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    Assieme sulle strade dell’Europa



    3° incontro europeo di Pastorale Giovanile

    Riccardo Tonelli

    (NPG 1998-09-48)


    Dal 20 al 24 settembre scorso, a Paderborn (Germania) si è svolto il III incontro europeo di pastorale giovanile, promosso dal Pontificium Consilium pro Laicis. Suggestivo e significativo il titolo e il tema: «assieme sulle strade dell’Europa», per progettare l’esperienza cristiana dei giovani dell’anno 2000.
    L’incontro era su invito del Pontificium Consilium pro Laicis. L’hanno raccolto oltre 170 persone, giovani, vescovi e sacerdoti, religiosi e religiose, in rappresentanza delle Conferenze episcopali e dei Movimenti di livello internazionali. Nei precedenti incontri non si era mai verificata una partecipazione così alta. Erano rappresentate, infatti, tutte le Conferenze episcopali dell’Europa, compresa l’Europa dell’Est. Almeno una quarantina erano le presenze relative ai Movimenti. Era facile constatare, anche dalle conversazioni di corridoio, le ragioni di una risposta così plebiscitaria: l’autorevolezza del Dicastero proponente, l’urgenza di confrontarsi in una stagione di profondi cambi culturali e sociali, il bisogno di condividere indicazioni su un problema di alto profilo come era quello messo a tema.
    Ho partecipato a quasi tutti i lavori dell’incontro e posso confermare che gli obiettivi sono stati raggiunti con un indice davvero alto di congruenza e di gradimento. L’incontro e il confronto è stato prezioso e arricchente. Le diversità culturali e sociali saltavano agli occhi… e non solo nell’incrocio delle tante lingue. Eppure si respirava sempre una passione comune e una ricerca, intelligente e coraggiosa, di prospettive di intervento. Alle relazioni corrispondeva lo scambio di esperienze e la condivisione dei materiali prodotti. Veramente, il vissuto personale, quello collettivo delle istituzioni rappresentate, la maturazione di sensibilità e di servizio ecclesiale, tutto diventava prezioso materiale di scambio per produrre risposte alle attese che ciascuno ha portato all’incontro.
    Presto, il Pontificium Consilium pro Laicis renderà disponibili gli «Atti» dell’incontro, con il testo integrale delle relazioni, gli scambi di esperienze e i frutti più significativi dei laboratori. Intanto, però, desidero anticipare alcuni frammenti dei risultati prodotti, selezionandoli dal filtro (molto discutibile) della mia sensibilità.

