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    Giovani oggi

    Un confronto a tre

     

    Il nostro debito nei confronti dei giovani
    Armando Matteo, Docente di Teologia fondamentale presso la Pontificia Università Urbaniana.

    È mio desiderio focalizzare due elementi del rapporto dei giovani con Gesù.
    Il primo è il seguente: la contemporaneità di Gesù è il nostro debito nei confronti dei giovani di oggi. Che cioè Gesù non sia un fatto, un problema, un affare di Chiesa, dei preti, dei vescovi e del papa. Che egli non abiti in un lontano passato detto Vangelo o Bibbia. Questo, noi lo dobbiamo ai giovani. La contemporaneità di Gesù - la verità di fede secondo la quale egli ha realmente a che fare qui e oggi la mia fame di vita, di senso, di verità - ecco questo è un debito che noi abbiamo con i giovani.
    Fatta salva una minoranza di ventenni e trentenni italiani (parliamo di un 10/15 per cento della popolazione nazionale, secondo le stime di Riccardo Grassi), per la maggior parte dei nostri giovani - cioè della generazione post-1980 - Gesù è qualcosa di estraneo, un rumore di fondo, una musica lontana, un ricordo sbiadito, un realtà importante, certo, una nobile parola che non ha più il potere di trafiggere l'anima, che non interviene per nulla nella costituzione della propria identità. Del proprio libero fronteggiamento nei confronti del mondo. Che manca all'appello, quando si debbono prendere decisioni importanti.
    Il sociologo Alessandro Castegnaro ha evidenziato, con parole accese, che i giovani che sono incerti, dubbiosi, in attesa per quel che riguarda la fede - e ovviamente sono numerosissimi - non fanno mai riferimento al Vangelo come via possibile per mettere in discussione la loro incredulità o semicredenza, come egli ama esprimersi. Per loro non esiste alcuna differenza tra il Vangelo è qualsiasi altro libro antico. Massimo Cacciari ha ricordato di aver incontrato studenti di filosofia da 30 e lode che volevano convincerlo che Gesù avesse scritto la Genesi. E Claudio Magris da anni denuncia l'analfabetismo "evangelico" dei nostri universitari. E come non ricordare il recente film Corpo celeste, nel quale una ragazzina chiama in causa Maria De Filippi, per rispondere alla domanda circa il nome di una delle due sorelle di Lazzaro?
    Il pedagogista Mario Pollo ha raccolto e raccontato già dieci anni fa la fatica di questo rapporto dei giovani con Gesù. Di molti di loro, che pur avevano transitato per le parrocchie, gli oratori, le ore di insegnamento della religione, si domandava se avessero mai incontrato Gesù. Dalla sua bella indagine, va ricordato almeno il caso di quella giovane che, di Gesù, intendeva fare l'oroscopo (a suo avviso assai sfavorevole: il capricorno è un brutto segno) a partire dalla data del 25 dicembre.
    Insomma non è un caso se sul nuovo supplemento culturale del Corriere della Sera, La Lettura, il titolo di un recente articolo di Marco Rizzi, nel quale venivano commentati i dati delle ricerche di Franco Garelli, di Roberto Cartocci, di Paolo Segatti e di Gianfranco Brunelli sull'Italia "paese cattolico", aveva un tono duro, durissimo, per restituirci il rapporto dei giovani italiani - la maggior parte, si intende - con la dimensione cristiana del mondo: "Post 1980: generazione senza Dio".
    Anche a Madrid, alla grande fiesta di Madrid, siamo riusciti a convocare solo l'1% della popolazione giovanile italiana.
    C'è da tremare poi davanti alla seguente affermazione del papa: «Con preoccupazione, non soltanto fedeli credenti, ma anche estranei osservano come le persone che vanno regolarmente in chiesa diventino sempre più anziane e il loro numero diminuisca costantemente; come ci sia una stagnazione nelle vocazioni al sacerdozio; come crescano scetticismo e incredulità. Che cosa, dunque, dobbiamo fare?»(Benedetto XVI, Discorso per la presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2011).
    La contemporaneità di Gesù è il nostro debito. È il rimprovero affettuoso che il papa ha fatto alla "sua" Chiesa tedesca: una Chiesa superorganizzata, ma una Chiesa che non riesce più a mostrare, ad evidenziare "die Kraft des Glaubens an den lebendigen Gott".
