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    Riccardo Tonelli

    (NPG 1977-9-66)


    In queste pagine vogliamo progettare insieme un modello di oratorio che funzioni, che sia cioè centrato sull'obiettivo della maturità dei ragazzi che ad esso si collegano.
    Quando ci si mette in cammino per una strada, è necessario avere con una certa chiarezza davanti agli occhi la meta, altrimenti il cammino è un cammino nel buio. La meta delle riflessioni che io vi prospetto è la realizzazione di quell'integra­zione fra fede e vita che sta a cuore a tutti coloro che sono preoccupati di un pro­getto di pastorale giovanile.
    Davanti ai nostri occhi non ci sono, prima di tutto, strutture da salvare, ma persone. Qualsiasi struttura deve diventare uno strumento per la persona: quindi davanti ai nostri sguardi in questo momento vi sono tanti adolescenti, tanti ragazzini che riempiono ancora, per fortuna, i nostri oratori, per il cui servizio ci siamo consacrati e che vogliamo portare ad essere dei cristiani oggi. Essere cristiani oggi - i nostri vescovi ce lo ricordano - significa riuscire a vivere da figli di Dio nell'oggi, integrare la vita di oggi in un progetto di fede, in modo che il mio essere uomo sia talmente pieno e perfetto da essere figlio di Dio.
    Quali sono i problemi che si pongono oggi all'integrazione tra fede e vita? Cerco di riassumere l'insieme dei problemi che poi vedremo in dettaglio in un unico fatto: oggi noi viviamo in un momento di pluralismo, e la scuola, soprattutto la scuola media, per i preadolescenti, per motivi di ordine culturale e di ordine psicologico, è il crocevia di questo pluralismo.
    Il preadolescente incomincia a staccarsi dalla famiglia che per lui era il luogo di tutte le sintesi e si inserisce in una scuola, la scuola media, che di natura sua è pluralista anche dal punto di vista strutturale: ci sono molte persone che gli parlano, mentre nella scuola elementare tutto era filtrato attraverso l'unica persona che gestiva l'educazione.
    Che significa vivere in un'epoca di pluralismo? Significa che ciascuno di noi è fatto oggetto di proposte da tanti punti di vista.
    Primo fatto: il preadolescente è fatto oggetto di modelli di condotta che riscuo­tono una certa approvazione nel contesto sociale in cui si trova a vivere. In un'epoca di pluralismo i modelli di condotta che gli sono presentati e che riscuo­tono l'approvazione sociale, non sono univoci: ci sono molti modelli di condotta che riscuotono l'approvazione sociale.
    Secondo fatto: non c'è soltanto la presentazione di modelli, ma c'è anche la pre­sentazione di filtri attraverso cui leggere gli altri modelli.
    Aggiungo una parola per far comprendere fino in fondo questo discorso che è veramente cruciale per impostare il problema che ci sta a cuore ed elemento che dovrebbe definire il volto dell'oratorio oggi. Ci sono, dicevo, dei modelli di con­dotta che ci sono prospettati con un certo premio sociale. Tu sei una persona riuscita, se per esempio, hai soldi, fascino, ecc. Ma non c'è soltanto questa pro­posta di modo di essere che riscuote un'approvazione nel contesto culturale; c'è anche la costruzione di un filtro che sa rifiutare qualsiasi altra proposta che non coincida con questa. Un'altra fonte (il parroco, per esempio, o il direttore o l'assistente dell'oratorio) dice: tu sei una persona riuscita se sei capace di sacri­ficarti per gli altri. Questa informazione, questa proposta, passa attraverso il filtro che è costituito dal valore precedente, non quindi in modo tale da poter essere assimilata pienamente e facilmente, ma già rovinata, tanto che il ragazzo è spinto a scegliere la proposta contraria a quella che gli viene prospettata nel Contesto dell'oratorio, se l'oratorio non gli farà proposte in un certo modo. Questo è il senso del pluralismo.
    Parlare perciò dell'intenzione di creare un ragazzo cristiano, un ragazzo cioè che abbia integrato fede e vita, significa cercare uno spazio in cui mettere ordine fra i tanti valori di cui il ragazzino è fatto oggetto. Se io accetto dentro di me due proposte che sono contrarie sento la mia vita rotta in due: sto camminando verso la pazzia. Non potrà mai diventare figlio di Dio in pieno, integrare la fede nella vita colui che non è riuscito a fare una sintesi nella sua vita.
    Per fare la sintesi di questi modelli che mi sono prospettati occorre essere inserito in un ambiente che aiuti a fare tale sintesi. Non basta la buona volontà, il contatto personale; è necessario che ci sia un certo ambiente in cui tutti i valori che sono prospettati in quel contesto pluralista di cui abbiamo parlato, vengono gerarchizzati, messi in fila, mentre vengono eliminati quelli che non sono disposti ad essere messi in fila. Di fronte a due valori contraddittori non c'è molta possibilità di mettere in fila; è necessario che uno abbia la prevalenza sull'altro.
    È necessario dunque, che esista uno spazio in cui si faccia questo tentativo di sintesi: è l'oratorio. La scuola non fa questo sforzo di sintesi, e oltretutto non possiamo strumentalizzare la scuola per l'educazione alla fede. La scuola è un luogo profano, che deve avere la necessaria autonomia, quindi un luogo in cui la sintesi non potrà, per principio, essere fatta in chiave di fede.
    Questo complicato discorso iniziale mi pareva molto importante per poter situare le cose che sono incerte. Lo riassumo perché è un po' il quadro portante di tutte le cose che vorrei proporvi.

