progetti di vita o viceversa li limita e ne riduce la praticabilità. Il «patto» su cui la coppia si regge, e che determina tanta parte del modo con cui i soggetti vivono la loro esperienza di vita adulta, deve essere quindi rifondato, di volta in volta, e i «riti» che ogni coppia sedimenta vanno riscritti.
    Ogni cambiamento richiede assestamenti complessi, espone le persone a una fase di incertezza, ha bisogno di tempo perché sia possibile condurre la necessaria rielaborazione della nuova situazione e delle nuove esperienze che si stanno vivendo. Come è facile immaginare questi snodi possono rappresentare dei punti di crisi per gli individui e per le coppie. Comunque sia essi rappresentano dei momenti salienti nella vita coniugale, che la tradizione non ha tematizzato [4] e che la stessa liturgia non ha elaborato. I momenti in cui i dilemmi posti dalla nuova fase della vita che sta per iniziare vengono affrontati ed eventualmente la coppia si risceglie, ridefinendo il rapporto, rappresentano invece momenti cruciali nei quali la comunità cristiana dovrebbe far sentire la sua presenza che accompagna, anche con specifiche manifestazioni liturgiche. Se il contratto e il progetto di vita devono essere rinnovati più volte non basta un solo cerimoniale. Esso va rinnovato ogni volta.

    Le età giovanili

    La segmentazione in fasi, quando non in vere e proprie età, che abbiamo rilevato caratterizzare la vita adulta, coinvolge anche la giovinezza. Gli studi sui «giovani» si estendono ormai fino a comprendere un'età compresa tra quindici e ventinove anni. Ma al loro interno appare sempre più necessario procedere distinguendo almeno preadolescenza da adolescenza, prima giovinezza da giovinezza adulta.
    La durata della giovinezza ha assunto una estensione sconosciuta alle epoche precedenti. Basti pensare che un giovane maschio quattordicenne di nazionalità italiana ha in media circa quindici anni da vivere, prima di abbandonare il tetto paterno, in genere a seguito di matrimonio. Il passaggio alla vita adulta è diventato uno degli snodi più complicati ed estenuanti della vita intera.
    Diventare adulti oggi infatti, esaurita la funzione dei tradizionali riti di passaggio, che scandivano in modo chiaro e temporalmente delimitato il passaggio alla nuova condizione, significa attraversare una serie di soglie: avere concluso il proprio percorso formativo; avere ormai acquisito una condizione professionale; avere lasciata la casa dei genitori; sposarsi e infine aver messo al mondo dei figli.
    In tutte le società economicamente sviluppate dell'Occidente, l'ordine con cui queste soglie si succedono non è rigidamente prestabilito e non è nemmeno detto che tutte verranno oltrepassate. Lo spazio temporale intercorrente tra la prima e l'ultima tende inoltre ad allungarsi. In sostanza quello che era un periodo relativamente breve della vita è diventata una vera e propria età della vita in cui la maturità, ormai acquisita sul piano fisiologico, non si accompagna ad una condizione adulta pienamente dispiegata. Anche in seguito a ciò è cambiata la natura del compito evolutivo che si associava alla giovinezza. Nel nostro recente passato al termine del percorso noi troviamo una identità sociale ben precisa (contadino-contadina, artigiano, maestro/a del villaggio, ecc.) destinata a durare, fonte di obbligazioni definite e di aspettative condivise da parte di tutti i membri del gruppo. La condizione sociale delle persone era cioè determinata fin dalla nascita dalle circostanze sociali e dalle storie familiari. Oggi non è più così. La società attuale si caratterizza per uno straordinario allargamento dei progetti di vita disponibili. Le storie personali si sono fatte perciò molto meno prevedibili e gli esiti di esse sono sempre più spesso affidati alle scelte autonome degli individui. Alle domande tradizionali tipiche del giovane del passato (riuscirò ad essere ciò che la comunità si attende da me? sarò all'altezza? supererò le prove che mi attendono?) si sostituiscono le domande: chi voglio essere? che cosa voglio fare nella vita? E – ma solo dopo – che cosa devo fare per diventare ciò che voglio essere?
    L'allungamento della giovinezza, insieme a questo mutamento di significato, di fatto ne ha cambiato la natura. Essa cessa di essere una fase definita in rapporto alle altre, quel «non essere più» che è nel contempo un «non essere ancora». Essa non vive più dell'attesa dell'età successiva, ed ha assunto ormai una certa qual compiutezza e un suo proprio significato. Non si tratta più di diventare adulti, ma di vivere e vivere bene in quanto giovani. La giovinezza si dimostra perciò capace di produrre proprie culture e stili di vita. I giovani si autoformano assai più di quanto non siano formati dai loro padri. I rapporti con le generazioni adulte si sono fatti perciò bidirezionali e non unidirezionali come sempre sono stati in passato, anche se di ciò c'è ancora scarsa consapevolezza e mancano adeguati modelli di ruolo. La giovinezza d'altra parte cessa di essere intesa come un'età da cui fuggire il più rapidamente possibile, per diventare anzi socialmente desiderabile. Essa contende alla vita adulta il primato della desiderabilità e forse su questo terreno ha già vinto la sua battaglia, almeno se si guarda al giovanilismo che informa di sé così tanta parte della vita contemporanea. Lo scarto tra le condizioni di vita del giovane adulto, che se ne sta coccolato nella famiglia d'origine, e quello stesso giovane (soprattutto se si tratta di una giovane donna) dopo il matrimonio e la filiazione, è tutto a sfavore della vita adulta e non sorprende che i giovani ristagnino il più possibile nella loro età. Che cosa di realmente attraente ha da offrire oggi la vita adulta se non il peso di una vita che per lo più appare dominata dagli obblighi del lavoro e dal carico delle altre generazioni? Alla pesantezza della vita adulta meglio preferire la leggerezza della giovinezza, almeno fin che si può.