    Che cioè il Dio che Gesù ci ha reso per sempre contemporaneo/vicino non accetta di collocarsi ai margini dell'esistenza umana (il nostro non è un Dio buono per il fine settimana), ma intende costituirne un ingrediente essenziale per la sua felice destinazione.
    Cosa ci è successo? La generazione degli adulti, quella per intenderci nata dopo il dopoguerra, ovvero tra il 1946 e il 1964, ha lentamente ma efficacemente disarticolato le istruzioni per la felicità da quelle della fede. È la generazione che ha cantato, con Lennon, che la vita dell'uo mo è buona se smetti di immaginare il paradiso sopra di noi, che ha desiderato una vita spericolata e piena di guai, che ha smesso di sognare e sta uccidendo il pensiero con la televisione, che sta provando a togliere le ali alle idee con la fissazione dell'accumulo monetario e della giovinezza eterna, che ha trasformato la salvezza dell'anima in cura ossessiva del corpo e al posto dei digiuni ha inventato le diete, mentre al posto dell'ascesi ha fatto l'abbonamento alla palestra e al posto del pellegrinaggio si ritrova a fare jogging domenicale. Per questa generazione l'unico dio e il dio unico si chiama "giovinezza".
    E poiché ha ragione Leo, il protagonista del romanzo di Alessandro D'Avenia, Bianca come il latte e rossa come il sangue, quando esclama: «Il brutto della vita è che non ci sono istruzioni!», i piccoli d'uomo, quelle istruzioni, le debbono trovare da soli e il primo posto dove guardano sono gli occhi degli adulti, dei genitori. Sono gli occhi dei genitori la mappa del mondo. E se in quella mappa Dio non si trovasse più? E se in quella mappa Gesù non figurasse più? A che valgono 1000 prediche, 5000 minuti di catechesi, 500 ore di religione, se gli occhi di mio padre e di mia madre, degli adulti, in genere, non sono più in grado di dirmi che Gesù è mio contemporaneo ogni volta che ho fame di vita, fame di senso, fame di bellezza, fame di cose buone, fame di sapere e di sapori?
    La domanda è: di chi siamo contemporanei noi adulti ogni volta che la fame di vita, di senso, di bellezza, di cose buone, di sapere e di sapori ti afferra il cuore in una morsa invincibile da toglierti il fiato e la vista? Per questo, proprio per questo, nell'introduzione al catechismo Youcat, Benedetto XVI raccomanda ai giovani di «essere ben più profondamente radicati nella fede della generazione dei [loro] genitori».
    La seconda riflessione è opposta alla prima. Se c'è qualcuno a cui oggi Gesù è assolutamente contemporaneo sono proprio i giovani. I giovani di tutte le parti del mondo. Si, i giovani dell'Africa e dell'America Latina, dell'India e della Cina, dell'Asia e dell'Europa. Giovani che soffrono per le guerre, la fame, la sete, la povertà diffusa, la mancanza di prospettive, per lo sfruttamento sessuale, per il lavoro necessario a produrre a droga di cui noi occidentali abbiamo bisogno.
    Alla latitudine giovane c'è un mondo di sofferenza.
    C'è una pagina del libro-intervista del papa, Luce del mondo, che mi commuove ogni volta che la rileggo: «Tanti vescovi, soprattutto dell'America Latina, mi dicono che là dove passa la strada della coltivazione e del commercio della droga - e questo avviene in gran parte di quei Paesi - è come se un animale mostruoso e cattivo stendesse la sua mano sul quel Paese per rovinare le persone. Credo che questo serpente del commercio e del consumo di droga che avvolge il mondo, sia un potere del quale non sempre riusciamo a farci un'idea adeguata. Distrugge i giovani, distrugge le famiglie, porta alla violenza e minaccia il futuro di intere nazioni. Anche questa è una terribile responsabilità dell'Occidente: ha bisogno di droghe e così crea Paesi che devono fornirgli quello che poi finirà per consumarli e distruggerli».
    Gesù non sta comodo nelle nostre sagrestie: è li, in mezzo ai giovani che soffrono, com-patisce con loro.
