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    I Quaderni

    dell'animatore


     2. LA MATURITÀ UMANA

    DELL'ANIMATORE

    Daniele Calorio – Carlo Nanni – Anna Scansani

    1. CRESCERE INSIEME NELL'ANIMAZIONE

    1.1. La maturazione della ricerca del senso dell'animazione
    1.1.1. Il salto di qualità nella pratica dell'animazione
    1.1.2. Tra crisi e aspirazione a andare oltre
    1.1.3. Dall'entusiasmo alla dedizione convinta
    - Le «prove» per arrivare all'amore
    - Le «prove» nell'animazione
    1.1.4. La difficoltà e l'esigenza di maturità
    1.1.5. La maturità nello sforzo e nell'impegno quotidiano di formazione
    1.1.6. Non fissarsi sull'io e non isolarsi

    1.2. La ricerca dell'identità personale
    1.2.1. Soffici rispetto ai ruoli e alle aspettative sociali
    1.2.2. Veritieri (ma buoni) con se stessi
    1.2.3. Capaci di apprendere dal ruolo che si svolge
    1.2.4 Capaci di tollerare l'ambiguità

    1.3. Maturazione e ricerca di senso
    1.3.1. L'identità oltre l'identità: in funzione della vita
    1.3.2. Tra senso soggettivo e senso oggettivo
    1.3.3. Nell'impegno per una vita secondo valore
    1.3.4. Sulla base di un quadro di idee-valori significativo

    1.4. Maturità umana e vita di fede
    1.4.1. Oltre il senso?
    1.4.2. La maturità nella prospettiva di una vita di fede
    1.4.3. Un'ulteriorità nell'impegno di maturazione

    1.5. Conclusione: crescere insieme nell'animazione

    1.5.1 Il cammino percorso
    1.5.2. Due indicazioni propositive

    2. LA MATURITÀ DEL GIOVANE ANIMATORE

    2.1. L'animatore in rapporto a se stesso e in rapporto agli altri

    2.2. Compiti nella costruzione dell'identità nell'adolescenza e giovinezza
    2.2.1. L'adolescente ed il processo di integrazione delle identificazioni
    2.2.2. La giovinezza ed i rapporti di integrazione sociale

    2.3. Interrogativi verso una maturità interpersonale e professionale
    2.3.1. Modelli impliciti orientanti lo svolgimento della propria funzione
    2.3.2. Quale «retribuzione» per il lavoro di animatore
    2.3.3. Come stabilire un rapporto autentico con gli altri?

    2.4. Alcune condizioni mentali ed emotive per la «relazione» con l'altro
    2.4.1. Saper ascoltare, saper aspettare
    2.4.2. Contenere il dolore, l'incertezza, il rischio, il conflitto
    2.4.3. Come elaborare la propria esperienza?
    2.4.4. Necessità di chiarire motivazioni e attese
    2.4.5. Due modalità riduttive: il «salvatore» e il «seduttore»

    2.5. Responsabilità della istituzione formativa nei confronti degli animatori
    2.5.1. Selezione e formazione degli animatori
    2.5.2. Aiutare gli animatori nell'apprendere dall'esperienza»
    2.5.3 Aiutare gli animatori a chiarire le motivazioni

    2.6. Maturazione e servizio di animazione


    Il presente quaderno, dedicato alla «maturità umana» dell'animatore, vuole soffermarsi sull'animatore in quanto persona che sente il fascino dell'educazione, vi si dedica trovandovi un modo originale di esprimere il suo «amore per la vita», sente il bisogno di prendere almeno per un attimo - le distanze dal suo servizio e riflettere sulla sua esperienza personale di animatore. Così facendo egli vuol vivere la sua esperienza come luogo in cui apprendere non solo a qualificare sempre più il suo servizio, ma anche come luogo in cui apprendere a «dire se stesso» in modo consapevole, critico, aperto al cambio personale e collettivo. Vediamo anzitutto dove si colloca il quaderno. Fa parte della «prima serie»: «Identità dell'animatore».
    Ricordiamo che i quaderni di tale serie sono quattro:
    - il Q1 è una sorta di «introduzione generale», oltre che agli altri quaderni, al mondo dell'animazione;
    - il Q2 è il presente quaderno, dedicato all'animatore come persona che vive costruendo se stesso;
    - il Q3 presenta l'orizzonte ultimo in cui l'animatore di un gruppo giovanile ecclesiale deve collocare il suo servizio: la passione educativa come modo per dedicarsi alla causa del Regno di Dio;
    - il Q4 vuol essere una sintesi sull'identità umano/cristiana dell'animatore presentata come specifica «spiritualità».
    Una parola su cosa si intende per «maturità umana». Riprendiamo alcune riflessione di Calorio-Scansani. Non pensiamo alla maturità come «un ideale da raggiungere una volta per tutte, che taluni possiedono e altri non ancora». Questa è una «visione statica» che rischia il «fraintendimento» di ogni discorso sulla maturità, ridotta ad una serie di ricette o regole di vita il cui rispetto garantisce di «avere» la maturità. A questa visione statica contrapponiamo una seconda visione di maturità, come essere attrezzati, con una serie dunque di atteggiamenti e competenze da acquisire, ad «apprendere dall'esperienza». In questo senso ci sembra preferibile parlare di «maturazione», più che di maturità dell'animatore. La maturità diventa così «un vertice» da cui guardare il lavoro dell'animatore e che orienta il suo fare esperienza.
    Del resto non vogliamo parlare della maturità umana in generale, ma di quella di un animatore, con tutte le attese e speranze, problemi e rischi, incertezze e pulsioni che questo servizio comporta, soprattutto per chi lo svolge in termini di volontariato. In altre parole, il quaderno presenta una riflessione sulla maturazione personale all'interno dell'approfondimento del senso che l'animazione ha per chi la vive. In questo modo vengono a fondersi insieme le esigenze di una maturità personale con le esigenze che nascono dal rendersi concretamente responsabile di un gruppo educativo. Se la maturità umana (e cristiana) fa dell'animatore, come dicevamo nel «Credo» del Q], un militante (o un testimone), la competenza d'animazione lo rende un tecnico abile nel suo lavoro. E come tecnico-militante, infine, si assume una concreta responsabilità educativa.
    Il quaderno è costituito da due articoli di taglio diverso. Il primo, di Carlo Nanni, è di taglio pedagogico, in quanto va oltre il dato di fatto psico-sociologico e utilizza contributi interdisciplinari prospettando itinerari di crescita centrati sulla maturazione della persona. Il secondo invece, di Anna Scansani e Daniele Calorio è di taglio psico-pedagogico, in quanto si limita alle dinamiche e processi che guidano la crescita delle persone. Entrambi i contributi si ritrovano, oltre che nell'impostazione di fondo, nell'impostare le riflessioni sulla maturazione vista come passaggio dall'entusiasmo iniziale alla dedizione convinta o, per dirla con un richiamo di Nanni, come passaggio dall'innamoramento all'amore. Questa attenzione permette, in particolare, ai due contributi di essere molto attenti ed espliciti sull'esperienza di maturazione personale dei «giovani animatori».


    1. CRESCERE INSIEME NELL'ANIMAZIONE

    1.1. LA MATURAZIONE NELLA RICERCA DEL SENSO DELL'ANIMAZIONE

    1.1.1. Il salto di qualità nella pratica dell'animazione

    Perché si è finito per fare l'animatore o l'animatrice?
    Perché si è animatore o animatrice?
    Una domanda simile credo che a molti di noi è passata per la testa, magari nei momenti di maggior fervore oppure, più frequentemente, nei momenti in cui la stanchezza si è fatta sentire.
    Ognuno si porta dietro una storia inconfondibile, una storia personale con tratti propri, originalissimi. Una storia di incontri, di esperienze comuni, di contatti con realtà più grandi di noi, di partecipazione e di condivisione, di immersione in processi o in mondi vitali in cui l'identità personale si è come persa nell'identità di gruppo.
    Eppure, a me pare che il momento della riflessione e della presa di distanza dai fatti presto o tardi si impone per tutti, al di là delle diversità individuali o delle intenzioni comuni.
    Si tratta di una esigenza di fondo, un'esigenza vitale che distingue un agire bestiale da uno propriamente umano, appunto perché qualificato dalla presa di coscienza di quanto si fa e dalla ricerca di senso di quello che è il proprio o il comune muoversi nel mondo con gli altri nella storia.
    È qualcosa che capita a livello di vita quotidiana. La conferma potremmo averla su semplice richiesta. Senza arrivare a farci raccontare vere e proprie storie di vita, animatori e animatrici ci potrebbero facilmente attestare di essersi posti almeno qualche volta simili domande o perlomeno che erano lì lì per venire a galla.
    Infatti la pratica dell'animazione, il contatto con persone concrete, ragazzi, ragazze, giovani, adulti, istituzioni, strutture, procedure di gruppo o sociali, facilmente ci mettono in questione e ci fanno interrogare su quello che facciamo o più radicalmente su ciò che siamo.

    1.1.2. Tra crisi e aspirazione a andare oltre

    Psicologi e sociologi ci dicono in generale che ciò capitava soprattutto nei momenti di crisi o di trapasso da un periodo a un altro, da un'età ad un'altra della vita.
    La tradizione popolare parla della crisi settennale di vita. Ogni sette anni ci sarebbe come una rimessa in questione più o meno globale dei proprio assetto vitale.
    Forse sarà un modo di esprimersi non molto scientifico, un misurare le cose a spanne e non con strumenti di misura esatti; ma l'esperienza ci conforta a pensare che la vita non è mai «arrivata», che sottostà a processi di rimessa in questione o di riassestamento.
    Di questi momenti critici alcuni hanno paura, perché l'esito non è scontato e se ne può uscire piuttosto malconci o, perlomeno, non come si sperava o come si poteva pensare. Altri li considerano ottimisticamente non solo come una esigenza per così dire psicologica, ma anche come un momento in cui si celebra la propria capacità di libertà, avendo occasione di prendere in mano la propria esistenza, darle un significato nuovo o rinnovato, farle fare un salto di qualità, oppure darle spessore, continuità, saldezza. Rinnovamento e fedeltà possono in tal senso andare di pari passo?
    L'interrogazione radicale sul proprio essere e sul proprio agire, è oggi come «rinforzata» dal contesto socio-culturale in cui viviamo, attraversato globalmente da processi di crisi e di trapasso delle strutture e delle procedure sociali così come delle configurazioni culturali (crisi di idee, di concezioni, di visioni globali; crisi di modelli di comportamento e di stili di vita individuale e collettiva; crisi e emergenza di nuove tecnologie e strumentazioni di comunicazione sociale o di produzione, ecc.). L'ambito personale o relazionale, intersoggettivo o di gruppo, risente e si incrocia con il macro-sociale.
    I «mondi vitali» sono attraversati dalle spinte che vengono dal «mondo delle strutture». Il contesto socio-culturale stimola e acuisce le problematiche personali. Quanto accade in generale si riverbera e si ripercuote sul particolare e sull'individuale. Ma la domanda radicale dei senso della propria azione può prodursi anche quando la vita esige di «passare oltre», di innalzarsi ad un più alto o più complesso livello di vita o, come dicono i pensatori, di innalzarsi ad un più elevato grado antropologico, vale a dire ad un più profondo e ulteriore stadio di conoscenza della propria e comune umanità.

    1.1.3. Dall'entusiasmo alla dedizione convinta

    In un suo libro il sociologo Francesco Alberoni Innamoramento e amore, Milano, Garzanti, 1979) ha parlato dell'innamoramento come lo «stato nascente» dell'amore. Dell'innamoramento si dice che è nel registro dello straordinario; che a seguito di esso le relazioni fra gli uomini mutano radicalmente, la qualità della vita e dell'esperienza si trasfigura e si fa esperienza di movimenti che attestano il nascere di un nuovo noi. L'innamoramento libera forze insospettate d'azione, genera sentimenti di solidarietà, gioia di vivere, voglia di rinnovamento ' senso di liberazione pienezza di vita, felicità.
    Si spegne - o almeno sembra spenta - ogni alienazione.

    Le «prove» per arrivare all'amore

    Esso però è per definizione transitorio: non è uno stare, è un andare, un movimento verso. Quando tutto procede bene, sbocca o termina nell'amore, come un fiore nel frutto.
    Dall'innamoramento all'amore è come passare dallo stato nascente alla struttura potenzialmente permanente; dal regime dello straordinario alla certezza ordinaria. L'entusiasmo traboccante si spegne dolcemente in un'amorevole dedizione all'altro. Si vengono a riempire a poco a poco gli spazi dei quotidiano, che quasi erano stati sorvolati dal volare sulle cose ordinarie, come è tipico dei momento dell'innamoramento. Ci si dedica e si piglia cura dell'altro e dei noi, nato con l'innamoramento.
    L'autore non si nasconde il fatto che molti fiori possano appassire dopo essere sbocciati, senza portar frutti. Afferma inoltre che il passaggio dall'innamoramento all'amore è segnato da una serie di prove, che poniamo a noi stessi, all'altro o che ci sono imposte dall'ambiente. Ma è pure convinto che l'amore può conservare negli anni la freschezza dell'innamoramento, quando si riesce a condurre insieme una vita attiva, produttiva, quando si fa insieme la scoperta dei nuovo, del profondo, quando si lavora e si lotta per il progetto comune di vita, che si è intravisto o appena appena intravisto nel momento dell'innamoramento. In questo senso si afferma che l'amore consolidato ha come tratto intrinseco il ri-innamorarsi.