    La terza e la quarta età

    Cambiamenti, se possibile ancora più grandi di quelli fin qui visti, stanno interessando quella che provvisoriamente possiamo chiamare l'età anziana. La crescita quantitativa degli appartenenti a quella che entro lo schema tripartito rappresentava la terza fase della vita ha modificato la società nel suo insieme. L'intera struttura della popolazione è mutata. Gli italiani che vivono oggi sono nel loro insieme i più «vecchi» che hanno mai vissuto. Un lungo periodo si apre ancora di fronte a chi sta lasciando oggi l'età di mezzo.
    È essenziale comprendere che non si tratta più di un periodo descrivibile in termini omogenei. Le nostre società sono caratterizzate dall'emergere di una nuova età della vita, la terza, una fase completamente diversa da quella cui ci si riferiva in passato con questo attributo. Si tratta di un fatto questo assolutamente nuovo, che si manifesta per la prima volta nella storia e di cui si fatica perciò a comprendere il reale significato.
    Prevale infatti ancora una immagine aggregata dell'età «anziana» – il termine è esso stesso ormai inservibile – per cui tutti coloro che hanno superato una certa soglia, in genere individuata nei 65 anni di età, vengono considerati come un grande ammasso di persone tutte appartenenti alla terza età che, se non si avvertisse ormai come un po' antipatico il termine, potrebbero essere chiamati «vecchi».
    La terza età, intesa in senso moderno, non va invece confusa con la quarta. Oggi la terza età rappresenta un periodo della vita nel quale le persone, libere dai vincoli tipici della seconda età – essenzialmente quelli legati al lavoro necessario e ai figli – possono cercare di vivere secondo i loro interessi e i loro desideri. Secondo Laslett essa rappresenta addirittura la «corona della vita».
    Ciò che in passato veniva compreso con il termine terza età è in realtà caratteristico di quella che noi ora chiamiamo «quarta età». Le donne e gli uomini che vivevano più a lungo una volta non si ritiravano mai veramente dal lavoro, per dare inizio ad una fase della vita libera dalle costrizioni familiari e lavorative che sono tipiche dell'età di mezzo. Permanevano nella seconda età fino al giorno in cui i segni del declino fisico si facevano così evidenti da non consentire loro più di essere attivi. Era l'inizio di quella che noi ora chiameremmo quarta età, un periodo della vita relativamente breve, che portava rapidamente alla morte.
    Ma la condizione prevalente era quella di persone che in realtà
    non diventavano mai vecchie e non avevano la prospettiva di diventarlo. Pensare alla propria vecchiaia, ancora poco più di un secolo fa, deve essere stato un atteggiamento poco diffuso e poco realistico, date le speranze di vita esistenti. Nell'età di mezzo non si pensava alla propria vecchiaia, perché le probabilità di viverla erano quasi inesistenti. L'attuale è la prima società ad apparire nella storia che manifesta in questi termini e con queste dimensioni il problema di provvedere all'invecchiamento e le famiglie odierne sono le prime ad avere così tanti anziani nei propri dintorni.
    Le generazioni che oggi vivono, o stanno per vivere, la terza età sono le prime a poter vedere e ad incarnare in se medesime gli esiti del processo secolare dell'invecchiamento, un processo che in larga parte si è realizzato nel corso della loro vita. Oggi per la prima volta nella storia la terza età emerge in tutta la sua valenza e specificità, in quanto distinta dalla seconda, ma anche – e ciò è altrettanto decisivo – dalla quarta. Tutto ciò le attribuisce responsabilità particolari.