    Anche in Occidente le cose non stanno bene se appunto i giovani debbono scendere in piazza a difendere un libro vero, se i giovani debbono difendersi dai signori del dolore (parafrasando la canzone di Roberto Vecchioni che ha vinto il Festival di Sanremo dello scorso anno). Gesù è contemporaneo ai giovani perché i nostri giovani sono sempre più privati della possibilità di futuro e del futuro come possibilità. Sono i veri "poveri": l'energia che si portano dentro - energia fisica, psichica, sessuale e riproduttiva, lavorativa e intellettuale - gli si ritorce contro, non trovando modo di potersi esprimere, sprigionare. Li costringiamo a non poter onorare il loro nome: giovane viene dal latino iuven (ancora le etimologie che piacciono tanto al prof 2.0) ed è legato al verbo aiutare. E per i greci i giovani sono neoi, i nuovi, ingenui, genuini, geniali. Sono qui per aiutarci, per rinnovarci. Sono la forza di una novità e la novità di una forza. Cellule staminali. E nòi li mettiamo in congelatore, li lasciamo in panchina, facciamo loro assaggiare fino alla feccia il fatto che non abbiamo bisogno di loro. Anche perché, noi, noi adulti, siamo "ancora giovani", non è vero?
    La nostra è società che ama più la giovinezza che i giovani.
    Disoccupazione, mutui che in confronto la dottrina cattolica dell'indissolubilità impallidisce, crisi finanziaria che un paio di giri sull'otto- volante sembrano una passeggiatina pomeridiana, tutela della gerontocrazia senza alcun pudore, immortalità televisiva di alcuni conduttori, caste di caste, 6000 corsi di laurea possibile, master inutili... così nasce e si accumula la povertà dei giovani.
    E ci piaccia o no, Gesù è un rabbino che amava stare, che ama stare con i poveri. E li ci aspetta. Che nessuno manchi all'appello!


    Essere figli per essere liberi
    Alessandro D'Avena, Insegnante e scrittore.

    La riflessione di don Armando, a proposito di gaffes sull'ignoranza religiosa, mi riporta alla mente una famosa interrogazione raccontatami da un mio amico. Durante un esame universitario sul Nuovo Testamento, precisamente la lettera di Giuda, al candidato venne chiesto come mai fossimo in possesso di una lettera di Giuda; la risposta fu che l'aveva scritta prima di tradire. Mi è tornata in mente questa gaffe, perché mi trovo spesso con ragazzi che pensano che la frase "chi fa da sé fa per tre" sia contenuta nel Vangelo, e tante altre amenità di questo genere. Io partirei da una considerazione sui titoli delle diverse sezioni di questo volume: "I giovani e Gesù" è l'unica in cui il nome Gesù viene scritto dopo il tema affrontato. Trovo interessante questa particolarità, perché mette subito le cose nell'ordine giusto. Quando sento Don Armando lamentarsi con certi toni apocalittici, io un po' mi arrabbio, nel senso che credo che questa generazione, giovani e adulti, di cui parliamo tanto male, non è molto differente dalle altre che ci hanno preceduto. È sempre stato così; l'uomo ha sempre faticato ad essere all'altezza della sua chiamata. Emily Dickinson, in uno dei suoi versi più belli, diceva che noi non conosciamo la nostra altezza fin quando qualcuno non ci chiama ad alzarci in piedi. Nostro Signore credo che sia venuto anche per questo; anche alla sua epoca c'erano insomma genitori che facevano fatica a fare i genitori; non a caso ci ha parlato di un lievito che deve operare nella massa, per cui non credo che ci saranno mai grandi trionfi. Un evento come la Giornata Mondiale della Gioventù può forse illudere che siano arrivati i trionfi, ma, almeno a me, nostro Signore ha insegnato una cosa molto bella: che i venti alunni che ho quotidianamente di fronte sono il mondo intero, ed è questo che mi salva tutti i giorni dalla disperazione di fronte a loro; faccio sempre questo esperimento un po' da romanzo di fantascienza: e se il mondo finisse e rimanessimo solo noi, che mondo lasceremmo io e i miei alunni oltre quella porta? Nostro Signore non si è preoccupato dei grandi numeri, si è preoccupato di quelli che incontrava nelle 24 ore. Mi piace tantissimo che colui che ha deciso dall'eternità di farsi tempo, abbia usato sempre come unità di misura le 24 ore. Non so se ci avete mai fatto caso: ogni giorno ha la sua pena, non pensate al domani, ecc. ecc.; nostro Signore parla sempre di queste 24 ore, come se non ci fosse altro tempo che questo. E questo mi entusiasma, perché intanto ci fa passare quell'ansia che caratterizza la nostra epoca. Come diceva giustamente un poeta contemporaneo, Auden, "la nostra è l'età dell'ansia". Ci svegliamo la mattina e dobbiamo cominciare a correre; non siamo mai all'altezza delle aspettative del mondo. Ma questo accade perché ci siamo dimenticati che