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    La prima generazione

    incredula

    Armando Matteo

    Il titolo del mio saggio La prima generazione incredula –­ che è anche al centro di questo intervento – è un tentativo di prendere atto e di ragionare sul dato che oggi, anche in Italia, facciamo fatica a proporre in modo convincente la fede cattolica alle generazioni più giovani. Che cioè facciamo fatica a creare quelle condizioni che rendono possibile ai giovani e alle giovani di scoprire e vivere quella verità che il papa emerito Benedetto XVI ha espresso in modo preciso circa il cristianesimo: «All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1).
    La mia riflessione parte dalla mia esperienza con gli universitari, lungo gli anni 2005-2011. E vorrei prendere spunto proprio da quel servizio. La cosa che più mi colpì all'inizio fu la registrazione di una scarsa familiarità, nei giovani e nelle giovani che ebbi modo di incontrare, con l'immaginario biblico. Anni e anni di parrocchia, oratorio, prediche, catechesi, ora di religione, e poi una memoria biblica davvero scarsa (cfr. Beati i miti).
    Da qui e da episodi del genere (ricordo per esempio la facilità con cui la domenica molti giovani non andavano a messa) è partita l'analisi che mi ha condotto all'idea della prima generazione incredula, di cui vado a parlarvi.
    La mia relazione si snoda in tre punti:
    - il primo espone i dati delle più recenti indagini sul rapporto giovani e fede cristiana;
    - il secondo prova a darne un'interpretazione complessiva, cercando di capire dove si annida la crisi di trasmissione della fede che ci investe;
    - il terzo metterà in evidenza alcuni vissuti particolarmente significativi dei giovani d'oggi, dai quali si dovrebbe a mio avviso ripartire per proporre la fede cattolica nella sua freschezza e nella sua gioia.
    Mi si permetta ancora una duplice premessa di metodo:
    - da una parte, sono ben consapevole che è sempre difficile leggere il presente. Sono perciò anche consapevole dell'esistenza di altre letture circa il rapporto tra giovani e fede, molto distanti da quella che io offro;
    - dall'altra parte, pur non essendo totalmente indifferente alle altre prospettive di analisi, presenterò con convinzione la mia lettura della situazione. Eviterò troppe sfumature, allo scopo di una maggiore qualità dell'esposizione e di avviare un dibattito.
    Almeno questa è la mia speranza, e per non smentire quanto detto vi segnalo sin dall'inizio le mie due tesi principali:
    - Prima generazione incredula significa che i giovani e le giovani, nati dopo il 1981, vivono la loro presenza al mondo, la costruzione della loro identità e la loro progettualità di vita senza un significativo riferimento al Vangelo, al Dio di Gesù e alla Chiesa;
    - il punto d'appoggio per la spiegazione di questa situazione è offerto dalla condizione degli adulti attuali, più precisamente da ciò che è possibile definire il loro sentimento di vita. Per "adulti" intendo coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964. Il loro sentimento di vita può essere restituito nel seguente modo: essi amano più la giovinezza che i giovani. Stanno così liquidando il concetto di adultità e censurando quegli snodi esistenziali (crescere, ammalarsi, invecchiare, morire, fedeltà, coerenza, ecc.) sui quali si poggia la trasmissione della fede.