    Le società caratterizzate dalla terza età non possiedono infatti modelli esistenziali e di ruolo per questa età e non sono ancora capaci di concepire l'intero corso della vita in modo realmente conseguente al fatto decisivo che le speranze di vita consentono oggi di pensare ad una fase successiva al ritiro dal lavoro e dagli obblighi della seconda età. Le idee consolidate su ciò che sono i «vecchi», su che cosa fanno e su che cosa la società si attende da loro appaiono del tutto inservibili. La possibilità per la generazione successiva di avvalersi di esperienze diverse, dipende perciò da quello che gli anziani attuali sapranno fare, da come riusciranno a reinventare la loro vita, dai modi in cui riempiranno il loro tempo. La società chiede loro dunque di svolgere un ruolo creativo.
    A concepire questo ruolo la terza età è in qualche modo obbligata. Il fatto che essa continui a pensarsi in condizioni di dipendenza la riduce ad un ruolo passivo; la conduce a vivere in quello stato di «indolenza indefinita» che costituisce il suo problema fondamentale.
    Essa non uscirà da questo stato, che è all'origine dei suoi mali, se non riuscirà a darsi quel ruolo attivo e creativo che le è richiesto dalla sua responsabilità storica, impegnandosi cioè nella creazione di valori, istituzioni e stili di vita adeguati a quell'età.
    E fondamentale in questo senso che essa si concepisca in termini autonomi dalla seconda, sia per la disponibilità di risorse proprie, siain termini di dimensioni esistenziali che non prevedano il costante confronto con quelle tipiche delle età precedenti [5]. La dipendenza è una condizione tipica della quarta età e non della terza. Quest'ultima ha un ruolo da svolgere, che essa stessa dovrà attribuirsi.
    Se ciò avverrà, se sarà capace di inventare un ruolo sociale nuovo per coloro che hanno ormai abbandonato l'età di mezzo, ma vivono in condizioni di ancora piena autonomia psicofisica, la terza età potrà dare un contributo decisivo a quella ridefinizione globale del corso della vita che appare oggi necessario.
    Non esistono infatti, nella nostra tradizione culturale, modelli di «previdenza» che conducano a configurare progetti di vita consapevoli del fatto che oggi la maggioranza dei nati ha probabilità di vivere una terza età. Deve invece diventare «naturale», già a venti anni, pensare al fatto che si invecchierà, che è opportuno predisporre le cose in modo tale da non gravare su altri in quella fase della vita, che c'è uno spazio di estensione crescente, che oggi troppo spesso si configura come spazio vuoto, ma che occorre poter riempire in modo creativo e socialmente utile.
    La considerazione finale sulla terza età, l'idea che già fin dalla giovinezza occorra sviluppare abilità e sensibilità da portarsi appresso per tutta l'esistenza, sapendo che solo una volta lasciata l'età di mezzo, esse potranno esprimersi in forma compiuta, evidenzia in forma esemplare quello che oggi appare necessario e di cui si avverte la carenza: possedere una sapienza globale del corso della vita, una rappresentazione cioè di come la vita si articoli oggi in fasi nuove, la cui definizione va in parte inventata con uno sforzo creativo, cui si associano sfide nuove, da vivere, ma prima ancora da comprendere, per non arrivarvi costantemente impreparati.

