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    GIOVANI E FEDE

    Un'alterità

    da ascoltare

    Luciano Manicardi 

    Senza che ce ne accorgessimo, in un breve intervallo di tempo - quello che ci separa dagli anni settanta del Novecento - è nato un nuovo umano. Così il più che ottuagenario filosofo Michel Serres a proposito dei giovani, dei cosiddetti «nativi digitali».
    E se una caratteristica saliente di questo «nuovo umano» è l'esternalizzazione della memoria e delle conoscenze in rete, nei cellulari, nei computer, in realtà è il mondo in cui i giovani occidentali vivono che è altro da quello dei loro padri e dei loro nonni che pure convivono accanto a loro.

    Il nuovo umano

    Essi sono portatori, proprio in quanto nati ora e non prima, di un'alterità che va ascoltata e conosciuta, di una diversità che invece di essere criticata a priori o esaltata come rivoluzionaria in sé e per sé, deve essere assunta, rispettata e conosciuta. Altrimenti, come sarà mai possibile trasmettere o insegnare qualcosa a qualcuno che non si conosce? Diversa attesa di vita, diversa famiglia, diversa sofferenza (assenza di guerre da molti anni e prossimità con altri giovani che provengono da mondi poveri e da storie di sofferenza opposte alle loro), diversa formazione, ormai monopolio dei media, diverso spazio in cui i giovani vivono grazie alla «onniconnettività», diverso linguaggio che essi parlano, diverso modo di pensare e relazionarsi alla realtà, diversa temporalità, diverso rapporto con il lavoro, diversi legami dovuti alla precarizzazione delle appartenenze (nazionali, politiche, religiose, di genere)... Nella sintesi di Serres, questi e altri elementi fanno parte del «nuovo umano» che è nato e sta crescendo accanto agli adulti, anche se forse più che di «nuovo umano» (è lo sguardo dell'adulto che lo definisce così) si tratta di nuova declinazione dell'antico umano, dell'umano di sempre.

    La curiositas

    Ora, questo riguarda anche la fede. Se è vero che «l'umano è il punto di intersezione della fede» (Walter Kasper), il primo compito di chiunque nella chiesa viene interrogato sul problematico rapporto «giovani e fede», è quello di rivolgere la riflessione su di sé, di sollecitare la propria responsabilità e anzitutto la propria curiosità nei confronti dell'umano che è nell'altro e dunque di questo «nuovo umano» o di questa nuova declinazione e pratica dell'umano. Se la curiositas ha spesso incontrato nella tradizione cristiana avversione e diffidenza, occorre invece rivalutarla come passione per l'umano, come apertura al mondo, come vulnerabilità al molteplice, come disponibilità a lasciarsi interpellare dall'alterità, come capacità di stupore verso il reale. E questo ascoltando e seguendo la prassi di umanità di Gesù di Nazaret come narrata nei vangeli e nella convinzione che Dio è presente sempre nell'umano di ogni tempo e luogo. La parola curiositas ha in sé la radice del termine cura, e dunque esprime sollecitudine, attenzione, applicazione, responsabilità. E ovviamente ascolto. La cura poi, seconda un'antica etimologia che la fa derivare dal vocabolo cor (cuore) e dal verbo uro (bruciare), è ciò per cui un cuore brucia, e dunque è interesse e passione. Non è forse qualcosa di analogo a questa «cura» che viene suscitato dal fuoco dello Spirito che arde nel cuore degli apostoli e che diviene passione che li muove il giorno della Pentecoste quando il dono dall'alto li spinge a parlare le lingue degli altri, ad ascoltare l'ascolto degli altri e a comunicare le grandi opere di Dio nelle modalità in cui gli altri possono essere raggiunti e toccati?

    Fede o fiducia?

