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    Davanti alla prima

    generazione incredula /1

    L’annuncio ai giovani al tempo della postmodernità

    Armando Matteo

    La società e i giovani

    Di giovani si parla spesso. Nella politica, nel mondo della cultura, dell’educazione, del lavoro e anche in quello della Chiesa.
    Si tratta di un fatto piuttosto nuovo nella storia dell’umanità. La giovinezza, come determinata fase della crescita umana, è piuttosto recente. Nel passato non esisteva quello spazio anagrafico così specifico che noi oggi definiamo l’età giovane. Il tragitto dall’adolescenza alla maturità era molto veloce, rapido. Si era giovani quasi di passaggio. D’altro canto, la lunghezza media della vita era piuttosto bassa, a causa delle malattie, della scarsità delle risorse, dei lavori usuranti ed infine dei conflitti bellici.
    È dunque di fresca data l’avvento della giovinezza, così recente che fa sempre difficoltà fissarne i limiti. È nata con il boom economico, con la nuova strutturazione culturale della società occidentale, in gran parte culminata nella rivoluzione del 1968. I giovani e la giovinezza, con quel tocco di spensieratezza che deriva dal lusso dell’aver ‘tempo’ per decidersi sul tipo di persona che si intende essere, sono il frutto del sogno e del lavoro di quei genitori che, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, desiderarono un futuro migliore per la loro prole: da qui l’investimento per la diffusione della cultura, dei mezzi sanitari, la ricerca di un equilibrio più pacifico tra le nazioni, la diffusione di un tenore di vita con più comfort e con una maggiore qualità della vita. Da qui anche la magia legata alla parola ‘giovinezza’.
    La questione giovanile – e cioè il problema dei modi con cui la società civile si deve interessare dei giovani – è dunque essa stessa nuova, prima i giovani semplicemente non esistevano ed è questione che, a ben vedere, tuttavia tocca l’identità stessa della nostra società. L’interrogativo circa la cura da riservare ai giovani non è un tema marginale del benessere della società, ma è come una cartina di tornasole in riferimento all’ideale di umanità che la guida.
    Ebbene, quale cura si esprime attualmente nei confronti dei giovani? L’impressione generale è quella di una società che nutre ambivalenti sentimenti nei loro riguardi. Da una parte chiunque si rende conto delle difficoltà che le nuove generazioni riscontrano nel trovare un lavoro, un’abitazione, un ambiente per mettere serenamente figli al mondo e per condurre un’esistenza sottratta alla frenesia e alla pazza corsa delle nostre metropoli postmoderne. Dall’altra, tuttavia, le concrete iniziative a vantaggio dei giovani non sembrano appropriate alle loro oggettive difficoltà. In questo settore ci si muove con inusuale lentezza e la strategia adottata, alla fine, risulta quella di ‘parcheggiare’ i giovani in particolari ‘non luoghi’ quali l’Università, con percorsi formativi smisurati tra lauree brevi, lauree magistrali e master (spesso inutili), le mille forme del precariato, l’infinito periodo del fidanzamento (spesso e paradossalmente destinato a durare più a lungo del matrimonio, quando ovviamente ci sono le forze e la pazienza per giungere a tale evento) e l’impossibilità di assumere ruoli di qualche responsabilità nella gestione della cosa pubblica. Non è certo una situazione particolarmente felice. Ma forse, guardando le cose più in profondità, tale situazione ha a che fare proprio con la relativa ‘giovinezza’ della giovinezza: tradisce, infatti, una forma di particolare risentimento nei confronti dei giovani. In una società, infatti, dove è un must sentirsi e mostrarsi (spesso ad ogni costo e ancora più spesso senza alcun senso di misura) ‘giovani’, coloro che giovani lo sono davvero, per ragioni anagrafiche, creano fastidio, imbarazzo. Questi ultimi, infatti, con la loro pura presenza testimoniano che non tutti sono giovani ed è per questo che attirano su di sé il risentimento collettivo, che produce una bassa qualità di attenzione nei loro confronti, mancando di predisporre le condizioni per un loro autentico sviluppo sui diversi livelli che caratterizzano l’esperienza umana.
    In tutto ciò emerge la seria incompetenza dell’attuale società a ridefinire i rapporti tra le generazioni, le quali hanno subìto un processo di trasformazione di portata straordinaria e di incredibile velocità, e non è certo facile prevedere come si svilupperà un tale stato di cose. Di sicuro da questo dipenderà molto del futuro della civiltà occidentale. Del resto, le attuali strumentazioni concettuali non sempre riescono a tenere il ritmo della rapidità con cui si ridefinisce il volto della stessa società: «Oggi basta avere almeno quarant’anni per percepire la sensazione di distacchi epocali da interi mondi di abitudini e di comportamenti perduti, e che si stanno completamente dimenticando»[1].