    Sommario
    Le trasformazioni demografiche e culturali che si sono sviluppate nell'ultimo secolo hanno profondamente modificato lo schema tripartito con cui tradizionalmente venivano rappresentate le età della vita. Esse si sono andate moltiplicando e segmentando al proprio interno. Nuove età della vita hanno visto la luce. Le modalità e i tempi di passaggio sono sempre più sfumati e allungati. Cambiamenti sono intervenuti inoltre nella prevedibilità e prescrittibilità sociale delle aspettative di ruolo connesse a ciascuna età, nei rapporti di autorità che tradizionalmente intercorrevano tra di esse, nella loro diversa desiderabilità sociale. La giovinezza in particolare è ormai caratterizzata da una sua compiutezza e da un suo proprio significato, mentre la terza età, intesa come distinta dalla quarta, si trova oggi a ridefinire il proprio ruolo e la propria responsabilità sociale. Le vecchie rappresentazioni delle età della vita esercitano però ancora il loro peso, mentre manca una nuova mappa della vita capace di evidenziare il significato che ciascuna età oggi riveste.

    NOTA BIBLIOGRAFICA
    Il testo fondamentale sul tema è di P. LASLETT, Una nuova mappa della vita, Il Mulino, Bologna 1992, la cui attenzione è rivolta soprattutto allo studio della terza età. Utile è anche la lettura di C. SARACENO (a cura), Età e corso della vita, Il Mulino, Bologna 1986. Sui giovani la letteratura è sconfinata. Si può vedere F. GARELLI, La generazione della vita quotidiana, Il Mulino, Bologna 1984, o anche il suo ultimo scritto in collaborazione con M. OFFI, Giovani, una vecchia storia?, SEI, Torino 1997. Sugli anziani vedere anche D. GIORI, Vecchiaia e società, Il Mulino, Bologna 1984.
    Sugli adulti, non a caso, c'è ben poco da leggere. A meno di non ripiegare sulla letteratura relativa alla famiglia da un lato e alla condizione della donna adulta dall'altro. Di recente Duccio Demetrio ha promosso una rivista, Adultità, pubblicata da Guerini e Associati, Milano.

    NOTE

    1 Sant'Anna, la Madonna, il Bambino e san Giovannino, Londra, National Gallery.
    2 Relativo perché esso non ha certamente riportato la fecondità sui livelli del secolo scorso o su quelli ancora oggi registrabili nei Paesi in via di sviluppo.
    3 È Il deserto dei tartari.
    4 Le nozze d'argento, o d'oro, su cui sembra esservi una ripresa di attenzione nelle nostre chiese sull'onda di tanta pastorale della famiglia, individuano solo delle durate casuali.
    5 È penoso osservare come molti anziani oggi, vittime delle «manie» contemporanee per le attività sportive, si cimentino sullo stesso terreno dei giovani fino al punto da mettere a repentaglio la loro stessa salute.

    (da: Credere oggi 109 1(1999), pp. 47-60)



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