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    La santità dei laici

    Percorsi di spiritualità laicale

    Paola Bignardi

     


    In questi ultimi anni sempre più frequentemente ci vengono suggeriti modelli di «santità laicale»; anche la Chiesa, con i suoi riconoscimenti ufficiali, propone alla venerazione e all'imitazione del popolo cristiano figure di cristiani laici; per ricordarne solo alcuni: Gianna Beretta Molla, Piergiorgio Frassati, Pierina Morosini..., ma è avviata la causa di beatificazione anche di De Gasperi e di La Pira...
    Se infatti ci sono stati momenti nella storia della Chiesa in cui i modelli di santità che venivano proposti erano soprattutto quelli di martiri o di monaci ecc., oggi fa piacere constatare che anche la condizione di vita laicale viene offerta come punto di riferimento della nostra esperienza di cristiani, come luogo in cui è possibile realizzare la santità e l'incontro con il Signore.
    Credo che per i laici sia necessario parlare non di un modello laicale di santità, ma di modelli, al plurale. Ritengo infatti che non sia possibile parlare di un modello di santità laicale, poiché è talmente varia l'esperienza concreta di ciascuno di noi, che è decisamente impossibile – al di là delle coordinate essenziali dell'essere cristiani – trovare un unico modo di vivere la santità. Del resto le figure di santi o di beati laici che la Chiesa ha proposto negli ultimi anni ci aiutano a capire tale diversità, dovuta al fatto che si diventa santi all'interno delle condizioni concretedella propria vita, per cui la santità è legata alla maternità o alla politica o a scelte radicali di vita cristiana nell'essere giovani... Proprio questa impronta dell'esistenza nel cammino della vita cristiana ci aiuta a capire che non esiste un modo laico di farsi santi, bensì una grande varietà di percorsi personali così com'è varia e multiforme l'esperienza concreta della vita dei laici.

    Santi nella stagione conciliare della Chiesa

    L'universale chiamata alla santità

    Il battesimo è anche la fonte della chiamata alla santità:

    «I seguaci di Cristo [...] nel battesimo della fede sono fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina e perciò realmente santi» [1].

    Ogni battezzato è chiamato alla santità; questa chiamata è prima un dono che un compito: nel sacramento egli ha già ricevuto la santità, per gratuita iniziativa di Dio.
    La santità non è privilegio di pochi, ma possibilità per tutti. Dio, presso il quale non vi è preferenza di persone (cf. Ef 6,9), chiama tutti gli uomini a divenire suoi figli. Per questo la vocazione alla santità è universale: esprime la volontà di Dio di rendere tutti gli uomini parte del suo popolo.
    Dunque la santità è un dono: Dio, il solo Santo, rende l'uomo partecipe della sua santità; all'uomo riceverla dalle sue mani, viverla e custodirla. [2]
    Ed è il dono di Dio che attiva dentro la vita dei battezzati energie di disponibilità, di risposta, di adesione ad esso; dice il concilio che

    «un'unica santità è coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di Dio e, obbedienti alla voce del Padre e adoranti in spirito e verità Dio Padre, seguono Cristo povero, umile e carico della croce per meritare di essere partecipi della sua gloria» [3]

    Il concilio afferma che, in quanto battezzati, i laici sono resi partecipi dell'ufficio sacerdotale di Cristo.
    Il sacerdote è colui che offre a Dio sacrifici per tutto il popolo. A differenza dei sacerdoti del culto giudaico, che offrivano a Dio sacrifici di animali, Gesù ha offerto se stesso, una volta per tutte. Essere partecipi del sacerdozio di Gesù significa fare offerta della vita, partecipare alla morte di Gesù ed entrare così nella comunione con Dio.
    Inseriti per il battesimo nel mistero di Cristo, i battezzati «vengono consacrati a formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le opere del cristiano, spirituali sacrifici». [4] Dunque ogni battezzato è sacerdote: ciò che lui offre è la vita di Cristo e, in lui, la sua stessa vita:

    «tutti i discepoli di Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio, offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio, rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della loro speranza nella vita eterna. [...] I fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all'oblazione dell'eucaristia, ed esercitano il sacerdozio con la partecipazione ai sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, coll'abnegazione e l'operosa carità». [5]