    Il modello di riflessione

    L’incontro di Paderborn oscillava, nell’intenzione dei suoi promotori, tra il convegno di studio e l’incontro di condivisione. Lo conferma l’impianto delle giornate e il ritmo dei lavori. La scelta era precisa e motivata. In fondo, rispondeva alle attese dell’insieme dei partecipanti.
    Del momento di ricerca, centrale in un incontro come questo, mi è parso interessante il modello globale. Mi sembra espressivo di un modo di affrontare i problemi pastorali, facendo convergere, verso la loro soluzione, tutte le risorse disponibili. Nell’incontro, le risorse erano soprattutto tre: le responsabilità istituzionali, la competenza scientifica dei relatori, il ricco e variegato vissuto dei partecipanti.
    L’incontro era promosso da un Dicastero vaticano e aveva come interlocutori privilegiati i responsabili nazionali della pastorale giovanile delle Conferenze episcopali europee. La ricerca si realizzava quindi in un terreno già sicuro e consolidato. Non poteva di certo essere disatteso, per non correre il rischio di dimenticare il cammino ecclesiale già percorso. D’altra parte, una ricerca non può avere solo una funzione ripetitiva, e un incontro come il nostro non poteva di sicuro ridursi ad un semplice evento celebrativo.
    Ho l’impressione che il difficile equilibrio sia stato raggiunto bene attraverso una accorta utilizzazione di diverse strategie. Alcuni Vescovi hanno preso la parola in modo «ufficiale»: il Presidente del Consilium, in apertura e in chiusura, ha offerto il ricordo di alcuni orientamenti e la sottolineatura di alcune priorità; i momenti liturgici hanno avuto come centro propositivo la Parola di Dio, alcune espressioni molto pertinenti del Santo Padre, le omelie del Vescovo che a turno presiedeva la concelebrazione eucaristica; al centro della ricerca è stata posta una rilettura autorevole dell’esperienza del Santo Padre nel suo contatto pastorale con i giovani, soprattutto in occasione delle «giornate mondiali della gioventù».
    Interessante anche il ritmo della ricerca.
    Punto di partenza è stato il vissuto giovanile attuale nel crogiuolo delle culture in atto oggi in Europa. Non si è trattato di una lettura strettamente sociologica: cosa difficile, vista la vastità del campione. È stata perseguita dai relatori una lettura antropologica: orientata a cogliere le linee di tendenza emergenti, i contributi positivi che da esse derivano per una riformulazione dell’esperienza cristiana oggi, le sfide che essa lancia a chi si sente impegnato a testimoniare un progetto d’esistenza che viene da lontano, le matrici strutturali e culturali sottostanti.
    Sono stati poi approfonditi i riferimenti per un progetto di educazione alla fede: quello teologico, quello psicologico e quello pedagogico.
    Il confronto con la cultura attuale e la ricca strumentazione elaborata hanno permesso infine di immaginare alcune linee di prospettiva: dal punto di vista dei «contenuti» (l’annuncio di Gesù il Signore per questi giovani) e dal punto di vista dei modelli metodologici (alcune linee orientative per un progetto di pastorale giovanile).
    Il progetto globale, per forza generico, ha avuto il riscontro di temi precisi: giovani lavoratori, studenti, giovani a rischio, giovani presenti nelle grandi città e in zone rurali… Il confronto con queste esperienze, vive e vivaci, ha avuto la funzione di verificare e di concretizzare le linee teoriche presentate dalle relazioni.

    Più «criteri» che progetti

    L’influsso della complessità si è fatto chiaramente sentire anche al livello delle prassi pastorali. Anche nell’incontro di Paderborn il pluralismo di modelli era di casa.
    Ci siamo chiesti se era possibile elaborare qualcosa di comune e condiviso, che potesse essere offerto alle Chiese e ai movimenti come contributo della nostra ricerca. Una risposta ufficiale non è stata data. Ma ho l’impressione che al di là delle differenze ci fosse qualcosa di veramente comune. Ritornava negli interventi e nella condivisione delle esperienze. Non possiamo considerarlo un «progetto» unitario ma una specie di larga convergenza operativa attorno ad alcuni criteri di valutazione, frutto della maturazione che ha ormai segnato le comunità ecclesiali impegnate in un servizio di pastorale.
    Tre mi hanno particolarmente colpito. Merita di rilanciarli.

    La coscienza ermeneutica

    L’educazione e l’educazione alla fede è chiamata a misurarsi con le esigenze della verità, perché nessuna ricerca di nuovi tracciati può essere condotta a scapito della verità. Queste esigenze non si presentano però mai allo stato puro. Per essere dette a persone segnate dalla cultura in cui vivono, devono per forza assumere espressioni di tipo culturale. È così per Gesù di Nazareth, volto e parola di Dio nella grazia della sua umanità. È così per la parola di Dio che si fa parola per l’uomo diventando parola d’uomo. Non può che essere così anche per i valori educativi e i contenuti della fede. Quelli che possediamo e siamo chiamati a testimoniare sono, nello stesso tempo, espressione dei modelli culturali presenti e dominanti in un certo momento della storia, e indicazioni di eventi normativi, da assumere con piena disponibilità e da cui lasciarsi giudicare e inquietare.
    Chiamo «coscienza ermeneutica» l’atteggiamento pratico che deriva da questa convinzione teorica. Opera in una coscienza ermeneutica chi cerca di riattualizzare ciò che è proposto, attivando un discernimento tra ciò che è permanente (una specie di «nocciolo duro» che pone esigenze perenni) e ciò che invece è legato a situazioni culturali particolari.
    Come conseguenza, immediata e impegnativa, ci resta il compito di ripensare il progetto cristiano dal contributo (positivo e negativo) della cultura attuale, per rendere la nostra proposta «significativa» e «salvifica»: significativa vuol dire capace di assumere le categorie dominanti, salvifica vuole dire capace di contestarle e portarle verso l’autenticità.