    Le «prove» nell'animazione

    Mi sono dilungato sul rapporto innamoramento-amore, perché penso che qualcosa di simile possa succedere nell'animazione e nel discorso sulla maturità umana dell'animatore/trice.
    Si è entrati nel mondo dell'animazione in mille modi e con mille motivazioni diverse: scoprendo un gruppo, seguendo amici, amiche, partecipando ad un incontro, ad un campo scuola, leggendo una rivista, conoscendo un animatore o un'animatrice, un sacerdote, un ragazzo o una ragazza che facevano esperienza di animazione in gruppo.
    Dall'esperienza di gruppo singolarmente o insieme ci si è decisi a fare l'animatore o l'animatrice; oppure semplicemente ci è stato richiesto; oppure ci si è trovati dentro, come se ci si fosse scivolati piano piano senza quasi accorgersene. Ma in ogni caso, con più o meno coscienza, si è fatto non solo l'esperienza di gruppo. ma si è avuto. almeno a livello vissuto, la sensazione che valeva la pena, che era bello spendere un po' dei proprio tempo e di sé stessi a fare dell'animazione. Magari senza o con poche pretese di essere migliori di altri o di dirigere un gruppo, ci si è impegnati perché il gruppo potesse esprimersi al meglio, per realizzare qualcosa di valido oltre se stessi. E si è sperimentato così in modo nuovo di vivere, di stare e di crescere insieme, una forte solidarietà, una passione di fare, che ci ha fatto trepidare, appassionare, soffrire.
    Ognuno ha vissuto a suo modo queste esperienze, secondo la propria sensibilità, il proprio temperamento, la propria struttura di personalità, la propria storia personale, il proprio bagaglio di esperienze precedenti e le proprie aspettative.
    Ma, in ogni caso non si potrà dire che, almeno per un istante, c'è stato come un «innamoramento» per l'animazione? Forse, senza averne piena coscienza, non c'è stata una grande passione per la vita o l'intuizione profonda che più di tutto conta la vita? che era importante impegnarsi per la crescita comune, per una vita ecclesiale che non negasse la vita, con la sua spontaneità, creatività, espansività, serietà?
    Se questo è vero, allora anche i momenti di ripensamento e dì crisi possono essere letti e assimilati in modo simile ai momenti di prova (e crisi è sinonimo di vaglio, di messa in questione, di giudizio, di soppesamento) che sono presenti nella dialettica di innamoramento-amore: cioè interpretabili non necessariamente come qualcosa che sta per finire, qualcosa che ristagna perché è vicino a spegnersi e a morire, ma piuttosto come travaglio o via «naturale» dei movimento che porta alla maturazione di ciò che si era iniziato con entusiasmo e passione.
    In ogni caso l'esigenza di maturare per l'animatore/trice sarà paragonabile appunto alla volontà di passare dall'innamoramento all'amore, dal momento entusiastico alla decisione fedele e convinta.

    1.1.4. La difficoltà e l'esigenza di maturità

    Con quanto si è detto sopra non si vuoi prendere sotto gamba il peso delle difficoltà soggettive e oggettive che si incontrano, soprattutto dopo le prime esperienze entusiastiche di animazione.
    In una recente ricerca sociologica che riporta sentimenti e problemi vissuti da animatori di gruppi (la ricerca è a cura dell'Istituto di sociologia dell'educazione dell'Università Salesiana di Roma, guidata da G. Milanesi e ora in corso di stampa con il titolo «Crescere nello sport», Roma, PGS, 1984) è interessante notare come le grandi idealità la voglia di vivere, il bisogno di felicità, lo spirito di volontariato, l'impegno educativo, il servizio per quelle che sono intraviste come le finalità del gruppo, sono trepidamente congiunti a sentimenti di insicurezza, ansia, percezione vissuta di immaturità, di precarietà o di incertezza circa la propria identità personale.
    «Come posso io portare agli altri certezze, se i miei dubbi sono infiniti?» «Come fare proposte educative o cristiane se io stesso non ho ancora scelto, optato per certi valori?».
    «Come posso richiedere agli altri dei comportamenti adulti, se io stesso non ho fondamentalmente operato le decisioni orientative della vita?».
    Questi e simili interrogativi circa la propria maturità psicologica, etica, ricorrono spesso; molto più che non l'eventuale inadeguatezza o l'impreparazione tecnica ed operativa. C'è indubbiamente in simili espressioni una certa dose di tendenza a deprimersi, ad essere pesanti con se stessi, a deprezzarsi: cose tipiche dell'età giovanile. Ma è pure certo che i sintomi diffusi di inadeguatezza personale, di instabilità emotiva, di impulsività, di incertezza hanno un loro reale fondamento nella vita personale, individuale e collettiva.
    Infatti nella maggioranza dei casi la non chiara o non fondata identità personale riflette una confusa, contraddittoria e problematica identità collettiva. Non solo è il giovane singolo a chiedersi in modo preoccupato: «chi sono, cosa voglio, cosa posso essere, qual è il mio posto nel mondo, nella società, nella storia, nella chiesa?».
    È il mondo giovanile, è la condizione giovanile che appare attraversata da sentimenti di vitalità, di disponibilità, di apertura alle cose grandi e insieme dal senso di essere indifesi e vuoti dentro; dal senso di una diffusa impotenza senza via d'uscita perché tutto è già stato fatto e non è permesso fare gran che di altro o di nuovo.
    Una certa prevaricazione dei pubblico, del potere sul privato e sull'individuo sembra sovrastare come una cappa pesante e stabile.
    La disponibilità e la generosità in attività di volontariato, si accompagnano ad una diffusa sensazione della precarietà dei vissuto quotidiano: fino ad essere attraversate da quel tarlo roditore che in modo quasi impercettibile, ma penetrante, ricorda a molti giovani animatori/trici quel lavoro che non c'è o non c'è ancora; o fino a far ingenerare il sospetto che il proprio impegno di volontariato non sia che il sostitutivo alienante, o nel migliore dei casi solo l'anticamera, della professione, dei posto, dei l'occupazione, del lavoro sicuro, adulto.
    In modo simile può accadere presso più di uno che l'attività di animazione venga ad essere l'attività gratificante dei tempo libero, dei momenti privilegiati, delle esperienze ricche e autorealizzanti in contrapposizione o in alternativa alla quotidianità, al lavoro, alle responsabilità della vita familiare alla durezza e alla obbligatorietà della vita adulta, alle scelte di vita che vengono dilazionate o che si crede di mettere da parte con una <~ politica dello struzzo» che, come si dice, nasconde la testa sotto terra per non vedere il pericolo incombente.
    D'altra parte la stessa inchiesta rileva che è presente in molti animatori l'esigenza di una dedizione radicale, gratuita, anche se si sente una certa riluttanza nei confronti di un impegno o di un compito a lunga durata, o si ha quasi la paura di legare la propria identità ad una sola esperienza sia pure significativa. Sembra quasi che la continuità o la determinazione particolare si oppongano alla spontaneità, alla gratuità, alla molteplicità e alla ricchezza della generosità libera.
    I processi di strutturazione e di istituzionalizzazione contestati vivacemente dai giovani del '68, non sono troppo rassicuranti, neanche per i giovani di questi nostri anni '80: perlomeno richiedono una presa di posizione precisa e meditata nei loro confronti. Maturare vorrà dire anche cercare di dare risposte adeguate e soddisfacenti a queste e ad altre questioni, interrogativi, dubbi.

    1.1.5. La maturità nello sforzo e nell'impegno quotidiano di formazione

    Queste difficoltà, sebbene vissute in vario modo e diverso grado di coscienza dai singoli animatori, sono reali e non si può prenderle sottogamba o minimizzarle troppo col dire che sono fenomeni tipici dell'adolescenza e come tali di natura transeunte.
    Infatti - a parte la coscienza che se ne può avere - molte di queste difficoltà si presentano anche alle persone adulte che hanno impegni educativi. li tempo e la cultura contemporanea non lasciano facilmente dormire sonni tranquilli a nessuno che voglia chiamare le cose con il loro nome.
    D'altra parte, forse, a saperle interpretare, aiutano a impostare in modo realistico il problema della maturazione e della crescita personale in genere.
    La psicologia contemporanea (e in particolare la psicologia della personalità, la psicologia dell'età evolutiva, la psicopedagogia) mettono sempre più in risalto come la maturità non è da intendersi in modo statico, ma piuttosto come una conquista personale quotidiana; non tanto come il conseguimento di certe mete o livelli di vita personale, ma piuttosto come la conquista di un equilibrio dinamico tra le diverse sfere e ambiti della vita personale, sempre bisognoso di cure e di coltivazione se non vuole andare incontro a dissesti; e in ogni caso da intendersi come una realtà processuale, che sottostà ad aggiustamenti e riequilibri a seconda delle circostanze concrete in cui viene a trovarsi l'esistenza personale e comunitaria.
    Ma si è sempre più sensibili ad integrare il concetto di maturità con altre categorie che permettono di dar ragione della complessità dell'esistenza personale.
    li concetto di maturità dice infatti una globale funzionalità di esercizio e di reciproca interazione delle diverse dimensioni e sfere della personalità (conoscenza, affettività, operatività). Ma forse trascura l'acquisizione delle abilità necessarie nei diversi settori specifici della vita.
    In tal senso, volendo parlare di una integrale formazione della personalità, come condizione desiderabile per il divenire personale, si dice che oltre la maturità occorre il possesso della competenza per giocare i diversi ruoli che a mano a mano si vengono ad assumere e in particolare per corrispondere in modo efficace al ruolo professionale e ai diversi doveri sociali che l'esistenza comunitaria richiede.
    Ma a questo punto è chiaro che non è più concepibile una maturità fuori del mondo e della concreta situazione vitale, cronologicamente datata, geograficamente ubicata, culturalmente determinata, socialmente organizzata.
    Proprio per questo alcuni autori aggiungono alla categoria della maturità e a quella della competenza, la categoria della capacità strutturata di decisioni responsabili, ad indicare il momento forte della consapevolezza e della creatività delle scelte che la vita, il mondo, la storia, gli altri, (e secondo il pensiero religioso) Dio,, ora quasi impongono di necessità, ora quasi ci offrono l'occasione, ci stimolano, ci richiedono, ci propongono. ci chiedono di fare.
    Sarebbe un pessimo modo di crescere sia quello che trascurasse la globalità della personalità (maturità) in nome di una riuscita o di un posto (competenza) non pensando che a sé (responsabilità).
    Ma è pure evidente a questo punto che non basta non avere traumi, disfunzioni psichiche, squilibri affettivi (maturità), a garantire una efficace presenza in un settore, nell'assolvimento di una funzione sociale (competenza), pur magari essendo creativi e decisi (responsabilità). Ne basta la funzionalità psichica (maturità) o la competenza specifica senza un minimo di creatività, di decisionalità, di risposta personale (responsabilità). In termini positivi si intravedono subito le direzioni fondamentali che si aprono al lavoro di formazione personale di ogni animatore/animatrice o di gruppi di animatori: essi sono chiamati a operare congiuntamente e con continuità sia nel senso della maturità psichica, sia in quello della competenza specifica, sia infine nel senso di una risposta responsabile e creativa ai problemi umani e sociali presenti o sottesi all'attività di animazione.
    Qui per stare al tema ci si limiterà al problema della maturità umana dell'animatore, ma tenendolo sempre in collegamento con il problema della competenza e della re­sponsabilità.

    1.1.6. Non fissarsi sull'io e non isolarsi

    Ma prima di continuare conviene fare ancora qualche precisazione relativa a «come» impostare il lavoro della ricerca di maturità.
    Spesso quando si inizia a preoccuparsi per la propria maturità umana viene quasi spontaneo centrarsi esclusivamente su se stessi. Il mondo, gli altri, la società, Dio, vengono come ad oscurarsi allo sguardo, tutto fissato su di sé; o vengono visti solo in funzione dell'io.
    Il rischio di chiusure in forme di individualismo singolo o a due o di gruppo è tutt'altro che irreale. L'urgenza di intervenire su di sé (proprio o di coppia o di gruppo), per sé giusta e lodevole, può portare a decurtare indebitamente alcune dimensioni dell'esistenza personale, che è sempre una coesistenza, in strutture e istituzioni di società storiche, con cui si dovrà fare i conti e caso mai da riformare e persino da rivoluzionare se è necessario, ma in ogni caso imprescindibili per l'agilità e l'esistenza personale individuale e collettiva; e irriducibili al rapporto con il nostro io individuale o di coppia o di gruppo.
    Gli altri, il mondo, la società, Dio, non si lasciano accaparrare da noi. Così lasciare l'attività o la vita di gruppo per pensare a sé (o al piccolo noi) può rischiare di essere un brutto modo di decidere se non è sorretto da una tale visione di insieme o non è in risposta a necessità particolari, o anche ad esigenze nuove o non prima intraviste, oppure ad impegni diversi che portano altrove o richiedono un concentramento di forze, una scelta di campo, ricercando qualità, precisione, spessore nel proprio intervento.
    Sapersi misurare e aver senso del limite può essere un indice di saggezza, ... di maturità, appunto.
    Forse può essere persino un segnale per tutti da non trascurare mai, nella foga e nell'entusiasmo dell'attività di animazione, la preoccupazione, gli spazi, i momenti e i modi appropriati di autoformazione.
    Se ci si preoccupa di specifici interventi formativi per quelli che in termini non troppo felici sono detti destinatari (perché nell'animazione tutti si è soggetti e destinatari, seppure con ruoli e in posizioni diverse), bisognerà pure preoccuparsi per la propria e la comune formazione degli animatori.
    Se ne dovrà riparlare.
    Qui mi pare importante ribadire che dentro o fuori di gruppi d'animazione è importante che nella cura della propria persona non ci si fissi esclusivamente su se stessi. Sarebbe oltretutto un errore di marcia. O peggio, si può rischiare di cadere nelle maglie di una rete o in una gabbia da cui non si riesce più a venir fuori.
    Si ripeterebbe a livello personale quello che alcuni storici dei pensiero occidentale dicono che sia il “vizio” dei pensiero moderno. Arretratosi sull'io e fattane l'unica certezza non è riuscito più a fondare razionalmente la consistenza e l'autonoma realtà del mondo, dell'altro, di Dio, sempre ridotti ad «oggetto» o ad espansione dell'io (sia esso un io individuale o collettivo, gruppo, classe, nazione, stato od altro).
    L'esperienza quotidiana ci ha fatto incontrare spesso persone a posto, curate, precise, ma fondamentalmente autocentrate che non riescono ad avere relazioni se non nel senso di considerare tutto (cose, figli, coniuge, amici, concittadini) come oggetti, cioè esclusivamente come termine dei loro pensieri, dei loro interessi, delle loro preoccupazioni; mentre risultano impenetrabili ad ogni stimolazione esterna che non possa in qualche modo essere vagliata dai loro rigidi filtri.
    È necessario dire che fin dall'inizio i processi di consolidamento dell'io non vanno disgiunti dall'insieme dei processi sociali, comunitari, culturali, ecclesiali, politici.
    Vale qui quanto diceva P. Freire che nessuno libera (e educa) nessuno; che nessuno è liberato (e è educato) da nessuno; che ci si libera (e ci si educa) insieme.
    Ciò non vuol dire evidentemente che non ci debbano essere momenti in cui si privilegia l'attenzione sull'io rispetto al resto, così come ci sono dei momenti in cui l'io quasi si dimentica nell'impegno generoso e amorevole.
    L'importante però è non isolarsi, non chiudersi a riccio su se stessi. Un racconto orientale parla di un saggio che richiesto del fondamento della sua serenità e imperturbabilità rispose: «Cercavo il mio io e non riuscivo a trovarlo; cercai allora Dio, ma mi sembrava che mi sfuggisse. Cercai l'altro e trovai l'altro, me stesso, Dio».