    Fare della propria vita un dono, come il Signore Gesù, significa anche annunciarne il mistero e acquisire quella signoria sulla realtà e sulle cose che sola può avere chi ha deciso di mettere la sua vita a disposizione di Dio. Legato al carattere sacerdotale, vi è quindi anche quello profetico e regale. [6]

    La vocazione laicale

    Il laico è innanzitutto un battezzato, «un vero cristiano» afferma Giovanni Paolo II a conclusione del sinodo sui laici.
    Spesso, per parlare dei laici, si fa riferimento alla loro collocazione nel mondo; si tratta di un elemento certo importante, soprattutto in un momento in cui si tende a sottovalutare la dimensione secolare della loro vocazione; tuttavia ciò che costituisce l'identità, la grandezza, la natura della vita laicale è l'appartenenza a Dio, è l'essere radicati nel mistero della pasqua del Signore, cioè è l'esperienza del battesimo.
    Questo sacramento originario dell'esperienza cristiana ha strettamente unito il laico alla vita di Cristo, il Risorto e il Vivente; ed essa ora costituisce la sua stessa vita.
    In Cristo, il laico è reso figlio di Dio, tempio dello Spirito, reso capace – per dono – di vivere la santità. Nel Risorto la sua stessa esistenza è risorta ed è chiamata ad operare per la risurrezione di tutta la realtà.
    Il laico cristiano è una persona che è di Dio. Questo è uno degli insegnamenti che si può rischiare di dare per scontati e invece esprime la grandezza del laico stesso. Il laico cristiano è una persona che è di Dio. Ciò significa che egli è valorizzato, che la sua vita è immersa nel mistero della pasqua di Cristo e che in essa è rinnovata e rigenerata, è aperta alla possibilità della comunione con Dio.
    Il laico cristiano è figlio dentro una stessa famiglia, appartiene al medesimo popolo di Dio. La vocazione laicale, con la sua specificità, ha quindi uguale valore, dignità e responsabilità rispetto a qualsiasi altra vocazione nella Chiesa. In una famiglia non c'è chi vale di più e chi di meno: ci sono persone diverse, che hanno compiti differenti, ma che vivono tutte con medesimo cuore.
    Il terzo aspetto è quello che dice l'originalità dell'essere dentro questa famiglia e del vivere l'appartenenza a Dio come laici. I laici realizzano il loro essere credenti secondo l'originalità di quella che il concilio chiama «l'indole secolare»: sono, cioè, persone di Dio nella famiglia, nel lavoro, nelle responsabilità sociali. Non solo vivono nel mondo, ma condividono l'esperienza di tutti stando dentro le realtà comuni a tutti; si preoccupano di ciò di cui Dio si cura, leggendo la realtà e la vita con gli occhi di Dio e cercando di fare la loro parte perché questa realtà si trasfiguri e, anche tramite la loro partecipazione, diventi risorta, cioè fatta nuova nel mistero di Dio. Il loro vivere nel mondo non si riferisce semplicemente a un «territorio», ma significa la condivisione dell'esperienza di tutti perché la realtà risorga e dia già da oggi segni più leggibili e brillanti della novità della vita nuova, della risurrezione del Signore.
    La vita quotidiana è quindi il luogo della dedizione a Dio, della ricerca di Dio, dell'incontro con il suo mistero; la condivisione della vita concreta è per i laici vocazione, è la loro chiamata, il luogo del loro incontro con il Signore; gli impegni che questo comporta sono la volontà di Dio.

    Cercare Dio nella vita

    Cittadini di due città

    Lo scritto A Diogneto descrive la condizione dei cristiani nel mondo, con un'immagine che sembra adattarsi particolarmente bene alla condizione dei laici:

    «I cristiani non si differenziano dagli altri uomini ne per territorio né per lingua o abiti. Essi non abitano in città proprie né parlano un linguaggio inusitato; la vita che conducono non ha nulla di strano... Abitano nelle città greche o barbare, come a ciascuno è toccato, e uniformandosi alle usanze locali per quanto concerne l'abbigliamento, il vitto e il resto della vita quotidiana, mostrano il carattere mirabile e straordinario, a detta di tutti, del loro sistema di vita... Abitano nella propria patria, ma come stranieri... Ogni terra straniera è loro patria e ogni patria è terra straniera... Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi...». [7]