    La coscienza missionaria

    Il secondo elemento di convergenza è rappresentato dalla decisione di quali debbano essere i soggetti dell’azione pastorale: a quali giovani pensiamo e con quali ci confrontiamo per analizzare la responsabilità della comunità ecclesiale?
    Non ho bisogno di spendere troppe parole per ricordare che i giovani sono un universo molto frammentato, difficilmente riconducibile ad una sola immagine. La coscienza missionaria, che progressivamente si è consolidata nella comunità ecclesiale, spinge a pensare, prima di tutto, a «tutti i giovani»… e non solo a quelli che sono pronti ad ogni proposta e vivono con intensità la loro esperienza cristiana. Non è corretto, certamente, chiudere gli occhi su questi giovani, che hanno ricostruito un rapporto soddisfacente con la comunità ecclesiale. Ma neppure possiamo limitare il nostro sguardo a queste situazioni felici. Essi, al massimo, mostrano con i fatti che qualcosa può cambiare e indicano le condizioni da percorrere per ottenere risultati soddisfacenti.
    La coscienza missionaria diventa criterio per quella coscienza ermeneutica di cui ho appena parlato. Non è possibile riesprimere le proposte con l’unica preoccupazione di una correttezza formale. La discriminante «vero – falso» nella evangelizzazione viene misurata su quella più impegnativa di «significativo per tutti – significativo solo per alcuni». Su questa variabile dovrebbero essere verificate proposte, iniziative, interventi, per restituire al Vangelo di Gesù la sua forza di «bella notizia» per i giovani come insieme sociale, e tra essi soprattutto per i poveri e gli esclusi.

    La coscienza educativa

    Anche la terza questione affronta un problema di grosso respiro teorico e pratico.
    Sempre la comunità ecclesiale si è interessata di educazione. Se i termini non sono solo un vuoto gioco di parole, definire la pastorale giovanile come «educazione alla fede» (o «della fede», come qualcuno preferisce dire) non è certo una scelta indifferente. Purtroppo però la consapevolezza dell’autonomia delle discipline e il significato anche salvifico dei processi educativi… erano più parole che fatti nel vissuto ecclesiale d’un tempo.
    I problemi dell’evangelizzazione, anche sul piano operativo, erano affrontati, infatti, a partire da riflessioni di prevalente respiro teologico e le prospettive di azione erano impostate sulle esigenze del dover essere. Alle scienze dell’educazione era chiesto un contributo prevalentemente funzionale. Nella realizzazione dei progetti pastorali, anche quando si parlava di «educazione», il riferimento alle scienze dell’educazione era, di conseguenza, solo di tipo analogico. Il cambio di mentalità ha spalancato la pastorale giovanile verso un modo di fare, i cui riflessi preziosi sono sotto gli occhi di tutti.
    L’educazione investe l’ambito culturale, quello che riguarda appunto lo stile di esistenza, le sue ragioni e le sue prospettive. È urgente restituire ad ogni persona la capacità di riconoscersi e di realizzarsi come soggetto autonomo e responsabile della propria storia e di quella degli altri. Persone restituite a questo stile di esistenza possono incidere ai diversi livelli in cui si giocano i processi strutturali.
    Riconoscendo la necessità di ricostruire la trama dei processi di trasmissione culturale, è rilanciata l’esigenza di adulti e di giovani disponibili a scambiare le proprie ragioni di vita. Nello scambio, l’adulto ritrova la sua costitutiva funzione educativa e il giovane si scopre interessato a proposte che nascono nella cultura e nella storia in cui egli vive e che hanno diritto propositivo non solo sul fascino di cui sono cariche.