    La Chiesa e i giovani

    È, a mio avviso, importante tenere sullo sfondo questo quadro generale del rapporto fra società postmoderna e giovani, volendo riflettere su una questione così importante come quella delle modalità più appropriate per l’annuncio del Vangelo alle nuove generazioni. La proposta della sequela di Cristo non avviene in ambienti igienicamente sterilizzati, ma nel concreto di un tempo e di uno spazio, cioè all’interno di dinamiche esistenziali ben definite e spesso delimitanti, sulle quali la stessa fede intende pure avere un effetto di salvezza e di umanizzazione.
    Che quello dell’evangelizzazione dei giovani al tempo della postmodernità sia un tema aperto lo testimoniano molti fattori. Pochi anni fa, un’autorevole e sapiente voce laica aveva attirato l’attenzione della pubblica opinione sul caso:
    In Italia e anche in altri paesi folle devote riempiono ogni tanto con fervore le piazze e grandi occasioni rituali destano il momentaneo interesse della gente e dei media, ma le chiese si svuotano ogni giorno di più, sacramenti come il battesimo e il matrimonio religioso cadono sempre più in disuso e soprattutto sparisce la cultura Cristiana e Cattolica, la conoscenza elementare dei fondamenti della religione e perfino dei più classici passi e personaggi evangelici, come si può constatare frequentando gli studenti universitari. Si tratta di una mutilazione per tutti, credenti e non credenti, perché quella cultura cristiana è una delle grandi drammatiche sintassi che permettono di leggere, ordinare e rappresentare il mondo, di dirne il senso e i valori, di orientarsi nel feroce e insidioso garbuglio del vivere[2].
    Ed è proprio così: i giovani si stanno disaffezionando alla pratica di fede. Le percentuali di coloro che frequentano corsi di catechesi post-cresimali sono scoraggianti, la disinvoltura con cui le nuove generazioni disertano l’assemblea eucaristica domenicale solleva più di una domanda circa l’effettiva interiorizzazione dell’annuncio di fede, le grandi associazioni cattoliche di antica data e i nuovi movimenti sembrano aver perso più di un colpo sul terreno della loro attrattiva sulle fasce giovani.
    Ora la diminuzione di interesse, da parte dei giovani, per il mondo della fede solleva una prima seria domanda: quale spazio di attenzione e di investimento ecclesiali attira oggi la questione dell’annuncio del Vangelo alle nuove generazioni?
    A prima vista, quella posta sembra una domanda piuttosto semplice, che potrebbe trovare un’altrettanto semplice risposta. Eppure non è così. Come nel caso della (non-)relazione tra società contemporanea e giovani, la qualità dell’attenzione di cui oggi può oggettivamente disporre l’evangelizzazione dei giovani nell’ambito ecclesiale è tema che tocca in profondità l’immagine che la Chiesa intende offrire di sé. Per questo richiede coraggio, franchezza di spirito, autentico senso della responsabilità che l’annuncio del Vangelo comporta.
    Su questa linea ci vengono incontro, profondamente illuminanti, alcune parole del cardinale Walter Kasper che vorremmo orientassero tutta la presente riflessione, in quanto la sintetizzano in maniera lucidissima:
    Giovanni XXIII nel suo celebre discorso di apertura del concilio Vaticano II ha parlato del futuro con un ottimismo che oggi ci sembra quasi ingenuo ed ha promesso alla Chiesa una nuova pentecoste. Dopo questa fase, relativamente breve, di fioritura, la Chiesa ha tuttavia ripreso ad aver paura del suo proprio coraggio. Si ha ora di nuovo paura del rischio, che libertà e futuro comportano, e ci si è votati in larga parte ad un’opera di conservazione e di restaurazione. Tuttavia se la Chiesa diventa l’asilo di quanti cercano riposo e riparo nel passato, non deve meravigliarsi se i giovani le voltano le spalle, e cercano il futuro presso ideologie e utopie di salvezza, che promettono di riempire il vuoto che la paura della Chiesa ha lasciato libero[3].
    Parole certamente dure, nette, anche spiazzanti, ma non per questo meno vere.
    La questione relativa all’annuncio del Vangelo ai giovani di questo tempo richiede, infatti, senz’altro coraggio. Innanzitutto è necessario il coraggio di riconoscere che tra Chiesa e giovani oggi esiste una sorta di ordinaria incomprensione, di parallelismo di cammini, che produce, da una parte, Chiese sempre più vuote e dall’altra esistenze senza più Chiesa.
    Ci vuole coraggio per guardare in volto la generazione giovane che abbiamo davanti prima di iniziare parlare di e a questa generazione.
    Ci vuole coraggio per distinguere ciò che è vivo e ciò che è morto nell’odierna prassi pastorale e nella relativa teologia pastorale che la giustifica.
    Ci vuole coraggio nel riconoscere che le attuali forme di attenzione da parte delle Conferenze episcopali al mondo giovanile, fortemente incentrate sui grandi incontri delle Giornate Mondiali della Gioventù, sui pellegrinaggi ai Grandi Santuari, e, nel caso italiano, sull’Agora dei giovani italiani[4] – tutte esperienze extraparrocchiali – lascino in verità intravedere un qualche immobilismo della vita ordinaria delle parrocchie, dove potrebbe maturare e crescere un’autentica coscienza credente, giovane o meno giovane che sia.
    Solo sulla base di questo coraggio può nascere qualcosa come il rischio di una nuova scommessa su e per un annuncio del Vangelo ai giovani del nostro tempo.