    I cristiani sono dunque cittadini di due città: quella del cielo, che li rende testimoni di valori diversi da quelli professati nel mondo, e al tempo stesso cittadini della città degli uomini, con i quali condividono cultura, condizioni concrete, responsabilità, attese e speranze.
    Innanzitutto i laici cristiani vivono nel mondo la loro originaria appartenenza a Dio. [8] Vivere nel mondo significa non appartarsi, non separarsi dalle ordinarie condizioni degli uomini e delle donne del proprio tempo, per essere fedeli al Signore: restare dentro un'esperienza familiare, professionale, sociale, comune a quella di ogni contemporaneo, condividendola nel suo svolgersi, nelle sue responsabilità, nel suo evolversi storico.
    Il non separarsi dal mondo è un implicito riconoscimento della bontà del mondo, della vita umana, della storia comune... Il mondo infatti, uscito buono dalle mani di Dio, non cessa di portare l'impronta del gesto di amore che l'ha creato e che ha suscitato la compiacenza di Dio: «Dio vide che era cosa buona» (cf. Gen 1). Il peccato che ha offuscato la bellezza e l'armonia del disegno originario non ne ha cancellato l'impronta divina e non ha smesso di rendere prezioso il mondo agli occhi di Dio, se Dio ha potuto inviare il Figlio e sacrificarlo per restituire il mondo e le cose alla bontà delle origini.
    Il sacrificio del Figlio di Dio per riscattare il mondo lo rende più prezioso, più meritevole di essere guardato con interesse e vissuto con simpatia. E non solo il sacrificio estremo indica il valore divino del mondo, ma anche il rapporto che il Signore Gesù ha instaurato con esso, salvandolo senza restargli lontano, ma immergendosi nella storia, nella cultura, nell'umanità...
    Dunque il laico cristiano ama il mondo condividendo dall'interno la comune vicenda di ogni uomo; imitando, del mistero del Signore, soprattutto il suo immergersi nella vita ordinaria e semplice della gente del suo tempo.
    L'amore al mondo – alle persone, alle cose, alle situazioni, alla realtà – è ciò che rende visibile il Cristo agli altri; è ciò che testimonia che anche Dio ama il mondo, la storia umana, la vita di ogni uomo.
    Il laico cristiano è tuttavia cittadino anche di un'altra città, nella quale è titolo di cittadinanza avere come riferimento ultimo un orizzonte che supera quello terreno; nella quale sono legge il dono di sé, il servizio, la mitezza, l'impegno per la giustizia... il primato della persona; nella quale è sovrano un Signore crocifisso; alla quale si appartiene solo a condizione di accettare la sapienza della croce come criterio di interpretazione della vita.
    È chiaro come le due logiche entrino facilmente in conflitto; queste «due città» convivono nella coscienza del laico cristiano, così come devono convivere nella sua esperienza quotidiana. Ogni doppia appartenenza implica tensione, soprattutto quando i due riferimenti non sono in continuità, non sono tra loro omogenei. Vengono allora i momenti in cui le due identità sono in opposizione, in forme diverse:
    a) nella forma esplicita del conflitto, quando, in nome della propria appartenenza alla «città celeste», il laico credente deve opporsi, contrastare, negare modelli di comportamento e stili di vita inaccettabili, accogliendo insieme la sfida di vivere il conflitto in coerenza con la mitezza del vangelo e il contrasto con uno stile di amore e di servizio al bene;
    b) nella forma dell'incomprensione, che chiede la disponibilità a una testimonianza solitaria, pagando anche con l'isolamento la propria appartenenza a un mondo diverso da quello terreno;
    c) tuttavia l'esperienza che in maniera emblematica può rappresentare la tensione tra le due identità/appartenenze è quella dell'oscurità, del non capire in che modo si possa essere contemporaneamente fedeli all'una e all'altra città; e dover comunque decidersi, prendere posizione.
    Il laico rischia la sua fedeltà ai valori del vangelo entro un contesto di precarietà, di incertezza, di complessità, qual è quello della sua esistenza quotidiana; gioca la sua fedeltà alla città celeste entro la città terrena. L'incontro tra l'assoluto dei valori e la relatività dell'esperienza storica avviene dentro uno spazio di libertà che richiede coraggio, inventiva, creatività. I valori del vangelo non stanno, in modo perfetto e completo, nella loro assolutezza, dentro le scelte familiari, professionali, economiche, politiche... attraverso le quali ciascuno di noi realizza la sua vita quotidiana.
    Rischio della fede è la responsabilità di posizioni e scelte storiche; rischio è, ancor prima, leggere con vera intelligenza cristiana il proprio tempo. Questo compito profetico del laico cristiano è particolarmente difficile se le due città si sono troppo allontanate, e non tanto nell'oggettività delle rispettive scelte, quanto nella percezione che noi abbiamo di esse.
    Se è così difficile leggere il nostro tempo, per noi cristiani e per le nostre comunità, è perché si è accresciuta dentro di noi la distanza tra le due appartenenze che connotano la nostra vita. E forse questa lontananza è così cresciuta dentro di noi perché ci siamo sentiti troppo poco cittadini della città degli uomini, forse perché abbiamo preteso di allentare la tensione della nostra doppia appartenenza, chiudendoci dentro la patria celeste, dimenticando che quella, nella sua assolutezza, appartiene solo al futuro; un futuro che va preparato attraverso un presente che non neghi anche il nostro essere cordialmente, intensamente partecipi della vicenda umana che è anche la nostra, di credenti.
    Ci aiuta il ricordare che in questi anni la Chiesa ha avviato il processo di beatificazione di laici quali Lazzati, La Pira e De Gasperi, laici che hanno vissuto con generosità proprio questa dimensione crocifiggente della laicità, che è il non arrendersi alla fatica di essere leali cittadini di entrambe le città, resistendo alla tentazione di identificarsi troppo con ùna soltanto di esse.
    A questo percorso di ricerca interiore, tutta umana, a partire dai fatti di ogni giorno, vorrei dare il nome di «ricerca di Dio». La nostra ricerca di Dio non può svolgersi né fuori né a prescindere, ma dentro questo cammino verso un'umanità intensa e piena.
    Soffermarsi a riflettere a fondo sulla vita, divenire sempre più consapevoli di essa, impegnati a comprenderla, a narrarla, a spiegarla... è un modo per non prescindere da essa nella nostra esperienza di fede.
    È al fondo della propria coscienza creaturale che il cristiano – come ogni uomo, in modo spesso quasi indecifrabile – scopre dentro di sé l'inquietudine di Dio.