    1.2. LA RICERCA DELL'IDENTITÀ PERSONALE

    Anche per l'animatore la scelta egocentrica, la chiusura dell'io, risulta una difesa di fronte alla complessità della vita adulta e dello stesso lavoro di animazione. Oppure può inizialmente derivare da una reazione, più o meno riflessa, ad una eccessiva o rigida identificazione nel ruolo e nella funzione dell'animazione.
    Il timore della perdita dell'io o per paura di soffocamento o per timore di dispersione in ciò che si fa, può rendere centrale il problema della ricerca dell'identità.
    La scoperta, la presa di coscienza, il rinforzo e la determinazione delle proprietà individuali, la ricerca dell'equilibrio tra possibilità e le aspettative personali ed esigenze e richieste che provengono dagli altri e dal contesto sociale diventano prioritarie.
    Il consolidamento dell'identità personale e sociale è certamente un indice di maturità. Essa permette di partecipare in modo attivo ed intenso, consapevole e critico, alla vita sociale, sentendosi non estraniato o al contrario massificato, ma invece realizzato e apprezzato.
    Diventerà allora importante per l'animatore ricercare quelle capacità o atteggiamenti che favoriscono l'identità.

    1.2.1. Soffici rispetto ai ruoli e alle aspettative sociali

    In primo luogo si vuole segnalare la così detta distanza dal ruolo: una sorta di atteggiamento soffice che sa darsi e ricevere nell'espletamento del ruolo, in modo critico e perché lo vuole; non sconsideratamente o indiscriminatamente. Anche il Vangelo ricorda di non dare perle in pasto ai porci, cioè a chi non sa apprezzarle giustamente. In altro senso, certi animatori somigliano a certe mamme o educatori, che si ,ori quasi dimenticati di essere donne, uomini, cittadini, amici.
    Saper prendere posizione di fronte alle aspettative di ruolo, saperle reinterpretare e modificare in base alle esigenze delle situazioni in cui ci si trova o in rapporto alle possibilità soggettive, oltre che un segno di maturità può essere anche espressione di responsabilità.
    Infatti essa dal punto di vista della personalità dell'animatore sta a dimostrare che:
    - nessun ruolo (nel nostro caso l'animazione) assorbe completamente l'essere e l'agire di una persona;
    - la persona gioca molteplici ruoli che sono tutti (anche se non allo stesso modo e allo stesso tempo) da far salvi, da curare, da far interagire, organicamente;
    - la persona è più grande dei suoi ruoli, perché non si riduce né alle aspettative sociali che si hanno su di lei, né alle stesse sue molteplici operazioni.
    Dal punto di vista dei cosiddetti destinatari una saggia distanza dal ruolo da parte dell'animatore può significare rispetto dei tempi e della diversità di ognuno e del gruppo, da non soffocare in un imperialistico dare tutto insieme e subito con interventi che sanno di intempestività, di possessività, di non considerazione della disparità di età, di esperienza, di cultura, che sussiste tra animatori e animati. Si potrà apparire brillanti e persino seducenti, ma si rischia di non fare opera di auto-liberazione. Si avranno dei seguaci, ma non delle persone. Si imbottirà di idee e di tecniche, ma non si aiuterà al rispetto dei tempi, degli altri, di sé.

    1.2.2. Veritieri (ma buoni) con se stessi

    Un secondo aiuto all'identità personale viene da quella che gli psicologi chiamano la capacità di autopresentazione, cioè di essere veritieri e autentici con se stessi e con coloro con cui si entra in comunicazione.
    Essa però è impossibile se non è sorretta da una corretta e vorrei dire buona conoscenza e valutazione di sé, delle proprie possibilità e capacità, come pure dei propri limiti e delle proprie ombre.
    Si è detto che il lavoro di animazione offre moltissime occasioni per la percezione e la misura di ciò che si è o si fa. È come uno specchio limpido e un banco di prova o un test per molti aspetti della personalità.
    Ma tale coscienza e valutazione di sé deve essere corretta e buona: corretta, cioè corrispondere alla realtà, senza nascondersi ciò che potremmo dire le ombre o il lato oscuro di se stessi; senza travisamenti o esagerazione; allargata alla propria storia, alla propria biografia, al proprio passato; ma pure senza dimenticare le possibilità di futuro che si possono avere e che l'ambiente, gli altri, i cambiamenti e i processi in atto, possono offrire.
    È inoltre buona: nel senso che non deve essere vittima di una visione pessimistica dei mondo e dell'uomo e di sé (che oltre tutto «farebbe a pugni» con la visione cristiana della creazione secondo cui la natura, l'uomo, la società, la storia non sono radicalmente corrotte e il male non ha l'ultima parola rispetto alla bontà e misericordia di Dio). E tanto meno è succube delle forze di distruttività presenti in noi e attorno a noi.
    La difficoltà di giungere all'autocoscienza chiara e precisa, la complessività dei fattori in gioco, invitano piuttosto ad un giudizio e ad un rapporto benevolo e costruttivo nei confronti della propria persona: almeno tanto quanto lo faremmo con la persona degli altri, che affermiamo di voler rispettare e amare L'amore per la persona che si è, tutt'altra cosa che l'idolatria di se stesso, rientra nei giudizio e tic] rispetto che si darebbe per qualsiasi persona quindi anche per la propria.
    La prima giustizia e la prima bontà comincia dal sé, come diceva un vecchio adagio, che esattamente recitava: la carità comincia da se stessi. Quel grande umanista e inglese che era Tommaso Moro, come si ricorderà, pregava Dio di «non permettere che io mi crucci eccessivamente per quella cosa troppo evidente che si chiama io ~>. E la Bibbia a sua volta arriva a dire in positivo: «conte sarà buono cori gli altri chi è cattivo con se stesso?» (Ecclesiatico 14,5).
    Sia qui quella rara arte della accettazione di sé che diventa il punto di partenza di ogni realistica progettazione di sé e rende positivamente e saggiamente disponibili al cambiamento e alla apertura fiduciosa al futuro, agli altri, a Dio.

    1.2.3. Capaci di apprendere dal ruolo che si svolge

    Una terza competenza che favorisce lo sviluppo della identità dell'io è secondo alcuni psicologi il così detto «roletaking» (= l'assunzione dei ruolo).
    Realizzando in maniera buona o perlomeno soddisfacente un proprio ruolo si ottiene come una conferma sociale che rinforza le proprie attitudini o potenzialità e, allo stesso tempo, permette di sentirsi inserito nell'insieme del processo vitale e sociale. Si conosce e si prova se stessi e contemporaneamente si fa esperienza, ci si confronta e si conosce gli altri, il mondo, la vita sociale, la vita ecclesiale, la cultura e così via.
    E forse - e non è di minor conto - si partecipa alla comune opera di promozione umana.
    Da questo punto di vista non è da sottovalutare, come si è già più volte accennato, la funzione formativa e maturante dell'esperienza di gruppo e dell'attività di animazione. Non è un'esagerazione dire che è quasi un «privilegio» che non a tutti è dato.
    Lo sforzo per formarsi ad essere buoni animatori pelo essere visto come liti aspetto di quella formazione generale Cile ricerca la propria identità personale.
    Dal lavoro di animazione anche se non ricercato direttamente e specificamente si viene ad avere un beneficio in termini di maturità, come un fiore o un frutto inatteso dal lavoro attorno ad un campo comune.
    È infatti indubbio il carattere formativo dell'animazione per l’animatore.
    A diversi titoli e livelli, come ora vedremo.
    Il metodo e le tecniche dell'animazione privilegiano i momenti attivi, cooperativi, relazionali del rapporto interpersonale (individuale o gruppo), anche quando si tratta di trasmettere informazioni e addestrare a tecniche o modelli di comportamento quasi del tutto nuovi per tutti.
    In tal modo vengono richieste una ricca gamma di abilità-competenze e viene offerta la possibilità di addestrarsi e di far esperienza di esse.
    In quanto stile, l'animazione richiede di essere particolarmente attenti a mediare le potenzialità soggettive con quelle che sono le concrete offerte dell'ambiente, al fine di una comune crescita di umanità e nella gestione dei potere sociale.
    In tal senso le tendenze di metodo (un rapporto di tipo democratico, il fare insieme, la cooperazione, la parità relazionale, la coscientizzazione problematica e l'operatività pratica) diventano anche obiettivi della pratica sociale dell'animazione. Attraverso una reale competenza si cerca di evitare che l'autorevole scada in autoritarismo, lo stile attivo da protagonismo scada in manipolazione paternalistica e la non-direttività da rispetto e promozione della corresponsabilità scada in permissivismo e inconcludenza. t evidente che si fa quella pratica di responsabilità e quell'esercizio di decisioni concrete e tempestive il cui valore maturante è innegabile.
    Ma la formatività dell'animazione appare soprattutto in quelle che sono le sue funzioni e la sua finalizzazione
    Essa può prestarsi ai fini di acquiescenza e di accaparramento (le] consenso di individui gruppi coIlettività, attraverso attività puramente ricreative o di divertimento, fino a far mettere da parte le preoccupazioni più largamente sociali e quasi narcotizzare la coscienza civile e il senso della partecipazione politica.
    Ma nelle sue forme più genuine essa ha come scopo primario di far prendere coscienza a individui, gruppi, comunità, masse delle potenzialità soggettive e ambientali di azione in vista di un loro pieno sviluppo, di una migliore e magari diversa qualità della vita.
    La stessa funzione di adattamento e di integrazione sociale è da vedersi in questo orizzonte di senso.
    Attraverso il sostegno e il potenziamento dei protagonismo, della partecipazione, della corresponsabilità, dell'acquisizione scientifica e critica della cultura si cerca di coniugare insieme e di connettere sviluppo individuale e sviluppo sociale, interessi, bisogni, aspirazioni soggettive con istanze, necessità, domande sociali e collettive in una prospettiva di sviluppo, e di cambio.
    In tal modo si viene ad avere l'offerta di un'ampia gamma di valori in cui provare se stessi e attraverso cui sentirsi compartecipi e capaci di corrispondere alle richieste sociali.

    1.2.4 Capaci di tollerare l'ambiguità

    Un quarto tratto, che aiuta il formarsi di una solida identità, è detto dagli psicologi la tolleranza della ambiguità.
    Ogni persona è in se stessa un mondo, anzi una molteplicità di mondi (il mondo dei bisogni, della sessualità, dei sentimenti, del desiderio, della conoscenza, delle relazioni interpersonali, delle attività, dei ruoli), non sempre tra loro componibili organicamente, anche nelle persone che passano per adulte e mature. Il divario, e spesso il conflitto, tra corpo e spirito, tra mente e cuore, tra ragione e sentimento ritorna ad essere invocato in molti casi sia nella esperienza personale che nella tradizione culturale collettiva.
    Il conflitto, dei resto, anche a livello sociale, è da molti considerato come un fattore della dinamica e della mobilità sociale e culturale. In molti casi il conflitto assume le forme di una vera e propria dialettica, cioè di un movimento di superamento che va avanti per contrapposizioni, che non eliminano l'autonomia e la tensione tra le parti.

    Cosa vuol dire tollerare l'ambiguità?

    Il pensiero contemporaneo fatto più cauto dalla esperienza della crisi, mette in luce come l'esistenza sia un gran gioco di possibilità, compatibili con molte altre, ma che a foro volta comportano delle corrispondenti incompatibilità (quelle che in termini tradizionali si potrebbero chiamare il rovescio della medaglia). li lato oscuro, l'ombra o se vogliamo l'ambiguità non solo è ineliminabile a livello personale, ma sembra contrassegnare la vita e la storia sociale e la realtà in generale.
    Tollerare l'ambiguità vorrà dire quindi, in termini generali, arrivare ad avere la forza di sopportare i contrasti, le contrarietà, gli imprevisti che sopravvengono nelle situazioni in cui ci si viene a trovare, senza cadere in stati emozionali di insicurezza, di ansia, e senza ricorrere a comportamenti di fuga, di aggressione, di rimozione, di evasione, di razionalizzazione indebita.
    In senso più ampio si tratta di riuscire a stare dentro la dialettica delle cose e degli eventi, delle necessità interne ed esterne, del caso, delle strutture, delle istituzioni, della diversità personale, della diversa cultura, delle diverse posizioni, senza fughe per la tangente o senza utilizzare scorciatoie che credono di rompere in modo aggressivo e facile i ritmi e le caratteristiche proprie alle persone, alle cose, agli eventi.
    Nietzsche ha per questo parlato di riconciliazione con la terra. L'esperienza dura di questi anni trascorsi ci ha invitato a riconciliarsi con le proprie radici culturali, senza sorvolarle troppo facilmente in nome della scienza e della tecnica e d'altra parte senza regredire o fissarsi in esse. Siamo stati spinti a ritrovare un più sereno rapporto con la natura, difendendo e rispettando le regole degli eco-sistemi, senza d'altra parte ricadere in forme di vita arcaiche, esotiche, astoriche, da società preindustriali.
    Sociologi e filosofi invitano a saper sapientemente vivere, con opportuni dosaggi nel pluralismo, senza cadere nella spersonalizzazione anonima; nella pluralità delle appartenenze, senza essere «apolidi» o non schierati con niente e nessuno; nella complessità della vita sociale, senza che l'articolazione e l'autonomia delle componenti e delle funzioni scada in una frantumazione irrelata e in una spaccatura con nessuna elasticità e possibilità di ritorno al comune, all'unitario, all'incontro con gli altri.

