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    Nei giovani c’è

    un immenso potenziale

    di bene e

    di capacità creative:

    come liberarlo?

    Franco Nembrini *

     

    Cercherò in qualche modo di raccontare, di descrivere un po’ la mia esperienza, la mia storia, non perché abbia delle competenze particolari ma perché la questione dell’educazione dei giovani mi ha sempre molto interessato: l’ho fatto per lavoro insegnando, ho visto tante cose accadere. Recentemente in particolare mi sono capitati alcuni episodi molto significativi e cercherò di raccontarli, sperando di essere in qualche modo utile.
    Mi capita spesso di partecipare a convegni che hanno come tema l’educazione dei giovani, e solitamente parto con questa osservazione: mi colpisce il fatto che questa generazione di adulti – e mi pare veramente di poterlo dire di tutta la realtà europea, che un pochino conosco – sembra avere una caratteristica in comune: è come se avesse paura. C’è, di fronte al compito educativo, una paura che è il primo grande nemico dell’educazione. La paura è sempre una cattiva consigliera. Mi sembra che la gente, di questi tempi, e in questi ultimi anni anche le realtà familiari e le realtà associative, soffrano di una crisi dovuta proprio alla paura. È come se fossimo una generazione spaventata davanti ai rischi che corre la generazione dei nostri figli.
    La prima cosa che dobbiamo fare perciò è combattere questa paura.
    Per cominciare vorrei leggere un paio di citazioni che ho trovato bazzicando su internet, e che mi pare possano servire a partire positivamente in questa riflessione. Una dice: “Il nostro mondo ha raggiunto uno stadio critico, non c’è più rapporto tra i ragazzi e i loro genitori. La fine del mondo non può essere lontana”. La seconda: “Questa gioventù è marcia nel profondo del cuore, i giovani sono maligni e pigri, non saranno mai come la gioventù di una volta; quelli di oggi non saranno capaci di mantenere la nostra cultura”. Sembrano due citazioni tratte da un giornale di stamattina, no? Invece la prima è di un sacerdote dell’antico Egitto, 2000 a.C., la seconda è un’incisione su un vaso di argilla dell’antica Babilonia nel 3000 a.C. Per dire che possiamo stare sereni: il problema è antico, ce la faremo anche stavolta. Partiamo con questa fiducia.
    Sembra una battuta, ma in fondo è il cuore di quello che vorrei dirvi stamattina: c’è una positività da cui bisogna partire sempre. La positività nasce dal fatto che Dio, che è fedele molto più di quanto lo siamo noi, continua a fare quello che ha sempre fatto fin dal primo giorno: continua ogni mattina a creare il mondo, a creare la realtà straordinaria che abbiamo di fronte; e a creare il cuore dell’uomo, il cuore dei nostri figli, il cuore dei nostri giovani, così come l’ha sempre fatto. C’è una bellissima lettera di Benedetto XVI nel convegno alla diocesi di Roma sull’educazione del 2008 che dice proprio questo: state tranquilli, i vostri figli, i nostri figli vengono al mondo esattamente come siamo venuti al mondo noi, i nostri padri e i nostri nonni; cioè Dio continua a fare il cuore dell’uomo capace di bene, capace di infinito, capace di desiderio [1].
    Ecco, per me la parola decisiva nella vita, nell’incontro con il cristianesimo, è stata proprio la parola “desiderio”. Cristo, quando l’ho incontrato in gioventù – superata una certa fase critica, un certo momento di sbandamento che ho avuto anch’io – l’ho incontrato come capace di svelare tutta l’ampiezza del mio desiderio. E ho cominciato a insegnare, ho avuto il coraggio di sposarmi e di mettere al mondo i figli per questa fiducia che avevo e che ho nel cuore dell’uomo, nel mio cuore, nel cuore dei miei figli e nel cuore dei miei ragazzi. Io credo che la prima grande cosa che noi educatori oggi dobbiamo ridirci tra di noi – in un tempo di confusione e di paura – è questa sicurezza, questa certezza: Dio continua a fare il cuore dell’uomo capace di stupore, capace di meraviglia, capace di infinito. Perché tutta la vicenda di cui stiamo parlando, mi pare, si riduce poi a questo: se sia possibile oggi che il cuore di questi nostri ragazzi possa essere intercettato da una proposta, da una testimonianza.
    E qui apro e chiudo una parentesi che forse aiuta a capire: io sono il quarto di 10 figli; sono figlio di due persone semplicissime, due contadini della campagna bergamasca; ho goduto perciò di un insegnamento, di una vita familiare assolutamente chiara e solida. Ho ricevuto una testimonianza straordinaria da parte dei miei genitori, che furono secondo me due santi per la certezza e la letizia con cui hanno vissuto la vita e le prove della vita. E a volte quando racconto della mia infanzia, della mia giovinezza caratterizzata da questa famiglia, l’uditorio mi obietta: “Ma tu stai parlando di cose antiche che non esistono più, questo quadro che tracci di come sei stato educato non esiste più”. È vero. Ma proprio perché i tempi sono così cambiati e sono divenuti più difficili, c’è bisogno di chiarire ancora meglio alcuni criteri, alcune verità assolutamente fondamentali; e proprio la mia esperienza – quel che ho ricevuto dai miei genitori, dalla mia parrocchia, dalla chiesa in cui sono vissuto e sono diventato grande –, proprio quei criteri mostrano oggi tutta la loro validità, tutta la loro attualità: c’è da recuperare questa fiducia nel fatto che i nostri ragazzi, esattamente come noi, sono pronti, sono aperti a un’attesa di bene, a un’attesa di grandezza che la nostra generazione fa fatica a intercettare.