    La preghiera del laico

    Il laico cristiano è una persona che cerca i segni della presenza di Dio nella vita di ogni giorno, nella realtà, nelle situazioni, nelle esperienze che fanno il suo quotidiano.
    La Parola, la preghiera e la vita, nel loro reciproco richiamarsi, credo siano i luoghi privilegiati della ricerca che il laico cristiano fa di Dio.
    La preghiera è l'esperienza della familiarità di una presenza; è un legame, che a volte si esplicita nell'«a tu per tu», nell'ascolto, nella parola; altre volte è semplicemente appartenenza a un Altro, è consapevolezza del legame d'amore che lo Spirito tesse continuamente dentro di noi.
    Ci sono molte tentazioni per un laico, rispetto a questa esperienza:
    – pensare che abbiano valore solo i momenti di silenzio e di sosta davanti a Dio; solo esperienze e devozioni consacrate dalla tradizione;
    – assumere modelli di preghiera che non appartengono alla sua esperienza di laico per durata, organizzazione, modalità, contenuti...
    – non riuscire a liberarsi dalle forme di preghiera imparate un tempo, dalle abitudini delle forme, delle parole... per accedere a una preghiera «in spirito e verità», inclusa la verità sulla propria esistenza, con ciò che si sta vivendo; una preghiera viva, non irrigidita in forme stereotipate, rassicuranti ma che non ci coinvolgono.
    La preghiera del laico credo debba recuperare e assumere le contraddizioni e le tensioni della vita; le gioie e le paure; l'interesse e l'incertezza; la responsabilità e il limite.
    Nella vita di ogni giorno, ad esempio, si fa l'esperienza del limite; si fa anche nella preghiera questa stessa esperienza, che nasce dal rendersi conto che tendiamo a una comunione totale, che sempre ci è negata. Perché Dio si rivela solo di spalle...
    Pregare da adulti è imparare attraverso la preghiera ad accogliere il limite della vita, quasi ad «assaporarlo», come una delle dimensioni imprescindibili dell'esistenza alla quale dare senso.
    Se il limite che sperimentiamo in ogni vicenda ci risospinge al di qua dei nostri desideri di onnipotenza, quello che sperimentiamo nella preghiera può farsi spazio per il desiderio di Dio; dunque un'esperienza che non necessariamente dice la povertà del nostro pregare, quanto piuttosto del nostro essere, che aspira a Dio.
    • La preghiera del laico si caratterizza per un forte legame con il tempo, cioè con lo scorrere delle vicende umane, dei fatti della vita, delle occupazioni di ogni giorno. Il laico prega cercando Dio entro i suoi giorni, con le loro responsabilità. Il legame tra la preghiera e il tempo fa sì che questo si arricchisca di un'apertura sul mistero di Dio e che si purifichi, in questo incontro; che si «salvi», attraverso questo incontro.
    • La preghiera richiama il silenzio. C'è un silenzio che è-frutto del nostro volontario far tacere le voci per metterci in ascolto del Signore che parla; e c'è un silenzio che il Signore prepara per noi, quando la vita sembra senza significato e lui stesso assente. Ci si trova davanti alla realtà come impietrita, ostile, estranea. È il silenzio che Dio ci offre, per rivelare anche così il suo mistero. Anche quelli sono i momenti dell'adorazione, davanti a un Signore riconosciuto, nonostante tutto, come «Signore della vita», come il nostro Signore.