    LA META ULTIMA: L'INTEGRAZIONE TRA FEDE E VITA

    La nostra meta è l'integrazione fra fede e vita, fare cioè una persona che sia matura dal punto di vista umano e dal punto di vista cristiano. Questa persona vive oggi in un contesto pluralista; pluralismo significa essere fatto oggetto di proposte diverse e di proposte capaci di filtrare le proposte. Se io voglio essere una persona matura devo integrare organicamente, con una sintesi precisa, questo insieme di proposte, e gerarchizzarle, metterle in fila. Uno dei luoghi privilegiati per mettere in fila queste proposte è l'oratorio. Il luogo privilegiato per eccellenza è la famiglia, ma purtroppo tante volte la famiglia non sa fare questa sintesi per cui veramente è necessario fare spazio all'oratorio perché faccia questa sintesi. Dopo aver creato questa piattaforma di lavoro comune, vorrei cercare di far passare per parti l'insieme del discorso che vi ho prospettato un attimo fa. Cercare di raggiungere come meta l'integrazione fra fede e vita significa realizzare queste mete intermedie. Cercherò di delineare le mete, far vedere quali sono i problemi che oggi abbiamo per realizzare le mete e cercare di prevedere delle soluzioni. Le soluzioni descrivono un dover essere dell'oratorio.

    LE METE INTERMEDIE

    UNA VISIONE DI SÉ, DEGLI ALTRI, DEL MONDO E DELLA STORIA FONDATA SULLA FEDE

    Prima meta: un preadolescente è maturo e cammina verso la maturità se riesce ad elaborare una visione di sé, degli altri, del mondo, della storia organica, ben articolata, e che abbia la fede come punto di perno, se è vero che la fede non è un voltar pagina nella mia storia, ma è l'elemento che dà significato alla mia storia, l'elemento che dice la verità più impenetrabile di me. Prima meta allora, ripeto, è costruirsi una visione di sé, degli altri, del mondo e della storia ben organica che abbia la fede come punto di perno.

    Difficoltà

    Paragoniamo la meta con la descrizione che ho fatta un attimo fa del pluralismo.

    1) Il pluralismo attuale rende veramente difficile il creare una visione organica delle cose. Ci sono dei valori che vengono presentati come i valori assoluti, come i valori a cui devono far posto tutti gli altri. Di fronte per esempio ad una propo­sta come qualche volta purtroppo la scuola fa, vinca il più forte, una proposta che educa sotterraneamente alla violenza, di fronte alla proposta come quella che, purtroppo la scuola fa ancora, di un certo individualismo, non c'è spazio per una esperienza di Chiesa, perché nella Chiesa non è mai assolutamente vero che deve vincere il più forte, perché nella Chiesa non c'è spazio per la competitività, se è vero che Colui che aveva il diritto di farsi servire ha scelto la strada del servizio.
    Quando il valore che è proposto dal nostro agente culturale è quello della competitività non c'è assolutamente spazio per altri valori, anche se retoricamente si dice che c'è il diritto di parlare di altre cose. Faccio un esempio, al limite, se volete: in una scuola media c'è la possibilità di insegnare religione, quindi, si dice, siamo in una epoca di tanto pluralismo che ciascuno ha diritto di dire
    quello che pensa. Se però il clima di quella scuola è improntato all'aggressività, all'arrangiarsi, ecc. non c'è più spazio per l'insegnamento della religione; quell'insegnamento della religione è soltanto retorico. Vedete allora che il pluralismo è un pluralismo falso, cioè un pluralismo in cui i valori di fede che dovrebbero essere il perno della visione organica di sé e del mondo, i valori di fede che di natura loro sono valori totalizzanti, cioè che afferrano tutta la vita, diventano valori che non contano. Le cose cioè che vengono insegnate nella scuola di reli­gione se contassero, butterebbero per aria la scuola; siccome la scuola non desidera essere buttata per aria, allora tu hai il diritto di continuare a parlare pur di accet­tare che le cose che dici non contino nulla.

    2) E c'è anche un altro grosso fatto che rende veramente problematico il rag­giungere la meta che ho prospettato. Ognuno che parla presenta un progetto d'uomo. Io non potrei parlarvi delle cose che cerco di dirvi, perché ci credo, se non avessi una definizione d'uomo davanti, se non avessi un umanesimo da­vanti. Se la cultura della scuola, per esempio, non mette in circolazione un uma­nesimo che sia aperto, cioè che dia veramente la possibilità di capire che c'è biso­gno di salvezza e che la salvezza non ce la costruiamo con le nostre mani, non c'è spazio per una riflessione di fede. E questo a due titoli diversi: se la scuola non è centrata sull'uomo, se l'uomo non è il protagonista di tutti gli avvenimenti, è molto difficile che un ragazzo di undici anni scopra che ha bisogno di salvezza. Scopre che ha bisogno di salvezza soltanto se qualcuno gli dà una mano a guar­darsi allo specchio di se stesso. Se la salvezza è sempre avvertita come qualcosa che viene gestito all'interno della cultura, all'interno della storia dell'uomo, non c'è più alcun bisogno di una salvezza trascendente. Se io insegno la storia, faccio un esempio semplice, facendo vedere che la spiegazione di tutto è all'interno della storia stessa, evidentemente non c'è più posto per Cristo perché l'uomo, da solo, sa il perché dei guai che ci sono, e ne sa i rimedi.
    Quindi sono due i problemi che rendono difficile l'integrazione tra la vita e la fede a livello culturale: un tipo di pluralismo soltanto apparente e il tipo di umanesimo che viene messo in circolazione, cioè se l'umanesimo è disumaniz­zante, se l'umanesimo è immanente, e quindi all'interno di se stesso dà la spiega­zione di tutte le cose. Pensate a una storia spiegata in chiave di lotta di classe: non ha più nessuna possibilità di ascoltare un discorso di salvezza, perché è in questo che c'è la spiegazione; basta risolvere quel punto problematico di quell'in­granaggio, e tutto l'ingranaggio viene risolto. Non serve che Nostro Signore sia venuto a portare una salvezza dal momento che la salvezza l'abbiamo dentro: basta farla funzionare e riusciamo a risolvere tutto.