    1. Uno scenario in rapido mutamento

    Iniziamo dall'ascolto dei dati delle più recenti indagini sul rapporto tra giovani e fede cristiana.
    La prima ricerca che ci aiuta a perlustrare tale rapporto è stata realizzata dalla rivista Il Regno nel mese di maggio 2009 ed è stata resa nota nello stesso mese dell'anno successivo. L'indagine ha di mira l'intero della popolazione italiana e tra le cose più rilevanti ha fatto emergere un vero e proprio salto generazionale in relazione alla pratica di fede. I suoi due curatori, Paolo Segatti, dell'Università degli Studi di Milano, e Gianfranco Brunelli, direttore del Regno, evidenziano che con la generazione nata negli anni Ottanta sembra di osservare un altro mondo rispetto alle generazioni precedenti. Più in particolare ecco alcune loro osservazioni specifiche:
    «La tendenza comune a ogni aspetto dell’identità religiosa è che i giovani, in particolare quelli nati dopo il 1981, sono tra gli italiani quelli più estranei a un’esperienza religiosa. Vanno decisamente meno in Chiesa, credono di meno in Dio, pregano di meno, hanno meno fiducia nella Chiesa, si definiscono meno come cattolici e ritengono che essere italiani non equivalga a essere cattolici [...]. Lo scarto tra la generazione del 1981 [...] e la precedente nella propria adesione alla religione, segnatamente alla confessione cattolica e al modello che essa ha realizzato nel tempo nel nostro paese, è così forte da non consentire di rubricarlo in una sorta di dimensione piana, in un processo dolce e lineare di secolarizzazione. Accanto allo scarto generazionale va poi richiamata la riduzione sostanziale della differenza di genere. Non vi sono differenze sostanziali tra gli uomini e le donne»[1].
    La seconda ricerca da tenere presente è stata condotta, nel marzo del 2010, dall'Istituto Iard, su commissione della Diocesi di Novara all'interno del progetto “Passio 2010”. La ricerca, che porta il seguente titolo: I giovani di fronte al futuro, con o senza fede, ha interessato 1000 giovani tra i 18 e i 29 anni, e si è proposta di aggiornare i dati di una precedente simile indagine realizzata, sempre dall'istituto Iard, nel 2004 e pubblicata nel 2006 con il titolo Giovani, religione e vita quotidiana[2].
    Sulle pagine della rivista Insegnare religione, il curatore dell'indagine, il sociologo Riccardo Grassi, ha esposto i risultati più rilevanti. Ecco il primo:
    «Il dato più significativo che emerge dallo studio è la forte riduzione della capacità della religione cattolica di agire come elemento di identificazione tra i giovani: infatti, tra gli intervistati solo il 53% si definisce "cristiano cattolico" a fronte del 67% registrato sei anni prima. Se è vero che l'autodefinizione di sé come cristiano non è sufficiente ad indicare che la religione rappresenta un aspetto significativo della propria vita, è importante osservare come in questo momento storico solo un giovane su due veda nel cristianesimo un riferimento per la propria identità»[3].
    In termini assoluti stiamo parlando di più di un milione di giovani italiani che nel giro di pochi anni ha deciso di cancellare dalla carta di identità della propria anima la parola "cattolico". Un altro dato interessante è il seguente:
    «Rispetto alle pratiche religiose tradizionali va rilevato che diminuisce leggermente [rispetto ai dati 2004] anche la quota di intervistati che dichiarano di aver partecipato alle messe di Pasqua (26%) e Natale (47%), mentre aumenta la quota di chi ha partecipato a pellegrinaggi (12%) o processioni (29%)»[4].
    Grassi, più generale, così riassume la situazione:
    «Se il sentimento di appartenenza alla religione cattolica è sempre più debole, ciò non significa che, in generale, sia spento il sentimento religioso. Ne è cambiata però una dimensione costitutiva. Per i giovani intervistati la fede è soprattutto uno strumento di sostegno psicologico e che dà speranza e significato alle azioni in una dinamica marcatamente individualista, ma non è un accompagnamento quotidiano alle scelte. [...] La religiosità tra i giovani rimane come un "rumore di fondo" sempre più indistinto, di cui si riconosce la presenza e, spesso, l'importanza (che emerge in particolari situazioni a forte impatto emotivo), ma che non rappresenta di per sé, nella maggior parte dei casi, un riferimento costante all'interno del processo di identità»[5].
    La religione resta, quindi, nell'ambito di una più generale aspirazione alla spiritualità, ma perde la forza di elemento di costruzione dell'identità personale.
    Una terza importante ricerca va ora richiamata: quella realizzata dall'Osservatorio Socio-Religioso Triveneto su un campione di giovani della Diocesi di Vicenza e pubblicata nel volume C'è campo?[6]. Tra le molteplici acquisizioni di quest'ampia indagine ritengo vadano messe in evidenza le seguenti:
    - la progressiva individualizzazione dei percorsi di definizione dell’identità del soggetto moderno che tocca anche la questione della fede e quindi il passaggio da un cristianesimo sociologico a un cristianesimo di scelta, che proprio nelle nuove generazioni trova la sua più ampia illustrazione;
    - la presenza nell’immaginario diffuso dei giovani di una Chiesa troppo interessata a dettare regole e a fissare paletti, come un’istituzione molto ricca e ancora come una fonte di potere;
    - l’emergere di un atteggiamento etico fondato sul principio del rispetto e dell’interiorizzazione della norma;
    - l’inedito allineamento dei comportamenti delle giovani donne, in termini di disaffezione alla pratica della fede, a quelli dei coetanei maschi;
    - la fatica sempre più esplicita a cogliere il senso e la convenienza del riferimento a Dio nella propria esistenza, nel cammino dall’età giovanile verso la maturità;
    - il diffondersi di una certa semicredenza per quel che riguarda alcuni contenuti del dogma cristiano;
    - l’imporsi di una pluralità di forme della spiritualità, fortemente individuali e soggettive, qualche volta anarchiche;
    - la difficoltà ad appropriarsi della differenza qualitativa del testo del Vangelo rispetto ad altri testi del passato.
    Questi dati, relativi alla diocesi di Vicenza, sono stati ampiamente confermati da un'altra più recente indagine – realizzata sempre dall'Osservatorio Socio-Religioso Triveneto – che ha monitorato l'intera regione ecclesiale del Triveneto, in vista del Convegno Ecclesiale Regionale Aquileia 2. In particolare risulta ampiamente confermato il cosiddetto "salto generazionale", il fatto cioè che le nuove generazioni mostrino un grado di disaffezione rispetto all'universo religioso cattolico particolarmente rilevante, se paragonato con quello delle generazioni più anziane, che potrebbe essere riassunto così: "dopo la cresima, i giovani non frequentano più"[7]. Ed inoltre risulta particolarmente confermato il dato relativo alla crescente disaffezione delle giovani donne e delle donne meno giovani ma altamente scolarizzate[8].
    Castegnaro sottolinea più volte poi che questo allontanamento dalla Chiesa non significhi perdita generale di "desiderio di spiritualità", che invece resta confermato.
    Riporto ancora le osservazioni relative al rapporto tra fede e giovani, sviluppate dal testo di F. Garelli, Religione all'italiana. L'anima del paese messa a nudo[9]. Egli scrive:
    «Con l'aumentare dell'età cresce progressivamente la quota di soggetti che credono in Dio in modo certo, mentre per contro man mano che si passa dalle classi più alte a quelle più basse aumenta la tendenza a non credere o a credervi in modo dubbioso e altalenante. In altri termini, l'incertezza del credere è il tratto più diffuso delle giovani generazioni, così come la certezza della fede rimane la condizione prevalente nelle persone in età adulta e soprattutto anziana. Crede in Dio senza aver dubbi 1/3 dei giovani, rispetto a più della metà delle persone mature e la 62% di quanti hanno più di 65 anni. All'inverso, in posizione ateo-agnostica troviamo il 22,4% dei giovani e non più del 9% degli anziani, mentre una fede dubbiosa è più diffusa tra le giovani generazioni che tra quelle dei loro padri e dei loro nonni. Queste differenze tra le generazioni si riproducono in tutta l'area delle credenze e delle convinzioni religiose, segnalando una distanza tra giovani e anziani che in alcuni casi risulta anche di 25-30 punti percentuali. I giovani in particolare sembrano più refrattari ad accettare le credenze religiose relative all'aldilà, o a pensare che "la chiesa sia assistita da Dio", o ancora a ritenere che la religione rende più sereni di fronte alla morte; ma ciò nonostante, la maggior parte di essi continua a credere nel Dio del cristianesimo, riconosce la natura divina di Gesù Cristo, e ammette che la salvezza eterna è a portata di tutti»[10].
    Da ultimo ricordo che l'Istituto Toniolo, in collaborazione con l'Università Cattolica di Milano e l'Ipsos, sta conducendo dal 2011 un'ampia ricerca su giovani. Si tratta di un campione di 9000 intervistati tra i 18 e i 29, da monitorare nell'arco di cinque anni. Tra i temi analizzati vi è anche quello della fede. La rivista Credere, in prossimità della recente GMG, a fine giugno 2013, ha anticipato alcuni risultati: viene confermato che solo un giovane su due si dichiara cattolico e che solo uno su quattro dichiara di partecipare con una certa frequenza ai riti religiosi. In questo quadro generale, però, vi sono ampie differenze a livello regionale, con un Sud che porta più in alto la media. Emerge poi una certa differenza di genere per quel che riguarda l'affermazione della propria identità religiosa (giovani donne più cattoliche), che però rientra per quel che riguarda la pratica dei riti religiosi. Altri dati interessanti sono la minore incisività della famiglia nelle scelte religiose dei giovani e la scarsa fiducia nell'istituzione Chiesa[11].