    Spesso faccio questo esempio: è come se il cuore dei nostri ragazzi fosse un telefono cellulare che è pronto, funziona, va bene; però è chiuso in un bunker di cemento armato. Ovvero: i ragazzi vanno benissimo, i nostri figli sono fatti da Dio; solo che fanno fatica perché vivono in una situazione dove sono travolti, sono come sepolti da un sentimento di “schifo delle cose”, come lo chiamano loro. Perché gli si presentano la vita e la realtà come una cosa brutta, pericolosa, di cui avere “schifo”; perciò, sepolti da questo sentimento di schifo, sono intercettabili più difficilmente. Ma se si tratta di far funzionare un telefono cellulare chiuso in una stanza di cemento armato, qual è il problema, il cellulare o il segnale? Il problema è il segnale.
    Questi ragazzi ci chiedono disperatamente un segnale più potente. Il problema dell’educazione, il problema della trasmissione della fede non è loro, è nostro. L’emergenza educativa di cui si parla in Italia e in Europa non è un problema dei ragazzi; non è che questa generazione di giovani sia storta o e sbagliata, quasi che Dio li avesse dimenticati o avesse cominciato a far le cose male, sbagliate. È vero, sono cambiate tante cose, oggi è più difficile e più faticoso; ma il problema dell’emergenza educativa è la generazione degli adulti, cioè la generazione dei testimoni. Io l’unica cosa che ho capito dal mio lavoro e dalla mia vita è questa. C’è una responsabilità dell’adulto, c’è una responsabilità dei genitori e degli educatori che va assolutamente ripresa in mano, perché questi ragazzi, esattamente come noi, attendono disperatamente una proposta di bene, una proposta di grandezza.
    Mi pare che si possa dire così: il punto che per i ragazzi di oggi sembra essere più debole è proprio quello che invece per la mia generazione è stato più facile, cioè sentire il desiderio di bene, il desiderio di felicità e di compimento come un’urgenza, conoscere in qualche modo il proprio cuore e sentire la realtà come buona, come positiva. Il sentimento che questi ragazzi hanno di se stessi è fragile, è spesso negativo. La nostra generazione ha sentito che il mondo era da cambiare, che c’era tanto lavoro da fare, ma ha avuto uno scatto di orgoglio e ha detto: “Il mondo fa schifo – uso le parole dei ragazzi, spero di non scandalizzare nessuno –, la Chiesa fa schifo, la famiglia fa schifo, la società fa schifo: noi la cambieremo”. Gli anni ‘60 e ‘70, gli anni del Concilio col dibattito interno alla Chiesa, furono questo scatto d’orgoglio di una generazione che sentiva tutte le contraddizioni e la fatica del mondo e ha provato a cambiarlo – che ci sia riuscita o no, è un’altra questione, lasciamo stare i risultati tristissimi a cui siamo pervenuti; ma ci ha provato.
    La differenza più acuta rispetto ai ragazzi di oggi mi pare questa. Anche loro dicono: “Il mondo fa schifo, la politica fa schifo, tutto fa schifo”, ma giungono a una conclusione terribile: “Anch’io faccio schifo”. Hanno un sentimento di sé come se non si perdonassero, come se avessero nella vita quasi una percezione di un’oscura colpa a cui non sanno neppure dare un nome, e che temo che a volte coincida con la colpa di essere nati. Sono deboli e fragili di fronte a se stessi prima di tutto. Papa Francesco, in alcuni suoi discorsi meravigliosi, parla di “orfanezza” di questa generazione (in italiano l’hanno tradotto così), una generazione di orfani.
    A me ha colpito tantissimo, perché mi sono chiesto: ma come mai il Papa dice che questa è una generazione di orfani? E lo dice del mondo intero, non solo dell’Italia o di Roma. Perché da un certo punto di vista, la generazione dei miei genitori e dei miei nonni, quella sì che fu una generazione di orfani: milioni di nostre donne hanno cresciuto i propri figli senza il papà, via per la guerra o emigrante per lavoro; ma non abbiamo mai detto che quella era una generazione di orfani. Perché lo diciamo di questa? Io credo che lo diciamo proprio nel senso in cui lo dice il Papa: è una generazione orfana di senso, orfana di speranza, orfana di un bene possibile, orfana di testimoni, di maestri, di padri e di madri che sappiano testimoniare che la vita è prima di tutto un bene grande, da portare magari con fatica e con sacrificio, ma è un bene grande. A me sembra che il punto più debole di questi ragazzi sia prima di tutto questo: non sentono se stessi come un bene. Ho molti rapporti con psichiatri e psicologi che curano ragazzi e mi confermano proprio questo: mi confermano che questa generazione è come se avesse da farsi perdonare qualcosa, si sentisse colpevole di qualcosa, e perciò si fa del male. Le statistiche italiane dicono che nel mondo della scuola i fenomeni di bulimia, anoressia, oppure gli emo – i ragazzi e le ragazze che si tagliano, si fanno male – stanno aumentando in modo clamoroso.