chi ci chiama ad essere alla nostra altezza ci ha già dato quest'altezza, ci invita a tirare un sospiro di sollievo, perché andiamo bene così come siamo. Questo lo dico soprattutto alle mie alunne, che sono sempre convinte di essere bruttissime rispetto a come dovrebbero essere. Per alleggerire un po' i toni, io chiedo sempre le grandi verità ai bambini, così sono andato a recuperare un libro che amo molto, intitolato "Caro Gesù la giraffa la volevi proprio così o è stato un incidente?", che è fatto di lettere di bambini che fanno le domande fondamentali. Credo che gli adolescenti siano un po' questo: bambini che non vanno più con papà e mamma e che ripropongono le stesse domande, ma su un piano diverso. In una delle domande, ve ne leggo alcune per farvi sorridere, si dice: "caro Gesù Bambino i miei compagni di scuola scrivono tutti a Babbo Natale ma io non mi fido di quello, preferisco te"; oppure: "caro Gesù sei davvero invisibile o è solo un trucco?"; "caro Gesù lo sai che mi piace proprio come hai fatto la mia fidanzata Simonetta?"; "caro Gesù perché invece di far morire le persone e di farne poi nuove non tieni quelle che ci stanno già?". Io credo che tutto questo andrebbe tenuto in considerazione; se fossi Gesù lo terrei in considerazione. Ma ciò che mi interessa di più è questa frase qui: "caro Gesù Bambino mi piace tanto il padre nostro, ti è venuta subito o l'hai dovuta fare tante volte? Io quello che scrivo lo devo rifare un sacco di volte".
    Perché mi piace tantissimo questa richiesta? Perché è proprio di questo che parliamo: un bambino che dice che la cosa più bella che Gesù ha fatto è il padre nostro. C'è un verso dell'Odissea, che ho posto come epigrafe del mio recente romanzo, in cui Telemaco, in un momento di disperazione dovuta a questo padre che non torna, dice, confessandosi, che se agli uomini fosse concesso chiedere qualcosa agli dèi, chiederebbero il dì del ritorno del padre. Questa frase, pronunciata diversi secoli prima della venuta di Gesù, fa capire quanto Gesù sia contemporaneo anche a quelli che sono vissuti prima di lui; è una frase che racchiude un grande grido di nostalgia (e chiaramente riguarda l'assenza di Ulisse). Ma è anche e soprattutto la grande richiesta di avere un Padre, perché la grande domanda, forse l'unica, a cui ognuno di noi deve provare a rispondere è proprio questa: c'è o no un padre che si sta occupando di me? Ad un certo punto lo dissero anche i discepoli a Gesù: "Mostraci il Padre e ci basta", e Gesù disse: "Ma come? Non avete capito? Mostraci il Padre e ci basta?".
    Dico questo perché io di padri ne ho avuti e la contemporaneità di Gesù nella mia vita è data da questi padri. Penso ai miei genitori, con i quali abbiamo festeggiato recentemente i 46 anni di matrimonio. Noi siamo 6 figli, ed è dai nostri genitori, dai loro occhi che ho visto la capacità di amare ciascuno di noi in maniera diversa; è questa la forza che mi fa affrontare tutti i giorni la giornata senza abbattermi, è la forza dell'amore ricevuto da loro che non potrà mai essere negata dalla forza di nessun errore che io possa fare nella mia vita; riconosco insomma che c'è un nucleo dentro di me a cui è stato detto "tu sei bello", e questo nucleo non lo può toccare più nessuno, perché questo nucleo è stato amato come doveva essere amato. Secondo me, Gesù potrà farsi nostro contemporaneo, se i ragazzi troveranno negli adulti questa capacità di guardare il nucleo di bellezza che ciascuno di loro ha, difendendolo come la cosa più preziosa. Un altro dei padri che ho avuto è stato padre Giuseppe Puglisi, professore di religione nel mio liceo a Palermo, che prima che iniziasse il quarto anno di liceo non è tornato in classe perché il giorno del suo compleanno gli spararono nella piazza vicina alla nostra scuola e cinque anni dopo il ragazzo che gli ha sparato è diventato collaboratore di giustizia. Nella sua deposizione raccontava che, in quei cinque anni, ciò che lo aveva spinto a pentirsi non era stato il fatto di aver ucciso quell'uomo, perché ne aveva uccisi tanti altri, ma il modo in cui quell'uomo gli aveva sorriso mente lui gli sparava. Ci sono persone capaci di parlare agli altri, facendo percepire attraverso i loro occhi la dignità che tu hai. In fondo quell'uomo, quel mafioso, ha sperimentato in quello sguardo una chiamata ad alzarsi per capire quale fosse la sua vera altezza, ha sperimentato ciò che non ha sopportato per cinque anni, non l'atto che ha compiuto. Sono sempre stato affascinato da quel sorriso che io vedevo per i corridoi della mia scuola; è questa la libertà che mi affascina, la capacità di guardare dentro l'uomo, di guardare cioè quel nucleo indistruttibile di bellezza che c'è in ciascuno.