    2. Crisi di fede dell'universo adulto

    Come portare a sintesi tutto ciò? I dati sopra riportati ci dicono che siamo sostanzialmente di fronte a una radicalizzazione delle difficoltà del rapporto tra la religione cattolica e il mondo giovanile; una radicalizzazione che trova come suoi elementi caratterizzanti:
    - la rapidità del coinvolgimento di quote sempre più ampie di giovani,
    - la sostanziale omogeneità di genere,
    - la pacatezza dei modi del distacco dell'universo ecclesiale.
    Siamo perciò dinanzi a una generazione – quella nata dopo il 1981 – che non si pone contro Dio e contro la Chiesa, ma che sta imparando a vivere – e a vivere pure la propria ricerca spirituale – senza Dio e senza la Chiesa. Nulla ci autorizza a pensare un passaggio da "non cattolico" ad "ateo" o ad "agnostico". Il trend generale è piuttosto quello dell'estraneità (cfr. il film Corpo celeste), carattere che non indica un essere contro, ma un essere senza. Per queste ragioni ritengo non del tutto impertinente l'espressione "prima generazione incredula".
    L'espressione ha non solo il pregio di indicare "il salto generazionale" in riferimento all'universo della fede da parte di coloro (uomini e donne) che sono nati dopo il 1981, ma anche di richiamare l'urgenza di considerare l'universo "giovane" in una prospettiva intergenerazionale: è la prima dopo altre generazioni, che l'hanno preceduta e l'hanno anche in parte plasmata. Non è possibile cogliere fino in fondo le ragioni dell'inedito credere/non credere dei giovani italiani, senza prendere in considerazione le generazioni che hanno preceduto questa prima generazione incredula.
    Come anticipato, la crisi di fede cattolica che qui si annuncia non è da addebitare alla generazione nata dopo il 1981, ma alla generazione degli adulti.
    Si tratta in verità di riconoscere che i dinamismi fondamentali della cinghia di trasmissione della fede, tra le generazioni, si sono inceppati. Ed è questa una verità che la comunità dei credenti fa fatica a cogliere, a causa – scusate l'espressione un po' forte – dell'eccessiva enfasi data al catechismo parrocchiale.
    In verità, il luogo ove ogni bambino può efficacemente imparare la presenza benevola di Dio, e cioè il fatto che Dio abbia qualcosa a che fare con la felicità, con la custodia e la promozione dell’umano, non sono prima di tutto la Chiesa o la lezione del catechismo, quanto piuttosto gli occhi della madre e quelli del padre.
    Le sole parole dei preti e dei catechisti, a primo impatto, non possiedono la medesima forza originaria che gli occhi materni e paterni hanno nel dire Dio, ovvero nel comunicare la verità per la quale noi crediamo al Vangelo per vivere più umanamente.
    Se è dunque vero che gli occhi degli adulti sono la prima ed essenziale mappa del mondo e la prima lezione di teologia: il primo annuncio, è purtroppo altrettanto vero che da quarant’anni a questa parte gli occhi degli adulti – di tanti, forse troppi adulti – non sono più esperienza "della forza della fede nel Dio vivente" (Benedetto XVI).
    Insomma, non possiamo più rinviare oltre l’amara ammissione per la quale oggi di adulti credenti ne sono rimasti pochi in giro. Che di famiglie cristiane ne siano rimaste poche in giro. Nelle famiglie c'è un'altra musica, un altro sentimento di vita, "un'altra religione".
    I giovani di cui i sociologi evidenziano l'estraneità alla fede sono in verità figli di genitori che non hanno dato più spazio alla cura della propria fede cristiana: hanno continuato a chiedere i sacramenti della fede, ma senza fede nei sacramenti, hanno portato i figli in Chiesa, ma non hanno portato la Chiesa ai loro figli, hanno favorito l’ora di religione ma hanno ridotto la religione a una semplice questione di un’ora. Hanno chiesto ai loro piccoli di pregare e di andare a Messa, ma di loro neppure l’ombra, in Chiesa. E soprattutto i piccoli non hanno colto i loro genitori nel gesto della preghiera o nella lettura del vangelo.
    Un dato per tutti: Castegnaro ha registrato il fatto che dalle interviste da lui effettuate con i giovani non emerge alcuna traccia di una preghiera fatta in famiglia[12]. Mi piace pure ricordare quanto in un immaginario processo il giovane scrittore Paolo di Paolo, nel suo libro Dove eravate tutti, chiede al padre, colpevole di aver portato l'Italia ai minimi storici: "Perché mi portavi in Chiesa e tu non venivi a Messa?".
    Inoltre c'è da tenere conto del significativo ampliamento della platea di adulti di riferimento per i nostri ragazzi e i nostri giovani, sin dalla tenera età. Questo è un fatto importante e decisivo per la decifrazione dell'umano da parte dei piccoli (si pensi a quanti docenti, pediatri, dentisti, istruttori incontrano)[13].
    Hanno imposto, questi adulti, una divergenza netta tra le istruzioni per vivere e quelle per credere, una divergenza che, pur non negando direttamente Dio, ha avallato l’idea che la frequentazione della vita in parrocchia e all’oratorio e pure la scuola di religione fosse un semplice passo obbligato per l’ingresso nella società degli adulti e tra gli adulti della società. Più semplicemente: se Dio non è importante per mio padre e per mia madre, non lo può essere per me. Se mio padre e mia madre non pregano, la fede non c’entra con la vita. Se non c’è posto per Dio negli occhi di mio padre e di mia madre, non esiste proprio il problema del posto di Dio nella mia esistenza.