    Che cosa sta succedendo, perché si arriva a questo punto? Gli psichiatri dicono, confermando l’osservazione che sto facendo, che è una generazione che si fa del male perché non si accetta, si punisce di un’oscura colpa, che secondo me è questo oscuro sentimento della colpa di essere al mondo. È una generazione di ragazzi che non si sente voluta bene. Allora mi sembra che il nostro primo grande dovere, il nostro primo grande compito è quello di esercitare una responsabilità educativa come perdono, come misericordia. A me pare che tutto il problema del cristianesimo si risolva in questo.
    Potremmo dire la stessa cosa da un altro punto di vista: in che cosa consiste in sostanza l’educazione? L’educazione è quell’azione che l’uomo compie, perfettamente coincidente con il cristianesimo. Che cosa ha fatto Dio quando ha visto la povertà e l’infelicità degli uomini? Ha fatto una cosa semplicissima: li ha amati. Amati – l’ho imparato fin da quando ero piccolo – vuol dire che ha dato la vita per noi prima che diventassimo buoni. In questo sta l’amore: che Dio ci ha amati per primo mentre eravamo ancora peccatori. Quando è sceso sulla terra, è sceso per annunciare questo: che c’è un Padre che ha la forza di amarci e di dare la vita per noi mentre siamo ancora peccatori. A questi ragazzi manca esattamente questo sentimento di sé: non si sentono mai perdonati, non si sentono mai veramente voluti bene. Si sentono dire, da quando sono bambini: “Io potrei volerti bene, se tu…”. Se tu cambiassi in questo, se tu cambiassi in quest’altro... Non sono mai andati bene né alla mamma né al papà, né alla suora dell’asilo, né al prete né al professore. C’è sempre da cambiare qualcosa. Invece l’educazione, a me pare, comincia esattamente su questo punto: quando un adulto ha la forza di guardare un ragazzo – faccia quello che faccia, si trovi dove si trovi – e di dirgli: “Io darei la vita per te adesso”. Se io sono diventato grande, se in qualche modo la letizia ha sempre caratterizzato la mia vita e quella dei miei fratelli, che sono ancora più allegri e straordinari di me, è perché quando nostro padre ci guardava non ci diceva: “io potrei volerti bene se tu fossi più buono, io potrei volerti bene se tu cambiassi”. Io ho sempre sentito nello sguardo di mio padre questa incredibile affermazione: “Io darei la vita per te adesso”.
    Dar la vita per gli altri, lo possono dire tutti; il cristiano è l’unico che può dire quell’“adesso”, perché lo ha ricevuto. Il cristianesimo è la grande scoperta che Dio si fa compagno della vita con noi prima di chiederci di cambiare. Potrebbe sembrare un’ovvietà, ma per me questa è una rivoluzione di tutti i giorni: perché sentirsi guardati così è il segreto della positività della vita, è quel che fa sentire sé come un bene e la realtà come ultimamente positiva. In questo abbraccio, in questo sguardo per cui uno darebbe la vita per te, tu hai il coraggio e la forza di diventare grande. A me sembra che parliamo spesso male dei giovani, ma sbagliamo, perché secondo me la generazione peggiore che l’Europa ha avuto è la mia. Non so se i miei coetanei saranno d’accordo, ma siamo veramente una generazione povera, perché abbiamo provato una disillusione così forte rispetto agli ideali che abbiamo vissuto da giovani che ci è rimasta una sorta di cinismo, di debolezza di fronte alla vita, che abbiamo trasmesso ai nostri figli e ai nostri alunni.