    Alcuni atteggiamenti per tollerare l'ambiguità nel fare animazione

    Senza andare lontani, questa ambiguità è dei resto continuamente presente nella pratica concreta dell'animazione; e si potrebbe dire che è tipica della stessa relazione educativa, in cui non c'è spinta amorosa unitiva che possa eliminare la congeniale asimmetria e disparità dei rapporto interpersonale educato ri/educandi.
    Così è indubbio che la competenza umana a tollerare l'ambiguità non viene da sé. Ha bisogno, come in genere qualsiasi processo di maturazione, di una certa «conversione» mentale, a cui va congiunta una decisione della volontà. La crescita umana, la maturazione non è qualcosa di meccanico, di processo «naturale» che viene da sé. Ha bisogno di coscienza, di idee, di decisione, di prese di posizioni, di impegni.
    A questo diverso modo di vedere le cose mi pare appartengano alcuni atteggiamenti.
    - Lasciar parlare le «cose». In primo luogo un atteggiamento «soffice» nel vedere, nel pensare, nell'intendere fatti, persone, eventi. Si tratta di non lasciarsi imprigionare dagli stereotipi, cioè dalle idee fisse, consolidate e date per scontate, recepite dall'ambiente o costruite sulla base della propria esperienza passata. Tali stereotipi sono certo utili, perché nessuno guarda senza idee. Ci aiutano a vedere, ma hanno il grosso limite di poter impedire di vedere aspetti nuovi prima non considerati oppure appartenenti più ai futuro che al passato, o anche propri alle singole persone, che non sono sempre inquadrabili in schemi generali o entro comportamenti ufficiali o comuni.
    Lasciare un po' più «la parola alle cose», sfumando le proprie sicurezze ideologiche ed etiche farsi attenti e disponibili alle stimolazioni che ci vengono da fuori, da lontano, da ciò che è diverso da noi, può essere un modo più efficace e fruttuoso di ricercare la verità.
    - Leggere in modo non strabico la realtà. In secondo luogo vi fa parte l'esercizio e l'abitudine alla critica e al discernimento, ma anche ad una lettura non strabica, comprensiva e fiduciosa della realtà, delle persone, degli eventi.
    Una visione completa richiede certamente il momento della analisi che separa, divide, distingue, mette a prova, sottopone al vaglio; ma vuole come suo momento complementare anche lo sforzo della sintesi, della riunificazione, della ricomposizione, dell'inquadramento sul contesto, in un insieme o in un globale quadro di riferimento.
    Tale sforzo è tanto più importante e urgente quanto più si ha a che fare con il bombardamento delle stimolazioni ambientali e dei mass-media, che, per fini propri fino ad un certo punto legittimi, sembrano andare in senso contrario o paiono assuefare ad un pensare slegato, frantumato, senza continuità e consumisticamente superficiale.
    In questa linea saranno per un verso da individuare i punti di vista, le prospettive da cui vengono viste e considerate le cose e per altro verso abituarsi a guadagnare «vedute più larghe» o a individuare categorie unificanti e dinamiche, come sarebbero i cosiddetti «temi generatori» di cui parlava Paulo Freire.
    - «Far professione dei contrari». In terzo luogo fai propria quella che dovrebbe essere una caratteristica di ogni animatore-educatore, cioè l'attitudine a «far professione dei contrari»: l'educatore spesso più che per aut-aut pensa e cerca di cogliere, pur nelle posizioni conflittuali, l'et-et. Lo sforzo va nella direzione e nella ricerca dei legami sottili che legano spesso e profondamente le cose, oltre le loro macroscopiche diversità o opposizioni; nel cercare di coniugare insieme, pur nel rispetto delle specificità e delle autonomie, aspetti, forme e strumenti che la vita offre per raffrontare in modo umano le novità o le avversità che si vengono ad avere.
    In tal senso sarà da imparare a non contrapporre, ma a riunire i contributi del patrimonio sociale della cultura con quelli della scienza e della tecnologia più avanzata; di saper giungere attraverso l'esperienza, la scienza, la tecnica, a quella saggezza di vita che di tutte usa e che tutte le comprende.
    Così sarà da imparare a pensare (e a parlare utilizzando, a seconda dei bisogno, il registro discorsivo e razionale, oppure quello narrativo-immaginifico, o anche quello mistico-apofatico. Alla base sta la convinzione che è la persona che vede, pensa e paria attraverso i sensi, la ragione, l'intuizione, lo slancio mistico, conseguendo risultati diversi ma non necessariamente disparati, anzi spesso tutti indicativi e significativi ai fini della verità di ciò che si ricerca o si vuole.
    In altro senso sarà da imparare ad usare un pensiero e un discorso per così dire «ecologico», cioè attento a cogliere gli aspetti complementari, ad evitare unilateralità, riduzioni, sbilanciamenti, così come l'ecologia tende a mantenere l'equilibrio della natura. Ciò è soprattutto importante nei confronti delle ideologie e delle idee alla moda, per natura loro portate ad enfatizzare in funzione dell'azione e dell'efficacia storica, o delle urgenze e dei bisogni dei presente, questo o quel concetto, questo o quel valore, questo o quella realtà o parte sociale.

    1.3. MATURAZIONE E RICERCA DI SENSO

    1.3.1. L'identità oltre l'identità: in funzione della vita

    Quanto si è detto a riguardo della capacità di tollerare l'ambiguità dell'esistenza può far pensare alla maturità come ad un'aurea mediocrità, o peggio come la caduta delle calde idealità adolescenziali nella compromissione fredda della vita adulta. Per dirla in termini freudiani, il principio del piacere sarebbe assoggettato al principio della realtà. E l'impegno di formazione e di maturazione potrebbe sembrare equiparabile allo sforzo ascetico degli antichi epicurei e stoici che invitavano a sapersi astenere, a saper sopportare («abstine», «substine») o ad allontanare da sé i motivi di sofferenza e di dolore («aponia»).
    Non sarebbe la maturazione una «troppa umana» abdicazione di fronte alle ferree necessità che ci attorniano e che a pensatori fervidi ha fatto dire che la nostra è una impossibile libertà (J.P. Sartre) o che l'educazione non è altro che riprodurre nella nuova generazione quel divieto o quel disinganno che a suo tempo ha provato la generazione adulta?
    Indubbiamente i tempi che viviamo non invitano molto ad entusiastiche dichiarazioni, né sono di incitamento per prospettazioni generosamente utopiche.
    Il senso della misura e dei coraggio si addice a noi contemporanei.
    È pur vero, come ricorda L. Corradini (017, 5 ss), che «la vita è possibile solo in una zona temperata intermedia nella quale i due poli funzionino entrambi e nella quale sia possibile un movimento correlativo fra un polo e un altro».
    È quindi per la vita che ci si sottopone alla disciplina dura, all'impegno di riconversione, ali 1 accettazione dell'esistente (così come ['amore alle prove).
    Lo stesso sforzo di ricerca dell'identità non è fine a se stesso, ma in funzione di una esistenza per quanto possibile libera, attiva, creativa, responsabile. È la ricerca di una vita umanamente degna che la muove. Di essa è condizione indispensabile, perché sia possibile gustare un po' la vita e essere felici, per quanto è dato su questa nostra terra. Anzi è essa stessa fonte di felicità:
    - quando fa sperimentare la liberazione da vari condizionamenti, che ad ogni passo sembravano impedire qualsiasi movimento in avanti. Può anzi aiutare a saper imparare anche dall'errore, dallo sbaglio, dal peccato per dirla religiosamente, e a saper cogliere possibilità inedite di libertà, dove prima si vedevano soli limitazioni e vincoli o impedimenti;
    - quando fa toccare con mano il senso della libertà nel rendersi liberi dagli idoli che via via, in ogni età, noi innalziamo dentro di noi con le nostre mani o gli altri adorano attorno a noi: i molteplici idoli di sempre dell'uomo; quelli della propria cultura e della propria epoca, quelli che la moda e i diversi poteri insinuano e proclamano con il fascino delle idee e dei successo a portata dì mano;
    - quando fa gustare la verità, nella sua bellezza e profondità, man mano che, in una pur difficile ricerca, la si scopre o la si riscopre, la si accoglie ci viene manifestata, viene intuita, viene comunicata, socializzata, partecipata ad altri;
    - quando, nella mitezza e nella magnanimità permette di incontrare gli altri, di accettare, di apprezzare e comprendere e di essere accettato, compreso, apprezzato. E in tal modo di far esperienze di buone relazioni sociali e magari incontrare l'amicizia e l'amore.
    Ma, ancora una volta, si comprende che a ragionare in questo modo, si va oltre la semplice identità fine a se stessa e si oltrepassa l'orizzonte dell'egocentrismo, dell'individuale per aprirsi a qualcos'altro di più ampio, di più vasto, che dà ragione di questo sforzo e impegno di formazione e di maturazione.
    La ricerca di identità viene ad aprirsi e a sfociare nella ricerca dei senso dell'esistenza, individuale e comune.

    1.3.2. Tra senso soggettivo e senso oggettivo

    Parliamo di senso per indicare l'orizzonte e il quadro globale entro cui quanto si è o si fa, individualmente o comunitariamente, appare degno d'essere o di essere realizzato, al di là della sua stessa efficacia o effettualità. Esso conferisce all'essere e all'agire validità, coerenza, unitarietà, oltre che dignità.
    Ma anche qui i rischi di cadute o egocentriche o all'opposto sociocentriche sono tutt'altro che irreali. Si rischia cioè di ricercare:
    - o solo ciò che è significativo per la propria esistenza (senso soggettivo);
    - o di essere schiacciati dal senso che la società (o meglio chi detiene il potere nella società) propone o impone al soggetto, lasciando pochi o niente spazi di azione e di libertà (senso oggettivo).
    Anche in questo caso verrebbe da invocare l'impegno di far tutti professione di contrari. E in effetti lo sforzo tipico delle società che intendono realizzare una esistenza comunitaria democratica, è proprio quello di ricercare il socialmente condiviso, al di là delle differenziazioni particolari.
    Quello che nella ricerca dell'identità abbiamo detto «tolleranza dell'ambiguità», poggia anche sull'impegno dei soggetto a ricercare ciò che lo accomuna agli altri (secondo il detto di papa Giovanni, quello che ci unisce piuttosto che quello che ci divide), in modo da:
    - poter instaurare buone relazioni, interpersonali e collettive, sulla base di una consistente piattaforma di comunicazione;
    - poter far strada insieme ai propri prossimi e ai propri concittadini, avendo obiettivi comuni verso cui andare;
    - poter partecipare alla vita comunitaria sentendosi di casa e non straniero.
    Detto ciò in genere, è abbastanza agevole ripensarlo nella propria esperienza di animatori a livello di gruppo di animatori, a livello di parrocchia o chiesa locale, a livello di territorio o di quartiere o di città in cui si vive.
    Ma forse si impone di regolarsi secondo un principio più alto e più vasto, oltremodo per evitare che la ricerca dei consenso e dei socialmente condiviso, restando sul ciò che è alla pari, scada nella rissa o nella prevaricazione di una parte sull'altra: e ciò che in termini generali potremmo chiamare il principio del valore.

    1.3.3. Nell'impegno per una vita secondo valore

    Spesso nel linguaggio comune indichiamo come valore ciò che più propriamente dovrebbe dirsi «concretizzazioni storiche di valore» (gesti, persone, oggetti, esperienze di valore); oppure gli ideali tipici di una cultura, di un'epoca, di una società; o anche i «principi» di valore, cioè l'aspetto trascendente dei valore astrattamente considerato.
    Ora il pensiero contemporaneo ha ribadito che non nelle cose in sé (i così detti «beni») o nel soggetto in sé, o nell'idea in sé, ma nel rapporto per cui un qualcosa o un qualcuno altro diventa «bene» per un soggetto, si situa il valore. Il luogo dei valore è il rapporto interattivo e storico tra soggetto e oggetto o altri soggetti; tra persone o cose; tra individualità e ambiente; tra passato, presente e futuro; tra mondo soggettivo e mondo oggettivo; tra naturale e culturale; fra l’attuale e possibile; tra immanente e trascendente.
    Si viene a parlare di valore quando questa relazione innanzitutto è avvertita e colta più o meno coscientemente; ed è inoltre accolta e giudicata «significativa», cioè corrispondente alle esigenze e alle possibilità di una plenaria e integrale umanizzazione.
    All'alba del valore c'è la sensa­zione, vissuta o cosciente, che nell'aprirsi agli altri, nel mondo e nella storia, e all'Altro (presente e trascendente il mondo e la storia), si realizzerà un di più di umanità per tutti e una riqualificazione dei mondo e della storia stessa.
    Nella luce dei valore infatti si mostra la parte attiva, ricostruttiva e creativa che il soggetto ha nella vita dell'universo e d'altra parte il ruolo che il mondo storico e sociale hanno nel realizzare qualcosa che va oltre il loro attuale incontrarsi e stimolarsi. In tal senso c'è nell'affermazione del valore qualcosa che è sia trans-soggettivo sia trans-oggettivo, pur qualificando sia l'uno che l'altro.
    L'azione che consegue alla percezione di valore è detta appunto «significativa», cioè è nell'ordine dei «segni», vale a dire di qualcosa che indica, manifesta, rende concreto qualcosa oltre sé. Una stretta di mano, una carezza, un bacio indicano amicizia, affetto, amore. L'attività di animazione è un valore perché «indica» la volontà e la ricerca di coscientizzazione, di autoliberazione, di crescita comune in umanità.
    D'altra parte in ciò che è percepito come valore, oltre l'istanza dell'apprezzamento e della dignità in sé e per sé, sembra esserci pure un intrinseco appello di realizzazione storica, attraverso l'azione individuale e collettiva.
    Nella luce del valore, l'esistenza propria e altrui, nel mondo e nella storia, appare ad un tempo come un dato, un fatto e insieme come una possibilità e come un «dono» che stimolano e richiedono- una loro concreta attuazione.
    In tal modo l'esistenza si mostra come un «compito», come una missione, o, come si dice nel linguaggio religioso, una «vocazione» ad essere in un certo modo, impegnandosi ed operando nella realtà storica, con gli altri nel mondo, nella trama delle interazioni, costituita dalla molteplicità dei rapporti e dell'incrociarsi delle dimensioni vitali.
    Al momento della presa di coscienza e dell'apprezzamento di valore fa seguito, in «logica» continuità, il momento della decisione e dell'impegno a tradurre in atto e in forma storica quanto si è visto possibile in ordine al valore. È questo il momento propriamente etico che insieme agii altri momenti permette la percezione di senso.
    Appare a questo livello etico il carattere responsivo proprio alla condizione umana: chiamata a prender posizione di fronte al valore e ad impegnarsi sia nei confronti di se stessi, dei propri bisogni, dei propri movimenti intenzionali di libertà e di creatività, sia in rapporto agii altri, al mondo, alla società, alla storia, e, in una visione religiosa, a Dio e alla sua ulteriorità e trascendenza.
    L'esperienza testimonia che in molti casi e soprattutto oggi, nel contesto culturale che viviamo, rispondere al valore abbisogna di coraggio e di ardimento in quanto non sempre è possibile raggiungere una trasparenza chiara e limpida di quanto si intende fare o di ciò che è termine dell'azione; ma piuttosto si tratta di agire in nome dei valore con un forte tasso di opacità, di oscurità, di difficoltà e di contrasto; con verità indiziali, altamente ipotetiche o dilazionate nel tempo; oppure con la coscienza di condizionamenti e di obblighi che non assicurano il successo o l'efficacia dell'azione.
    Per tali motivi, è abbastanza comune parlare di «opzione» o di «scommessa»: ad indicare per un verso la situazione non trasparente e non univoca in cui spesso ci si viene a trovare nel momento di determinarsi ad agire, individualmente o comunitariamente; e per altro verso la presa di posizione a favore di qualcosa che appare come valore, anche se difficile e dagli esiti non scontati.
    Si comprende pure come, in questo orizzonte di senso, la stessa attività di animazione venga a configurarsi come una espressione particolare e come un luogo non inferiore a nessun altro di questo vasto impegno storico di umanizzazione e di promozione. Essa, in fatti, nel suo senso più profondo, viene ad essere un modo particolare di «rispondere» a quell'appello, vissuto e presente in ogni esistenza, una vita umanamente degna, in cui sia possibile esercitare in libertà e con gioia il difficile «mestiere di essere uomo e donna»: cosa che in ogni caso e sotto ogni cielo è sempre, come diceva Aristotele, «un compito da adempiere e un qualcosa di costruire».