    Prospettive

    Alcune prospettive di soluzione.
    1) Scopriamo innanzitutto la necessità del collegamento dall'interno; è neces­sario cioè che noi cristiani diventiamo gli animatori del quotidiano, della scuola per esempio, se vogliamo continuare ad avere la possibilità di fare l'oratorio. Se non trovo tutti i mezzi per fare in modo che la cultura che viene messa in circolazione nella scuola non sia come ho cercato di prospettarla in una forma pessimistica, difficilmente riuscirò a far funzionare bene le cose qui, perché l'oratorio è una proposta di salvezza a chi sente il bisogno di una salvezza trascen­dente. Se il ragazzino è stato educato a scoprire che non ha nessun bisogno di salvezza, evidentemente non varcherà mai le porte dell'oratorio, se non per venire a giocare al pallone.
    2) Siccome però non riusciremo molto facilmente a cambiare le cose là, allora cerchiamo di far diventare l'oratorio il luogo in cui il preadolescente incomincia quel processo che oggi è essenziale e che passa sotto il nome di capacità di essere critico nei confronti delle proposte. L'oratorio dovrebbe essere la palestra in cui uno smonta gli ingranaggi che ha appreso, per esempio nella scuola, in modo da verificare se funzionano, secondo il progetto che lui ha in testa di se stesso.
    3) Sto parlando di un volto ottimale, se volete, dell'oratorio: ripensare alla fede che nell'oratorio si mette in circolazione. Quando parlo di circolazione di fede intendo tutte le cose che l'oratorio fa, perché sono convinto che non c'è nulla che l'oratorio faccia che non sia in chiave di fede. Se ci fossero delle cose che non hanno nulla a che fare con la fede, è meglio non farle. Ma perché tutto possa essere veramente in chiave di fede, questa proposta di fede deve veramente essere presentata come il perno che dà significato alla visione di sé che uno si è costruito. Se la fede è un altro discorso nei confronti della cultura che viene messa in circolazione, evidentemente il ragazzino si troverà lentamente davanti ad un bivio e siccome nessuno di noi ha la capacità di sdoppiarsi, sarà costretto a scegliere una delle due strade; se invece la fede che viene messa in circolazione affonda le sue radici prima di tutto nella revisione critica della cultura ed è una proposta che dà significato ultimo, rivelato, alla cultura che l'uomo ha cercato di avvertire come significativa per sé, allora veramente quella fede dice qualcosa. Il «Documento di base» dell'Episcopato italiano per il rinnovamento della catechesi ci dice che si può favorire l'aumento di questa circolazione di fede, in quanto, per esempio, afferma che chiunque voglia fare un discorso su Dio deve muovere dai problemi umani, altrimenti il suo parlare di Dio è un parlare ateo. Non è perché nominiamo venti volte il nome di Dio che siamo cristiani. Il parlare di Dio cristiano è un parlare di Dio all'interno della mia dimensione umana. È Dio che rivela il volto più vero di me.
    4) Abbiamo tutti coscienza che l'educazione non passa attraverso le parole, ma attraverso i modelli, cioè passa attraverso l'esperienza. Se vogliamo educare i preadolescenti nell'oratorio ad essere critici nei confronti di tutto quello che hanno appreso, proprio per poter veramente integrare fede vita e se vogliamo aiutarli a scoprire una fede che sia il lievito che quella benedetta massaia ha messo in quelle tre misure di farina, è necessario che i modelli che riscuotono approvazione sociale nell'oratorio siano quelli che incarnano questa realtà. Faccio soltanto un esempio. Se l'oratorio spende un capitale per alcuni gruppi sportivi, se il terreno è impraticabile per buona parte del giorno perché serve per l'allena­mento delle squadre sportive, se non si può giocare al pallone dalle 10 alla 12 perché alle 12 devono giocare i «grandi» e il campo è segnato e le righe si sporcano, e i cosiddetti grandi sono delle persone che nessuno mai vede nei momenti impegnati, allora è segno che il modello premiato in quell'oratorio è quello. Se l'Assistente fa una bellissima predica per altri modelli, evidente­mente la sua predica è retorica, cioè sono parole nei confronti dei fatti. I fatti educano: ho citato un esempio; se ne potrebbero fare tantissimi; non è che io ce l'abbia contro lo sport: ce l'ho contro una dimensione che non realizza un progetto di educazione di fede che ci sta a cuore.