    A me i ragazzi di oggi piacciono un sacco. E mi piacciono perché sono di una lealtà, di una purezza, di una limpidezza che noi non abbiamo conosciuto. Certo, sono come tanti Zaccheo e tante Maddalene, questo sì, ma è proprio questo che li rende amabili. Il problema è se trovano degli adulti che non abbiano paura e “schifo” di quel che sono. Un ragazzo che ho ospitato per alcuni anni, con grossi problemi, una volta mi disse proprio questo: “Franco, io ho bisogno solo di questo: di un posto che non abbia schifo e non abbia paura di quello che sono, cioè di un posto che mi perdoni”. Mi sembra quindi che tutto quello che la Chiesa, che la comunità cristiana, noi perciò, possiamo portare al mondo d’oggi, è questa parola di certezza, di bene: io non ho paura e non ho schifo di quello che sei, perché Dio non ha avuto paura e non ha avuto schifo di quello che sono io. Se Dio ha preso me, può prendere tutti. Il problema è che spesso, mi sembra, o perlomeno per lunghi periodi, è come se questi ragazzi li avessimo guardati male; insomma come se Gesù, passando sotto l’albero dove c’è Zaccheo, avesse detto: “Oh, Zaccheo, fai proprio schifo! Ma non ti vergogni?!?” e avesse tirato diritto, per stare con quelli giusti, con quelli bravi. E invece il cristianesimo ha portato nella storia questa cosa che prima non c’era: che Dio fosse misericordia, gli antichi non lo potevano sapere; che Dio fosse questo amore, questo sguardo, non lo potevano sapere. E invece Gesù è venuto per questo, per guardare Zaccheo e dirgli semplicemente: “Zaccheo, io verrei volentieri a casa tua. Verrei volentieri, e non perché ti devo salvare, ma perché ho bisogno io di abbracciarti, ho bisogno io di volerti bene”. Entrare in classe e non avere il problema di cambiare i ragazzi che hai davanti, ma avere il problema di amarli, di affermare che sono un bene per te: questo è il cristianesimo. Tirar su dei figli e non avere il problema di “portarli” da qualche parte ma amarli per quello che sono,5 questo è il cristianesimo. In questo senso vi dicevo che mi sembra che la parola educazione e la parola misericordia siano sinonimi. Io sono diventato grande così e quello che mi è accaduto nella vita, da insegnante, da padre, mi ha semplicemente confermato in questo.
    Faccio qualche esempio, così forse riesco a spiegarmi meglio. Anch’io ho passato le mie tribolazioni, cioè il figlio che si fa le canne, che beve, il figlio che si fa la cresta rossa come l’ultimo dei Mohicani e che aveva chiuso i rapporti con me e mia moglie – la cosa è durata un anno e mezzo, ci ha fatto soffrire molto. Però riuscire per come si può ad amare e perdonare, invece di fargli sentire il giudizio “Tu stai sbagliando, cioè tu sei sbagliato”, ha portato a un episodio meraviglioso che voglio raccontarvi. Una volta ero un po’ disperato, non sapevamo più cosa fare, ci sembrava che questo figlio, dei quattro, fosse andato perso, proprio la pecorella smarrita. Allora gli ho detto: “Guarda, devo andare a Roma, se vuoi ti do il permesso di fare cinque giorni di assenza da scuola; scegliti quattro amici e andiamo a Roma, voi andate in giro a veder le cose e poi ci ritroviamo la sera”. Era un modo per dirgli: “Io ci sono”, non potevo far altro che questo. Ricorderò per tutta la vita che siamo stati insieme cinque giorni e lui ha continuato a non parlarmi; poi l’ultima sera, mentre stavamo passeggiando sul Lungotevere, ho visto che faceva in modo di restare solo con me, lasciando andare avanti gli amici, finché, a testa bassa, camminando, mi dice: “Papà, posso chiederti una cosa?” e io: “Certo, dimmi”.
    Silenzio per un minuto e poi mi ha chiesto: “Nella vita, si può ricominciare?”. Io non ho pianto solo per conservare un minimo di dignità, ma avevo gli occhi gonfi di commozione. Tutto il problema che abbiamo nella vita è questo: si può ricominciare? E hai bisogno di qualcuno che ti dica: “Certo, sempre”. Gli ho detto: “Guarda, sempre. Sempre nella vita si può ricominciare”.
    Il cristianesimo è esattamente questa possibilità di ricominciare, cioè di essere perdonati e perciò di perdonarsi e di perdonare. Proprio perché io ho goduto e godo oggi di questo sguardo pieno di misericordia, per me stare coi giovani è sempre stato cercare di portare questo sguardo, che afferma il valore prima di ogni pretesa o di ogni anche giustificata, comprensibile volontà di cambiamento.
    Evidentemente so bene quali sono gli atteggiamenti giusti e quelli sbagliati, non sto dicendo che tutto va bene e che tutto è uguale; dico solo che nella mia esperienza ho visto che per essere buoni bisogna essere felici. Allora la prima cosa di cui abbiamo bisogno è di essere perdonati, perché in un abbraccio, in uno sguardo pieno di perdono si trova l’energia anche per cambiare, anche per diventare migliori. Ma la vita non può essere una “performance”, una serie di valori o di coerenze da vivere. Faccio un altro esempio che mi ha insegnato molto. Una volta uno dei miei figli mi dice: “Papà, sei un disgraziato, perché vai in giro per l’Italia a spiegare letteratura a tutti e a me non hai mai spiegato niente” (e aveva ragione…). Allora gli chiedo: “Ma perché, che problema hai?”. “Lunedì mattina mi interrogano su Dante e tu non mi hai mai spiegato la Divina Commedia”. Gli ho detto: “Va bene, domani sera è domenica, sto a casa apposta e ti preparo; studiamo insieme Dante”. Quella sera c’era lui, un fratello e due loro amici vicini di casa, e gli ho spiegato qualcosa della Divina Commedia. Sono rimasti così colpiti che proprio questo mio figlio mi dice: “Papà, perché non andiamo avanti domenica prossima? È interessante questa storia!”. E così, per farla breve, di domenica in domenica, tutte le domeniche sere, ci trovavamo a leggere Dante e poi anche altre cose. E man mano che passavano le domeniche il gruppo aumentava. Abbiamo cambiato più case, alla ricerca di taverne sempre più capienti, poi siamo finiti in una scuola; ad aprile li ho contati, erano duecentottantaquattro. Duecentottantaquattro ragazzi che, invece di farsi le canne, per un passaparola – nessuno aveva avvisato, non era stato detto in parrocchia, non era stato detto a scuola, chi portava la fidanzata, chi portava i compagni di classe, chi portava gli amici dell’oratorio – si trovavano la domenica sera per leggere Dante. Io lì per la prima volta ho detto: il primo che parla male dei giovani d’oggi deve passare sul mio corpo, è ora di finirla.