    Interessano davvero i giovani?

    Se è vero che un albero lo si giudica dai frutti, piuttosto che dalle foglie, mi pare che il punto di partenza – un punto di partenza coraggioso, ovviamente – sia quello di chiederci se davvero oggi la comunità cristiana sia interessata ai giovani ed in particolare alla questione dell’annuncio del Vangelo a essi commisurato. Avverto che già solo questa domanda potrebbe risultare provocatoria e irritante, ma solo se si continuano a guardare le foglie…
    Un rapido sguardo alla strutturazione concreta della vita media delle parrocchie italiane non mi pare offra un’incontestabile testimonianza di attenzione ai giovani: le forme più consuete di preghiera comunitaria risalgono all’Alto Medioevo (lectio, rosario, ufficio delle ore, adorazione eucaristica), gli oratori ove non spariscono languiscono, le forme della crescita della fede coincidono sostanzialmente con quelle della diaconia ecclesiale (un giovane impegnato a decidersi per Gesù è un giovane che fa catechismo, uno cioè chiamato a trasmettere ad altri ciò per cui dovrebbe decidersi di vivere!).
    Il tutto viene ampiamente confermato dal generale senso di ‘deserto ecclesiale’ che si respira nei luoghi che i giovani effettivamente abitano: i luoghi del lavoro e quelli della formazione, scuola e università. L’investimento di risorse (preti e suore, a tempo pieno), di strategie e di passione in questi luoghi è sotto la soglia del mero simbolo.
    Abbiamo già ricordato che neppure le associazioni e i movimenti possano vantare al riguardo situazioni particolarmente floride. Dopo gli splendori iniziali, la sensazione è che anche queste forme di esistenza cristiana si infittiscano per quel che riguarda le fasce adulte, mentre con più difficoltà che nel passato riescano ad agganciare quelle giovani.
    La situazione diventa ancora più preoccupante quando si pensa al fatto che le agenzie educative per eccellenza, scuola e famiglia, vivano un periodo di singolare fatica, che la lingua ecclesiastica ha ormai imparato a nominare come emergenza educativa. Questo significa molto semplicemente che i luoghi suddetti con sempre maggiore difficoltà riescono a promuovere un’efficace crescita nell’umano dei giovani e ancor meno una prima introduzione al mondo della fede.
    Su questa azione efficace e capillare di mistagogia al mistero cristiano realizzata da parte dalle famiglie e dalle maestre del ‘piccolo mondo antico’ che è stato l’Occidente europeo sino alla fine degli anni Settanta, la comunità cristiana ha fatto senz’altro a lungo affidamento, potendo tranquillamente ritenere che, anche se non raggiunti direttamente dal parroco, dal cappellano e dalle suore della parrocchia, i giovani avessero avuto mediamente un primo annuncio del Vangelo. Crescere e credere andavano di pari passo.
    Ho volutamente usato il verbo al passato ma, se la nostra riflessione non deve avere paura del coraggio, sarebbe da chiederci in quale misura, in verità, la comunità cristiana – o almeno i suoi responsabili – non giudichi che le cose stiano ancora nei termini detti, se cioè non ritenga ancora presente un vasto tessuto popolare del cristianesimo, radicato nelle famiglie e nella classe docente, capace di giungere lì dove l’esplicita azione della Chiesa fatica ad arrivare.
    Detto francamente, l’impressione globale non pare essere quella di una Chiesa decisamente appassionata per l’annuncio del Vangelo ai giovani. Per questo le attuali forme di evangelizzazione dei (pochi) giovani che ancora la frequentano e di quelli che in qualche maniera vengono avvicinati risultano fortemente fuori misura, in fondo semplicemente indirizzate a dare una ‘forma ecclesiale’ a una decisione per il vangelo di Cristo che il giovane avrebbe già dovuto compiere nel suo percorso/processo di crescita.
    Dietro un tale comportamento mi pare si stagli la realtà di un mancato discernimento dell’autentico volto della generazione dei giovani in relazione al mondo della fede. È come se si desse per scontata una certa fisionomia ‘spirituale’ dei giovani postmoderni, che rassicura circa la bontà dell’attuale procedere e non invita a rischiare su nuove strategie ed investimenti.