    Interrogarsi sul nesso «giovani e fede» - e normalmente questo lo fa chi giovane non è più e la fede grossomodo la vive o dà per scontato che la propria interpretazione sia, se non l'unica, almeno quella buona - implica anzitutto declinare la fede come umana e umanissima fiducia. Solo la fiducia è matrice della vita, solo l'umana capacità di fiducia può aprirsi alla fede in Colui che è presenza invisibile e silenziosa, solo la fiducia è l'alveo da cui può scaturire e in cui può fiorire una vita personale e comunitaria, ecclesiale e sociale. Ora, nei quattro vangeli il vocabolo pístis, normalmente reso in italiano con «fede», potrebbe essere tradotto praticamente sempre e spesso anche molto meglio, con «fiducia». Rileggere la traduzione italiana dei vangeli sostituendo la parola fede con la parola fiducia è molto illuminante. Se si compie questo esercizio si vedrà che è l'umanità calda di Gesù, la potenza e profondità della sua parola, la credibilità della sua persona, la coerenza del suo agire, la compassione del suo curare, il suo esercizio della libertà, la sua parresía, il suo saper incontrare l'altro, in una parola, la sua pratica di umanità, che suscita l'affidamento a lui, l'apertura di credito nei suoi confronti, la ricerca di lui, il decentramento da sé per trovare in lui orientamento e luce. E Gesù mostra grande capacità di accoglienza dei linguaggi altrui, Gesù fa fiducia, e così suscita fiducia. E sa riconoscere la fiducia degli altri e apprezzarla come movimento umano di apertura e dunque di salvezza: «Figlia, è la tua fiducia che ti ha salvata!» (Mc 5,34); «Va', è la tua fiducia che ti ha salvato» (Mc 10,52). La fiducia dischiude una vita salvata, cioè sensata, fondata su salde fondamenta, aderente al reale, capace di relazioni nell'oggi e protesa con speranza al futuro.
    Problema serio è dunque il trasmettere fiducia alle giovani generazioni, che in verità - ci dicono analisi sociologiche e rilevazioni statistiche - appaiono piuttosto «sfiduciate», nel senso di persone a cui è stata negata o ritirata la fiducia, non è stato dato credito, a cui si sono rivolte promesse che non sono state mantenute, a cui non è stato fatto spazio, fino al punto di derubarli del futuro. Non stupisce che una fetta almeno di quei giovani che aderiscono alla fede cristiana lo facciano perseguendo forme dogmatiche e rituali, intransigenti e securizzanti, mossi da un tradizionalismo che si volge a un passato da essi mai conosciuto ma che sembra poter dare radici a persone sradicate. Si cerca così - dando una risposta sbagliata a una domanda giusta - quel saldo fondamento, quel radicamento che manca e senza il quale diviene difficile affrontare il presente e immaginare un futuro. Dunque, prima di parlare di «fede», occorrerebbe parlare di fiducia, e più che parlarne, fare fiducia, dare fiducia, credere nel giovane. Come altrimenti potrà nascere e avere un senso la fede nel Dio che «ci ha amati per primo» (1 Gv 4,19) e ha fondato l'esperienza della fede come risposta al suo intervento incondizionato e sovrano, libero e gratuito? Dunque: quale iniziazione alla fiducia e quale trasmissione della stessa avviene nella chiesa? Se i «giovani» sono le persone tra i 18 e i 29 anni, essi hanno completato il percorso dell'iniziazione cristiana, che, appiattito com'è sull'ossessione sacramentale, in verità è sempre più un percorso di liquidazione cristiana più che di iniziazione. Per molti, quel percorso non inizia un bel niente, ma chiude e conclude. Carenza di iniziazione cristiana, cioè di iniziazione alla vita sotto il segno della fede cristiana e, ancor prima, assenza di strutture di iniziazione sul piano umano e sociale: questo caratterizza il giovane oggi nelle nostre società e nelle nostre chiese. Se poi ci volgiamo all'azione di evangelizzazione, vediamo che normalmente essa presuppone la fede invece che aiutarne la nascita. E così viene disatteso l'elemento basilare della fiducia, da cui solo può sbocciare la fede nel Dio di Gesù Cristo.