    La Parola

    Accanto alla preghiera, la Parola. Nel Salmo 118 si trova l'espressione: «lampada ai miei passi è la tua parola...»; è un'immagine ricca di suggestione: fa pensare alla vita come un cammino, ora vario e vivace, ora monotono e grigio, ora incerto e affaticato, ora sciolto e tranquillo...
    Se il cammino ha bisogno di una lampada che lo rischiari, significa che si svolge nell'oscurità.
    È un cammino che si accontenta di una lampada, che offre una luce fioca e discreta, non certo luminosa e decisa come quella del sole, che riempie l'orizzonte.
    La lampada rischiara solo per qualche passo, il resto rimane nell'oscurità: resta nell'oscurità anche la meta alla quale si tende, e verso la quale ci si continua a dirigere per fiducia. Ma l'intero percorso resta avvolto dal buio.
    E tuttavia la lampada ha una funzione provvidenziale: consente di individuare i contorni delle cose, forse di non inciampare in esse; di intuire la bellezza di ciò che ci circonda, la grandezza nascosta.
    La Parola, lampada per i passi del credente, svela così che la vita è mistero: la sua realtà e il suo spessore restano avvolti nell'ombra e tuttavia non totalmente sconosciuti; essa si rivela infinitamente più ricca di quanto gli occhi dell'uomo non riescano a vedere e la sua bellezza misteriosa e affascinante continua ad attrarre il cuore umano e a orientarne la ricerca.
    Alla luce della lampada si possono chiedere cose diverse: ci si può accontentare che essa illumini la strada per impedirci di inciampare; oppure le si può chiedere di lasciarci intuire il paesaggio sul cui sfondo ci muoviamo, di consentirci di capire dove siamo e dove stiamo andando. Si può vivere la luce della lampada nel rammarico che essa non sia sfavillante, oppure essere grati per ciò che ci consente di vedere; si può alimentarne la luce perché continui a illuminare, oppure la si può trattare con trascuratezza...
    Atteggiamenti diversi, che dicono il rapporto di ogni uomo con fa ricerca della sua vita, perché ogni uomo, più o meno consapevolmente, è in ricerca.
    Anche davanti alla Parola ciascuno di noi si pone con l'atteggiamento con cui si pone davanti alla propria vita e davanti al mistero del Signore.
    Se ognuno di noi riflette sulla propria esistenza e sulla vita in generale, si accorge che essa è percorsa da una forza misteriosa, che nelle mille forme che assume può essere invito e rinvio a un di più di cui non si può prevedere lo sviluppo. La vita concreta è una delle parole attraverso cui si comunica la Parola. Vivere in modo attento significa disporsi a ricevere la rivelazione della Parola nelle mille forme che essa assume accanto e dentro di noi: nella natura, nello scorrere degli avvenimenti, nel dialogo fraterno.
    Soprattutto per chi ha fatto la scelta della vita laicale, interrogare la vita è un modo privilegiato per incontrare la Parola che viene incontro: non solo nei fatti straordinari, ma in quelli umili, ordinari, semplici dell'esistenza quotidiana, quella che più di altre rischia di apparirci muta.
    Luca ci dice che Maria «conservava nel suo cuore tutte queste cose» (Lc 2,51); ciò che essa conserva nel proprio cuore è un fatto, qualcosa che è accaduto a lei e alla sua famiglia. Di questo avvenimento essa non capisce il senso: potrebbe considerarlo un episodio banale, oppure porsi di fronte ad esso con la pensosità di chi ritiene che nulla accade per caso e dunque nulla è senza significato.
    Il senso dei fatti quasi mai si rivela immediatamente. Essi esplicitano il loro significato se «sappiamo conservarli nel cuore», se sappiamo continuare a interrogarli; se sappiamo attendere che essi rivelino a poco a poco il loro messaggio più vero. E possiamo interrogarli interrogando la Parola. Così, quanto accade nella vita, può essere illuminato dalla Parola; quanto è scritto nella Bibbia, può venire illuminato – ricreato, rivissuto, reso contemporaneo – dai fatti.
    Quanto avrà potuto capire meglio la Scrittura Maria alla luce di quanto le accadeva? E quanto la conoscenza della Scrittura le avrà facilitato la comprensione dei fatti?
    Parola e preghiera sono dunque luoghi della nostra ricerca/incontro con Dio e ci orientano a vivere tutta la vita come luogo in cui Dio si rende presente, incontrabile.