    I giovani non sono più quelli di una volta

    Come spesso capita nelle cose degli umani, in un’unica frase ci può essere racchiusa tanta banalità e tanta sapienza. Basta spostare l’accento interiore con cui la si formula, ed ecco che il gruppo di parole ti fa spalancare gli occhi con inquietudine oppure te li fa chiudere con un senso di tranquillità. Lo stesso si può dire oggi in relazione all’identità dei nostri giovani, alle loro idiosincrasie e alla loro (non)relazione con il mondo ecclesiale e più in profondità con il Vangelo. Si può appunto dire che «i giovani non sono più quelli di una volta», nel senso banale del fatto che piccole o grandi distorsioni dal canone di una vita normale sono più che giustificabili in chi si trova in cammino verso la propria identità e che pertanto possono venire ‘accettati’ senza particolari turbamenti. È insomma normale che non sia normale, il comportamento dei giovani.
    Dall’altra parte si può e si deve riconoscere che alcuni fenomeni e comportamenti risultino particolarmente inediti, richiedano un supplemento di indagine e alla fine il coraggio di mettere in questione i propri parametri di valutazione, il proprio paradigma di interpretazione. E allora dire che i giovani non sono più quelli di una volta dovrebbe condurre al riconoscimento del fatto che le attuali condizioni all’interno delle quali prendono forma i cuccioli degli uomini abbiano lentamente, ma non per questo meno efficacemente, determinato una nuova costellazione dell’umano con non poche ripercussioni per quel che riguarda l’accesso alla bontà del Vangelo.
    Più concretamente dire la novità delle nuove generazioni rispetto al mondo della fede significa riconoscere che oggi ci troviamo di fronte alla prima generazione incredula della storia dell’Occidente: una generazione che semplicemente sta imparando a cavarsela senza Dio e senza Chiesa, non perché si sia esplicitamente collocata contro Dio o contro la Chiesa, ma molto più elementarmente perché non ha ricevuto alcuna in-formazione circa la convenienza umana dell’esperienza credente. Né in famiglia né nei luoghi della formazione primaria, cosa che al contrario viene ancora implicitamente presupposta da ogni iniziativa ecclesiale nei confronti dei giovani.
    L’attuale situazione del mondo giovanile sul piano della fede ha poi anche i suoi costi ampiamente verificabili per quel che riguarda il loro comportamento ordinario, il loro non essere ‘come quelli di una volta’, in larga misura contrassegnato da quell’«ospite inquieto», giustamente individuato da Galimberti nel nichilismo. Il quale rappresenta una specie di ‘notte dello spirito’ in cui tutte le possibilità sono uguali tra di loro e quindi alla fine sono uguali a niente, rendendo ogni decisione equivalente a un’altra e spingendo la vita sul ritmo del puro esperimento. Non è senza costi l’assenza di Dio nella vita degli umani. Questo è il cuore della passione di Gesù, questo è il cuore dell’annuncio della Chiesa.
    Come si vede, il tema si infittisce. L’argomento dell’annuncio ai giovani nel tempo della postmodernità ci invita a considerare più a fondo le dinamiche culturali che hanno generato quella precedentemente definita ‘prima generazione incredula’ della storia, ovvero la genesi di quella interruzione della cinghia di trasmissione tra istruzioni del vivere ed istruzioni del credere; ci sollecita a indagare sul come tenda a scomparire quell’azione di anonima mistagogia al mondo della fede efficacemente realizzata dalle famiglie e dalla scuola, sulla quale sinora ha potuto contare la prassi ecclesiale.