    1.3.4. Sulla base di un quadro di idee-valori significativo

    La ricerca di valore e di senso Si nutre di idee, di visioni ideali, di teorie. Esse hanno lo scopo:
    - di stimolare la ricerca di senso;
    - di motivarla e di fondarla dando le «buone ragioni» di pensare e di agire in un certo modo;
    - di far quadro di riferimento entro cui con speditezza e relativa sicurezza collocarsi nel protendersi e nell'agire secondo valore;
    - di permettere il confronto, l'incontro, la comunicazione, il dibattito, con gli altri e con altri gruppi nella ricerca dei consenso e dei socialmente condivisibile.
    Il lavoro e l'impegno per la maturità umana dell'animatore passa necessariamente anche attraverso quest'opera di coscientizzazione sistematica del proprio bagaglio di idee e di modi di intendere il mondo e la vita.
    Per approfondimenti sull'argomento si rimanda al Q14 Immagini dell'uomo negli anni '80, e al Q1 Decidersi per l'animazione.
    Qui basta ricordare che in quest'opera bisognerà:
    - saper fare saggio uso della riflessione, individuale e di gruppo, sull'esperienza propria o di gruppo, in modo tale da praticare abitualmente una sorta di revisione di vita in cui il vedere, il valutare, il decidere sostanzino la continuità tra prassi-teoria-prassi;
    - far ricorso critico e attento al patrimonio sociale della cultura e alla tradizione, da cui tirar fuori secondo l'insegnamento evangelico, come da un tesoro, cose antiche e cose sempre nuove. Una particolare attenzione sarà da fare alla tradizione dei pensiero filosofico-religioso cristiano e alle grandi affermazioni dei Concilio Vaticano Secondo e dei recente magistero papale, e agli interventi delle diverse chiese locali riguardanti l'uomo e il suo destino storico e trascendente;
    - prendere conoscenza approfondita e tenere in debito conto. senza mitizzazioni acritiche, le indicazioni che provengono dalla scienza e dalla tecnologia contemporanea. Per l'animatore ciò varrà soprattutto nei confronti delle scienze umane (psicologia, sociologia, antropologia, economia, linguistica) e delle scienze dell'educazione in particolare;
    - in un orizzonte cristiano bisognerà ripetere l'operazione di sant'Agostino che pregava di credere per capire e di capire per intendere. L'ascolto e la meditazione della parola di Dio, la preghiera. la pratica religiosa, l'attenzione ai segni dei tempi, non sono da sottovalutare al fine di giungere a comprensioni e a idee ricche e profonde oltre che precise.
    Per quanto riguarda i contenuti e la loro organizzazione sembra fuor di dubbio un fondamentale pluralismo. Tuttavia è indubbio che la prospettiva dell'animazione sembra richiedere come imprescindibili alcune affermazioni (almeno a livello generale).
    Sarà utile rifarsi al Q1: «Il credo dell'animatore», e al Q5 sui fondamenti antropologici dell'animazione.
    Qui solo a scopo di stimolo e di avvio alla riflessione, si offrono quelli che sembrano alcuni punti-cardine di un quadro di riferimento teorico in prospettiva di animazione.

    1. Anzitutto una immagine di uomo:
    - radicato nel suo territorio e nella sua cultura e tuttavia aperto alla mondialità e all'umanità comune;
    - soggetto e non tanto oggetto di formazione permanente;
    - radicalmente capace di apprendimento, cultura «animal symbolicum»), autodeterminazione, autoliberazione;
    - persona da suscitare, (la promuovere, da aiutare a liberarsi;
    - illuminato in vario modo e grado dalla luce che proviene dal Verbo di Dio.
    2. Una fondamentale continuità e reciprocità, al di là e oltre i pur concreti conflitti o tensioni o movimenti dialettici tra: - individuo, gruppo, comunità società. stato; - materialità e spiritualità; - bisogni -desideri - valori; - quotidianità ed evento; -passato - presente - futuro; - lavoro, riposo, ferialità, festa; - necessità - caso -libertà; - storia e trascendenza; - crescita e liberazione personale, di gruppo, comunitaria, sociale;
    3. Una concezione di cultura intesa come: - patrimonio sociale di idee, valori, modelli, tecniche; - strumento di vita sociale; - via di liberazione.
    4. Un concetto e un progetto di soci età: - in cui sia possibile e praticabile la soggettività e il protagonismo storico di tutti; - a partire dal territorio e dal quotidiano; in vista di una comunitarietà dell'esistenza, individuale e collettiva, realizzabile a livello locale, nazionale, internazionale e di mondialità.
    5. Una visione della conoscenza, della scienza e della tecnologia:
    - in fondamentale continuità, senza assolutizzazioni;
    - riconducibili ultimamente all'unitarietà dell'uomo e alla sua responsabilità personale e collettiva.
    Su queste basi sarà possibile anche organizzare un fondamentale quadro di possibili valori:
    - sia di ordine procedurale, come ad esempio i valori dei protagonismo, della partecipazione, della corresponsabilità, della comunicazione, della condivisione;
    - sia di ordine contenutistico come ad esempio il valore della vita, della persona (e della sua crescita plenaria, della sua liberazione e della sua educazione il valore della comunità civile ed ecclesiale; il valore dei lavoro, della ferialità, dei riposo e della festa; il valore della pace (e dei suoi presupposti: la verità, la giustizia, la libertà, la comunicazione, l'amore); il valore della mondialità e della cattolicità; il valore della felicità e di una. civiltà dell'amore e così via

    1.4. MATURITÀ UMANA E VITA DI FEDE

    1.4.1. Oltre il senso?

    Abbiamo ricercato il senso in una vita secondo valore, ad evitare cadute soggettivistiche o pesantezze oggettivistiche, ma anche per non cadere in un presentismo e in una fissità non meno dannosa.
    Infatti spesso nel linguaggio corrente colleghiamo all'idea di senso quella di orizzonte, di quadro, di totalità di sistema (= orizzonte di senso, quadro di senso, totalità di senso, sistema di senso o di significato). Ora c'è il rischio che si venga a pensare il senso come qualcosa di completo (come è nell'idea di totalità), di autonomo (anche se in interazione, come è nell'idea di sistema), di fisso (come è nell'idea di quadro, di concluso, per quanto movimentato, com'è nell'idea di orizzonte visto popolarmente entro la cappa dei cielo).
    Per tal motivo alcuni pensatori contemporanei invitano ad andare oltre il senso e invece a porsi in una prospettiva di infinità, che sarebbe testimoniata tra l'altro dall'esperienza dei desiderio, che a differenza del bisogno, il quale soddisfatto si spegne, trova nella sua soddisfazione un incitamento a qualcos'altro oltre sé: direttamente in funzione di una valida attività di animazione; indirettamente in funzione della propria e altrui piena umanizzazione.
    In quest'ultimo ambito il pensiero religioso forza i limiti di una maturità considerata come fine a se stessa o circoscritta all'umano.
    Secondo essi, le stesse attese umane di liberazione e di giustizia non trovano consistenza se non sono vissute nella prospettiva e nel contesto di una vita religiosa e di fede.
    A parte ciò, per l'animatore (anzi per ogni persona) si pone la questione di prender posizione sulla dimensione religiosa della vita; di rapportare la crescita umana con la vita di fede,

    1.4.2. La maturità nella prospettiva di una vita di fede

    Secondo la prospettiva cristiana la maturità umana è senz'altro portata ad un altro livello di quelle che sono le prospettive delle scienze umane e dei pensiero filosofico stesso. E ciò, innanzitutto, perché la pienezza di umanità viene commisurata con l'umanità dei Cristo risorto, primogenito di ogni creatura e ricapitolazione ultima verso cui tende la storia umana chiamata ad essere a immagine e somiglianza di Dio.
    La maturità umana viene così pensata in termini di maturità di Cristo.
    A riguardo è molto stimolante quanto afferma San Paolo. L'umanità dei Signore è la «paideia», cioè la cultura in cui i cristiani debbono educarsi e verso citi tendere nelle relazioni interpersonali e sociali: le donne rispettino i mariti nel Signore, i mariti amino le mogli come il Signore ha amato la sua chiesa; i genitori non debbono inasprire i figli, ma formarli nel Signore; fate tutto nel Signore e così via.
    Nella tradizione cristiana le classiche virtù «cardinali» (cioè strutturanti e come portanti di vita adulta): la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza, sono riprese nel superiore quadro delle virtù «teologali» (che hanno cioè la loro scaturigine nella sovrabbondanza divina); fede, speranza, carità. E si ha in sommo onore, presso le comunità credenti, le figure di mistici e di santi, che non solo eccedono spesso ogni misura umana, ma che alla luce di trattamenti strettamente scientifici (psicologici, psicoanalitici, terapeutici, sociologici) o di considerazioni «troppo umane», potrebbero persino apparire con comportamenti o tratti di personalità piuttosto problematici, se non addirittura vicini al patologico.
    Come ciò si integra con la visione di una maturità, pensata in termini di una globale funzionalità psichica?
    Quando le scienze umane e il pensiero filosofico ci dicono a riguardo della libertà umana che è sempre sotto condizione, fanno essere più cauti a riguardo di una maturità «pura», senza ombre e senza sfumature. Essa va piuttosto pensata in termini di relatività e di variazione rispetto a modelli standard, che rappresentano Piuttosto idee-regolative in confronto alla personalità concreta.
    Altrettanto si può pensare in prospettiva di fede.
    Secondo il detto tradizionale, la grazia non toglie ma corrobora la natura. La vita di fede, di speranza, di carità viene ad essere come un supplemento di energia spirituale che permette decisioni libere e responsabili, anche e nonostante più o meno gravi carenze psichiche o intellettuali od operative.
    Tutto ciò va certamente comprovato. Ma non sembra contraddittorio pensare che sia possibile in linea di principio. L'eroica carità di santi, probabilmente poco dotati umanamente, sta a dimostrarlo.
    A parte questi casi limiti, si può dire che normalmente tra ricerca di maturità e vita di fede si può avere un proficuo gioco di interazioni. Invece di contrapporre maturità umana e maturità cristiana, conviene pensare che l'unica preoccupazione di crescita in umanità possa trovare in una vita di fede vissuta in profondità, sia una riserva critica nei confronti di visioni e progetti «troppo umani», sia di integrazione e di apertura ad un di più e a un oltre che è il di più, l'oltre di Dio fatto uomo, perché gli uomini possano diventare Dio, come diceva in modo brillante Sant'Agostino.
    D'altra parte la preoccupazione per la «maturazione» della vita cristiana di fede impegnerà ogni serio credente a far sì che la libertà dei figli di Dio si saldi su solide strutture personali e sociali di libertà, e cioè su una vita umana matura e su una vita sociale tesa a liberarsi e a promuovere una vita umanamente degna per tutti.

    1.4.3. Un'ulteriorità nell'impegno di maturazione

    In concreto per animatori che vivono in un contesto ecclesiale, il discorso della maturità sarà da ripensare nella luce della vita di fede.
    Il problema dell'identità viene ad allargarsi come problema dell'identità cristiana. La vita secondo valore diventa impegno etico illuminato dalla fede, animato dalla speranza, sostanziato di carità per portare, saggiamente e coraggiosamente frutti di verità. di amore, di giustizia e di pace. li quadro di riferimento ricompreso alla luce dei Vangelo dovrà portare fondamentalmente:
    - a pensare Dio non come tappabuchi, burattinaio, ingegnere, giustiziere, ma piuttosto come Padre, ricco di grazia e di misericordia e grande nell'amore e nella fedeltà;
    - a vedere la creazione come chiamata alla vita e alla libertà, alla trasformazione umana del mondo, alla comunione interumana e con Dio;

    - a considerare Cristo, centro della storia e dei mondo, primizia di ogni creazione e di una umanità rinnovata;
    - a rivedere sia la concezione della chiesa (chiesa istituzione, chiesa comunione, chiesa servizio e sacramento di salvezza per il mondo, in cammino verso il regno nello Spirito) e la propria appartenenza ad essa;
    - più in particolare saranno probabilmente da rivedere il concetto di «legge» (non imposizione oppressiva e indiscriminata, ma pedagogo di libertà, misura storica e concreta della giustizia e dell'amore); il senso dei sacramenti e della liturgia, culmine e fonte della vita cristiana, non separabile da essa, pena la loro ritualizzazione, astrattezza, insignificanza.
    Il tutto preso in una spiritualità che sulla base di questi riferimenti teorico-teologici dà un particolare stile alla propria azione e ai propri ritmi vitali. In essa sarà da comprendere la stessa attività di animazione.
    Non si sta qui a dilungarsi sulla questione della spiritualità. Dal nostro punto di vista basta dire che:
    - La formazione di una propria e particolare spiritualità (magari all'interno di modi sperimentati nella comunità ecclesiale) rientra nell'impegno di maturazione dell'animatore;
    - essa dovrà connettersi organicamente con l'attività di animazione ed evitare schizofrenie di vita;
    - anche a questo livello si impongono scelte pensate, responsabili, ma proprio perciò ultimamente gioiose e maturanti;
    - è appena da ricordare, in nome delle caratteristiche proprie dell'animazione, il favore che sembra chiaramente ottenere una spiritualità dell'incarnazione, che vede nella vita il luogo dove fare l'esperienza di Dio e della sua compagnia; che cerca nel quotidiano e nel lavoro di animazione di proclamare la profezia messianica di Dio nei confronti della storia umana; che scandisce la vita tra la ferialità e la festa, tra azione, riflessione, preghiera, celebrazione e nuova azione, dalla vita alla vita.