    Una delle cose belle che si trovano nel Vangelo è che, quando si parla dello sguardo di Gesù, si usano fondamentalmente tre verbi, che sono tre variazioni del verbo guardare, blépo; uno di questi verbi è "guardare intorno" come quando prima di dire qualcosa ci si guarda intorno; quando invece si riferisce al padre "guarda in alto" anablepo; quando invece guarda negli occhi qualcuno lo "guarda dentro", usa un verbo che è proprio "entrare con lo sguardo". Ricordate l'episodio del giovane ricco; in quel famoso episodio c'è proprio che "guardatolo lo amò"? Se noi riuscissimo a pensare per un attimo che cosa sia quello sguardo, forse la nostra vita avrebbe veramente un Gesù contemporaneo. Cosa ha visto quel ragazzo in quello sguardo? Attenzione, quello sguardo ha fallito, perché quel ragazzo non ha seguito Gesù. E allora noi a volte fraintendiamo la libertà che Dio ci ha dato con il pretendere che i giovani facciano quello che vogliamo noi. Per i cristiani, che un po' pretendono di avere la verità, questo è un rischio che si corre. Però noi assomigliano a Gesù proprio perché siamo liberi e allora il bello, la novità, di questa generazione è proprio questo: noi non dobbiamo portare i giovani a fare le cose che vogliamo che facciano (tanto non le fanno); dobbiamo portarli alla libertà di scegliere, ma per fare questo ci vuole quello sguardo. Quello sguardo creativo che è stato lanciato sulle cose quando furono create, quando Dio le guardò e vide che era una cosa buona; li il principio di corruzione della realtà non era ancora entrato, il bello-bene di cui si parla non è in contrapposizione col male che deve ancora entrare nel creato ma è su un altro piano: è sul piano di come Dio guarda le cose, un piano che è indistruttibile, lo stesso piano sul quale Dostoevskij, ne I fratelli Karamàzov, fa dire a uno dei personaggi, non come molti sostengono "la bellezza salverà il mondo", che sembra un principio platonico, nulla di più lontano da Dostoevskij stesso, ma "il mondo è salvato dalla bellezza", cioè la bellezza sta già salvando il mondo perché voi ed io non possiamo decidere che domani il sole non sorga o che le rose non continuino a fiorire con la proporzione geometrica della sezione aurea o che ogni fiocco di neve, pur avendo la stessa struttura geometrica, sia diverso uno dall'altro. Non lo possiamo decidere. La bellezza sta già salvando il mondo. Invece spesso vorremmo salvarlo noi e quindi vorremmo salvare questi ragazzi.
