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    I giovani: i bisogni di

    una generazione fragile

    Vittorino Andreoli


    Q
    uando si parla di giovani c’è spesso il rischio di fare della retorica, a cominciare dalla separazione all’interno della società che viene sottintesa, come se ci fossero i giovani contrapposti agli adulti, e anzi i giovani rappresentassero un’entità omogenea che male comunica con le altre componenti della società stessa. Invece bisognerebbe sempre tenere insieme, nel rapporto, giovani e adulti, giovani e bambini, e quindi considerare i diversi gruppi nella dinamica della relazione.

    C’è poi un secondo rischio, che è quello di farne uno stereotipo, cioè di riportare tutta la grande variabilità delle espressioni del mondo giovanile all’univocità, arrivando così a parlare di un prototipo, di un giovane che non esiste e che nasce, invece, solo dal bisogno di semplificazione. Poi, quando lo andiamo a cercare nelle persone reali, ci accorgiamo di non trovare nessuna rispondenza.
    Consapevole di questi rischi, voglio comunque parlarvi dei giovani: di loro e dei bisogni di una generazione fragile. E devo subito dirvi qual è il mio punto di vista, perché questo serve per mettere meglio a fuoco i ragazzi con cui io vivo prevalentemente, ma anche il dire che questi giovani in qualche modo, sia pure con intensità diversa, esprimono i sentimenti e i comportamenti di quelli che io non vedo, almeno non nell’ambito della mia realtà professionale quotidiana. Ebbene, io mi occupo di giovani “rotti”, che erano fragili, e posso dirlo con certezza, perché sovente si sono spaccati.
    Sono come quei meravigliosi vetri di Murano, straordinari, perfetti – ben vestiti, molto curati – che, tuttavia, hanno dei punti di minore resistenza e basta toccarli perché vadano in frantumi, e sembra impossibile ricostruirli. Sono loro che io amo in modo particolare, gli adolescenti “rotti”, perché mi sembra che siano la parte del mondo giovanile che più soffre, anche se apparentemente si mostra con atteggiamenti eroici e qualche volta sono addirittura difficilmente comprensibili e possono stimolare al rifiuto, alla non accettazione.
    Ma chi si occupa di violenza nel mondo giovanile sa che per capire la violenza bisogna prima sapere cos’è il dolore. Oggi non parlerò specificamente di questi giovani, però voglio dire che anche la comprensione di questi esempi che vanno sulle cronache e poi fanno spettacolo, e sono “a temperatura elevata”, quasi una febbre a quarantadue, serve poi a meglio decifrare quei giovani che magari hanno solo una febbrina o appaiono tetragoni.
    Insomma credo che la generazione di giovani con cui ci troviamo a vivere sia tutta più o meno fragile. E questo potrebbe aprire una lunga disamina sul perché ciò accada nella nostra società, costruita da noi padri, una società che ha raggiunto molti obiettivi per chi come me da bambino aveva dinanzi agli occhi l’immagine del mondo distrutto da una guerra e l’idea di ricostruirlo. Siamo una generazione di padri che ha iniziato a lavorare senz’accorgersi forse più che si doveva fare anche dell’altro. Comunque, a prescindere dalle motivazioni su cui si potrebbe discutere a lungo, so che abbiamo generato delle fragilità, abbiamo contribuito a determinarle.
    Però non sono qui per dare allarmi, voglio invece richiamare l’attenzione su questi ragazzi che hanno certamente bisogni diversi dai nostri. E questa è la prima considerazione su cui soffermarsi: i padri non devono pensare che questi figli abbiano gli stessi bisogni che avevano loro quando erano giovani. Insomma, il fatto di esser diventati grandi e di aver passato quel periodo della giovinezza non dà legittimità a pensare di poterli guidare suggerendo tutto: bisogna prima capirli, ascoltarli, perché sono giovani fragili, e forse hanno delle fragilità che noi nascondevamo, perché forse manifestavamo altri bisogni, e quindi altri comportamenti.