    1.5. CONCLUSIONE: CRESCERE INSIEME NELL'ANIMAZIONE

    1.5.1 Il cammino percorso

    Fin dall'inizio di queste pagine si è insistito sul non fissarsi sul proprio io e non isolarsi nella ricerca e nel consolidamento della maturità personale.
    Si è insistito ripetutamente di collocare l'impegno per l'autoformazione nel comune processo di liberazione e di passione per la vita. da cui del resto nasce e sii cui ultimamente si fonda la decisione di fare animazione.
    Per questo si è proposto di partire da una benevola e corretta accettazione di sé, dell'altro, della terra, della nostra storia e cultura contemporanea, e farne anzi l'occasione a trovarvi spazi possibili per la propria e comune liberazione e realizzazione.
    Ciò non significa certo supina accettazione dell'esistente e non esime da un complesso processo di «educazione» di tali realtà, nel senso di comprenderle; tirarne fuori le intrinseche possibilità di valore; farle crescere verso orizzonti ampi di valore e di senso, illuminate dal Vangelo e dalla parola di Dio sparsa nel mondo.
    Si è anche cercato di mostrare come innestare la ricerca di maturazione con la maturazione della propria fede.
    Si tratta indubbiamente di una proposta.
    Altri credono di dover agire in direzioni diverse, se non proprio opposte.
    Il pluralismo, in questa materia come in altre, è legittimo ed anche proficuo. Ma è lo spirito, lo stile e il metodo dell'animazione che sembra invitare a porsi in questa linea.
    Essa infatti è sempre auto-liberazione, non certo imbottigliamento di merce portata dall'esterno. Nella quotidianità trova la sua struttura fondamentale e nel vissuto il suo punto di partenza. Ma è nella cultura della comunità che trova il suo orizzonte di senso; e nel protagonismo e comunitarietà partecipativa di gruppo il suo stile di azione e di comunicazione, nel servizio alla massa, al territorio, alla comunità civile ed ecclesiale.
    Inoltre un tale stile di crescere e maturare sembra corrispondere a quella spiritualità dell'incarnazione che è alla base della proposta di animazione pastorale, quale è intesa nel progetto dei «quaderni» dell'animatore.
    Maturare e crescere insieme, pensare e proiettare il proprio impegno di formazione nel comune anelito di felicità e nel comune impegno di promozione umana, sembra quindi lo stile tipico della maturazione umana dell'animatore.

    1.5.2. Due indicazioni propositive

    Si potrebbe pertanto concludere qui. Ma forse conviene accennare ancora a due indicazioni propositive, utili ai fini dei nostro discorso.

    Un maestro di vita?

    La ricerca della maturità è indubbiamente un impegno personale, pur nella comunitarietà e condivisione del processo.
    Ma non va consumato necessariamente e totalmente nella interiorità etica e personale.
    La tradizione educativa e spirituale ha avuto sempre in onore le figure del maestro di vita, della guida morale, del direttore spirituale.
    La contestazione dell'autoritarismo educativo, connesso con il più vasto autoritarismo imperante nel macro-sociale, ai diversi livelli della vita associata e dei processi di comunicazione interpersonale e sociale, ha gettato una fosca ombra di sospetto su tali figure
    Oggi si è più sereni e forse più obiettivi. Invece che una autorità asservatrice e alienante si può dare una autorità liberatrice e stimolante.
    Una qualche figura simile non sani utile per avere consigli; per essere aiutati a confrontarsi, a leggere e interpretare la propria e comune vicenda; per sentire la solidarietà fiduciosa e stimolante nei momenti delle decisioni personali o in quelli dell'impegno per realizzazioni di valore; per sentire la vicinanza e la compagnia discreta e magari silenziosa nei momenti di «sonoro deserto» o «di notte oscura», in cui più di una volta ci si può trovare?
    Ricercare una persona adulta, saggia, sperimentata, spirituale (senza magari che sia tale da dover dire come Don Abbondio: «che santo! Ma che tormento!») e frequentarla opportunamente, non sarà da mettere nei conti, in vista di spendere un po' di energia per ciò che occorre alla propria maturazione e formazione?

    Il gruppo degli animatori

    Il lavoro di auto-formazione dei singoli animatori avviene all'interno della comune esperienza di animazione e magari nella condivisione di responsabilità ed impegni per tutti all'interno di esperienze di vita di gruppo e di comuni strutture o istituzioni ecclesiali o civili.
    Non si potrà pensare a compartecipare e condividere oltre l'attività di animazione e la vita di gruppo, anche le problematiche formative, che del resto sono normalmente contemporanee, pur nella originalità irripetibile personale?
    Di fatto una tale condivisione avviene a livello amichevole semi-privato. E in ciò si può fare esperienza vissuta del detto che «trovare un amico è trovare un tesoro».
    Ma oltre a ciò, non si dovrà pensare a un qualcosa di più comune, di più generalizzato, ad una struttura che offra strumenti, occasioni, itinerari e esperienze di formazione per tutti coloro che in vario modo e in diverse forme fanno animazione?
    Si potrebbe pensare ad un intergruppo o ad una vera e propria comunità degli animatori, all'interno di realtà più vaste (centri giovanili, parrocchie, scuole o altro), con tempi, attività, servizi, strumenti, procedure di formazione particolari, che si innestano con il resto. Oltre che ad essere un possibile e valido momento e luogo di problemi, idee, progetti, programmazioni, verifica, formazione del consenso, esso potrebbe aiutare l'organicità della formazione degli animatori/trici, che, come si è detto, è chiamata a coniugare la maturità personale con la responsabilità e la competenza, richieste dalle finalità proprie ad una attività di animazione degna di questo nome.
    I momenti e le forme di programmazione. l'esperienza dei campi scuola o le scuole di animazione potrebbero essere viste come segmenti ed emanazione di una simile struttura.
    Non si risolverebbero certo tutti i problemi e non si soppianterebbe il lavoro personale di maturazione e crescita in umanità. Ma certo si potrebbe fare esperienza sia della dialettica pluralistica sia della solidarietà, cui tutti si è chiamati nella ricerca della verità e della giustizia, quando non voglia essere privata ed egocentrica.
    E forse si potrebbe avere il gusto di una crescita in comune, nel contesto grandissimo di quel camminare insieme verso i cieli nuovi e terra nuova, che è nelle attese di tutti; e fare l'esperienza fiduciosa di quella attesa e ricerca del Regno, che vuole essere, come dice la liturgia, regno di verità e di vita, regno di santità e grazia, regno di giustizia, di amore e di pace, per tutti.

    2. LA MATURITÀ DEL GIOVANE ANIMATORE

    Ci pare necessario precisare e definire i limiti entro cui si collocano le riflessioni che seguiranno, esplicitando l'ottica scelta, gli assunti, il metodo ed il contesto operativo. Per animatori intendiamo riferirci ad adolescenti/giovani (indicativamente 16-24 anni) che prestano la loro attività con ragazzi, adolescenti e giovani in una situazione di volontariato. Delimitato in questo modo il contesto di lavoro, non si intende entrare nel merito della definizione dell'«animazione» né dei suoi contenuti né delle tecniche proprie degli animatori, bensì focalizzare i aspetto relazionale che questo lavoro implica, il significato che può rivestire tale scelta e le capacità particolari che sono richiesti dallo svolgimento di questo servizio.
    L'animazione può quindi essere considerata - da un punto di vista psicologico - come l'esercizio di una funzione educativa: si tratta infatti di un lavoro eminentemente centrato sulla relazione, sul suo crescere e svilupparsi in un contesto di gruppo.
    Ci occuperemo quindi di descrivere alcuni dei significati che la scelta di questa attività può assumere per una persona nel periodo in cui sta costruendo e consolidando la propria identità adulta, e di prospettare alcuni tipi o modi di «fare» l'animatore.

    2.1. L'ANIMATORE IN RAPPORTO A SE STESSO E IN RAPPORTO AGLI ALTRI

    Si parla di maturità in contesti e con obiettivi diversi, ad esempio come esortazione a comportarsi da persona matura o come valutazione di una non ancora raggiunta compiutezza, ma il termine porta comunque con sé un alone di qualità ampiamente desiderabili. Ciò si configura, quindi, come un ideale da raggiungere una volta per tutte, che taluni possiedono ed altri non ancora, e che consente a questi fortunati possessori di formulare valutazioni fondate ed incontrovertibili sul proprio, ma soprattutto, altrui comportamento.
    Se si rimane all'interno di una siffatta visione statica e sostantivizzata, qualsiasi discorso «sulla» maturità rischia il fraintendimento, l'essere scambiato e ridotto alla enunciazione di regole/ ricette il cui rispetto garantisce di «avere» la maturità.
    Intendiamo invece proporre un vertice da cui guardare il lavoro dell'animatore, utilizzando quindi il concetto di maturità nel senso di capacità di «apprendere dall'esperienza», di elaborare e contenere il dolore mentale, il rischio, l'incertezza, di integrare le istanze pulsionali e ideali cori le richieste della realtà sociale.
    Preferiamo, quindi, trattare delle capacità o qualità personali richieste dal lavoro di animazione, dei problemi inevitabili che si incontrano nello svolgimento di questa attività.
    Siamo di fronte a un duplice livello di analisi:
    - intrapsichico (relativo all'evoluzione interna ed alla conoscenza e costruzione di se);
    - interpersonale (relativo alla sua funzione di animatore di adolescenti).
    Sul piano interno l'adolescente o il giovane che sceglie di fare l'animatore è chiamato a chiarire una serie di punti nodali che riguardano il suo sviluppo personale, come questo si colleghi con la scelta dei volontariato, con che significato, peso e destino le soluzioni date ai problemi evolutivi tipici si situino nel lavoro di animatore.
    Sul piano interpersonale il volontario entra in relazione con persone e gruppi di adolescenti o giovani, appartenenti sostanzialmente alla sua stessa fase evolutiva, con il vantaggio quindi di una vicinanza di linguaggi, esperienze, o con un fresco ricordo dei problemi recentemente affrontati; ma con il rischio di rimettere in discussione soluzioni appena conquistate con fatica, di mettere in crisi un equilibrio non ancora ben consolidato, con possibilità di regressioni o di imporre agli altri le proprie soluzioni per difendere la propria recente costruzione.
    Ci sembra opportuno a questo punto tratteggiare molto sinteticamente le problematiche adolescenziali e giovanili relative alla costruzione della propria identità, con le quali anche il giovane animatore è chiamato a confrontarsi. pongono per il fatto che egli svolge Subito dopo affronteremo alcuni un ruolo ed un compito specifici in dei problemi che all'operatore si mezzo ad altri giovani.

    2.2. COMPITI NELLA COSTRUZIONE DELL'IDENTITÀ NELL'ADOLESCENZA E GIOVINEZZA

    2.2.1. L'adolescente e il processo di integrazione delle identificazioni

    Centrale nell'evoluzione psicologica dell'adolescente è la costruzione della propria identità personale.
    Sul piano sociale l'adolescente è soggetto a grandi pressioni, non dilazionabili nel tempo, perché si assuma impegni che gli ipotecano il futuro sulla base di dati scarsi e incerti: deve definirsi rispetto alla professione e allo studio, al mercato dei lavoro, alla carriera ed alla capacità di guadagno. È soggetto a spinte centrifughe dalla famiglia ed a richiami regressivi: nel suo tentativo di uscire dalla confusione oscilla tra quattro mondi dotati di valori propri, cioè quello della famiglia, degli adulti, dei coetanei e dell'isolamento.
    L'adolescente si trova quindi di fronte ad una serie di compiti, di domande circa il proprio senso di esistere e di potere diventare qualcuno o qualcosa:
    - qual è il proprio posto come uomo/donna;
    - quali sono i principi e valori a cui aderire e quelli a cui si oppone; - che tipo di persona è o vuole diventare;
    - quali obiettivi si pone sul piano lavorativo ed in che direzione intende avviarsi;
    - quale rapporto intende instaurare con persone dell'altro sesso;
    - che futuro potrà costruirsi;
    - se riuscirà a cavarsela da solo. Si tratta, come si vede, di un complesso e urgente lavoro interno che comporta gioia, passione ma anche dolore, sofferenza, angoscia, delusione, tristezza, nostalgia: tutta la gamma delle emozioni umane provate nella loro forza e nella loro vorticosità è sentita come una minaccia di disorganizzare la fragile costruzione della nuova identità che si sta formando.
    È un processo di integrazione e organizzazione delle identificazioni, delle modalità di soluzione di problemi e di soddisfacimento precedenti in un tutto nuovo: l'adolescenza può consentire alla persona di attrezzarsi e di mettere a punto capacità di autonomia, di sicurezza di sé fondata su una solida base di autostima, di lavoro, di separarsi e di essere in intimità.
    È il tempo della realizzazione di sé, delle fantasie e dei progetti a lungo pensati: ora si è «potenti», si può generare, e mettere se stessi e le proprie idee alla prova, alla verifica della realtà.
    Cambia, di conseguenza, anche la valutazione e l'organizzazione dei tempo: ora è autodiretto, e comunque aumenta sempre più il tempo privato, così come all'ingresso dell'adolescenza si è costituito uno spazio privato interno che di solito assume anche una manifestazione esterna (la cameretta) - da cui gli adulti sono esclusi ed hanno il privilegio di accedervi solo se invitati.
    All'interno quindi di un periodo così turbolento si vengono consolidando diverse modalità di trattare con se stessi, i propri problemi, emozioni, impulsi. con la elaborazione delle decisioni, con la strutturazione dei tempo e dei rapporti, con l'esperienza dei lutto per la perdita di un determinato rapporto con le figure parentali.
    Diventa così possibile rispondere alle richieste sociali (della famiglia e della società) tenendo conto dei propri bisogni, senza escludere nessuna delle istanze in gioco.

    2.2.2. La giovinezza e i rapporti di integrazione sociale

    All'uscita dall'adolescenza la persona, in una condizione evolutiva sufficientemente buona, è equipaggiata con un solido senso di identità personale per affrontare il «passaggio» successivo: la giovinezza. Questo stadio evolutivo che va emergendo all'interno della nostra area culturale evidenzia un ulteriore spazio-tempo prima dell'ingresso nel mondo adulto che si caratterizza da un punto di vista psicosociologico, dall'assunzione di impegni coniugali e di carriere. È una posizione, quindi, questa della giovinezza, interlocutoria nei confronti della società: ci si trova in situazioni (lavorative, affettive...) transitorie, con un collaudo ambivalente della relazione tra sé e la società, interrogandosi se, dove, come e quando entrare a far parte dei sistema.
    Si presentano al giovane due compiti fondamentali da affrontare:
    - la rinegoziazione del rapporto individuo-società, nel senso di decidere tra il cambiare sé stessi e la società o cercarsi una nicchia;
    - la differenziazione e precisazione dell'immagine interiorizzata della società, nel senso del chiarimento di questioni di etica sociale relative, ad esempio, al prezzo dei successo, al compromesso, ecc...
    È un periodo quindi, dal punto di vista emozionale, di oscillazione tra il senso onnipotente di un sé che può orientarsi in qualsiasi direzione, la paura di cristallizzarsi e di «incastrarsi» in uno spazio vissuto come la fine della propria mobilità e capacità di crescita e cambiamento, ed il senso di assurdità e sradicamento derivanti da questo stato di sospensione di impegno.
    Con il riconoscimento di sé e della società, dei propri e altrui limiti, senza negazione di nessuno dei termini del rapporto, finisce il periodo di disimpegno nei confronti delle istituzioni sociali: non si ha più bisogno di proclamare ì propri impegni, perché questi risultano evidenti dalle scelte che si fanno.