    Si è dunque molto ridotto il catecumenato familiare, cioè quella silenziosa ma efficace opera di testimonianza della famiglia, che la nostra azione pastorale normalmente presuppone, quale prima iniziazione alla fede.
    Colpisce al riguardo l'esortazione del papa emerito Benedetto XVI rivolta ai giovani, nella prefazione al catechismo Youcat: egli ha, infatti, loro raccomandato di «essere più profondamente radicati nella fede della generazione dei [loro] genitori».
    Più sinceramente, è l'ora di dirci tutta la verità: il Dio degli adulti è un Dio estraneo ai giovani. Più precisamente perché il Dio degli adulti è un Dio estraneo alla religione cattolica.
    Qui si apre un capitolo molto delicato che riguarda le ragioni profonde dell'interruzione della cinghia di trasmissione della fede nel nostro Paese. Perché il Dio degli adulti è diventato un Dio estraneo ai giovani e alla religione cattolica?
    Se proviamo ad interrogarci sull'identità della generazione adulta, in particolare quella nata tra il 1946 e il 1964, la prima e principale caratteristica di essa è data dal fatto che, in prospettiva intergenerazionale, è una generazione che ama più la giovinezza che i giovani. Con le parole lucide di Francesco Stoppa si deve dire che «La specificità di questa generazione è che i suoi membri, pur divenuti adulti o già anziani, padri o madri, conservano in se stessi, incorporato, il significante giovane. Giovani come sono stati loro, nessuno potrà più esserlo – questo pensano. E ciò li induce a non cedere nulla al tempo, al corpo che invecchia, a chi è arrivato dopo ed è lui, ora, il giovane»[14].
    La generazione nata tra il 1946 e il 1964 ha compiuto, nei fatti, una vera e propria rivoluzione copernicana tra le età della vita nell’immaginario collettivo. Ed ha riscritto il significante "diventare adulti" in quello di " restare giovane", liquidando la realtà stessa dell'adultità[15].
    Per questo oggi al centro dell’immaginario collettivo vige il desiderio di restare giovane. E non si intende qui la giovinezza dello spirito. No: si intende proprio la giovinezza nella fisicità delle sue caratteristiche, oltre i limiti dei suoi originari e inconfondibili tratti (età, capacità riproduttiva, genuinità dello sguardo sul reale). Solo se riesci a mostrare la giovinezza nel modo di vestire, nella traccia del tuo corpo, nel modo di considerare l’esistenza come possibilità sempre aperta, solo allora hai diritto alla felicità.
    Per dirla in breve: è una generazione che ha fatto della giovinezza il suo bene supremo. Ovviamente comprendo bene che tutto questo può apparire fuori misura, ma che le cose stiano così, ce lo dice pure la vita, la quotidianità.
    Ascoltiamo in primo luogo la lingua che parliamo. La cosa che stupisce molto al nostro tempo è l’ampiezza con cui si utilizza l'aggettivo "giovane". Di persona deceduta con i 70 anni, è facile sentir affermare che "è morta giovane"; a un cinquantenne che aspira a qualche ruolo dirigenziale, nella società o nella Chiesa, è addirittura più comune che gli venga detto di pazientare: "sei ancora molto giovane"; viceversa se si parla di qualche fatto di cronaca che investe ragazzi di scuola media inferiore, i giornali non ci pensano due volte a rubricarlo sotto "disagio giovanile" o "bullismo giovanile"; pure nella comunità ecclesiale con l’espressione "incontro dei giovani" spesso capita di intendere una riunione di preadolescenti e di adolescenti, senza dimenticare infine le più recenti categorie di "giovanissimi", di "giovani adulti" e da ultimo di "adultissimi".
    Tirato troppo verso l’alto o troppo verso il basso, il termine giovane sembra non essere più in grado di indicare quel gruppo specifico di cittadini che hanno un’età compresa tra i 15 e i 34 anni[16]. Più precisamente dalle nostre parti, giovane è diventato un aggettivo ecumenico: non conosce frontiere né alcuna sorta di limite.
    Ma dietro questo che potrebbe sembra un vezzo linguistico, c'è una grande mutazione culturale e umana: per coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964 la giovinezza non può finire. Non deve finire. Costi quel che costi: in chirurgie, creme, tinte per capelli, pillole, abbigliamenti, tacchi, attaccamento accanito a poltrone e posti di potere e prestigio...E da quest'amore per la giovinezza ne discende una lotta senza quartiere contro la vecchiaia e tutte le sue manifestazioni.
    Pensate alle tinte per i capelli, agli interventi estetici, alle creme e alle pillole blu, agli stili di vita “adulterati” degli adulti, alle manie dietetiche, ai lavori forzati in palestra, con lo jogging e il calcetto ecc... La pubblicità, inoltre, che ha studiato bene questo tratto degli adulti (che sono coloro che hanno concretamente poi i soldi), non usa altro linguaggio che quello della giovinezza. Per questo il mercato non offre loro solo prodotti, ma alleati per la loro lotta contro il tempo che passa, alleati per la giovinezza: lo yogurt che ti fa andare al bagno con regolarità, l’acqua che elimina l’acqua, le creme portentose che contrastano il cedimento cutaneo, nutrono i tessuti, proteggono dagli agenti patogeni, rimpolpano, ristrutturano, ecc...