    Per una descrizione esistenziale

    È possibile provare a capire alcune caratteristiche concrete del laico attraverso cinque parole-chiave che fanno comprendere cosa significa vivere da laici.
    Ciascuna di queste parole ha una doppia faccia: una dimensione di fatica e una di grandezza. Dipende dalle scelte che ognuno fa poter cogliere solo la difficoltà o anche le possibilità, la grandezza, le prospettive che aprono alla nostra vita.

    Solitudine

    La prima parola è solitudine; è una parola che, normalmente, fa paura; tuttavia, se si pensa alla quotidiana esperienza dei laici, ci si rende conto che la solitudine è la condizione ordinaria nella quale essi vivono. Ognuno realizza la sua testimonianza in un contesto in cui spesso le persone non hanno una visione cristiana della vita; rispetto a tali persone ci si può sentire in alcuni momenti vicini, in altri lontani e anche molto soli. Questa solitudine, però, può permettere di guardare più profondamente dentro di sé e di vedere che c'è un tesoro nella vita di ciascuno che non è disponibile né agli attacchi né ai conflitti, ma è appunto dentro e costituisce il segreto dell'esistenza. Saper vivere la propria esperienza di laici in questa dimensione di solitudine vuol dire saper attingere a questo tesoro che è presente nella profondità nella nostra vita e che è il mistero della comunione con il Signore.
    Allora la solitudine non è un'esperienza negativa, ma preziosa, anche se talvolta assume caratteri drammatici. Ognuno, nella solitudine della sua testimonianza, del suo essere di fronte a Dio, del suo custodire nel profondo della sua coscienza il mistero di questa comunione, sperimenta che ci sono decisioni che riguardano lui e soltanto lui. È una solitudine grande; in essa si sperimenta il dramma della libertà, ma anche la grandezza della vita. Ci sono momenti in cui si vorrebbe avere qualcuno che ci dicesse cosa fare, invece di trovarci a certi bivi della vita che portano a molte e diverse strade, spesso tutte ugualmente inquietanti e difficili.
    Fa parte dell'esperienza dei laici proprio lo sperimentare questa dimensione di solitudine come grandezza di una coscienza nella quale Dio abita, come fiducia che il Signore ha nella nostra libertà.
    C'è poi una solitudine che si sperimenta a livelli più banali, ma non per questo meno importanti: è quella che si vive nell'impostare con autonomia e rigore la propria vita. Basti citare, per esempio, l'esperienza della preghiera. Ognuno ha modi di pregare diversi, perché le singole esistenze sono organizzate in maniera differente e quindi si sta davanti a Dio con la complicazione e la varietà delle proprie vite. Per il laico la preghiera è una scelta di ogni giorno. Niente e nessuno, se non nei momenti di condivisione del cammino di preghiera all'interno della comunità, impone quando e come pregare. La preghiera è lasciata alla responsabilità di ciascuno, alla sua capacita di compiere scelte in solitudine. Bisogna allora accettare questa solitudine rigorosa, che rende capaci giorno per giorno di riscegliere anche i tempi dell'appuntamento con il Signore; in caso contrario, difficilmente si sperimenta una preghiera seria che sia capace di tenere la rotta delle giornate e di far unità nella vita.