    UN SENSO DI APPARTENENZA ALLA CHIESA CHE RINNOVI IL RAPPORTO COL MONDO

    Seconda meta. E possibile integrare la fede e la vita, dicevo prima se ci si crea una visione organica di sé, degli altri, del mondo, con la fede dentro, ma occorre anche apprendere a vivere la Chiesa a livello di esperienza; sentire la Chiesa come qualcosa che ci coinvolge: che si senta che il mio essere Chiesa mi costringe ad un rapporto diverso con il mondo. In altre parole, se volete più tecniche, la secondo meta è il creare un senso di appartenenza alla Chiesa, è un nuovo modo di raccordarmi con il mondo a partire dal fatto che io sono Chiesa ed appartengo alla Chiesa.

    Difficoltà

    Se non vogliamo essere generici esaminiamo i problemi che il raggiungimento di questa meta pone.

    1) Tutti noi sappiamo che l'esperienza di Chiesa passa attraverso l'esperienza di essere insieme in un certo modo. Tutti sappiamo che non educhiamo ad essere Chiesa principalmente facendo delle belle prediche, ma creando quella esperienza di comunione che è la Chiesa. Noi oggi viviamo in un contesto fortemente ano­nimo; ci manca cioè l'esperienza di comunione. Il preadolescente, in questo periodo difficile della sua vita, perde il contatto intenso con la famiglia; diventa anonimo nei confronti della famiglia.
    Nella fanciullezza l'esperienza di Chiesa passava attraverso l'amore della mamma e del papà, che sentiva come una cosa essenziale nella sua vita. Se ora si stacca dalla famiglia, se comincia a percorrere un'altra orbita, evidentemente quello non sarà più il momento privilegiato del suo essere Chiesa. Si inserisce in un contesto, che è la scuola, in cui non sempre c'è una profonda esperienza di comunione, quindi è solo. Però siccome nessuno di noi è capace di vivere solo, allora il preado­lescente si sforza di recuperare l'esperienza di comunione di cui ha bisogno nel gruppo dei coetanei; dall'anonimato passa ad una esperienza di comunione. Questa esperienza di comunione non è esperienza ecclesiale per il fatto che uno è in gruppo, perché se il gruppo dei coetanei è il modo attraverso cui uno può recuperare la spinta egoistica di essere con altri come motivo di gratificazione personale, siamo molto lontani dalla esperienza di Chiesa, se è vero che la Chiesa è un popolo di persone che sono «per» prima di tutto.
    Però evidentemente questo momento del gruppo dei coetanei, è un momento privilegiato per creare l'esperienza di comunione, anche se non è da solo motivo di comunione: può diventare un motivo di esperienza ecclesiale o può diventare un momento di consumo egoistico.

    2) Purtroppo noi veniamo da una cultura molto razionalista, molto illuminista, cioè da una cultura in cui l'accento era posto sulle parole, sui grossi ragiona­menti, per cui anche la Chiesa è stata presentata a livello di parole. Questo presentare la Chiesa a livello di parole crea uno stacco pericoloso nel preadole­scente il quale incomincia ad avvertire che l'essere Chiesa è per lui qualche cosa di molto più grande, che sentire che sono con gli altri soltanto perché uno me lo ha detto. Dentro questo discorso se ne potrebbero fare mille: ne faccio uno solo per esemplificare maggiormente. La Chiesa è un popolo che non è incominciato oggi e che non finisce questa sera a mezza notte: la Chiesa è storia. È possibile avere profonda esperienza di Chiesa soltanto se io capisco il senso profondo dell'essere uomo, in una storia di uomini; se io capisco che ci sono state tante persone prima di me che hanno lavorato e a cui io e i preadolescenti ed i giovani di oggi sono profondamente collegato.
    Non sembra che i preadolescenti e i giovani di oggi abbiano molto il senso della storia. Se vogliamo incominciare tutto da capo, vogliamo togliere il legame con gli altri, questo taglio mi fa perdere una delle dimensioni fondanti dell'essere Chiesa.

