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    Il nuovo disagio giovanile

    non è una malattia

    Massimo Recalcati

     


    Depressione, disturbi alimentari e fuga nell’isolamento sono sempre più diffusi nelle nuove generazioni E nascondono una consapevolezza profonda

    Nella prospettiva della psicoanalisi non esiste malattia mentale, né, tantomeno, un criterio per definire cosa sia una salute mentale da considerarsi normale. Se la psicopatologia classica, di derivazione psichiatrica, ha considerato la malattia mentale come una deviazione patologica dalla norma costituita dal cosiddetto “sano di mente”, quella della psicoanalisi ribalta questa valutazione.
    Non si tratta tanto di misurare la deviazione patologica dalla cosiddetta normalità (che non esiste), ma esattamente il contrario. Di fronte a quello che viene classificato nosograficamente come malattia mentale la psicoanalisi non legge il semplice disfunzionamento del corpo o del pensiero, né il disturbo abnorme, ma la manifestazione di una verità antropologica profonda. Si prendano ad esempi la depressione, l’anoressia e l’attuale tendenza all’isolamento che interessa molti giovani. In questi tre “sintomi” non si manifestano tanto delle alterazioni dell’umore, dell’appetito o delle relazioni sociali, ma una verità relativa all’essere umano in quanto tale. Nella depressione, la verità che si manifesta è che il fondamento dell’esistenza umana, come sostiene anche la filosofia dell’esistenza, non è mai fondato, non è mai ontologicamente necessario, che, in altre parole, la nostra vita viene al mondo sprovvista di senso, marcata da una precarietà inaggirabile, gettata in una condizione inaggirabile di derelizione. Il fatto che il soggetto depresso avverta la sua esistenza come insensata, ridotta a quella, come diceva un mio paziente, di uno “straccio” o di uno “sputo”, non è semplicemente il segno di una malattia mentale che altera il normale umore del soggetto, ma di una verità profonda che riguarda la condizione umana come tale. È questa verità che il vissuto depressivo rivela traumaticamente: la vita non ha senso, siamo tutti imbarcati in essa, come diceva Pascal, senza averlo deciso e senza alcuna garanzia sulla meta e sull’esito del nostro viaggio.
    Allo stesso modo, l’anoressia lungi dall’essere una semplice malattia dell’appetito, ci insegna la grande verità che l’essere umano, come dichiarava Gesù, non può vivere di solo pane. Il rifiuto ostinato del cibo che caratterizza la posizione anoressica del soggetto rivela che la vita umana per essere riconosciuta nel suo autentico valore non può esser ridotta al mero soddisfacimento dei bisogni primari. «Non sono un tubo digerente!», reclamava una mia giovane paziente di fronte all’insistenza con la quale i suoi genitori si preoccupavano solamente che mangiasse. Nel caso dell’anoressia è evidente come il rifiuto delcibo sia il tentativo del soggetto di mostrare l’irriducibilità del piano umano del desiderio da quello animale del bisogno. Non si tratta di una malattia mentale, ma della necessità del soggetto di ribadire che ciò che rende la vita veramente umana non è l’appagamento dei bisogni primari, ma ricevere dall’Altro il segno del suo desiderio.
    Lo dichiarava con grande precisione uno psicoanalista-pediatra come Winnicott quando in riferimento ai disturbi dell’appetito dei bambini ricordava di rintracciarne la sua causa primaria nel dubbio che questi stessi bambini nutrivano nei confronti dell’amore dei propri genitori.
    Infine, nella tendenza di molti giovani a rompere i legami sociali e a trincerarsi nel proprio isolamento che l’epidemia del Covid ha decisamente amplificato, troviamo in primo piano la spinta della vita a difendersi dalla vita. Si tratta di una verità sconcertante che non riguarda anche in questo caso una malattia mentale, quanto piuttosto una tendenza pulsionale propria dell’essere umano: proteggere la propria vita dalla minaccia dell’Altro, dalla sua presenza intrusiva, dal rischio di essere feriti e offesi dalla vita. È quella pulsione che ho recentemente definito “securitaria”: la vita si ritira dalla vita per paura della vita. Non a caso Freud faceva coincidere – all’origine della vita umana – lo straniero con l’ostile sostenendo che la prima pulsione fosse proprio quella della difesa, della protezione, della bardatura nei confronti dell’enorme ammontare di eccitazioni che provengono dal mondo esterno e da quello interno. Se, come scrive, «l’odio viene sempre prima dell’amore» è perché la vita umana non è predisposta all’apertura alla vita, ma alla sua chiusura securitaria. Ecco la verità che si esprime drammaticamente nell’introversione che caratterizza l’attuale isolamento giovanile: di fronte all’apertura illimitata dell’esistenza, la vita può tendere a rifugiarsi dalla vita, può barricarsi, chiudersi, farsi muro. Soprattutto se la vita là fuori è una guerra di tutti contro tutti, una lotta senza esclusione di colpi per affermare se stessi, una gara perpetua. È questo uno dei tratti più significativi del disagio giovanile contemporaneo che però riflette una tendenza pulsionale che non riguarda la malattia mentale, ma l’intimità di ciascuno di noi. È ciò che appare in quel brivido che, come ricorda Elias Canetti in apertura di Massa e potere , ci coglie quando per strada urtiamo inavvertitamente uno sconosciuto. Brivido della violazione dei nostri confini, di un contatto con ciò che non conosciamo e non possiamo governare, di una minaccia che può risultare fatale e che spiega perché, come scrive Canetti stesso, «ovunque l’uomo evita di essere toccato da ciò che gli è estraneo».

    (La Repubblica, 17 marzo 2024)


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