    E come non restare basiti rispetto all'idea principale della pubblicità per la quale il nemico numero uno sia la vecchiaia? Nulla si vende che prima non abbia, almeno come promessa, affermato di essere contro l'invecchiamento, anti-age.
    E cosa dire ancora della percezione diffusa delle età della vita? Quando inizia infatti da noi la vecchiaia? Lapidario è al riguardo Ilvo Diamanti: «[…] Colpisce che il 35 per cento degli italiani con più di quindici anni (indagine Demos) si definisca “adolescenti” (5 per cento) oppure “giovani” (30 per cento). Anche se coloro che hanno meno di trent’anni non superano il 20 per cento. Peraltro, solo il 15 per cento si riconosce “anziano”. Anche se il 23 per cento della popolazione ha più di sessantacinque anni. D’altronde, da noi, quasi nessuno “ammette” la vecchiaia. Che, secondo il giudizio degli italiani (come mostra la stessa indagine condotta pochi anni fa: settembre 2003), comincerebbe solo dopo gli ottant’anni. In altri termini, vista l’aspettativa di vita, in Italia si “diventa” vecchi solo dopo la morte»[17]. E una tale vecchiaia che diventa nemico "numero uno" cambia il sentimento di vita.
    Nessuno insomma ammette la vecchiaia: è parola che non trovi neppure su wikipedia! Oggi vecchio è sinonimo di rimbambito, rincitrullito, babbeo. Si pensi alle poche donne vecchie che appaiono nella pubblicità: sono segnate da una condizione terribile. Sono suocere che controllano con malizia l'anticalcare usato dalle nuore, vecchiette con problemi di incontinenza e di dentiere, e altre infine sedute su sedie con al collo l'immancabile dispositivo Beghelli...
    C'è forse oggi un complimento più bello per un adulto del "ma come sembri giovane!" e viceversa c'è forse oggi un'offesa della quale è possibile pensarne una maggiore del "ma come ti sei invecchiato!"? Se uno vuole rompere definitivamente le relazioni con qualcuno, basta, la prima volta che lo vede, fargli presente di quanto sia invecchiato, per constatare quella persona letteralmente sparire dal proprio orizzonte di vita. Non solo: nessuno ammette i segni della vecchiaia. Solo Dio sa quanto si spenda per ricerche anti-age. Una cifra approssimativa parla di una spesa di 30 miliardi di dollari annui, nell'insieme dei paesi occidentali. Ma se la vecchiaia a causa del mito della giovinezza finisce nel cono dell’irrealtà, nel cono della maledizione, nel cono di ciò che le persone per bene e politicamente corrette evitano di nominare, essa trascina con sé anche l’età adulta, che di fatti oggi nessuno onora più. Maledire la vecchiaia significa disconoscere la verità della finitezza dell'essere umano e la logica che ne preside allo sviluppo e cioè che «la rinuncia è la condizione della crescita»[18].
    E cosa dire della morte? Oggi nessuno muore: basta guardare ai manifesti funebri. La gente scompare, viene a mancare, si spegne, compie un transito, si ricongiunge, ma nessuno muore... neanche tra gli italiani e non solo tra i cinesi! E la medicina ormai tratta la morte alla stregua di una malattia. Non a caso si parla della nostra come di società postmortale[19].
    Ma che umano è uno che non sa dare del tu alla morte? La grande sapienza filosofica di ogni tempo e cultura ci ha insegnato che uno diventa adulto solo quando è capace di questo "tu": il tu alla morte.
    La giovinezza è pertanto la grande macchina di felicità degli adulti odierni, l’unica fonte di umanizzazione. È il bene. Per questo i maestri di oggi sono i figli, i giovani, ed è saltato in aria ogni possibile dialogo educativo.
    Il punto è che tutto questo non è solo questione di estetica, né solo di etica. È questione teologica. Dio compare ogni volta che l'uomo cerca la propria felicità, il proprio ben-essere al mondo. Il segreto non detto della generazione adulta è il seguente: noi crediamo solo alla giovinezza quale luogo della destinazione felice dell'umano. Proprio una tale virata degli adulti verso il culto della giovinezza rende pertanto la loro testimonianza del vangelo della vita buona, quando c'è, una testimonianza scialba, esangue, inefficace.
    Qui si interrompe l'alleanza tra Chiesa e adulti, tra Chiesa e mondo della famiglia, tra Chiesa e sentimento diffuso dell'umano, ed è per questo che la proposta della fede cattolica va ad impattare, nell'universo giovanile, su un sequestro della questione della felicità e del compimento dell'umano da parte dell'idolo della giovinezza, che come abbiamo visto censura l'esperienza del limite, il lavoro della crescita e l'insuperabilità della malattia, e che conduce sino all'esorcizzazione linguistica della vecchiaia e della morte. Si tratta cioè di tutti quegli snodi vitali, su cui si costruisce il possibile incontro tra le generazioni e la trasmissione di un sapere dell'umano, toccato e fecondato dalla parola del Vangelo.
    Ovviamente qui in gioco non c'è solo la questione della crisi della fede, vi è anche la questione molto forte del che cosa resta dell'adultità in tempo in cui domina prepotentemente il mito del giovanilismo, il giovanilismo come ultima e unica religione delle generazioni più anziane. Vi è la questione dell'emergenza educativa, come ha messo bene in evidenza Umberto Galimberti[20]: il nichilismo dei giovani è la conseguenza di un mancato appello e riconoscimento nei loro confronti da parte di adulti che non vogliono farsi da parte perché si ritengono appunto ancora abbastanza giovani per farsi da parte...