    Perché se hai trecento giovani che fanno questo, significa che hanno l’anima così satura dello schifo in cui si trovano che appena avvertono un po’ di bellezza, un po’ di verità, un po’ di bene, sono disposti a sacrifici enormi: non vedono l’ora di poter vivere bene, di poter vivere per cose grandi. Sono loro i primi a essere stanchi della bassezza e della miseria in cui si trovano.
    E non è finita. Io, che non avevo mai neanche lontanamente pensato di andare in giro a leggere Dante – facevo l’insegnante come tutti i miei colleghi –, ho cominciato a essere chiamato in giro. In alcune città, in alcuni paesi mi sono ritrovato, per un passaparola, due-tremila giovani ad ascoltare Dante. Dante, che proprio la scuola italiana da cinquant’anni aveva rinnegato e sepolto dichiarandolo incomprensibile, non adeguato ai tempi, difficile da capire e interpretare; e invece il problema è molto più semplice, il problema è che è un cristiano, un cristiano di una forza, di una limpidezza, di una chiarezza, di una capacità di sfida, che lo può capire solo chi questa sfida la raccoglie. Io semplicemente ho raccolto la sfida e la riporto in classe.
    Il problema siamo noi adulti. Con quale entusiasmo gli raccontiamo di noi e della grandezza della vita cristiana? E della bellezza della vita, quella vera, e cioè l’amicizia, il lavoro, lo studio, le poesie, la natura, la conoscenza, l’affetto, la dedizione agli altri? Di quanto è grande la vita? Bene, abbiamo di fronte una generazione di giovani che non vede l’ora di incontrare questa bellezza. Possiamo vincere – anzi, grazie a Dio abbiamo già vinto, perché Portae inferi non praevalebunt, quindi affidiamoci al buon Dio –, diamoci dentro a vivere bene noi. Ma noi nella vita abbiamo la forza di quell’uomo che racconta di se stesso la “selva oscura”, il bisogno; il miserere, l’andar dietro a un maestro; l’andare a conoscere tutto il proprio male, che è l’inferno; provare un percorso per cui questo male possa essere perdonato, che è il purgatorio; e avere perciò accesso a una vita che è un pezzo di paradiso su questa terra? Abbiamo la forza di seguire una testimonianza, una sfida così? Io porto questo ai ragazzi; non ho il problema di farli diventare niente, non ho neanche il problema di farli diventar cristiani. Non vorrei sembrasse un’eresia, provo a spiegarmi. Anche con i miei figli non ho avuto il problema di renderli cristiani, perché avevo davanti il mio papà. Io dico spesso che ringrazierò il mio papà per7 sempre perché ha fatto una cosa grandiosa: si è occupato della sua santità, non della mia. Era un uomo così grande, così interessante, che non mi chiedeva di andare con lui; era come se mi guardasse con la coda dell’occhio e mi dicesse: “Franco, io vado, io corro nella vita. Vedi un po’ tu. Paragona quello che ti faccio vedere, quello di cui ti do testimonianza, con quel che vedi intorno. Se trovi di meglio, decidi tu. Ma io nella vita corro”. Lui non l’ha mai detto, lo dico io pensando a lui. Era un uomo che avrebbe potuto avere scritto in fronte: “Corro nella vita per afferrarlo, io che sono stato afferrato da Cristo”. Ti guardava e aveva questa cosa scritta in fronte, aveva questa cosa che gli brillava negli occhi. E tu non ti sentivi pressato, non avevi l’ansia di dover diventare qualcosa d’altro che così spesso hanno addosso i ragazzi oggi. Mio papà non mi chiedeva di diventare qualcosa d’altro, mi chiedeva di esser me stesso, di lavorare su di me per accedere a quella verità, a quel bene, a quella bellezza, cioè a quella letizia che gli vedevo vivere.