    Un mondo senza Dio

    L’assenza di Dio nella vita dei giovani si deve alla profonda rivoluzione culturale che ha investito l’Occidente negli ultimi cento anni. In questo lasso di tempo, la coscienza comune ha iniziato a decifrare l’enigma dell’umano facendo lentamente a meno della grammatica offerta dalla tradizione, ampiamente gravitante nell’orbita del cristianesimo. E quest’ultimo è stato trascinato nel processo di obsolescenza toccato al tradizionale sapere sull’umano. La cosa sia detta qui senza alcun tipo di giudizio sulla convenienza o meno di tale operazione. È qualcosa che ci è accaduto, e che ora dobbiamo comprendere, per poter valutare correttamente. Non si lotta mai contro la storia.
    Dalla fine dell’Ottocento si è iniziato a imporre innanzitutto il rinnegamento del tradizionale modello platonico di dare un ordine alle cose del mondo, con la fondamentale distinzione ontologica e assiologica tra finito e infinito e con l’ulteriore indicazione della consistenza e destino eterni dell’anima umana: i maestri sono qui Darwin, Freud, Nietzsche, il tempo della seconda industrializzazione, i quali hanno convinto l’Occidente a guardare con occhi diversi il finito, la sua durezza e la sua amabilità, la sua consistenza e anche la sua potenzialità.
    I primi decenni del secolo successivo registrano l’avvento di un nuovo canone di esercizio della razionalità: meno preoccupato dell’oggettivo e più interessato a tessere trame di relazione tra la realtà ed il polo affettivo-emozionale del soggetto umano, meno segnato dall’azione di distinzione e più incline alla correlazione, meno ossessionato dal criterio della verità e più disponibile alla pratica della traduzione. È emersa qui la forza dei pensieri e delle opere di Picasso, Joyce, Guardini, Kafka, Schönberg, Husserl, Buber, i quali hanno sconvolto l’episteme aristotelica, la forma del metodo cartesiano, l’impostazione kantiana dei confini del sapere.
    Il secolo Ventesimo passerà alla storia come il secolo della tecnoscienza: lo sganciamento della ricerca tecnica dalla immediata risposta ai problemi concreti dell’esistenza umana e la sua totale dedizione al perfezionamento dei propri prodotti, a prescindere dalle funzioni pratiche che questi ultimi potranno in seguito assolvere, rappresentano l’atto di nascita del mondo attuale. La cosa ha avuto grandissimo successo per gli immediati benefici, anche al di là delle concrete speranze e proiezioni dei singoli: è aumentata la mobilità, la capacità di comunicare, è migliorata la pratica sanitaria, l’economia si è trasformata in finanza. E, oltre una certa soglia, la quantità si trasforma in qualità: la vita umana non viene dalla tecnica semplicemente abilita a fare più cose e a farle contemporaneamente. Viene più profondamente avviata a un diverso modello di percezione e valutazione dell’agire stesso. Si impone l’imperativo categorico dell’autoperfezionamento: si deve sperimentare ciò che è tecnicamente sperimentabile. La vita è possibilità, è esperimento: is now!
    In tal modo viene scomunicato il modello agostiniano dell’etica del sacrificio, al suo posto subentra l’etica della promozione, della possibilità, dell’autosuperamento. Il ’68 nelle sue forme bizzarre e anarchiche celebra proprio tutto questo: il suo felice slogan del ‘vietato vietare’ getta lunghe ombre su ogni aspetto del sapere tradizionale dell’umano e sulle forme istituzionali attraverso le quali esso si trasmetteva. Così anche il cristianesimo, almeno nella sua forma classica, ampiamente debitrice a motivi platonici, aristotelici, del diritto romano, dell’impostazione teologica di Agostino e di Tommaso, finisce nel cono dell’irrealtà, di ciò che Danièle Hervieu-Léger chiama processo di ‘esculturazione’: opacizzazione della capacità del Vangelo di contribuire all’umanizzazione dell’esistenza e del mondo con il venir meno del sostengo offerto dalla cultura diffusa alla sua assimilazione[5].
    Qui origina comprensibilmente una certa avversione ecclesiale nei confronti del tempo che ci tocca vivere, ripetutamente qualificato con l’epiteto di relativismo, nichilismo, consumismo ecc., senza a volte rendersi conto che nessuno di noi, neanche gli ecclesiastici, saprebbe più vivere in un mondo senza igiene, senza internet, senza i cellulari, senza gli aerei, senza quel tocco di eleganza che vogliamo che ci contraddistingua, senza il benessere medio su larga scala, senza la possibilità di offrire sempre e comunque un’altra versione delle proprie parole. E mai come in questo caso un certo modo di vivere dipende anche da un certo modo di pensare la vita. Si tratta, a mio avviso, piuttosto di capire e valutare i costi e la sostenibilità che lo standard di vita attuale comporta, se cioè il postmoderno stare al mondo senza Dio sia in grado di rendere ragione delle speranze che accende in tutti noi.
    Ma torniamo per un momento ai giovani. Le nuove generazioni sono nate da genitori fortemente investiti dall’avvento della sensibilità postmoderna e quindi dal suo lento ma non per questo meno inesorabile divenir ‘estranea’ al cristianesimo: hanno respirato una cultura che estrometteva tutti i punti d’aggancio sui quali la teologia cristiana aveva puntato per dire la bontà di Dio per una vita pienamente umana. Si pensi al concetto di eternità, di una verità, di sacrificio, di una prospettiva storica, di salvezza, di rinuncia, di limite, di legge e di ordinamento giuridico naturali. Hanno imparato a cavarsela senza Dio e così hanno insegnato a fare ai loro figli. Hanno disimparato a credere e a pregare e così non hanno potuto trasmetterlo ai loro figli. Hanno forse ancora mantenuto un legame affettivo (re-ligio) ai riti ecclesiali, ma privo di ogni consistenza di fede. Nasce in tal modo la prima generazione incredula della storia dell’Occidente[6].
    Di essa si tratta ora di prendersi cura, nella ferialità preziosa delle parrocchie e delle attività delle associazioni e dei movimenti, con il coraggio di formulare un’ulteriore domanda: come può la comunità credente interessarsi dei giovani in modo da rendersi interessante per gli stessi giovani?

