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    La fede

    dei millennials

    "La nostra spiritualità così lontana dalla Chiesa"

    Paolo Rodari


    «Guarda questi ragazzi. Molti di loro si dicono credenti, ma praticano saltuariamente.
    Cresciuti in un ambiente "post cristiano", apprezzano Francesco, sono qui con grande entusiasmo, eppure in diversi nella vita di tutti i giorni non praticano. È una tendenza radicatasi negli ultimi anni, la chiamerei un modo diverso di vivere la fede di sempre. Una fede disincarnata? Non so, differente dal passato senz’altro, un dato di fatto non per forza di cose negativo». José ha 25 anni.
    Ha accompagnato a Panama per la Giornata mondiale dei giovani un nutrito gruppo di ragazzi più giovani provenienti da varie diocesi australiane. Fotografa un fenomeno diffuso nel suo continente, ma non solo, e che sembra segnare una discrepanza fra le Gmg dell’era Wojtyla e quelle odierne: i millennials, in sostanza, credono ma praticano meno dei loro predecessori, spesso hanno difficoltà a capire il linguaggio della Chiesa, conoscono poco Gesù e non sempre vanno a messa seppure dicano di credere in Dio. Così, del resto, li descrive già nel 2016 l’indagine Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia, realizzata dall’Istituto Toniolo in collaborazione con l’Università cattolica e pubblicata da "Vita e Pensiero". Così, ancora, li racconta in Piccoli atei crescono (Mulino) il sociologo Franco Garelli. E in questo modo, almeno in parte, li tratteggia Armando Matteo nel volume La prima generazione incredula (Rubbettino), nella cui prefazione a una nuova edizione Enzo Bianchi, con la lucidità che lo contraddistingue, oltre a scrivere che «siamo di fronte a persone per le quali nascere e diventare cristiano non sono più eventi che accadono in modo sincrono, impossibilitate a scorgere un posto per Dio negli occhi dei genitori», riconosce anche la necessità per la Chiesa non tanto di «un semplice aggiustamento della pastorale» quanto di «un autentico cambiamento» di approccio.
    Rosa ha 19 anni. Vive a Panama, dove è nata. Alla Gmg è volontaria. Dice: «Le ripetute notizie degli abusi sessuali commessi dai preti sui minori, gli scandali reiterati, mi hanno allontanato dalla Chiesa. Insieme, tuttavia, è rimasto vivo in me il bisogno di spiritualità, di un rapporto personale con Dio. Ed è ciò che cerco. Francesco lo sento vicino: il suo spendersi per i poveri, l’immediatezza del suo linguaggio, l’impegno per la pace e la ricerca di incontro con le altre religioni sono atteggiamenti che catturano». Racconta Rolando, anch’egli giovane panamense: «Penso sia possibile avere un rapporto con Dio senza la Chiesa. Non ritengo sia necessario dover andare a messa per forza ogni domenica».
    Interviene un sacerdote, don Luis: «Immagino che per molti preti queste parole siano un problema.
    Io credo che questi atteggiamenti vadano però ascoltati e accolti. C’è una generazione che vive una spiritualità personalizzata, la cui caratteristica principale è che privilegia il rapporto con sé stessi e l’interiorità». E ancora: «Domandiamoci perché molti credenti vanno a cercare risposte in Oriente e in altre religioni? Forse perché lì, e non qui, trovano valorizzata la loro interiorità, un’esperienza di Dio che potremmo dire non mediata».
    Relativismo e individualismo come occasione, si potrebbe tradurre, anche in una fede, quella cattolica, nella quale l’autorità e l’istituzione hanno svolto per secoli un ruolo di mediazione importante. Eppure già Simone Weil postulò la possibilità di una strada nuova: il vivere sulla soglia.
    Così, ancora, gli antichi "pustinnikki" della spiritualità ortodossa, eremiti che sceglievano la vocazione del "solo a solo" con Dio senza bisogno di riconoscimento istituzionale. Una strada che in parte fu anche di Charles de Foucauld e di altri mistici come Matilde di Magdeburgo, Giuliana di Norwich, Ildegarda di Bingen e Meister Eckhart.
    Più volte Francesco ha però messo in luce il rischio di una fede ridotta a un «individualismo che si crede onnipotente» e «a un soggettivismo disincarnato».
    «Certo - commenta Alberto Maggi, biblista, autore per Garzanti di Questi tempi e altri saggi di successo - , il rischio esiste. In ogni caso ci sono molti modi di essere credenti, oltre la sagrestia che un tempo era il principale, pensiamo ad esempio al volontariato. Già il vangelo di Luca, del resto, parla del samaritano che non credeva, non andava al tempio, eppure aveva la compassione per gli altri che è propria di Dio».
    Dice Paolo Scquizzato, autore di Dalla cenere la vita (Paoline), prete che insegna meditazione, che «i giovani sono il termometro di questa grande sete di spiritualità che purtroppo nella Chiesa fatica a trovare risposte. Come Chiesa diamo religione, ma c’è un abisso tra religione e spiritualità. Solo nel silenzio, nell’interiorità, riposa Dio».
    Conferma Cécile, una ragazza francese presente a Panama: «Il rischio di una fede "fai da te" esiste.
    Tuttavia non si può negare che oltre i riti molti giovani cercano altro. I miei genitori andavano a messa, partecipavano alla vita della parrocchia, ma dietro questa facciata c’era fede? Oggi molti ragazzi cercano una fede che ascolti di più la voce dello Spirito che parla in loro. C’è del positivo in questo. Da qui la fede deve ripartire».
     
    (“la Repubblica” del 27 gennaio 2019)


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