    Insomma, sottolineare che sono fragili è soltanto un invito da parte mia a essere più attenti e a volere loro più bene, perché la fragilità non è una questione di razionalità, di valutare dei sistemi di pensiero, ma, invece, di stabilire dei sentimenti, delle relazioni. Basti pensare ad uno dei tanti segnali: gli adolescenti di oggi non si piacciono. Sentono di essere orrendi, brutti, fisicamente e psicologicamente. A noi appaiono come ragazzi bellissimi, eppure stanno ore davanti allo specchio per una metamorfosi, qualche volta impossibile, una metamorfosi che prima è quella del cambiamento del viso, si strappano le sopracciglia con violenza, devono tirarle via come se fossero qualcosa di orripilante. Poi c’è la lotta con la bilancia, e ancora con quello specchio attraverso cui si guardano nei bagni, quegli specchi in cui il viso si moltiplica e ogni minima imperfezione della pelle, anche un piccolo brufolo diventa una deturpazione.
    Insomma, questa è la loro quotidianità: vivere ogni giorno con la sensazione di essere mostruosi e con l’idea e la paura di non essere accettati.
    La conseguenza immediata è che il gruppo rappresenta la salvezza. Il pensiero si snoda così: «Se non mi accettano io chi sono? Sarò solo». Quindi, non piacendo a sé e con il terrore di non piacere agli altri, per essere accettati sono disposti a fare qualsiasi cosa il gruppo richieda.
    Ecco allora il bisogno di metamorfosi, il desiderio assoluto di essere diversi, di cambiarsi, di trasformarsi. Questa è pure fragilità.
    Lo so che chi non ha mai sostato molto davanti allo specchio non li capisce e anzi prova addirittura fastidio per queste problematiche.
    Invece dobbiamo capirli, perché sentirsi orrendi, sia vero o no, significa essere fragilissimi, temere tutto. È una generazione che ha bisogno di più attenzione, e anche di uno sforzo di comprensione da parte nostra, e parlo di sforzo perché per noi non è un passaggio automatico: noi non ci sentivamo così. Per noi, alla loro età, l’importante era capire, sapere.
    Però vorrei che non guardaste a quel passato con troppa nostalgia, perché questi sono i nostri figli, quindi sono figli che nascono da uomini tetragoni. Dunque, non viviamo solo di ricordi, ma per amare di più questi ragazzi fragili. Perché devono diventare protagonisti di questa società, e sono sicuro che il Presidente Prodi ci dirà che dovranno essere anche protagonisti dell’Europa.
    Non ci sono alternative: o questi ragazzi saranno protagonisti nel quotidiano o diventeranno eroi del nulla, e per eroi del nulla intendo gli eroi delle grandi velocità, dei grandi rischi, gli eroi del combinare quello che tutte le cronache raccontano ogni giorno. Potete essere sicuri che quell’eroe del nulla non era protagonista della società, non a scuola, non dentro la famiglia. E di questo, invece, hanno bisogno, del protagonismo che non significa il successo, si badi, che è la patologia del protagonismo, ma avere senso; vuol dire arrivare a casa e sentire che tuo padre, tua madre, hanno bisogno di te, del tuo sorriso, perché un padre per poter essere equilibrato ha bisogno del proprio figlio.
    Insomma, non bisogna fare separazioni nette. Persino rispetto alla follia, di cui mi occupo, tanti anni fa, quando ho cominciato, pensavamo che capirla significasse analizzare qualche cosa che era dentro il corpo. Oggi, invece, sappiamo che la mia normalità o la mia follia dipende anche dai figli che sono in casa con me, dipende da mia moglie, dipende da tutte le persone con cui sono relazionato. E quindi è certo importante la biologia e come ciascuno di noi è fatto, ma risulta determinante il modo in cui si stabiliscono rapporti, e i rapporti sono soprattutto di tipo affettivo.