    Il problema è trasformare lo sguardo sui giovani come se fossero un oggetto da laboratorio, a quello che fa Gesù con tutti gli uomini che incontra: guardarli cioè come persone, come soggetti. Io ti guardo come ho guardato le cose quando le ho create, quindi come qualcosa le cui potenzialità sono tutte li da far fiorire; ti restituiscono la libertà e tu puoi essere veramente te stesso. Concludo con la storia di quel bambino in una classe elementare di una maestra russa, una pianista del '900 che si chiama Maria Yudina, una delle pianiste più virtuose che abbiamo avuto. Si tratta di un ragazzino orfano che si comporta male con tutti, commettendo furti, trattando male i compagni, dicendo parolacce agli insegnati, fino ad essere espulso dalla scuola. C'è il cosiddetto plotone d'esecuzione, tutti gli insegnanti schierati e questo ragazzino che viene accompagnato fuori dalla scuola. Ad un certo punto, nel vedere questa scena, l'insegnate scoppia in lacrime; il ragazzino se ne accorge, torna indietro, la abbraccia e dice: "Nessuno aveva mai pianto sulla mia vita. Prometto che cambio" e da quel momento diventa uno dei migliori della classe. Che cosa è successo in quel momento? È successo quello che le parole ci insegnano: che possiamo essere liberi solo quando diventiamo figli di qualcuno, e ritorniamo così al discorso del padre. C'è un padre che afferma il mio essere suo figlio, sempre e comunque, qualsiasi cosa io faccia? C'è un padre capace di piangere su di me e per me, perché la mia vita è bella indipendentemente da come mi comporto? Ciò che quella donna è riuscita a trasmettere è lo sguardo di cui si diceva prima attraverso le sue lacrime. "Nessuno aveva mai pianto sulla mia vita. Prometto che cambio". E la parola latina liber, che vuol dire figlio, è non a caso la stessa parola con la quale diciamo la libertà. Forse, per essere liberi, dobbiamo diventare figli di qualcuno. Invece, per dire che i ragazzi sono cattivi, usiamo appunto "cattivi", e questa coincidenza è molto bella, poiché la parola captivus vuol dire prigioniero. La differenza tra essere liberi o cattivi sta proprio in questo: essere figli. Sono i giusti di questa terra, come padre Puglisi, come Maria Yudina, come tanti altri eroi silenziosi, che fanno sì che Gesù sia contemporaneo per tutti questi ragazzi

    Chiamiamo i giovani nel modo giusto
    Roberto Vecchioni, Insegnante e cantautore

    Vorrei iniziare con una facezia: la barzelletta di un ragazzo, un mio studente, uno di quelli che, dopo le lezioni, vengono sempre a parlare di qualche cosa e appena trovano qualcosa di molto fuori del normale me la devono per forza dire, citare. Ecco la barzelletta. C'è Gesù che sta salendo frustato da tutte le parti e c'è un abitante di Gerusalemme che gli va dietro; Gesù viene frustato e sta zitto, gli piantano dei chiodi e lui sta zitto, non dice nulla, poi gli mettono la corona di spine e lui sta zitto, non dice nulla. Ad un certo punto l'abitante di Gerusalemme si rivolge a un centurione e gli dice: "ma non è possibile che non dica niente!" E il centurione gli risponde: "ma va là è la sua passione". È tremenda questa barzelletta, perché varia, perché ha un sacco di letture, nessuna delle quali casuali. Siccome stiamo parlando di giovani e Gesù, essa rende l'idea di quante interpretazioni ci siano sotto il titolo della nostra sessione: c'è il fondamento drammatico che investe tutti i giovani di oggi, cioè la negazione, il cinismo, che però è un cinismo finto, mascherato, dietro al quale c'è addirittura la fede. È come la storia dell'ateo che dice "Dio non c'è", ma tu non puoi dire Dio non c'è se sei ateo, non puoi nemmeno nominarlo. Se dici "Dio non c'è" già gli dai un'essenza: quella del non esserci. Il ragazzo arriva a dire una cosa del genere, arriva a mettere sul ridere drammaticamente una situazione tragica, da film di Mel Gibson, sangue di Cristo da tutte le parti, però al contempo dimostra tutta la secchezza, il dramma personale che sta muovendo gli animi e i cuori dei ragazzi di oggi. Questo essere fondamentalmente incompresi da un mondo pragmatico, assolutamente pratico, da un mondo di genitori che fuggono, da un mondo del quale si sperimentano tante separazioni. I giovani vivono la separazione assoluta dai bisogni (non hanno più qualcuno che li ascolta, hanno bisogno e non possono) e dai desideri. È tutto realizzato, c'è poco da desiderare; è tutto li in questi 20x40 cm, che sono uno schermo, c'è un mondo, c'è tutto l'universo, già comperato, già fruito, so già tutto, non devo sapere altro. Ma in questo so già tutto c'è la miseria di non saper niente, perché dentro i nostri giovani sanno benissimo di non sapere. È come dire: è la passione di Cristo prendere le botte. Però, in realtà, è come dirsi dentro "non è vero", dirsi cioè con una battuta blasfema che la sua passione è prendere le botte, sapendo che in realtà la sua passione è salvare gli uomini. C'è nei ragazzi di oggi un mistero