    La fede cristiana come umana arte del vivere

    Se ciò che di veramente nuovo e straordinario c'è in Gesù di Nazaret non si situa sul piano religioso ma su quello umano, un'iniziazione alla fede cristiana dovrebbe avere il coraggio di prendere sul serio l'umanità di Gesù di Nazaret come narrata dai vangeli per aiutare il credente a divenire umano, a maturare umanamente facendo del vivere un'arte. Se sul piano teologico vi è oggi chi propone di rifonda-re la teologia cristiana a partire dal Gesù storico, sul piano spirituale occorrerebbe rifondare la spiritualità cristiana a partire dalla pratica di umanità di Gesù come attestata nei vangeli. Recuperare questa dimensione così umana della fede è essenziale alla chiesa tutta, non è certo un metodo per apparire più condiscendenti e sperare in più efficaci risultati di evangelizzazione nei confronti di contemporanei indifferenti e giovani disinteressati.
    Ogni epoca storica ha optato per determinate immagini di Dio e oggi l'annuncio della «variopinta sapienza di Dio» (Ef 3,10) può trovare nella sottolineatura dell'urnanità di Gesù come narrazione di Dio la sua forma adeguata e necessaria. L'umano è il linguaggio e l'habitat di ogni persona, e di ogni giovane. Imparare ad abitare l'umano e a vivere umanamente è la grande vocazione e il grande compito di ciascuno. Se i linguaggi teologico e liturgico, catechetico e dottrinale restano incomprensibili ai giovani, c'è un linguaggio che è anche loro ed è il linguaggio dell'umano. Esso riguarda la condizione umana: la parola e la sessualità, la politica e il lavoro, la famiglia e gli affetti, l'ambiente e lo studio, il divertimento e lo sport, il cinema e la letteratura, l'arte e la scienza e la cultura in genere, l'economia e il «sociale», le emozioni e le sofferenze, la malattia e la morte, i fallimenti e le crisi, la gioia e la felicità, lo sguardo e il sorriso, la carezza e l'abbraccio...
    Si può continuare all'infinito. Queste le tematiche da affrontare per far crescere una coscienza umana matura nei giovani, per aiutarli ad avere un pensiero critico, per trasmettere la fiducia nel mondo e negli altri e poter così eventualmente aprirsi alla fede nel Dio di Gesù Cristo. Ma il giovane deve sentire il ben fondato antropologico delle parole della «fede» altrimenti esse scorreranno come acqua versata a terra che si perde senza lasciare traccia alcuna. La sottolineatura della dimensione gesuana della fede, della fede come cammino del senso e come arte del vivere, della dimensione sapienziale della testimonianza biblica, così centrata sull'intreccio stretto tra esperienza dell'umano ed esperienza di Dio, sono le piste da seguire per una presentazione del messaggio cristiano ai giovani. E tutto questo senza temere di attuare una riduzione immanentistica della fede. Nello spazio cristiano segnato dall'incarnazione, non è il «troppo umano» che va temuto, ma il troppo poco umano, l'oblio dell'umano.

    Immaginazione e creatività

    Gli incontri nel Monastero di Bose con diversi giovani suscitano in me alcune osservazioni. Innanzitutto, da loro emerge il bisogno di comunità e di testimoni. Ovvero, di incontrare il vangelo, la fede cristiana, in un vissuto comunitario, in un corpo di corpi, in un complesso di relazioni umane, e in vissuti individuali, in persone la cui umanità si mostra abitata dalla gratuità, dalla semplicità, dalla gioia e dall'amore evangelici. E la fede divenuta pratica umana, quotidianità di vita, relazione interpersonale, che può interrogare, far riflettere, suscitare desiderio e appassionare un giovane. In effetti, da questi incontri emerge l'assenza di ambienti e persone di riferimento, di uomini e donne a cui potersi dire, da cui essere accolti e ascoltati, e anche consigliati e consolati. Inoltre, vedo spesso il notevole peso di sofferenze che i giovani si trovano a portare, a volte ingigantito dall'inesperienza e dalla mancanza di persone fidabili a cui poter aprire il cuore. Dunque sofferenze acuite dall'essere taciute, e normalmente inerenti situazioni famigliari precarie, lutti, enigmi e domande circa la sessualità, vicende scolastiche o lavorative, esperienze affettive o amicali fallimentari, malattie proprie o di cari, errori o «peccati»... Accogliere l'umanità del giovane come si presenta e dirgli di sì è il primo e indispensabile passo di amore per dargli fiducia e coraggio.
    Ma dal giovane può anche venire l'impulso ad arricchire l'esperienza adulta della fede, a volte ripetitiva o ingessata, vivificandola con le modalità dell'immaginazione e della creatività di cui essi sono spesso particolarmente dotati. La non-eloquenza delle parole, dei gesti, dei luoghi, dei riti della fede, e a volte anche il grigiore delle persone di fede, è già una parola esplicita dei giovani che interroga e interpella la capacità di noi adulti di attivare quelle dimensioni di creatività e immaginazione che sono costitutive di un'esperienza viva e che si traducono in linguaggi, iniziative, gestualità, forse irrituali, ma certamente innovativi e comunque fondati sull'esempio della creatività e dell'immaginazione narrativa di Gesù di Nazaret. Il cristianesimo ha perfino dato i natali a un genere letterario prima sconosciuto per esprimere la propria dirompente novità: il vangelo. Così i giovani, con la loro sola presenza, anche di incomprensione delle nostre gergalità e delle nostre dinamiche intra-ecclesiali, possono aiutare un processo di trasformazione delle modalità di vivere la fede. Perché il vangelo vive se è incarnato in una storia, in un tempo, e se riesce a raggiungere gli uomini e le donne di quel tempo. Giovani e adulti.

    (Rocca 13/2016, pp. 41-43)


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