    3) L'essere Chiesa non finisce nella esperienza che io faccio di essere Chiesa, ma nell'impegno che io metto nella storia a partire dalla mia coscienza di Chiesa, cioè la Chiesa non è per te, ma è per il mondo. Il preadolescente scopre che è Chiesa se scopre che il suo essere Chiesa lo costringe a porsi in un modo diverso, nuovo, nella storia. Ma anche questo ha dei punti problematici. Faccio alcuni esempi:
    - Ho l'impressione che permanga, qualche volta, nel sotto fondo di alcuni di noi una certa teologia improntata alla fuga, alla «fuga da», «attenzione ai pericoli», ecc. Se il mio modo di essere Chiesa per il mondo è filigranato da questa paura, il mio modo di rapportarmi non sarà il modo di colui che si tira su le maniche per far qualcosa, ma il modo di colui che mette la coda fra le gambe per tagliare la corda.
    - Non basta però aver recuperato la dimensione sacrale delle cose di tutti i giorni, perché le cose di tutti i giorni sono vittima del peccato come lo sono io. Hanno bisogno cioè che il mio modo di raffrontarmi con esse non sia modo manipolante, ma sia un modo liberante; hanno bisogno di quella parola che oggi ci fa un po' paura: la mortificazione. Ma non intesa come scappare da, ma intesa come scappare dentro. Se manca una riflessione ascetica in questo scappar dentro, mentre io mi impegno per cambiare il mondo, facilmente sarò spinto o ad essere fagocitato dall'impegno, o a scappare dall'impegno. Questi non sono problemi troppo alti per il preadolescente perché egli impara ad essere «Chiesa per il mondo» a 11-12 anni; si farà una notevole fatica a ricuperarlo successivamente.
    - La tentazione della fuga dal quotidiano: è la tentazione di ridurre l'oratorio al luogo di consumo di tutta la mia esperienza, invece di considerarlo come distri­butore di energia perché io giochi la mia esperienza là nel quotidiano Anche questo deriva da una riflessione teologica, anche se ha delle collocazioni operative.
    - C'è anche il rischio opposto (sto facendo il gioco del pendolo per far capire i punti oltre i quali non è possibile veramente recuperare una profonda espe­rienza di essere Chiesa nel mondo), abbastanza facile oggi, di ridurre l'esperienza di Chiesa all'impegno nel quotidiano, cioè di pensare che per il fatto che faccio per es., impegno politico, ho già vissuto la mia esperienza di Chiesa.
    - L'assenza di modelli di comportamento per essere cristiani in questo deter­minato modo di dover essere, a cui noi oggi siamo chiamati dallo Spirito Santo. L'educazione passa attraverso dei modelli di comportamento. Educare un giovane ad essere «Chiesa per il mondo» significa presentargli un insieme di modelli, di «santi», che siano delle persone presenti fino in fondo, fino al collo, nel mondo per liberarlo. Se invece lo standard dell'essere cristiano è lontano da questo coinvolgimento di salvezza nella storia, se quando io dico che il cristiano è l'uomo più riuscito mi trovo delle immagini di santi che di persona riuscita hanno poco, allora il preadolescente che sente me parlare non crede a me, ma crede a quello che vede. Siccome non ha la capacità di dire: «o tiri via quello e ce ne metti un altro, oppure sta zitto», fa la sintesi rifiutando le due proposte. Notate che questo insieme di problemi affonda le sue radici nella scuola. Accen­navo prima al fatto che la scuola è un luogo profano e deve rimanere tale. Ma parlare di luogo profano significa parlare di luogo in cui il preadolescente inco­mincia a fare una esperienza di proposta di modelli non univoci e qualche volta avverte che il ragazzo che si impegna di più, più serio, che crede veramente a quello che fa, non è quello che è sempre presente all'oratorio. Vedete che ha di fronte un modello, in cui lui si riconosce, di uno che è presente nella storia, che non rispecchia la ricerca di modelli a cui è condotto in linea teorica nell'altro ambiente. E questo gli fa un conflitto interno di modelli e di valori.

    Prospettive

    Visti così i problemi, allora quali prospettive di soluzione possiamo mettere sul tappeto?
    Le riprendo sulla linea delle problematiche che ho offerto, cioè sull'essere Chiesa e sull'essere Chiesa per il mondo.

    1) Mi pare sia necessario impostare un'esperienza di Chiesa all'interno dell'ora­torio che passi veramente per una profonda esperienza di gruppo. Cioè l'oratorio educa al senso della Chiesa attraverso la matura esperienza di gruppo. Ho aggiunto un aggettivo che non è messo li tanto per spendere una parola in più, ma che è profondamente qualificante: matura esperienza di gruppo. «Matura» significa che guida lo spontaneo essere con gli altri ad un nuovo essere per gli altri, che permetta una coesione, cioè una gioia di stare assieme, non più legata soltanto al fatto che siamo amici, ma al fatto che abbiamo in testa uno stesso progetto, perché la Chiesa non è prima di tutto, l'insieme degli amici, ma è l'insieme di coloro che credono alla Pasqua di Cristo e con Cristo lavorano per farla diventare realtà nella Chiesa di oggi fino a che diventi realtà gloriosa nel giorno della risurrezione.
    Un gruppo è «maturo», cioè maturante l'esperienza di Chiesa, se educa al servizio, essere per a partire da essere con, e se è un gruppo che permette una coesione, una gioia di stare assieme che passi al di là dei rapporti impersonali in rapporti primari sulla condivisione di grossi valori, sulla condivisione di grossi progetti.

    2) Però siccome la Chiesa non è riducibile all'esperienza immediata di Chiesa sarà necessario progettare dei momenti in cui il preadolescente incominci a sentirsi Chiesa a livello grande, a livello macroscopico, a livello di Chiesa uni­versale: anche questo sarebbe un grosso discorso da approfondire che io lascio alla vostra riflessione.
    Spendo qualche parola in più per precisare ciò che mi sta a cuore. La Chiesa è nello stesso tempo locale e universale: nessuno dei due momenti è vero se non è supplementare all'altro, una Chiesa locale che tagli i ponti con la storia - pas­sato, presente, futuro - e con l'universalità del presente, non è Chiesa.
    Una Chiesa universale che non passi attraverso una presenza, un'esperienza sulla propria pelle della gioia di essere Chiesa, non sarà mai avvertita come Chiesa. Questa tensione teorica va ricondotta nella proposta di esperienza di Chiesa che l'oratorio offre. Ci sono momenti di Chiesa a livello di noi 20 amici che cerchiamo di condividere lo stesso progetto, che diciamo qualche cosa di serio, e ci sono momenti molto più ampi in cui il nostro essere Chiesa passa attraverso il contatto con gli adulti, il contatto con altri gruppi, la percezione di una realtà diocesana, il sentire che ci sono degli interessi che coinvolgono tutto il mondo e che sono seri anche se io non li sento: per fare un esempio, il lavorare per le missioni, per la fame, contro la fame. Sento questo problema, senso cose che forse in questo momento non sono mie dal punto di vista individuale, ma che sono mie perché sono dell'uomo.