profondo e meraviglioso, una duplicità, un Jekyll e Hide, che affascina noi tutti educatori, insegnanti, anche genitori: cioè questo loro voler essere perversi. Qualcuno parlava di Vasco Rossi, della vita spericolata, di questo voler essere spericolati. Eppure i giovani questa vita spericolata non la vogliono; la immaginano, la pensano, ma quando sono sul punto del baratro hanno sempre la mano alzata per chiedere aiuto a qualcuno, perché l'istinto fondamentale degli esseri umani, e anche dei giovani, è la conservazione, è il punto di riferimento, è il bisogno di qualcuno, è il bisogno di un maestro che non c'è. Siamo in un periodo in cui i maestri non ci sono, li abbiamo eliminati. Noi qualcuno che da piccoli ci insegnava, l'avevamo. A me nonna insegnava con le favole, con le storie. Oggi nessuno insegna più ai ragazzi. Non c'è più nessuno a cui riferirsi, ma non tutto si può fare da soli, non è possibile. Questa è una delle ragioni per cui li stiamo perdendo. Ma, attenzione, questo non è vero. Ho letto statistiche impressionanti circa il fatto che i giovani non sentono più Cristo, che si allontanano dalla chiesa, ecc. Non è così! C'è piuttosto un bisogno assoluto di starci dentro, ma probabilmente nessuno li va a chiamare nel modo giusto, nessuno che dica loro parole che li tocchino dentro, che racconti loro la storia vera di qualcuno che ha dato la vita per te. Bisogna che lo sappiano che non è un racconto, una storia, un mythos, la favola di Cristo che è morto in croce. È una cronaca, una verità, un assioma e non è stato nel tempo, non è successo 2000 anni fa, succede ogni secondo, ogni frattale di secondo che Dio muore: questo noi lo sappiamo e dobbiamo farlo capire ai ragazzi. Dio muore, sta morendo e lo fa per te. La sua Passione presa in giro da quella maniera che significa anche fede è la sua morte continua, che non è affatto la fine, come non lo è per noi, ma è assolutamente un segno di rinascita.
    Tutto ciò non lo si può raccontare ai ragazzi insegnando loro il catechismo a memoria; lo si insegna in tutt'altra maniera, lo si fa capire in tutt'altra maniera. Loro non aspettano altro. Io ho 4 figli, ma comunque ho tanti ragazzi, nel senso che ho un'aula, ne ho avute tante di aule per 40 anni, e sento che i ragazzi vogliono essere portati per mano da qualche parte. Il loro principio di ribellione, che è normalissimo a 14-15-16 anni e bisogna lasciarlo scorrere e bisogna lasciarlo libero, non è tuttavia il loro fine; è un'età di passaggio, è un rito di passaggio. Il bisogno è passare quel periodo e costruire se stesso, arrivare all'armonia, cioè l'unione delle parti: questa parte che mi era scappata la unisco a quest'altra, finché divento uomo, ma non uomo rincoglionito che dalla mattina alla sera pensa solo al lavoro, a bere la sera, a picchiare la moglie, in una vita fatta sempre delle stesse abitudini, ecc. ecc., piuttosto un uomo che sa che, oltre le fatiche che facciamo tutti i giorni, che hanno un senso perché manteniamo una famiglia, manteniamo degli operai o viceversa manteniamo purtroppo un padrone (può succedere benissimo), oltre tutto questo, c'è una strada che porta a qualcosa, un viaggio che porta ad un fine, una teleologia. In fin dei conti cosa ci dà tutto questo tecnicismo, tutta questa scienza, tutto questo sapere di come le cose avvengono, senza sapere nulla del perché avvengono? Non ci dà nulla; ci dà la facilità; più scienza abbiamo e più il tempo si riduce e più semplicità abbiamo. Non c'è teleologia, c'è soltanto praticità. Sapere in un secondo quello che prima sapevamo in 6 giorni è felicità? No, la scienza non dà felicità. L'imitazione della felicità, l'imitazione di Dio è invece tutto ciò che è umanesimo: sentire l'anima, l'arte, la poesia, il canto, il cuore e da questo la passione degli altri. È qui che dobbiamo arrivare. Se non facciamo conoscere Cristo ai ragazzi come trait d'union fra uomo e uomo, fra anima e anima, noi educatori, cattolici e non, che così altro possiamo offrire? Io non sono un gran cattolico, lo dico sinceramente, ma sono un grande umanista; amo la figura di Gesù, tantissimo; lo sento fortemente come Dio, non come uomo soltanto, come lo sentiva De Andrè, che nella "buona novella" lo sentiva come uomo, come grandissimo rivoluzionario. Io lo sento, lo sento costantemente, ogni giorno, in ogni atto, ogni secondo, come trait d'union tra un uomo e un altro. Il mistero di questa sofferenza, bellissimo, il mistero straordinario, meraviglioso che lui ha ridotto in pochi minuti: tutto il suo viaggio per il Calvario, da cui la battuta del ragazzo di prima, è praticamente l'allegoria del nostro viaggio terreno che è un continuo, progressivo andare di sofferenza in sofferenza, nel tentativo di dare un senso a questa sofferenza. I nostri ragazzi, i nostri giovani non è che sono assolutamente lontani; è che siamo noi a non essere vicini; la colpa è nostra; non ci siamo o non siamo vicini nel modo giusto, nel modo attento.