    Rischio

    La seconda parola è rischio; non fa parte del linguaggio appreso al catechismo – così come solitudine –, ma piuttosto dell'esperienza dei laici.
    La grandezza della visione della vita nella quale si crede, l'assolutezza dei valori a cui fa riferimento l'esistenza non possono stare completamente, come si vorrebbe, nella concretezza dell'esperienza. Giorno per giorno si ha la responsabilità di compiere scelte concrete che non sempre sono fra il bene e. il male, ma più spesso tra un male e un male minore, tra ipotesi confuse, tra beni parziali... Non sempre si è sicuri di fare le scel-
    te giuste; si sa che si deve rischiare, affidandosi a Dio, senza però avere altre certezze, anche perché le scelte sono sempre parziali; talvolta si compiono perché occorre farlo, non perché tutto sia chiaro. Eppure è necessario scegliere, perché ci sono momenti in cui bisogna prendere posizione.
    Esiste quindi una dimensione di rischio, di libertà cherassocia l'esperienza della solitudine a quella del necessario scommettere, del rischiare sulla concretezza e sulla parzialità. Occorre scegliere per non correre un altro rischio, che è quello di proclamare i valori solo a parole, di limitarsi ad affermare un dover essere a cui non corrisponde una concretezza di vita perché manca il coraggio di compiere scelte parziali. Stare dentro la realtà storica vuol dire avere il senso della parzialità che alcune scelte concrete impongono, con tutta la drammaticità che talvolta ciò comporta.

    Originalità

    La terza parola è originalità. Ci sono momenti in cui o si sa conservare nello stile di vita l'originalità del proprio essere cristiani, o quest'ultimo diventa una proclamazione di principio teorica.
    C'è un'originalità pasquale della vita che è il credere al valore paradossale della croce e quindi di tutte le scelte deboli, non vincenti, nella cultura di oggi e forse in nessuna cultura mondana. Nella vita di famiglia, o di lavoro, il banco di prova dell'essere cristiani è nella capacità di essere se stessi, nell'originalità di alcune scelte controcorrente, che riguardano il modo in cui si imposta la vita di famiglia, o in cui si sceglie un lavoro, seguendo non solo il criterio della carriera o dello stipendio. Ad esempio, non basta dire che i soldi non sono la cosa più importante della vita; bisogna poi verificare quanto e se le affermazioni di principio sono vere nelle scelte che si compiono per quanto concerne la famiglia, l'utilizzo delle risorse, del tempo, delle energie, della casa...

    Condivisione

    La quarta parola è condivisione ed è legata a.tutte le altre.
    La condivisione è il connotato comune della vita dei laici cristiani. Essi condividono l'esperienza di tutti, delle donne e degli uomini con cui vivono, con quel carattere di originalità cui ho fatto cenno. È un aspetto che va particolarmente sottolineato, in quanto si tratta della capacità di dividere con gli altri la vita, ciò che si e e ciò che si ha.
    Ma c'è un'altra dimensione della condivisione, che è la disponibilità a stare accanto e a mettersi in sintonia con le persone più povere, che dalla vita hanno avuto scarse risorse; allora la loro povertà diventa un po' anche la nostra, si riflette sulla nostra esistenza, e continua nel tempo la scelta del Signore Gesù che da Dio si è fatto uomo. Non basta pensarsi in una prospettiva di generosità, di dedizione; occorre pure essere disposti a lasciare cambiare qualcosa della propria vita da certi incontri. Un diverso uso dei soldi, della casa, del tempo non dipendono da una scelta teorica, ma da questo consentire che gli altri siano la parola che il Signore mette accanto a ciascuno per dare a tutto un'impronta che sia sua più che degli uomini.
    Occorre che la solidarietà sia intesa come gesto e stile, ma anche come passione a vivere intensamente la comune umanità nei suoi aspetti di maggiore povertà e fatica, oltre che in quelli più ordinari di bellezza e leggerezza.