    3) Chiesa per il mondo. È necessario che l'oratorio prospetti dei modelli: il giovane cristiano, impegnato nel mondo in modo tale da essere il modello che riscuote l'approvazione sociale, cioè il prestigio; e questo nella catechesi, attra­verso gli animatori dei vari gruppi, attraverso il modo di impostare le celebra­zioni liturgiche, attraverso il modo di mettere in revisione critica i modelli che sono presenti, perché anche nella revisione critica è necessario avere un punto di perno, un punto di confronto e questo punto di confronto non può essere una parola, ma deve essere un modello.
    Se io voglio dare una mano a delle persone a riflettere sul progetto di uomo che per esempio il carosello di ieri sera ha prospettato, non lo posso fare prima di tutto con le parole, perché le mie parole sono certamente molto meno fascinose dei caroselli. È necessario che l'inizio avvenga attraverso la lotta fra modelli e, ancora a questo proposito, attraverso la scoperta che la Chiesa ha senso se è al servizio della storia. 

    4) Cerco di rendere concreta questa affermazione per passaggi successivi:
    - Il preadolescente deve incominciare a scoprire che il suo essere cristiano - Chiesa per il mondo - lo coinvolge nel quotidiano, cioè nelle cose di tutti i giorni, la sua scuola, la sua famiglia, il gruppo di amici, ecc.
    Come? Innanzitutto a livello strutturale perché la proposta dei valori (e quindi l'educazione) è molto legata alla identificazione che il preadolescente vive con le diverse istituzioni. L'oratorio è una struttura a livello della quale avviene una pro­posta educativa; quindi l'oratorio in quanto struttura, ha un peso nell'educazione. Se il punto di arrivo è l'essere impegnato nel quotidiano, la struttura oratorio sarà in tensione secondo una curva graduale a sbattere la gente nel quotidiano. Ho par­lato di essere in tensione e ho parlato di curva in questi termini: pongo due poli al mio discorso. Un ragazzo di dieci anni avrà bisogno di passare la stragrande maggioranza del suo tempo dentro l'oratorio per imparare ad essere cristiano fuori. Il punto di arrivo è l'essere cristiano fuori, non lo stare dentro.
    Un giovane di vent'anni avrà bisogno generalmente di passare la stragrande maggioranza del suo tempo fuori; diversamente sarebbe segno che non ha capito che cosa voglia dire essere cristiano nel mondo.
    Tra questi due poli esiste una curva cioè esiste una gradualità a livello non di sola buona volontà, ma anche di struttura. Se l'ambiente dei giovani ha attrattive tali per cui la gente è spinta a chiudersi dentro, invece di tendere fuori, la strut­tura non corrisponde alla sua funzione. Il preadolescente invece avrà bisogno di avere tante attrattive per poter imparare dentro come deve vivere fuori.
    - Si impara non soltanto sentendo dire, ma facendo, facendo attraverso la com­partecipazione a persone che fanno. Il preadolescente non sarà da solo capace di essere Chiesa per il mondo, se l'oratorio non gli dà la possibilità di compiere alcuni gesti, come per esempio, partecipando ad attività coi giovani più grandi di lui, i quali facciano alcune attività fuori. Egli allora comincia a capire che cosa vuol dire Chiesa per il mondo.
    - Non basta però neppure spingere all'azione fuori; permangono sempre neces­sari due momenti essenziali. Un primo momento è lo spazio in cui ripensare in prospettiva cristiana il mio modo di essere impegnato fuori.
    Prendiamo per esempio la scuola. Il preadolescente deve imparare che nella scuola è la Chiesa, e se è vero che la Chiesa è Cristo che dà la vita per cambiare la storia, questo significa che egli nella scuola deve agire per cambiare qualcosa se le fac­cende non funzionano. Deve agire nella scuola imparando nell'oratorio lo stile. L'oratorio offre un momento di maturazione del suo modo di essere impegnato nella scuola. Siccome però la scuola è un momento profano, in cui non può vivere la sua fede a livello esplicito, corre dei rischi, anche perché si trova in un momento educativo, cioè in un momento in cui la sua persona ha bisogno di appoggi per poter crescere, la sua libertà ha bisogno di essere guidata per poter diventare vera libertà, ecc.
    Per tutti questi motivi ci sarà bisogno di una esperienza esplicitamente cristiana, in cui celebri quell'impegno che ha gestito nel quotidiano e ritrovi una profonda dimensione di speranza, anche perché può darsi che alla fine gli venga voglia di buttar via tutto, visto che non riesce a combinar molto di serio nel quotidiano. Sono questi i due momenti che l'oratorio dovrebbe offrire, un momento di rifles­sione sul mio essere cristiano là, con una curva che va da un minimo ad un mas­simo, e un momento di esplicita esperienza di essere cristiano, una celebrazione della mia fede a livello pieno, un recupero di una vera speranza escatologica in questo mio sentirmi in comunione con Cristo: tutte cose di cui ho profondo bisogno per non lasciarmi fagocitare dal mio impegno quotidiano.
    - Sarà possibile che io senta il senso del mio essere cristiano nella storia, sol­tanto se la fede che ho scoperto o a cui sono stato guidato, è una fede che morsica nella storia. Se la catechesi non offre una fede coinvolta nella storia, se si fa quel discorso su Dio che non coinvolge i problemi umani di cui ho parlato prima, la mia fede non mi dirà nulla dell'impegno nella storia.
    Il preadolescente dunque nell'oratorio imparerà ad essere Chiesa per il mondo, se sentirà che il luogo privilegiato del suo impegno è il suo quotidiano (quindi la scuola, il gruppo degli amici, la famiglia); se l'oratorio ha il coraggio di proporzionare le strutture in modo tale da favorire lentamente una pre­senza sempre più intensa nel quotidiano: non strutture per essere dentro, ma strutture per andar fuori, con una curva proporzionata alla maturità delle persone; se attraverso la compartecipazione coi giovani più adulti imparerà facendo; se potrà disporre dei due momenti cui accennavo, cioè la riflessione sul come essere cristiano nel quotidiano e l'esplicita celebrazione dell'essere cristiano nel quoti­diano; se la fede, la proposta di fede che incontra ha veramente presa nel quotidiano.