    C'è una cosa su cui ho riflettuto sempre durante i miei anni di insegnamento: ma voi lo sapete che Gesù, la figura di Gesù è stata la prima in tutta la storia delle religioni in cui si instaura il concetto di amore? Non esiste negli dèi greci, non esiste negli dèi egizi, non esiste negli dèi arcadici, non esiste da nessuna parte, non esiste nei Veda, nel Mahabharata, l'amore per Dio non esiste, non esiste nei primitivi, non esiste nelle religioni senza scrittura, non esiste in nessun modo; esiste solo paura e meraviglia per gli dèi anzi i dii - gli dèi sono quelli pagani, i dii sono quelli rivelati -. Per i dii non c'è amore, c'è grande rispetto, grande senso dell'altezza dalla quale "ci guarda e ci conduce", ma non è amore. Gesù non è un dio dei popoli; è un dio dei singoli; è il Dio di ogni uomo, di ogni coscienza, di ogni persona. Egli non preferisce San Marino alla Germania, gli importa solo dei singoli che sono tutti uguali; non cambia uno con l'altro e, ai suoi occhi, la gioventù di questi singoli esiste sempre. Io sono giovane, penso di esserlo a più di 60 anni perché è naturalmente una mia caratteristica interna, ce l'ho dentro, ed è questa capacità di avere pazienza, come Giobbe forse anche di più, di sapere che c'è un motivo per cui Dio ci dà questo da provare e riprovare, e questo motivo è l'amore, un amore che prima di Gesù non c'è mai stato. C'è di tutto nelle religioni ma non c'è questo "ama il prossimo tuo come te stesso"; chi l'ha mai detta una cosa del genere? Questa è la vera rivoluzione, che non c'è mai stata prima e non ci sarà mai dopo, nemmeno con le riforme, le controriforme, ecc, perché è semplicemente li. Il centro del cristianesimo è in questa frase e il centro del senso della vita di ogni uomo è nella frase finale di Giovanni - mi piace finire con questa frase, perché i giovani se sentono queste cose si emozionano, hanno bisogno di leggere il Vangelo con emozione - quando, lo sapete tutti, Gesù è in croce e il ladrone che ne ha fatte di tutti i colori si rivolge a Gesù e gli dice "ricordati di me". Il ladrone che magari avrà stuprato, ammazzato, picchiato fino a tre minuti prima di essere messo in croce, forse senza neanche immaginare che questa frase arrivi a quest'altro disgraziato che è la sua passione, che è li tutto sanguinante con le spine, i coltelli da tutte le parti, mezzo morto, con la lancia nel costato; questo ladrone gli dice: "ricordati di me quando sarai in Paradiso". E Gesù mica fa una piega; gli si volta e gli risponde l'unica cosa che un vero Dio può rispondere (quindi un vero uomo può rispondere, perché noi siamo una scintilla di Dio, perché dobbiamo rispondere così ogni volta): "stasera stessa tu sarai con me in Paradiso". Questo è il senso fondamentale del perdono, del sapere che siamo come Dio, e come Dio abbiamo l'umiltà di perdonare sempre.

    (Da AA.VV, Gesù nostro contemporaneo, Cantagalli 2012, pp. 329-345)


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