    Presenti dove sono i giovani

    Molte cose restano da pensare e progettare. Un incontro internazionale come è stato quello di Paderborn non rappresenta la soluzione dei problemi, ma la presa di coscienza di un compito che ogni soggetto impegnato nell’educazione dei giovani alla fede è chiamato ad affrontare. I criteri appena ricordati rappresentano già una interessante direzione comune di lavoro. Tra le pieghe di molti interventi è emersa anche una ulteriore indicazione.
    La sottolineo citando una espressione che è ritornata con frequenza: essere dove sono i giovani e, nello stesso tempo, rendere ad essi disponibili luoghi di incontro e di esperienza di una qualità di vita, alta ed esigente. Si pone nel cuore di una delle sfide che è rimbalzata con toni inquietanti.
    I giovani che vivono la loro quotidiana esistenza nel crogiuolo dei modelli culturali dominanti, si trovano bombardati da progetti e proposte, davvero molto lontane rispetto a quelle in cui si esprimeva il vissuto religioso tradizionale. In una situazione come è questa, chi cerca di prendere sul serio una delle due proposte – o quella religiosa o quella che ci pervade attraverso i modelli culturali dominanti – ha l’impressione di trovarsi in un’alternativa drammatica: rinunciare ad essere gente di questo tempo per consolidare la propria esperienza religiosa o rinunciare alla dimensione religiosa dell’esistenza, per restare di questo tempo.
    Una qualità nuova di vita e la dimensione religiosa e cristiana di questa stessa vita sono proponibili solo facendone quotidiana esperienza.
    L’azione pastorale della comunità ecclesiale si è svolta, per tanto tempo, su un territorio preciso, i cui confini erano ben delimitati. Tutti sapevano bene a quale struttura potevano fare riferimento: la Chiesa era una delle presenze sicure e visibili. Ora le cose sono cambiate quasi radicalmente. La vita concreta si svolge, infatti, in spazi che non corrispondono più a quelli che sono abitualmente utilizzati per delimitare i confini d’appartenenza. Molta parte della giornata e una grande quantità di giorni dell’anno sono trascorsi «fuori» dai riferimenti istituzionali tradizionali. La faccenda non è solo fisica… né dà origine a quella «nostalgia di casa», tipica di un mondo ormai scomparso, almeno a livello giovanile. Gli interessi, i progetti, le esperienze più rilevanti dell’esistenza sono vissute in luoghi molto diversi da quelli tradizionali. Persino le forti esperienze religiose sono, spesso, dislocate rispetto agli ambiti tradizionali.
    Se la constatazione è corretta, diventa urgente pensare al servizio della comunità ecclesiale verso i giovani come ad una specie di «esodo»: si tratta di abbandonare gli spazi consolidati e rassicuranti, per andare verso i luoghi di vita dei giovani. Lo spostamento progressivo verso i luoghi di vita reale dei giovani non è solo una questione di dislocazione «fisica»; non comporta, in altre parole, una attenzione e una presenza più ampia negli spazi in cui essi vivono. Esso, prima di tutto, propone un atteggiamento di fondo: la condivisione educativa del loro mondo e delle loro attese.
    Tutto però non si può risolvere in questa scelta. Con forza è ritornata l’urgenza di offrire ai giovani spazi di incontro, di esperienza, di intensa vita ecclesiale. Le comunità ecclesiali possiedono già molti di questi spazi: gruppi e movimenti, luoghi d’incontro e di divertimento, strutture educative… Vanno potenziati e, nello stesso tempo, riqualificati. Questi spazi non possono funzionare come alternativi a quelli della vita quotidiana né tanto meno sono uno spazio di supplenza. Devono, invece, diventare luoghi dove i giovani possono sperimentare la qualità dell’incontro affascinante con il Signore della vita e la qualità nuova di vita che da questo incontro sgorga. Possono essere lo spazio del silenzio, dell’interiorità, di quella relazione intensa e amorevole con adulti significativi che restituisce senso e speranza ad una esistenza trascinata tra rischi e incertezze.
    Hanno, in ultima analisi, la funzione insostituibile di invenzione, verifica e rilancio tra il presente della vita quotidiana e il passato e il futuro dell’esperienza e del sogno.


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