    LA PERSONALIZZAZIONE DELL'ESPERIENZA DI FEDE

    La terza meta è la personalizzazione dell'esperienza di preghiera, dell'esperienza liturgica, della celebrazione della vita. È la personalizzazione dell'esperienza di fede.
    Ho parlato di personalizzazione per mettere l'accento sulla necessità che il preadolescente incominci ad avvertire che la sua vita è in gioco tutte le volte che prega, che la materia dell'Eucarestia che celebra è la sua vita.

    Difficoltà

    Anche per raggiungere questa meta il clima culturale della scuola media pone qualche volta dei problemi. Li enuncio molto velocemente.
    1) Un primo problema nasce ancora una volta dalla necessità che la scuola con­servi l'autonomia che il Concilio sottolinea per tutte le realtà profane. La fede non nasce soltanto dalla ricerca, non è frutto degli sforzi che noi abbiamo fatto mettendoci assieme per capirci.
    La fede inoltre non termina nella conoscenza intellettuale, ma nella esperienza di vita. Sono due esigenze, queste, a cui difficilmente la scuola potrà rispondere. La scuola non sarà forse mai il luogo dell'annuncio esplicito di fede e soprattutto la scuola non sarà il luogo in cui la fede diventa esperienza, diventa celebrazione sia a livello di vita celebrata, sia a livello di celebrazione sacramentale della pro­pria vita: non celebreremo l'Eucaristia nella scuola come gesto normale.
    2) È possibile apprendere a sentire che la celebrazione dell'Eucaristia e la pre­ghiera è un fatto personale soltanto partecipando all'esperienza. Non si impara a pregare se non all'interno di una comunità che prega.
    3) La verità dell'Eucaristia nella mia vita è data dal modo con cui io vivo la mia vita: se la mia vita è vissuta come camminare sulla testa degli altri, come utiliz­zare le cose come preda, se ho una paura terribile del servizio, la mia Eucaristia è una cosa falsa. La scuola prepara all'Eucaristia se prepara a vivere in atteggia­mento di servizio, se prepara a vivere considerando l'altro uno per cui dovrebbe essere disposto a dare la vita, considerando le cose non come preda da arraffare, ma come dono d'amore.

    Prospettive

    Se la scuola non fa sempre questo, allora quali sono le prospettive verso cui dovrebbe tendere l'oratorio per dare veramente la possibilità di raggiungere la meta indicata, cioè la personalizzazione dell'esperienza di fede?

    1) Ripensare profondamente, ancora una volta, sulla linea della proposta pasto­rale che i nostri vescovi hanno fatto nel Documento di base, i tipi di catechesi che noi facciamo. La scuola fa una sua catechesi, l'oratorio fa una sua catechesi. L'oratorio non fa catechesi perché la scuola fa male catechesi, o non smette di fare catechesi perché la scuola fa bene catechesi. Sono due cose profondamente diverse e profondamente complementari nella diversità. Se è vero che la fede si apprende sulla linea dell'annuncio celebrato nella vita, e non è soltanto una perce­zione intellettuale, ma è una illuminazione dell'esperienza che io sto vivendo comprendete subito la diversità delle due catechesi. La scuola sarà sulla linea della riflessione culturale, eventualmente sul piano della ricerca; l'oratorio gestirà una catechesi in cui ci sarà spazio abbondante all'annuncio: un Dio che mi parla di fronte al quale io ascolto, mi metto in atteggiamento di ascolto, un Dio che mi parla della mia esperienza, un Dio che mi parla dentro una comunità, un Dio che mi parla in modo tale che io prenda la sua parola come modo diverso di essere, e quindi celebri il suo annuncio: questo è lo spazio per la catechesi dell'oratorio.