    2.3. INTERROGATIVI VERSO UNA MATURITÀ INTERPERSONALE E PROFESSIONALE

    Veniamo ora ad alcuni problemi ed interrogativi che si pongono all'animatore per il fatto che svolge una funzione specifica di educatore:
    - a quali modelli fare riferimento;
    - quale retribuzione attendersi;
    - quale rapporto stabilire tra animatore e gruppo.

    2.3.1. Modelli impliciti orientanti lo svolgimento della propria funzione

    La scelta dell'animazione come attività di volontariato viene a porsi all'interno di una pluralità di significati che ne determinano, non solo il peso e la funzione per lo sviluppo affettivo del soggetto, ma anche le modalità relazionali di svolgimento.
    Da questo punto di vista il progetto di animazione, come qualsiasi altro progetto formativo, pur nella molteplicità delle sue realizzazioni personali, si viene a confrontare con una serie di modelli e di immagini paradigmatiche, sintetizzabili - secondo Enriquez (1980) - nelle seguenti:
    - dare una buona forma, plasmare (il formatore);
    - aiutare a dare alla luce, a fare emergere potenzialità inibite o represse (il maieuta);
    - guarire e restaurare riportando ad uno stato di salute/normalità (il terapeuta);
    - interpretare, fare prendere coscienza delle ragioni della propria condotta (l'analista);
    - fare agire, fare cambiare la società (il militante);
    - dedicarsi alla gente, farsi carico dei loro problemi per riparare le ingiustizie (il salvatore).
    Se da un lato questi modelli relazionali fanno riferimento e sono sostanziati da fantasie profonde e a specifiche strutture di personalità, dall'altro possono essere ricondotti alla teorizzazione pedagogica e possono essere visti come funzioni che si vengono esercitando all'interno di un ruolo e di un contesto lavorativo, ma anche, nella loro unilateralità, come rischi e pericoli a cui sono soggette tutte le persone che cercano di realizzare un lavoro di formazione e quindi anche il lavoro di animatore. Anzi, è proprio l'analisi delle modalità relazionali e del loro significato che si costituisce come specifico lavoro dell'animatore ed è in questa capacità di verifica, osservazione e responsabilità che si configura l'evoluzione della maturazione personale.

    2.3.2. Quale «retribuzione» per il lavoro di animatore

    Ad un primo approccio sembra un lavoro che comporta un grosso dispendio di energie, soprattutto psichiche: l'animatore interagisce con un gruppo e con ogni persona in particolare, sfruttando le sue capacità affettive, le doti umane e creative che gli sono proprie, per permettere al gruppo di stare insieme, di superare la tensione di alcuni periodi, avanzando proposte capaci di suscitare interesse e di creare aggregazione, ecc... Da ciò la necessità di cogliere i bisogni dell'utente cui si rivolge, i suoi ritmi, le dinamiche del gruppo e di essere attrezzato per gestirle. Può trovarsi a lavorare in una situazione felice, o al contrario difficilissima, legata ad un territorio che gli offre problemi irrisolti. Ha, dalla parte della sua scelta, l'entusiasmo con cui l'ha fatta, ma non sempre gli strumenti che gli permetterebbero di rispondere adeguatamente ai succitati problemi.
    Ha di fronte a sé un lavoro ben difficile, e in cui è facile si crei confusione, anche per il fatto che è volontario, non retribuito, part-time. Mancando quegli elementi contrattuali esterni (tempo, denaro) che delimitano e specificano ruolo e rapporto, è possibile che aumenti la confusione circa il tempo da dedicarvi, la disponibilità richiesta e prestata, le aspettative nei confronti della rispondenza dell'utenza; in sintesi, aumentano i rischi di una prevalenza degli elementi dei mondo interno dell'animatore nei confronti della situazione di lavoro. Sembra, infatti, che questo lavoro possa essere svolto con tanta più fantasia, aderenza alla realtà, capacità di comprensione dei bisogni altrui, passione, quanto più sarà chiara la delimitazione del campo in cui operare, degli obiettivi e degli strumenti, ma anche e soprattutto saranno chiari i propri bisogni ed i motivi ed il senso di una scelta siffatta per l'animatore. In questo caso l'animatore avrà una sua sicura retribuzione, anche se non in denaro: potrà essere, come per ogni lavoro svolto, la soddisfazione di vederlo realizzato bene, la gratitudine che proviene da chi del nostro servizio ha usufruito, la possibilità di sentirsi compartecipe nei cambiamenti personali e sociali, la soddisfazione di aver reso un buon servizio in sintonia con i propri ideali, la scoperta di nuove situazioni, l'incontro con esperienze e persone nuove, ecc...
    Se l'animatore non sente come propria, assieme alla fatica e alle frustrazioni che spesso può incontrare, questa «retribuzione», potrebbe forse domandarsi che senso ha per lui l'animazione, che significato ha avuto una scelta di questo tipo, a quali altri bisogni personali risponde, e quindi, quale tornaconto favorisce.

    2.3.3. Come stabilire un rapporto autentico con gli altri?

    Al di là di quanto dice e agisce sia che si tratti di animare attività di tipo fisico o conviviale o di riflessione - gli adolescenti percepiscono quello che egli è realmente come persona: lo stesso modello educativo scelto diventa l'indicatore dello stato interno e relazionale dell'animatore. Schematicamente si può affermare che ogni ruolo educativo può in effetti seguire due strade:
    - la prima è la proposta di regole, progetti, programmi, dati da accettare e a cui conformarsi, e quindi la ricerca del consenso e adattamento a qualcosa di precostituito;
    - la seconda è la possibilità di un rapporto autentico in cui le persone possono essere ciò che sono realmente, esprimere consenso e/o dissenso, elaborando sia l'uno che l'altro.
    Questa seconda posizione permette un lavoro reale e significativo, perché favorisce un incontro trasformativo, tra persone che benché in ruoli diversi - per il fatto di «incontrarsi» si scambiano reciprocamente.
    All'animatore non viene richiesta dalla sua attività una perfezione un po' magica e onnipotente, ma di avere una libertà interiore che gli permetta di cogliere con chiarezza quanto avviene in sé e quanto l'altro manifesta. La parte fondamentale e fondante dei suo lavoro sta infatti nella sua capacità di rapporto: è una dote peculiare che nessuna tecnica potrà dargli in quanto legata alla sua vicenda personale. Non gli viene chiesto di essere senza problemi, né di avere tutte le soluzioni, bensì di avere consapevolezza dei problemi per non proiettarli sugli altri, e di avere la pazienza di cercare e inventare le soluzioni in ordine ai bisogni di ognuno. Un animatore, infatti, «sufficientemente buono», riesce a riconoscere i bisogni del gruppo e di ognuno in particolare, cogliendoli tra le righe, riflettendo sui tentativi fatti, procedendo a volte per prove ed errori alla ricerca di un modo di animare che sia creativo e di crescita per il gruppo. Può perciò dialettizzare la risposta ai bisogni dell'utente, che si vengono scoprendo a poco a poco con discrezione e rispetto del ritmo di tutti, senza imporre le proprie soluzioni private. Condizione necessaria e sufficiente di ciò è la capacità ed il desiderio di favorire la nascita di una relazione e di sostenerne lo sviluppo, proteggendola da intrusioni, mistificazioni, manipolazioni.

    2.4. ALCUNE CONDIZIONI MENTALI ED EMOTIVE PER LA «RELAZIONE» CON L'ALTRO

    Abbiamo descritto, per quanto velocemente, i problemi di maturazione intrapsichica e interpersonale che il giovane animatore deve affrontare. Ora ci proponiamo di descrivere alcune «condizioni» che rendono possibile il lavoro dell'animatore. Sono di due tipi: le prime riguardano atteggiamenti personali; le seconde riguardano alcuni «compiti» dell'istituzione educativa verso i suoi giovani animatori.
    Da quanto scritto finora emerge che tanto più l'animatore ha una visione realistica di se stesso e dei suoi bisogni, tanto più sarà in grado di cogliere correttamente quelli altrui. Non necessita quindi che l'animatore sia «senza macchia e senza paura», ma che delle sue macchie e paure sia consapevole. Si rischierebbe altrimenti un incontro finto, all'insegna dei «come se», tra personaggi e maschere e non tra persone reali.

    2.4.1. Saper ascoltare, saper aspettare

    Saper aspettare e ascoltare (se stessi, l'altro, il gruppo) è una delle condizioni più difficili da attuare perché si è portati, specie se molto giovani, ad agire e intervenire con immediatezza, a volte quasi con l'automatismo dei riflesso.
    La difficoltà di tale atteggiamento risiede nella pazienza che l'attesa richiede, nella frustrazione che una situazione magari statica da un certo tempo reca con sé, nella tendenza a scaricare la fatica della ricerca del senso di ciò che accade con un'azione. Inoltre abbiamo le nostre difese che ci portano a negare, non vedere la parte di realtà per noi sgradevole, a proiettarla sugli altri e quindi a distorcerla. Conoscere comporta quindi una mente aperta, non pre-occupata da altro, libera quindi da pre-concetti e pre-giudizi: un assetto mentale di questo tipo ci permette, quando accostiamo un ragazzo/un gruppo, di non offuscare e confondere la sua richiesta con la nostra visione particolare, di accogliere perciò dentro di noi la sua realtà nella unicità e completezza.
    Tutto ciò è possibile solo se prendiamo sul serio sentimenti, desideri, emozioni, fantasie nostre e degli altri. Questo permette al ragazzo/gruppo di essere se stesso nella sua interezza, di non doversi mutilare delle sue parti meno produttive, razionali e ragionevoli. Facilita un rapporto creativo, un gruppo originale e dinamico, non stereotipato e statico. Vuol dire rispettare non ciò che il gruppo «produce», ma anche le sue emozioni, desideri, insomma il suo mondo fantastico.
    In sintesi, questa qualità di aper­tura mentale, di capacità di ascolto e di attesa, di rispetto delle proprie ed altrui emozioni pongono l'animatore in una posizione di ricezione attiva dei messaggi che provengono dal suo mondo interno e dalla rete di relazioni che costituisce il suo campo di lavoro.

    2.4.2. Contenere il dolore, l'incertezza, il rischio, il conflitto

    Quanto detto sino ad ora può essere esemplificato nei confronti della funzione di contenimento del dolore, dei conflitto e della protesta. Solo apparentemente l'adolescenza è un periodo allegro, spensierato e divertente: gli adolescenti stanno spesso emotivamente male (depressione, noia, tristezza...) e la loro sofferenza mentale è reale anche se può apparire senza fondamento. L'adolescente o il gruppo stesso sarà portato spesso a proiettare nell'animatore il disagio, la tensione emotiva: quest'ultimo, per dovere d'ufficio, non dovrebbe ripetere la stessa operazione né ributtarla indietro al gruppo. Sì trova quindi nella necessità di gestirla, di elaborarla, dì «tenerla» nella sua mente perché solo così l'adolescente può a sua volta trattarla senza esserne schiacciato: può fare perciò l'esperienza di una relazione con una persona in grado di accogliere questi aspetti pesanti e dolorosi senza disorganizzarsi e che riesce ad utilizzarli ai fini della crescita della relazione, dei gruppo. Si tratta di tollerare l'espressione dei sentimenti altrui, reali e non solo idealizzati, e quindi - per quanto riguarda il conflitto - la parte che ama e quella che odia, quella onnipotente e quella impotente, quella responsabile e interessata e quella irresponsabile e disinteressata, quella fedele e quella ribelle. Così il gruppo stesso accettando il conflitto in sé migliorerà le proprie mutue relazioni e sarà più dinamico: non correrà il rischio del consenso a tutti i costi e dell'esclusione di chi ha idee diverse, dell'espulsione dei dissenso. È pure probabile che il gruppo proietti aggressività, rabbia, impotenza dell'animatore che si sentirà così pieno di queste emozioni: potrà comprendere ciò che succede ed il motivo di questo solo tollerando il rifiuto e tenendo viva, per il gruppo, la fiducia nella possibilità di arrivare ad una soluzione.
    Per l'animatore, in tutte le situazioni descritte, si tratta di sapere tenere dentro di sé dubbio e paura di ciò che non è conosciuto, previsto, controllato, programmabile, inquadrato: all'inizio, infatti, non sa se «aspettando e ascoltando» egli sta facendo un buon lavoro di contenimento ed elaborazione, se tollerando il rifiuto avrà una relazione più fiduciosa. Questo rischio, però, è implicito in ogni situazione umana di rapporto e niente ci tutela da questo: può essere rassicurante il pensiero che per l'utente è comunque meglio poter dire «no» che subire passivamente un rapporto poco vero. Con questo atteggiamento inoltre, l'animatore metterà a disposizione del gruppo una sicurezza affettiva costante, quale fonte di speranza che, pur tra le difficoltà, è possibile fare, pensare, immaginare insieme.

    2.4.3. Come elaborare la propria esperienza?

    Per stabilire un rapporto autentico e suscettibile di produrre cambiamento è necessario sopportare la fatica e l'incertezza del rapporto qui-ora, ma anche e soprattutto «apprendere dall'esperienza».
    Il ruolo dell'animatore è un ruolo eminentemente plastico: gli è non solo consentito, ma è anche auspicabile che egli sempre possa e sappia mettere in discussione e verificare la percorribilità di tutte le strade che possono portare ad una adeguata risposta ai bisogni dell'adolescente.
    Certamente una persona con modalità di rapporto con sé e gli altri rigidamente costituite avrà difficoltà nel rapporto con gli adolescenti, che tutto mettono in discussione, contestano o «ignorano» rifugiandosi in un mondo loro.
    L'animatore si trova perciò nella necessità di chiarire e comprendere se tali comportamenti sono dovuti al suo «cattivo» lavoro o alla pena del suo «buon» lavoro. Ha, dalla sua, l'età: infatti anche se sempre avrà qualche anno più dei gruppo che anima (proprio per quella capacità di lettura degli avvenimenti, di equilibri, maturità, ecc. di cui sopra), è vicino al loro mondo affettivo, ideale ed emotivo ed è recente il ricordo dei bisogni, desideri, stimoli che sono importanti a quell'età.
    Ha contro la cosiddetta «mancanza di pratica», cioè la capacità di passare attraverso i fatti e gli avvenimenti pensandoli e facendoli così diventare parte viva del proprio cammino interiore. Il giovane animatore deve quindi sperimentarsi in prima persona per dare significato attraverso l'attività di pensiero alle emozioni, ai sentimenti che nell'«esperienza» pratica ha vissuto. Diventa cruciale, a questo punto, per il giovane animatore, individuare come e dove elaborare tale interessante ma faticoso processo di apprendimento.