    In quarant’anni di insegnamento io ho solo cercato di essere così, di rilanciare questa sfida nelle classi, nelle strade, dovunque ho avuto occasione di incontrare dei giovani. E ho fatto questa scoperta: non vedevano l’ora. Sono tutti veramente come Zaccheo che è sceso di corsa dall’albero perché Gesù è passato e gli ha detto: “Io verrei volentieri da te”. Bisogna guardare questi ragazzi, questi nostri figli, e dir loro semplicemente: “Io sto volentieri con te. Non ho bisogno che cambi”. Sarà la loro libertà, nel tempo, che farà dir loro: “Ma chi è così grande da rendere capace di misericordia questo insegnante, questo educatore, questo prete?”. Insomma, se vale quel che dico di mio papà, mi sembra che tutta la pastorale giovanile si risolva oggi in un atto di realismo e di umiltà. Oggi, nella confusione radicale, nella debolezza anche psicologica di questa generazione fragile, tutta la pastorale giovanile si risolve in un sostegno vicendevole che aiuti a camminare noi per primi. Non è più tempo, mi sembra, di limitarsi a forme o modelli. Certo, poi le forme bisogna pur rischiarle; i tentativi che vi ho sentito descrivere in questi due giorni mi hanno dato degli spunti straordinari. Ma in questi convegni mi pare valga la pena trovarsi non per elaborare strategie, ma per raccontare la vita, la grandezza della vita, e perciò per aiutarci a sentire il compito supremo di fronte al mondo che è la nostra santità; e per fare in modo che poi quel che di santità, di amicizia, di comunione, di fraternità ci è concesso di vivere, dilaghi e possa essere speso dove ciascuno di noi vive, per le responsabilità che ciascuno di noi ha. C’è bisogno di santi, di maestri; ma di maestri che valga la pena seguire, non di maestri che sanno la verità e ti fanno sentire sempre un po’ scemo e un po’ peccatore, a seconda del grado di moralismo dell’educatore. C’è bisogno di gente che ti guardi e ti dica: “Per me vai bene così. Io spendo la vita per te, io ti faccio compagnia nella vita”, perché la vita è questa cosa grande che merita di essere vissuta fino in fondo, portando anche il peso di tutto il proprio male e della propria debolezza. Il cuore dei giovani, diceva Benedetto XVI, è infallibile, perché il loro cuore lo fa Dio. Dobbiamo essere fiduciosi di questo e fiduciosi del fatto che la realtà è la cosa meravigliosa che Dio ha fatto perché il cuore 8 dell’uomo ne fosse attratto. Basta, sfidiamo noi per primi i nostri figli, i nostri giovani, a paragonarsi con un’esperienza di bene così, un’esperienza di bene che il mondo degli adulti deve mostrare.
    Racconto ancora un paio di episodi che mi hanno veramente confermato in questa volontà di bene, perché mi sembra pongano domande interessanti dal punto di vista pastorale, dal punto di vista delle responsabilità della Chiesa. Dunque, mi trovo all’università di Kharkov, in Ucraina, dove un amico professore mi ha chiamato a presentare un mio libretto sull’educazione intitolato “Di padre in figlio”, che è stato tradotto in russo. Dopo, questo professore mi dice: “Già che sei qui, ci sono 4 o 5 miei studenti, spiega loro qualcosa di Dante”. Entrando in università, questo professore mi presenta un suo alunno di 24 anni, alto un metro, ammalato di una forma di nanismo molto grave, che mi racconta la sua storia. “Io sono orfano, alla nascita sono stato messo in un internato per bambini con problemi di crescita, e lì ho visto l’inferno. Dopodiché ho avuto il colpo di fortuna della mia vita”. E io: “Quale sarebbe il colpo di fortuna?”. “Sono diventato cieco”. Io gli dico: “Ma scusa, cosa stai dicendo? Già eri abbastanza sfortunato, sei pure diventato cieco, e lo chiami un colpo di fortuna?”. E lui serissimo mi dice: “Sì, perché dall’internato per bambini con problemi di crescita mi hanno spostato a un internato per ciechi.