    2) È possibile personalizzare la preghiera soltanto se si mettono in cantiere delle esperienze di preghiera. Potrei aprire un lunghissimo discorso.
    Ecco la necessità che l'oratorio progetti dei momenti in cui i ragazzi capiscano cosa vuol dire la preghiera incontrandosi con esperienze intense di preghiera. Se si spendono tanti soldi per fare una gita annuale, mi chiedo perché non si spenda almeno un decimo per condurli con un pullman in un luogo dove la preghiera sia l'aria che si respira. Altrimenti come impareranno a pregare? Io credo che tutte le nostre comunità parrocchiali siano fervorosissime, ma non è che lì la preghiera sia un'aria che si respira; invece, per grazia del Signore, ci sono delle comunità privilegiate in cui la preghiera è un'aria che si respira. Si impara a pregare partecipando. A casa smonteremo l'esperienza per cogliere tutti gli ingranaggi in modo da riuscire a interiorizzarla come motivo che vi maturi.

    3) È necessario che l'oratorio abbia come denominatore comune, obbligatorio nel senso più macroscopico della parola, un clima in cui veramente si respira la liturgia della vita, in cui cioè il servizio sia cosa naturale. Se per far spostare una sedia ad un ragazzino dovete pagargli un gelato, evidentemente non lo edu­cherete mai a capire che cosa è la Messa, se è vero che la Messa è uno che ha dato la vita per me. Pensate al grossissimo discorso educativo sui fratelli: c'è tutto il modo di impostare l'educazione che incide veramente sul mio modo di essere. L'esempio classico è quello che propone S. Giovanni quando parla dell'amore tra i fratelli come verifica dell'amore di Dio. Ma non è l'unico atteggia­mento; pensate al modo di raffrontarmi con gli altri sul piano della fiducia per imparare ad avere la fede in Dio. Come posso fidarmi di un Dio che non ho mai visto, se non riesco a fidarmi dei fratelli che vedo, se non mi fido dei miei amici? Se io voglio essere come Tommaso che crede solo a ciò su cui sbatte il suo naso, non riuscirò mai ad avere fede in Dio. Conoscevo un mio amico che era Assistente d'oratorio, che inculcava nei suoi ragazzi questo atteggiamento di fiducia con delle cose piccolissime, ma molto sapienti. Un giorno diceva: «Ragazzi, chi mi vuol bene mi segua» e non diceva dove e magari li portava al cinema; il giorno dopo diceva: «Chi mi vuol bene, chi vuol venire con me, mi segua» e andavano in chiesa a pregare, oppure andavano a fare una passeggiata, ecc. Il premio, il «che cosa avrai» era legato all'esperienza, non alla promessa; lentamente questi ragazzi imparavano a fidarsi della sua proposta.
    Mi sa che questo modo di fare sia molto simile a quello che ha escogitato Gesù con gli Apostoli. Partiva sempre dal presente per arrivare al futuro: vieni e vedrai.

    CONCLUSIONE

    Concludendo allora, qual è il compito dell'oratorio?
    Ve l'ho prospettato attraverso un insieme di ingranaggi per rendere compren­sibile il quadro delle mie proposte: le rimonto tutte assieme.
    Secondo me l'oratorio è oggi in pieno collegamento con la scuola come momento di assunzione critica di tutto quello che nella scuola viene posto in circolazione, o, se vogliamo allargare il discorso, tutto quello che nella cultura sociale viene posto in circolazione, per cercare di capire il significato di fede che vi è presente e per tradurre la scoperta gioiosa che io ho fatto in un mio modo diverso di vivere il quotidiano. L'oratorio dovrebbe essere un po' come il cuore che puri­fica il sangue e lo rimanda dappertutto. La materia che circola dentro l'oratorio, è data dalle cose di tutti i giorni, le cose della scuola, che hanno bisogno di essere smontate, ricapite, comprese più nel profondo, celebrate in atteggiamento di profonda gioia, di profonda speranza, perché ciascheduno senta di avere una responsabilità nelle cose di tutti i giorni. Questo è possibile se ci crediamo, se ci mettiamo tutta la buona volontà di cui siamo capaci, se ripensiamo alle strutture in modo tale che favoriscano questo, mettendo in cantiere tutto ciò di cui c'è bisogno, perché veramente ci sia quest'opera di pompaggio e di remissione, se in una parola, la Chiesa è l'aria che si respira all'interno dell'oratorio, non a livello di formule, non a livello di proposte verbali, ma a livello di clima: è pos­sibile veramente integrare fede e vita soltanto all'interno di una matura espe­rienza di Chiesa. Si è e si impara ad essere figli di Dio all'interno dell'esperienza di Chiesa. I nostri oratori dovrebbero essere quello spazio di Chiesa al di là delle formule in cui i figli di Dio che vivono nella storia, che devono continuare a vivere nella storia, imparano ad essere figli di Dio per far nuova la storia.
    Ci saranno dei momenti in cui lo smontaggio dovrà essere veramente pezzo per pezzo e ci saranno invece dei momenti in cui sarà sufficiente aggiungere qualcosa. Tutto questo pone dei grossi problemi. Se l'animatore di gruppo non sa che cosa è capitato nella scuola, deve cambiare mestiere.
    Sono stato drastico, ma per sottolineare una cosa che mi sta a cuore: cioè sono convinto che la buona volontà non serve se si ammazzano le persone.
    Se è vero che il Signore mi dice qualche cosa all'interno di quello che io sto vivendo, è possibile veramente sentire cosa il Signore mi vuole rivelare se parto da quello che vedo.
    Rimane la prima esigenza: l'oratorio non potrà mai coprire tutto l'impegno di cui è responsabile se non sentirà il bisogno di essere presente là dove veramente si fa la storia. E guardate che su questo campo, sono convinto che di strada pos­siamo farne ancora.


    T e r z a
    p a g i n A


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