    Allora ognuno di noi deve riflettere sul modo di rendere protagonisti i giovani e questo vale soprattutto per gli uomini che hanno responsabilità amministrative, o perché rivestono ruoli fondamentali nelle decisioni economiche, o perché sono nella parte dell’organizzazione di questo mondo. Pensate al protagonismo dei giovani, pensate a come fare in modo che i nostri giovani abbiano un senso, e che quando si pongono la domanda: «Io chi sono?», possano darsi una risposta positiva, altrimenti diventeranno eroi del nulla.
    Con questo non intendo assolutamente togliere la responsabilità di ciò che un giovane fa, ma voglio anche ricordare che le relazioni, e quindi tutti quelli che sono in rapporto con quel giovane, con quell’eroe del nulla, hanno una grande responsabilità.
    Spero insomma con questa premessa di avervi dato un’immagine di un mondo giovanile che dentro, nel profondo, è intrecciato con il nostro, fatto di ragazzi fragili che vanno conosciuti meglio, e forse aiutati, ma certamente sono ragazzi a cui dare fiducia. E non si tratta di un dono, questo, che ciascuno di noi fa, bensì di una necessità: non è possibile una società se questa non punta e non guarda ai giovani. Una società fatta di tante brave persone ma adulte è una società destinata a finire.
    È come in una corsa a staffetta in cui non si passa il testimone: non si potrà arrivare al traguardo.
    Questo inquadramento generale del mondo giovanile mi permette adesso di entrare nel vivo del tema del convegno. Perché se la Fondazione ha deciso di riflettere sul tema del risparmio e io non ne ho le competenze economiche specifiche, posso parlare di quello che credo si coniughi bene con il risparmio. E sono due parole: futuro e desiderio.
    Pensate che sia possibile risparmiare, che significa mettere qualcosa da parte – non importa che cosa – per il domani, se non c’è la percezione del futuro, se non c’è nessun desiderio per il domani o per il dopodomani? Su questo punto nasce spesso un’incomprensione dei figli verso i padri che magari dimostrano ancora di risparmiare, che vanno negli istituti di credito, che pensano ad un futuro che gli altri non percepiscono. Perché il risparmio ha senso solo se esistono in questa generazione il desiderio e la percezione del futuro. Senza è inutile.
    È assolutamente irrilevante che gli istituti promuovano regali di salvadanai, libretti o carte di credito con scadenze posticipate. Subito questi ragazzi vanno dalla mamma e li vendono a metà prezzo.
    Che senso ha per loro domani, dopodomani, tra cinque anni? È un tempo che non riescono nemmeno a immaginare. Questi adolescenti che noi definiamo iperconcreti vivono il qui e adesso e arrivano forse a domani, al sabato, alle vacanze.
    Certo, ho premesso che non tutti i giovani corrispondono a questo schema e che la variazione è più o meno intensa. Però c’è una tendenza di cui dobbiamo tenere conto. Il risparmio diviene una specie di spia del mondo, dei significati che i giovani danno alla vita. Per questo sarei felice di sapere che i giovani risparmiano molto, perché vorrebbe dire che guardano al futuro, vorrebbe dire che hanno desiderio.
    Permettetemi, allora, di definire brevemente che cosa siano queste due parole fondamentali per chiunque abbia intenzione di occuparsi dei giovani protagonisti o di promuovere il risparmio. Insomma, voi uomini di economia, voi uomini di previsione di come le città e il mondo funzioneranno, dovrete capire che investire nei giovani e in quello in cui credono è una condizione necessaria perché abbia senso il sistema che gestite.
    Dunque, che cos’è il desiderio? Non è una definizione ingenua, perché ci sono due possibili desideri, come chiarirò tra poco.
    Quello a cui mi riferisco, quello che sostanzia l’esistenza, è la capacità che ciascuno di noi ha di immaginarsi diverso da come è adesso, nel futuro. Vuole dire, insomma, che io, in questo momento, riesco a proiettarmi più avanti, progettarmi più avanti, in un tempo sempre un poco spostato, che può arrivare all’eterno, come è, per esempio, nella fede.