    E lì io sono nato alla bellezza – ha usato quest’espressione – perché tutti suonavano uno strumento musicale, si facevano bande, concerti, dovunque andavi sentivi musica. Lì io sono nato alla bellezza”. Insomma, entriamo e faccio la mia conversazione su Dante. Mi soffermo in particolare sulla questione delle stelle. Come tutti sanno, tutte e tre le cantiche della Divina Commedia finiscono con la parola “stelle”: “Uscimmo fuori a riveder le stelle” è l’ultimo verso dell’Inferno, “Puro e disposto a salire alle stelle” è l’ultimo verso del Purgatorio, “L’amor che move il sole e l’altre stelle” è l’ultimo verso del Paradiso. E “stelle” in latino si dice sidera, da cui viene anche “desiderio”, de-sidera. Per cui – spiego – Dante è proprio il poeta del desiderio, del cuore dell’uomo che disidera le stelle, cioè il tutto, l’infinito…. Usciamo, rivedo il ragazzo e gli chiedo: “Oleg, com’è andata?” e lui era contentissimo, commosso. Allora gli chiedo: “Posso fare qualcosa per te?”. Era un modo educato per accomiatarmi, solo che mi è scappata la parola “desiderio”, gli ho chiesto: “Desideri qualcosa?”. Si è fatto serissimo e mi ha detto: “Sì, vorrei poter rivedere le stelle”. Adesso sto facendo di tutto per portarlo in Italia; siccome Oleg è operabile, sto facendo di tutto per portarlo in Italia: deve essere operato e deve vedere le stelle. È una missione che mi sono dato. E quando mi capitano queste cose, mi dico: pensa, in Ucraina, dopo tutto quello che hanno passato, tu gli vai a parlare delle stelle, del cuore dell’uomo e del suo desiderio di bene, e l’uomo viene fuori! In Kazakistan, a Karaganda, a giugno ho presentato lo stesso libro e a un certo punto mi sono venuti in mente Leopardi – non so se i non italiani lo conoscono, in Italia è un poeta importantissimo – e il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, una delle sue poesie più famose. Ho pensato: “Eccoli qui, sono proprio loro, questi sono i figli dei pastori erranti 9 kirghizi di cui parla Leopardi!”. Allora ho letto loro la poesia di questo pastore che parlando con la luna si chiede quale sia il destino dell’uomo, dove sia il bene, dove sia la bellezza, perché speriamo così tanto e poi c’è la morte, insomma le questioni fondamentali. Vi giuro che è stata un’esperienza straordinaria. Alla fine una delle insegnanti che mi ascoltava – velata, quindi credo di religione musulmana – si è alzata, è scoppiata a piangere e ha detto: “Volevo dire solo una cosa: io sono quel pastore!”.
    Quando io penso all’educazione, penso a luoghi, a case, a famiglie, a parrocchie, a chiese, a movimenti, dove si respiri questa grandezza, si respiri questa avventura invincibile che è il cuore dell’uomo chiamato da Dio a una grandezza sconosciuta. Poter dire ai nostri ragazzi: “Siete fatti per cose grandi, avete ragione! La nostalgia che vivete, la malinconia che a volte vi prende – che poi è il motivo per cui così spesso vi fate le canne, bevete, fate sesso in modo selvaggio – è perché desiderate un bene grande. Guardate che esiste, guardate che è possibile! È possibile perdonarsi, è possibile camminare nella vita. Perché la realtà è grande!”. Mi fa impressione l’idea che Dio abbia fatto le cose e poi le abbia guardate e abbia detto: “No, non va bene. Il cielo stellato così è inutile; bisogna che ci metta dentro qualcosa d’altro, qualcosa capace di stupirsi quando vede il cielo stellato”. E ha fatto l’uomo per questo, perché voleva qualcuno che guardando il cielo stellato dicesse: “Ma che roba, ma che bellezza! Ma chi ha fatto tutto questo bene? Chi è così grande da aver pensato questo per me?” e perciò lo desiderasse e guardando il cielo stellato gli venisse nostalgia di Dio. La realtà Dio continua a farla per questo, ed è fedelissimo, per cui il sole incredibilmente si alza ogni mattina, e Dio ci chiama a riconoscerlo e desiderarlo in tutta questa bellezza. E non solo: non contento di questo, ha deciso addirittura di abitare la realtà. Non solo ha deciso di farla così grande e bella da essere segno di lui e perciò capace di attirarci verso di lui, ma l’ha addirittura abitata. Il Verbo si è fatto carne. Dio, quello che ha fatto tutte le cose, si è fatto compagno di strada, abbracciabile. Amico. Nella forma, nella carne di un uomo, di un me, della Chiesa, con tutti i dettagli in cui questo ci raggiunge concretamente nella nostra esperienza. E perciò una donna, e dei figli, e degli amici, e dei maestri, e dei preti, e nel sacramento. Ma bisognerà che qualcuno lo viva, questo, e lo gridi di nuovo al mondo! Finisco leggendovi una cosa che ha trovato un mio figlio. Ma prima consentitemi un’ultima parentesi. I miei primi due figli sono laureati in lettere e insegnano italiano, perché la cosa incredibile è che quei ragazzi con cui mi trovavo la domenica sera fondarono un’associazione che si chiamava “Cento Canti”: hanno iscritto cento ragazzi, a ciascuno di loro è stato assegnato un canto della Divina Commedia da sapere a memoria, con l’idea che se un giorno avessero bruciato tutte le Divine Commedie, noi saremmo stati la Divina Commedia vivente.
    Poi l’associazione è stata sciolta, perché i ragazzi sono diventati grandi e non si riusciva più a starle dietro; ma io dico che questa associazione non è mai morta: infatti la metà di quei ragazzi è diventata insegnante e oggi sono adulti, padri di famiglia, a volte consacrati, che nelle scuole leggono Dante così. Hanno raccolto la sfida e la portano dove si trovano a lavorare, a insegnare. Questo per dire che un seme così piccolo come fu quella lettura di Dante quella sera, ha portato un bene grande. Un bene non quantificabile, perché non è un’associazione, una struttura; ma quanto bene stanno facendo questi ragazzi che furono dei Cento Canti e che oggi sono insegnanti! E due di questi sono miei figli.