    (Rivista del clero, 2009/2)


    NOTE

    [1] A. Schiavone, Storia e destino, Einaudi, Torino 2007, p. 52.
    [2] C. Magris, «Quando scompare il senso religioso», in Corriere della Sera, 12.6.2004, 1.
    [3] W. Kasper, Introduzione alla fede, Queriniana, Brescia 1985, 187-188.
    [4] Con tale iniziativa, si intende un percorso nazionale articolato su tre anni, nel quale promuovere «un nuovo slancio della pastorale giovanile, una sempre maggiore soggettività delle nuove generazioni, nella missione della Chiesa ed un crescente coinvolgimento dei giovani nel cammino della Chiesa italiana. Il valore della missionarietà costituisce, infatti, la dimensione fondamentale della vita e dell’azione di un cristiano e di una comunità» L’iniziativa è così presentata nel sito ufficiale: www.agoradeigiovani.it.
    [5] D. Hervieu-Léger, Catholicisme, la fine d’un monde, Bayard, Paris 2003.
    [6] Per approfondire la questione, anche nei suoi risvolti più propriamente teologici, ci permettiamo di rinviare ai nostri: Presenza infranta. Il disagio postmoderno del cristianesimo, Cittadella, Assisi 20082; Come forestieri. Perché il cristianesimo è divenuto estraneo agli uomini e alla donne di oggi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008. Illuminanti anche le pagine di: E. Salmann, Presenza di spirito. Il cristianesimo come gesto e pensiero, Messaggero, Padova 2000; P. Sequeri, Sensibili allo spirito. Umanesimo religioso e ordine degli affetti, Glossa, Milano 2001; I. Nicoletto, Transumananze. Per una spiritualità del/nel movimento, Città Aperta – Servitium, Troina (En) 2008.


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