    Questa dimensione, l’immaginazione di un mondo futuro che sarà, ha il potere di cambiare anche il mio presente, perché mi toglie dal vissuto immediato, da quello che sono adesso, con le paure del quotidiano. Il desiderio crea la possibilità che il senso del mio limite di oggi possa essere superato, perché ci sarà un me stesso diverso.
    Anche la nostra generazione non avrebbe fatto nulla senza il desiderio. Anzi c’è stato un momento in cui avevamo solo desideri, eravamo ricchi di desiderio. Adesso sono ricchi di tanti oggetti, ma poveri di desideri. E noi dobbiamo e possiamo insegnarlo: insegnare che tutto non si risolve con quella interrogazione che è una specie di strategia del superare il qui ed ora.
    Il desiderio suggerisce una prospettiva. Ma perché questo desiderio si realizzi che cosa ci vuole? Noi psicologi diciamo che in ciascuno di noi bisogna che esista un io attuale, cioè quello che io sono adesso, a cui si affianca un io ideale, cioè quello che mi piacerebbe essere. Sarebbe perfetto, forse, se l’io attuale corresse sempre dietro al proprio io ideale, ma talvolta è bene che si sposti perché altrimenti ci si monterebbe la testa.
    Il desiderio di cui parlo si lega al soggetto, ad ognuno di noi, e quell’io attuale si lega ad un io ideale attraverso un progetto: un progetto che avviene nel tempo.
    C’è un altro desiderio cui accennavo all’inizio e che va differenziato da questo: è il desiderio spot. È quel desiderio per cui si dice in 20 secondi quello che devi fare: devi uscire subito, devi andarti a comperare una cosa, se non ce l’hai sei sbagliato e soprattutto avverti l’unica sensazione di colpa possibile, perché ormai esiste solo la colpa di non seguire la dieta e di non realizzare uno spot.
    A differenza di quello di cui ho parlato sinora, si tratta di un desiderio di massa, che toglie ogni specificazione al singolo, che omologa. Un desiderio ben orchestrato da quanti fanno affari con esso, con una capacità comunicativa sorprendente. Il desiderio spot porta ad una voracità dell’oggetto per cui appena consumato c’è subito la prospettiva di un altro, e quindi non c’è più la rincorsa del proprio io attuale verso un io ideale, ma è la corsa da un oggetto ad un altro, la voracità. Siamo diventati consumatori di oggetti che non soddisfano mai, perché sono tutti indotti. E questa è l’ingegneria dei desideri che si devono sedare. Non ha nulla a che fare con il desiderio nel senso di cui parlavo prima. Il bisogno indotto dallo spot non è scoperta di sé, non è progettualità, non coinvolge l’io ideale.
    Sono convinto che anche il risparmio giovanile ruoti attorno a queste due parole, desiderio e futuro, che poi riguardano il tempo, – e forse questa società è proprio cambiata nella percezione del tempo: tutto è più veloce, tutto è rapidissimo, tutto deve essere a breve. Ed è cambiato anche un altro tema, e con questo finisco; poiché è scomparso il futuro, si è annullata anche una di quelle meditazioni che servivano molto a vivere: era la meditatio mortis. Ho cercato di dirlo in latino perché non se ne può parlare, di morte, anche se questa è una società che presenta morti ammazzati continuamente, in televisione, al cinema, nei videogiochi.
    Però le statistiche ci dicono che la causa principale con cui i giovani finiscono il loro tempo è il suicidio o sono gli incidenti stradali: e sappiamo che almeno il 20% degli incidenti stradali sono suicidi mascherati. Allora forse capite il perché, quando mi è stato proposto di affrontare il tema del risparmio, io abbia manifestato entusiasmo, pur non avendo nessuna competenza economica. E spero che magari più avanti ci diciate, voi che avete le chiavi delle casse, che i giovani risparmiano tanto, perché sarebbe un segnale, sia pure indiretto, che noi padri stiamo guardando meglio ai nostri figli e stiamo dando loro speranza nel futuro e insegniamo loro a desiderare.


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