    E recentemente uno di loro mi ha mandato un testo meraviglioso che dice così: “L’educazione dei figli è impresa per adulti disposti ad una dedizione che dimentica se stessa: ne sono capaci marito e moglie che si amano abbastanza da non mendicare altrove l’affetto necessario”.
    Questa osservazione da sola meriterebbe una conferenza: adulti che si amano abbastanza – vale anche per il prete, per l’operatore pastorale – da non dover mendicare altrove – cioè nei ragazzi, nel successo della loro opera – l’affetto di cui hanno bisogno. Si chiama libertà. La libertà è quella cosa che vivi quando stai con l’altro e non hai bisogno di gratitudine, non hai bisogno che ti corrisponda. Il centro affettivo della tua vita, cioè Cristo presente, negli amici adulti che hai, nella vocazione che hai – prete o sposato – è così certo e solido, poggia in modo così sicuro sulla presenza di Cristo, che non hai bisogno d’altro. E allora perdoni e lasci correre, lasci fare il suo tentativo fino in fondo al ragazzo che sta provando a diventar grande, non hai paura che sbagli, non hai paura che si faccia del male. Sei sicuro del bene che lo guida nella vita, e perciò gli permetti di diventar grande. Infatti il testo prosegue: “Il bene dei vostri figli sarà quello che sceglieranno: non sognate per loro i vostri desideri. Non pretendete di disegnare il loro futuro; siate fieri piuttosto che vadano incontro al domani con slancio anche quando sembrerà che si dimentichino di voi” – la grandezza dell’educatore che scompare, che non ha bisogno di gratificazione. “Non incoraggiate ingenue fantasie di grandezza, ma se Dio li chiama a qualcosa di bello e di grande, non siate voi la zavorra che impedisce di volare”. Che equilibrio, che saggezza! “Non arrogatevi il diritto di prendere decisioni al loro posto, ma aiutateli a capire che decidere bisogna, e non si spaventino se ciò che amano richiede fatica e fa qualche volta soffrire” – uno dei grandi equivoci dell’educazione oggi, soprattutto l’equivoco che vivono i genitori: voler bene ai ragazzi sembra significare evitar loro la sofferenza, il dolore e la fatica. Dopo ci si stupisce e ci si scandalizza quando a diciott’anni devi dirgli: “Guarda che nella vita si fa fatica” e quello ti guarda e ti risponde: “Ma come, per diciott’anni mi hai impedito e evitato ogni fatica e adesso hai cambiato idea?”. Abbiamo mentito per diciott’anni, perché la vita è sofferenza, la vita è fatica, e c’è un tempo in cui questo può essere insegnato, intendo proprio ai bambini piccoli. “Non si spaventino se ciò che amano richiede fatica e fa qualche volta soffrire: è insopportabile una vita vissuta per niente”. È di questo che loro ci danno testimonianza: è insopportabile una vita vissuta per niente. “Più dei vostri consigli li aiuterà la stima che hanno di voi e la stima che voi avete di loro” – quel voler bene, quella misericordia di cui ho parlato prima. “Più di mille raccomandazioni soffocanti, saranno aiutati dai gesti che videro in casa: gli affetti semplici, certi ed espressi con pudore, la stima vicendevole, il senso della misura, il dominio delle passioni, il gusto per le cose belle e l’arte, la forza anche di sorridere”. Questa testimonianza vale più di mille raccomandazioni soffocanti.
    “E tutti i discorsi sulla carità non mi insegneranno di più del gesto di mia madre che fa posto in casa per un vagabondo affamato: e non trovo gesto migliore per dire la fierezza di essere uomo di quando mio padre si fece avanti a prendere le difese di un uomo ingiustamente accusato. I vostri figli abitino la vostra casa con quel sano trovarsi bene che ti mette a tuo agio”. Come mi disse una volta un ragazzo, com’è bella una casa dove si sta così bene che si può anche star male! Io cerco di insegnarla questa cosa a quelle mamme, che se il figlio ha un’ombra, una ruga appena accennata, cominciano ad agitarsi: “Cosa succede? Cosa c’è che non va?”. Un incubo! Dicevo: “quel trovarsi bene che ti mette a tuo agio e ti incoraggia anche ad uscire di casa” – lo scopo di educare dei figli è perderli, cioè che partano, che vadano – “perché ti mette dentro la fiducia in Dio e il gusto di vivere bene”. Questo lo diceva Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano, IV secolo dopo Cristo [2]. Questo è il cristianesimo. Cristo ha portato nella storia questa possibilità educativa, questa misericordia.
    Io non so dirvi altro che questo.

    * Rettore del Centro scolastico “La Traccia”

    NOTE

    1 Il riferimento è alla lettera del Santo Padre Benedetto XVI alla Diocesi e alla Città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008.
    1 Sette dialoghi con Ambrogio, Vescovo di Milano (Centro Ambrosiano, 1996).


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