    3. Spazi possibili per una proposta della fede cristiana oggi

    Ma che cosa succede in tutto questo alla latitudine giovane di questo nostro tempo? Il sentimento che, a mio avviso, maggiormente caratterizza questa parte di mondo è quello dell'inquietudine. Un'inquietudine che spesso può trasformarsi in vero e proprio disagio, altre volte può diventare cammino di ricostruzione di un senso dell'umano - di un senso adulto dell'umano - diverso da quello che ormai circola in mezzo a noi, in quanto sono soprattutto i giovani a sapere che la giovinezza non può essere il tutto di una vita. Ora, se il compito di ogni generazione è quello della restituzione di ciò che ha ricevuto dalla precedente, un tale compito, suggerisce opportunamente Francesco Stoppa, può realizzarsi anche come re-istituzione ed in quest'opera non è impossibile individuare alcune spazi molto interessanti per dare nuove strade alla parola di Dio. Restituzione di che cosa? Restituzione dell'adultità. Può sembrare paradossale, ma molti appaiono i segnali che si proceda in tale direzione.
    Come accade, allora, questa re-istituzione? La prima risorsa che viene messa in campo dai giovani è il valore dell’amicizia, un valore che supera di gran lunga anche il desiderio di carriera e dei soldi. Emerge così un dinamismo di comunicazione tra pari che non si assoggetta alla legge unica del mercato, dove si scambiano cose, ma piuttosto ci si pone nell’atteggiamento di uno scambio di ciò che si è, di ciò che si prova, di ciò che più bolle nel cuore – prima e più di ciò che si possiede. Soprattutto internet offre molteplici possibilità al riguardo: da Facebook alla costruzione di un sito o di un blog, dalla chat all’invio costante di messaggi. In particolare è molto diffusa la pratica della condivisione di informazioni utili, senza alcuno scopo economico.
    L'essere nativi digitali è occasione anche di "essere rete": dopo decenni vissuti al suono del “non devi guardare nessuno in faccia” quale sicuro mantra per ottenere la via dell’affermazione personale, il maggior simbolo dei giovani odierni è “il libro delle facce”. Ed è bello pensare ad un mondo ricco di amici – quello dei giovani, pur con il rischio di inflazionare tale parola – rispetto al mondo degli adulti, tutto pieno di concorrenti!
    È ovvio che internet può diventare luogo di autocelebrazione narcisistica, con tutti i limiti del caso. Eventualità che è poi fomentata dal sostanziale destino di marginalizzazione che la società nel suo insieme riserva ai giovani. Ma non c'è solo questo. – Adultità come relazione.
    Proprio sulle bacheche di Facebook, infatti, si può vedere all'opera un altro singolare elemento: ciò che potremmo chiamare una vera e propria coltivazione della bellezza. Numerose bacheche pullulano di citazioni, di aforismi, di dipinti, di video musicali e di brevi clip di film: spesso si tratta di autori (da De Andrè a Dostoevskij, passando per Hesse, Tolkien), fuori dai canoni di studio, di cui i giovani si appropriano come di frode. È all'opera un istinto per il passaggio della bellezza nel tempo, presente e passato: c'è qui il recupero del senso della tradizione, del senso della memoria, contro la tentazione adulta di essere sempre giovani, sempre nuovi, sempre i migliori. – Adultità come memoria della bellezza.
    Particolarmente significativo è poi un altro elemento che caratterizza la vita dei giovani di oggi: l’amore per la musica. Piena dimensione di libertà, la musica è il primo contatto che un essere umano ha con il mondo, dalla voce rassicurante dei genitori alla presenza di altri rumori, che dischiudono nuovi paesaggi. La musica per i giovani rappresenta una grande risorsa: sia quando essa è fatta sia quando viene usufruita da loro.
    Se è pur vero che per un certo numero di loro è soprattutto un modo passivo per staccare la spina da una società per la quale non esisti – almeno non in quanto giovane, per molti altri è spazio attivo di creatività, di liberazione, contro le ossessioni performanti di adulti che sanno valutare il loro operato solo in termini di rendita e di crescita di capitale. Assomiglia al lavoro degli spiritual degli afroamericani. È protesta potente contro le passioni tristi del nostro tempo. È a volte quasi una sorta di preghiera anonima, un’invocazione, oltre le parole, ad un Dio lontano, che, se ha senso la sua esistenza, non può che essere un Dio della festa. Della gioia.
    La musica dunque per molti giovani è così come un primo passo per recuperare il lavoro della festa, dimenticato dalla nostra società. La festa, in verità, ci lavora dentro, ci plasma, ci forgia, ci prepara a un confronto con il mondo, autentico, signorile, non bisognoso di mistificazioni o di illusioni. La festa è, infatti, tutt'altra cosa rispetto alla realtà del divertimento, inventato dagli adulti. Quest'ultimo resta alla fine sempre individuale, la festa è di indole comunitaria. Il divertimento è dispersione di energie, la festa è liberazione di energie. Il divertimento spreca, la festa costruisce. Costruisce il noi. Non casualmente, preso alla lettera, divertimento significa solo prendere un'altra direzione, mentre festa significa accogliersi. – Adultità come passione della festa.
    Pure notevole è la maggiore sensibilità dei giovani per la natura. Una cifra a mio avviso decisiva è il grande amore di moltissimi di loro per la fotografia. Dopo anni di cementificazione selvaggia, di sfruttamento privo di qualsiasi razionalità ambientale, che hanno al cuore un concetto di natura quale pura risorsa da sfruttare, avanza invece nel mondo giovanile un'inedita mente ecologica. Forse proprio la giusta distanza che l’arte della fotografia richiede e insegna è metafora di un più generale e complessivo atteggiamento di stupore che i giovani suggeriscono al popolo degli adulti: stupore per un pianeta, il nostro, che è l’unico tra quelli sinora conosciuti a generare e conservare forme superiori di vita – una condizione di quasi mistero, di cui la scienza va in cerca delle spiegazioni e delle cause, ma la cui custodia chiama pure in causa la volontà e l’intelligenza umane.
    Viene qui pure in mente un’altra cosa: l’invenzione di strumenti di comunicazione che prevedono il risparmio di risorse. Quanta carta – cioè alberi – si sta risparmiando con l'uso dell’e-mail, degli sms e di twitter? E come non aumenterà tutto ciò con l'uso degli e-book (in particolare per i testi tecnici e scolastici, sempre bisognosi di aggiornamento) e ancora con la digitalizzazione sempre più massiccia dell'informazione? È una scelta di sobrietà profetica. Tempi di povertà bussano alla casa dei ricchi occidentali. – Adultità come custodia.