    Ricerca

    Infine, ricerca. Credo che ogni uomo, a modo proprio, cerchi Dio: lo cerca in modo implicito e inconsapevole chi vuole dare autenticità e intensità alla propria esperienza umana; lo cerca chi si interroga su Dio; lo cerca anche il credente, dentro la fede. Dio, pur così vicino, non è un possesso ma un desiderio.
    «Ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te, Signore»: l'inquietudine del cuore, allora – secondo questa espressione agostiniana – è il segno che esso è fatto per Dio; è segno che Dio è il destino e il riposo della vita umana;
    ma un riposo ancora lontano: per questo, cercato, preparato, desiderato, atteso, sofferto.
    Ricerca, soprattutto di Dio: se la vita cristiana è un continuo camminare incontro al Signore, l'esperienza di Dio è quella di un mistero che attrae e che è sempre oscuro, «oltre». Solo nella disponibilità a camminare continuamente verso questo «oltre»- si può vivere veramente un'esperienza da cristiani, non censurando le ansie e le inquietudini connesse a questa ricerca, ma restando pronti per cogliere nella vita i segni della presenza di Dio che lo nascondono e, al tempo stesso, lo rivelano.
    La ricerca di Dio, poi, avvicina il laico cristiano ad ogni persona: non sono solo i credenti a cercare, ma anche chi non riesce ancora a dare un nome esplicito al mistero di Dio. Si è quindi accomunati in questo percorso e molta strada si può fare insieme. Ognuno è cercatore di Dio: ciò va riconosciuto, senza temere che significhi ammettere la povertà dell'esperienza di fede. Questa dimensione di ricerca è coltivata da ciascuno dentro la propria esistenza; è vissuta come importante; si lega al senso, che è un aspetto di tale ricerca che caratterizza il nostro tempo in ogni fase della vita. I giovani cercano di dare un senso alla vita; gli adulti hanno bisogno di dare un senso agli aspetti concreti e quotidiani dell'esistenza. Gli adulti, rispetto ai giovani, sono più abili a mascherare a se stessi le inquietudini o certi aspetti della loro vita; per questo è facile che inventino «cose da fare». Essi ostentano perciò una certa sufficienza rispetto alle domande più profonde dell'esistenza.
    Essere laici significa sapersi dire che ci sono momenti e occasioni in cui davanti alla vita si resta spiazzati, e sapersi porre alcune domande sul senso di ciò che succede e sulle azioni ordinarie della vita di tutti i giorni; chiedersi che senso ha ricominciare ogni giorno la vita di famiglia e un lavoro sempre uguale. Attraverso queste domande si può recuperare la freschezza della vita quotidiana, che altrimenti rischia di diventare grigia, monotona, banale, insignificante: una realtà dalla quale si desidera solo uscire, odiando il lavoro, sperando che le giornate e i mesi finiscano per arrivare alle ferie.

    Conclusione

    Al di là di tutto, ogni laico cristiano sperimenta la solidità che gli viene da un tesoro che è racchiuso nella sua vita: è la relazione creativa e imprevedibile con il Signore; è la certezza di un amore che gli è dato a prescindere da lui; è la gioia e lo stupore di poter ripetere ogni giorno con Agostino: «Tardi ti ho amato, bellezza sempre antica e sempre nuova...».
    Ogni giorno è troppo tardi per questo amore; eppure ogni giorno questo amore si riscopre come nuovo.
    L'amore che brilla a noi nella bellezza della vita, degli affetti, delle cose, e che, al tempo stesso, anche si cela in essi, perché ogni giorno possiamo desiderare che si sveli a noi in pienezza.

    NOTE

    1 CONCILIO VATICANO II, Costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa, 21 novembre 1964 (in seguito abbreviata LG), n. 40: EV 1/388.
    2 Cf. Lv 19,2: «Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo».
    3 LG 41: EV 1/390.
    4 LG 10: EV 1/311.
    5 LG 10: EV 1/311.312.
    6 Cf. LG 35 e 36: EV 1/374ss e 378ss.
    7 A Diogneto, a cura di S. ZINCONE, Borla, Roma <1987, 63-65.
    8 LG 31: EV 1/362s.

    (da: Natalino Valentini, a cura di, Una spiritualità per il tempo presente, EDB 2002, pp. 152-169)


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