    Francesco Stoppa avverte poi che tale caratteristica vale anche per il linguaggio tipico dei giovani: la loro lingua scritta è una lingua di sintesi, di risparmio, di rapidità (“xchè”, "tvb", le faccine): «C'è, alla base, una necessità di sintesi, di abbreviazione, di riduzione al minimo che rivela un bisogno di ritrovare l'essenzialità delle cose e nelle cose, nel modo cioè di parlare, agire, rapportarsi con la realtà»[21]. Non c’è forse un inquinamento delle, tra e con le parole che minaccia la salute delle nostre anime? Insomma anche qui un messaggio molto forte: “quello che devi dire, dillo”. Una forma sottile di ecologia del tempo: non perdiamo tempo, perdendoci dietro le parole! – Adultità come essenzialità.
    Illuminante è poi l’attenzione prestata da tanti giovani ad alcuni personaggi, del passato e del presente, impegnati a tentare una trasformazione delle leggi inesorabili della società: don Diana, don Puglisi, ora beato, don Tonino Bello, Madre Teresa, i monaci tibetani, Obama, Saviano, i giudici Borsellino e Falcone, i medici di Emergency... E soprattutto Papa Francesco che sogna una Chiesa povera e per i poveri. Un amore per Papa Francesco che si inserisce nel già conosciuto affetto dei giovani per i frati francescani e alla loro proposta eretica di conciliare povertà e felicità; si pensi ancora all’amore per alcune esperienze spirituali (Bose, Taizé, Camaldoli, Romena, ecc.). Nessuna di queste realtà è in grado da sola di produrre nuovi scenari di umanità a larga scala, ma basta la prova e l’impegno in tale direzione ad attrarre la simpatia convinta dei giovani.
    – Adultità come testimonianza.
    Quasi incredibile, per una società come la nostra che ha sdoganato ogni forma di egoismo, è la presa che il volontariato ha ancora sul cuore di tanti giovani. È trasgressiva la consapevolezza che qui emerge, è cioè che il nostro non è il migliore dei mondi possibili. È felice esercizio di strabismo: non possiamo contemplare solo i nostri privilegi. Non siamo l'ombelico del mondo. Il grido di sofferenza dell'altro è reale, ci scalza, ci incalza, ci tocca, ci ferisce. Per questo non raramente si tratta di volontariato internazionale.
    In un tempo in cui tutti paghiamo i costi delle avidità finanziarie di pochi senza scrupoli, in un Paese in cui la lotta contro la criminalità organizzata che tiene soggiogati interi territori non decolla e in cui lo sperpero di denaro pubblico è di casa e in cui infine l'evasione fiscale è la prima causa di stallo del sistema economico complessivo, costretto a tassare fin oltre il giusto i cittadini onesti, reca non poca speranza quel senso per la giustizia che anima il nostro universo giovanile. Basta pensare alla straordinaria e convinta partecipazione alle iniziative nazionali e locali di Libera, al coinvolgimento di cui è capace il Sermig di Ernesto Olivero, ai tanti movimenti di resistenza alla mafia e alla 'ndrangheta, sorti nel sud del Paese con le parole "E adesso uccideteci tutti!". Senza dimenticare le recenti proteste contro le grandi lobby bancarie e finanziarie che non accettano un qualche controllo sociale nei confronti delle logiche selvagge di mercato. Sono tutte esperienze piene di giovani. – Adultità come coinvolgimento.
    Non possiamo infine non accennare alla dimensione dell’immaginario diffuso dei giovani, che trova alimento nella fruizione della letteratura e del cinema contemporanei, nei quali, soprattutto in una prospettiva di rapporti intergenerazionali, un elemento costante della produzione recente è spesso la presenza di un vuoto. In qualunque direzione ci si muova, infatti, l’assenza degli adulti è lancinante.
    Bianca la bella pallida protagonista di Twlight vive praticamente senza genitori, quelli di Harry Potter sono morti da tempo e gli altri adulti cercano solo di sfuggire alla morte, gli adulti di Silvia Avallone, in Acciaio, sono mezze figure, tutto soldi, passioni ormai spente, sogni senza energia, e segni di un’umanità in libera caduta depressiva. E cosa dire della madre di Camelia, la protagonista del romanzo Settanta acrilico trenta lana di Viola Di Grado, che passa le sue giornate a fotografare ossessivamente buchi di ogni tipo, mentre si lascia vomitare la vita addosso?
    Che cosa dire poi della componente adulta di romanzi come Io e te di Niccolò Ammaniti, Bianca come il latte rossa come il sangue di Alessandro D'Avenia e Le giostre sono per gli scemi di Barbara di Gregorio? È uno sfondo sfuocato, quasi anonimo. Cosa dire del padre di Margherita in Cose che nessuna sa, di D'Avenia? E chi è il padre in Il senso dell'elefante di Marco Missiroli? Si potrebbe dire che il padre è uno, nessuno, centomila.
    Non c’è spazio in questa produzione letteraria e cinematografica per famiglie alla Mulino Bianco e Pasta Barilla.
    Alla luce viene invece un posto – quello degli adulti – che ora risulta semplicemente vuoto e che, in fondo, permette le libere evoluzioni dei protagonisti giovani. È un vuoto che produce pure ferite, lesioni, traumi – si pensi alla vicenda di Alice e di Mattia ne La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano.
    Lungo sentieri imprevisti, sale così la denuncia di ciò che più di ogni altra cosa segna l'inquietudine dei giovani: a loro servirebbe una meta. Adulti autorevoli, in grado anche di resistere, di sbloccare e incanalare le loro passioni e la loro energia finché ciascuno di loro colga il proprio insostituibile posto nel concerto del mondo. Adulti testimoni di una vita dura, ma bella, faticosa, ma ricca di opportunità, fragile, ma segnata da una brivido di eternità.
    È assai trasgressivo, questo gesto: di fronte a genitori che hanno dato loro tanto in termini di beni e di cure, il rimprovero di aver mancato l'assunzione del loro ruolo adulto è senza possibilità d'appello.
    «Tu sei il vero padrone della Morte perché il vero padrone della morte non cerca di sfuggirle. Accetta di dover morire e comprende che vi sono cose assai peggiori nel mondo dei vivi che morire»[22].
    È, questa, una delle ultime battute del dialogo tra Albus Silente e Harry Potter, all'interno del decisivo duello di quest'ultimo contro il nemico sempiterno Voldermort, la cui prima parte si era conclusa con il piccolo mago che non aveva appunto cercato di sfuggire la morte, per salvare i suoi amici. È questo invece che hanno mancato gli adulti.
    Tra le cose assai peggiori che morire vi è infatti quella lotta contro la vita per la paura della vecchiaia, per la paura della malattia e soprattutto per la paura della morte, che li ha accecati. Una lotta contro la morte che alla fine blocca la vita.
    Se esiste, allora, come riteneva Walter Benjamin, "un misterioso appuntamento tra le generazioni", tale appuntamento oggi si consuma esattamente qui, intorno alla questione di che cosa significa "essere adulto", di che cosa significa "crescere", "amare", "morire", "generare", "fare festa", "ammalarsi", "tenere alla giustizia", "guadagnare", "essere al mondo". Le risposte che oggi circolano – le risposte degli adulti – non soddisfano più i nostri ragazzi e i nostri giovani ed è proprio in tale sospensione delle risposte che il cristianesimo può, deve innestare il suo annuncio del Vangelo.

     
    NOTE

    [1] P. Segatti-G. Brunelli, Ricerca de Il Regno sull'Italia religiosa: da cattolica a genericamente cristiana, in il Regno/attualità n.10, 2010, 351.

    [2] Pubblicata da il Mulino di Bologna.

    [3] R. Grassi, Giovani e fede /1. Cristianesimo e identità tra i giovani italiani, sett.-ott. 2010, 8.

    [4] R. Grassi, Giovani e fede /2. La pratica religiosa, in Insegnare religione, nov.-dic. 2010, 9.

    [5] R. Grassi, Giovani e fede /1. Cristianesimo e identità tra i giovani italiani, sett.-ott. 2010, 9.

    [6] Osservatorio Socio-Religioso Triveneto, C'è campo? Giovani, spiritualità, religione, Marcianum Press, Venezia 2010. Di questo ampio testo esiste ora una sintesi, a cura di A. Castegnaro: Fuori dal recinto. Giovani, fede, Chiesa: uno sguardo diverso, Ancora, Milano 2013.

    [7] «Un’analisi più raffinata, condotta tra chi ha un’età compresa tra 18 e 26 anni, che possiamo considerare cioè "figli", e chi una compresa tra 48 e 56, che possiamo ritenere come "genitori", dice in sostanza che tutti gli indici di religiosità non solamente diminuiscono, ma si dimezzano. E ciò interessa tutte le dimensioni della religiosità. Se tuttavia si esaminano l’interesse per la dimensione spirituale, il saldo tra chi avverte una crescita e chi una diminuzione in questo campo e la frequenza con cui si vivono esperienze che fanno percepire l’esistenza di "altro" al di là del tangibile, le differenze tra le generazioni si annullano. In altre parole, se abbandoniamo il lessico del religioso e passiamo a quello dello spirituale i risultati cambiano, e di molto. C’è in sostanza un distacco in atto di una parte non trascurabile del mondo giovanile dall’universo religioso che la Chiesa cattolica rappresenta e questo distacco, pratico ancor prima che spirituale (pochi giovani oggi, ricevuta la cresima, frequentano la parrocchia), comincia a manifestare i suoi effetti anche sul modo in cui ci si relaziona con la figura di Gesù Cristo. Si tratta tuttavia di un distacco che non sembra essere la diretta conseguenza di una corrispondente e radicale afasia spirituale» (A. Castegnaro, Verso Aquileia: la fede del Nord-Est, in il Regno/attualità n.4, 2012, 132).

    [8] Cfr. Castegnaro, Verso Aquileia, 131.

    [9] Il Mulino, Bologna 2011. I dati dell'indagine sono stati, tuttavia, raccolti nel gennaio 2007.

    [10] F. Garelli, Religione all'italiana. L'anima del paese messa a nudo, il Mulino, Bologna 2011, 47.

    [11] Nel mese di luglio scorso, lo stesso Istituto ha realizzato un sondaggio sul rapporto dei giovani con Papa Francesco, rilevando un giudizio più che positivo.

    [12] Osservatorio Socio-Religioso Triveneto, C'è campo?, 87.

    [13] Se insieme a Massimo Livi Bacci consideriamo la popolazione tra i 15-30 anni, nel sessennio 1950-2010 e la confrontiamo con la popolazione che ha tra i 45-60 anni (i genitori grosso modo), nello stesso arco di tempo, avremo che «Mentre i "giovani-figli" stazionano tra 11,5 e 13,5 milioni tra il 1950 e il 1990 e poi precipitano a 8,7 nel 2010, gli "adulti-maturi-genitori" crescono in continuazione, da 7,5 milioni nel 1950 a 12,5 nel 2010. [...] nel 1950 i giovani rappresentavano un quarto della popolazione totale, oggi appena un settimo, nel giro di sessant'anni il loro numero è diminuito del 27%» (M. Livi Bacci, Avanti giovani, alla riscossa. Come uscire dalla crisi giovanile in Italia, il Mulino, Bologna 2008, 35-36).

    [14] F. Stoppa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, Feltrinelli, Milano 2011, 9-10.

    [15] Cfr M. Gauchet, Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e Pensiero, Milano 2010, 42-43.

    [16] Sul tema si veda Livi Bacci, Avanti giovani, alla riscossa, 13-18.

    [17] I. Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, Feltrinelli, Milano 2009, 64.

    [18] G. Cucci, La crisi dell'adulto. La sindrome di Peter Pan, Cittadella, Assisi 2012, 67, che cita pure M. Scheler, Il risentimento nella edificazione delle morali, Vita e Pensiero, Milano 1975, 53.

    [19] Cfr. C. Lafontaine, Il sogno dell'eternità. La società postmortale, Medusa, Milano 2009.

    [20] U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007.

    [21] Stoppa, La restituzione, 235.

    [22] J.K. Rowling, Harry Potter e i doni della Morte, Salani, Milano 2011, 662.


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