    2.4.4. Necessità di chiarire motivazioni e attese

    La possibilità di mettere in atto le funzioni descritte precedentemente in maniera tale da creare lo spazio all'interno del quale può svilupparsi la relazione, presuppone una autenticità di motivazioni ed una chiarezza di intenzioni, riverificate di volta in volta, rispetto alla scelta dell'animazione come forma di volontariato.
    Può capitare infatti, e non in mala fede, che l'animatore scelga di animare gli altri per in realtà animare se stesso, di dare stimoli per il tempo libero altrui perché non sa gestire il proprio, perché ha bisogno di un gruppo di riferimento all'interno di una struttura che lo protegge dalla solitudine e per molti altri motivi ancora. t importante, a nostro parere, che ciò sia chiaro all'animatore ed ai responsabili dell'«animazione» degli animatori per non «usare» inconsapevolmente gli altri per i propri bisogni.
    Infatti, anche se tutto ciò avviene in buona fede, il risultato per l'utente non cambia, nel senso che si sentirà comunque «usato», poco accolto, meno capito, e verrà meno quel clima di rapporto autentico di cui nel precedente paragrafo si parlava. È anche possibile che tra i giovani che scelgono questo tipo di lavoro alcuni abbiano bisogno di stare decisamente dall'«altra parte», da quella cioè degli adulti «buoni» in quanto tali, che «sanno» e dai quali non si* sono mai personalmente differenziati, individualizzati.
    Sarà molto difficile, anzi impossibile per questo adolescente, lasciar vivere anche la conflittualità di un rapporto, la sua ambivalenza inevitabile, dal momento che lui stesso, in prima persona, non ha potuto mai viverla tale esperienza..

    2.4.5. Due modalità riduttive: il «salvatore» e il «seduttore»

    La mancanza infatti di questo lavoro di chiarificazione personale degli obiettivi, mezzi e modi di impostare la propria vita, ingenera confusione, e favorisce situazioni di ambiguità, cioè di strumentalizzazione o manipolazione degli altri (gli adolescenti, l'istituzione) ai propri fini, ai propri bisogni inespressi, interferendo quindi nella propria crescita personale. Analizzeremo, a titolo esemplificativo, due modalità relazionali che si pongono come impostazioni-rischio connesse ai progetti formativi e, con più evidenza, a quelli del volontariato: il salvatore ed il seduttore.
    Tipico e più diffuso modo di rapportarsi in questo campo e presente in tutte le situazioni di servizio sociale, benché nella cultura dei volontariato trovi una sua specifica coloritura, è quella dei salvatore, di chi si pone cioè nel ruolo di salvare, aiutare gli altri. La posizione di base espressa dal bisogno di aiutare gli altri («lo ti salverò»), cioè di curare, salvare, educare nell'altro la propria parte malata, ribelle, selvaggia delinquenziale, tossicomane, ecc... sì manifesta nel volere prestare aiuto ad ogni costo, nel fornire consigli non richiesti, nella ricerca di soluzioni a problemi altrui non posti dall'interessato. Qui il bisogno soddisfatto è quello dell'operatore di sentirsi buono, a posto con se stesso, la società ed il proprio gruppo di riferimento, soprattutto con la parte idealizzata di sé, in grado di dare cose buone all'altro , che è posto nella posizione complementare di chi è meno buono, completo, maturo, capace, quindi bisognoso. L'adolescente si trova ora strumentalizzato, in quanto necessario all'esplicazione dell'attività di aiuto dell'animatore, e potrà sentirsi non rispettato nella sua individualità personale, vivere come intrusioni indebite gli interventi dell'animatore; oppure potrà aderire passivamente a questo modo di rapportarsi conformandosi alle richieste dell'animatore, a scapito quindi dell'autenticità ed autonomia.
    L'altra modalità di relazione, fondata per lo più su una insicurezza di base dell'operatore circa il proprio ruolo, capacità, valore, è costituita dalla seduzione: è il caso in cui l'animatore si lascia un poco (o fa sì che) «adorare» dagli adolescenti. Più che essere attento ai loro bisogni, capirli, collaborare con loro, fa sì che lo amino, lo capiscano, lo aiutino. Chi ha avuto a che fare con bambini e adolescenti può capire quanto gratificante sia il loro entusiasmo, l'affetto che sanno riversare, la genuinità e «totalità» con cui sanno esprimere i loro sentimenti ed al tempo stesso quanto impegnativa possa essere la funzione educativa, quanto dura sia la fatica di dire dei «no», di porre dei limiti, di fornire vincoli e punti di vista diversi, sempre in maniera dialettica e non prevaricante. Queste due facce della medaglia fuse assieme permettono un rapporto di crescita, di incontro reale, dell'animatore e dei ragazzo. Facendo invece un poco «innamorare» di sé l'adolescente, la seconda parte dei lavoro viene a cadere, mentre viene saturato il bisogno dell'animatore di essere idealizzato, ammirato e lusingato. Se ha bisogno di questo tipo di conferma forse l'operatore potrebbe domandarsi come mai non ritiene di poter offrire una buona prestazione in altro modo, e perché gli è così indispensabile una visione idealizzata della realtà. Un'idealizzazione reciproca - quella dell'adolescente nei confronti dell'animatore e viceversa (può d'altra parte, un animatore «splendido» avere «brutti anatroccoli» e non piuttosto «ragazzi splendidi?») - è fisiologica, ma crea un modo di rapportarsi e di essere un po' illusorio, solo «festivo» e non «feriale». Si può forse sintetizzare ciò dicendo che una «luna di miele» può essere molto bella, ma deve poi reggere il confronto con la quotidianità del vivere insieme.

    2.5. RESPONSABILITÀ DELLA ISTITUZIONE FORMATIVA NEI CONFRONTI DEGLI ANIMATORI

    Dei molti problemi di maturità discussi in precedenza si possono cogliere le implicazioni sul piano organizzativo passando dal livello di analisi della maturità dell'animatore a quello della responsabilità dell'istituzione educativa in cui questi opera e, più da vicino, a quella degli «animatori degli animatori».
    Per questi ultimi si pongono dei compiti importanti. Ne ricordiamo velocemente alcuni.

    2.5.1. Selezione e formazione degli animatori

    Ai responsabili istituzionali spetta anzitutto la selezione degli animatori volontari, attraverso una loro formazione sul versante professionale, fatta di competenza teorico-pratica sia a livello di analisi della situazione che di impostazione e realizzazione degli interventi educativi, e attraverso la ricerca dei significato e delle conseguenze che questa scelta assume nella vita dell'animatore, al fine di tutelare anche il giovane operatore dal rischio di una scelta poco consona alle sue esigenze e potenzialità. Questo anche per non fare sì che si dedichi all'animazione chi non riesce a trovare risposte ai suoi problemi privati e vede in questo servizio un modo per «superarli».
    Non tutti i giovani che frequentano un centro giovanile possono risultare adatti a fare da animatori. Compito dell'istituzione è favorire un clima in cui si possano operare delle scelte tali per cui ognuno possa trovare la collocazione più consona alle proprie caratteristiche di personalità.

    2.5.2. Aiutare gli animatori nell'«apprendere dall'esperienza»

    Compete, in secondo luogo, ai responsabili istituzionali l'organizzazione di un servizio di «formazione permanente» che aiuti gli animatori a trasformare l'attività in esperienza, il fare in pensiero, trovandovi materiali utili, oltre che per il loro lavoro con gli adolescenti, per la costruzione della propria identità personale, con i modi ed i metodi che ogni singola comunità riterrà opportuno darsi a tale scopo.
    Si può pensare ad incontri periodici di discussione sia nel senso della programmazione e verifica delle attività che in quello della possibilità di un esame della situazione relazionale dell'animatore dei gruppo, delle dinamiche relazionali che in esso si stabiliscono, così come a momenti di studio, di riflessione.
    L'esperienza del lavoro di animatore dovrebbe infatti essere fonte di arricchimento e di maturazione anche per chi la compie. Vanno allora previsti spazi personali e gruppi di discussione in cui i giovani riflettendo insieme sulla concretezza del loro lavoro educativo possano trovare aiuto nella comprensione del senso degli eventi e dei loro agire, estraendo dall'esperienza tutto il bene e la conoscenza possibili.
    Inoltre per apprendere dall'esperienza è certo necessario non solo che il giovane animatore abbia consuetudine con il proprio mondo interiore e si assuma la responsabilità del senso delle proprie azioni ed emozioni, ma è anche necessario che l'istituzione lo metta nella condizione di poterlo fare. t fondamentale, infatti, che l'istituzione metta a punto un progetto esplicito e richieda al giovane animatore un servizio specifico (ad esempio: presenza tra gli handicappati, allenare una squadra di calcio, organizzare un campeggio per ragazzi ...).
    In questo modo l'attività del giovane animatore trova fondamento e continuità nel confronto con il progetto istituzionale e con gli altri operatori che lo realizzano.
    Dicendo confronto con il progetto dell'istituzione non si vuole affatto dire che essa debba «controllare» l'ortodossia dei suoi animatori.
    Non è questo il problema. Anzi il confronto serrato e aperto abiliterà l'animatore all'autonomia rispetto alla stessa istituzione, garantendogli di essere non il prolungamento della istituzione in mezzo agli adolescenti, ma colui che pone in contatto i bisogni dei giovani, dopo averli lungamente sofferti ed elaborati, e le possibili risposte a tali bisogni, a partire da scelte consapevoli e responsabili.

    2.5.3 Aiutare gli animatori a chiarire le motivazioni

    Un aspetto particolare del servizio dell'istituzione ai suoi animatori è l'aiuto per chiarire a se stessi le proprie motivazioni. Quando l'animatore giovane inizia il suo lavoro è facile che le sue motivazioni siano confuse e poco elaborate: si fa animazione per sentirsi importanti, perché qualcuno verso cui si è riconoscenti lo ha chiesto, per fare qualche cosa di interessante... Ovviamente anche il chiarimento delle motivazioni è un fatto personale: è l'animatore che cerca di rendersi consapevole di cosa cerca, di che cosa gli piace, di quale «tornaconto» si aspetta nel fare animazione. Questo processo di chiarificazione personale è tutt'altro che facile. Ci vuole tempo, calma, capacità di ritornare sui propri passi.
    L'aiuto che l'istituzione può offrire è essenzialmente quello della creazione di un clima non giudicante. Invece di mettersi in posizione moralistica, essa può presentare nuovi stimoli perché si accostino due dimensioni essenziali nella vita di ogni persona: il piano degli ideali e quello di una realistica visione di sé.
    In un clima sereno, non moralistico, il giovane animatore non sarà costretto ad abbandonare la visione realistica di sé, perché troppo al di sotto delle aspettative altrui, ma, tenendo conto dei propri limiti senza per questo rinunciare a un ideale meno irraggiungibile e lontano, potrà più armoniosamente impegnarsi e anche conoscersi.
    Il clima non giudicante permette di scoprire e prendere contatto con le motivazioni su cui cresce la propria scelta, di elaborarle, di modificare atteggiamenti, di avviarsi a scelte conseguenti, decidendo di proseguire con entusiasmo il proprio servizio oppure di rivolgersi ad altro in modo sereno e chiaro.

    2.6. MATURAZIONE PERSONALE E SERVIZIO DI ANIMAZIONE

    Al termine di queste riflessioni possiamo sinteticamente ripercorrere alcuni punti nodali della nostra esposizione.
    Non esiste un animatore ideale, buono per tutte le situazioni, equilibrato, maturo e responsabile in ogni momento, con ogni persona, in grado di affrontare tutti i problemi; non è questo cui ci siamo rivolti, né abbiamo voluto descrivere il ritratto del «super-animatore». Pensiamo che molti abbiano, in misura diversa, una serie di qualità e capacità che possano essere messe in gioco, potenziate, verificate, ampliate con questo lavoro. Se tale attività, d'altro canto, costa invece uno sforzo troppo rilevante (a sé e/o agli adolescenti), se assorbe le energie di chi la sceglie come impegno part-time in modo troppo massiccio, allora forse diventa necessaria una pausa di riflessione che permetta all'animatore di valutare se esista una possibilità di cambiamento interno tale da garantirgli un adempimento meno forzato, doloroso e disturbato, o se la soluzione migliore non sia invece quella di lasciarlo, cercando altre vie, più in sintonia con se stessi, di comunicazioni, rapporti e servizio agli altri.
    Ribadiamo che pensiamo sia realmente impossibile fornire all'animatore ricette e regole rigide di conduzione di sé e degli altri. Ciò che viene richiesto da questa impostazione di lavoro all'operatore sociale - sia esso educatore, assistente sociale, animatore, ecc. - è una modalità di stare in relazione tale da consentire la crescita, il cambiamento reciproco, è in prima istanza un modo di guardare, pensare a sé, l'altro, i rispettivi bisogni, le proprie emozioni come strumenti di conoscenza e di apprendimento dalla esperienza.


    IL CANOVACCIO
    Per una scuola di giovani animatori

    Tra le tante piste possibili di lavoro scegliamo le seguenti:
    - da dove partire: in altre parole, come aiutare gli animatori a motivare a se stessi una riflessione sulla loro maturità personale?
    - di quale maturità personale si vuole parlare: cosa si intende per maturità e cosa si intende per identità umana? e quale «attrezzatura» possedere per attivare in se stessi un processo di maturazione?
    - che senso ha (per me) fare animazione: in altre parole, perché faccio animazione e dove «colloco» questa mia attività?
    - dal rapporto con se stessi al rapporto con gli altri: quale maturità interiore è richiesta per essere capaci di «relazionarsi» agli altri?
    Nel procedere utilizzeremo sia il contributo di Nanni che quello di Scansani-Calorio, tenendo presente che il primo si muove in ambito interdisciplinare-pedagogico (va dunque oltre il fatto psico-sociologico), mentre il secondo si ferma volutamente ai soli aspetti psicologici.

    DA DOVE PARTIRE?

    Proponiamo tre possibili partenze, in alternativa tra loro.

    Prima partenza: Analisi di storie di vita

    Si possono raccogliere (in antecedenza) un certo numero di storie di vita, alcune di animatori (magari non più in attività) che hanno oltre 25/30 anni e altre di animatori (in servizio) sui 18-20 anni.
    Si chiede di raccontare la loro esperienza di animatori: perché l'hanno fatto, cosa si aspettavano, come si sono evolute le loro motivazioni, cosa è per loro stato più gratificante, cosa hanno dato e ricevuto...
    Le storie di vita vanno trascritte a macchina e fotocopiate per tutti. A piccoli gruppi vengono analizzate con tre obiettivi:
    - cogliere i problemi sottostanti, distinguendo fra problemi relativi all'identità personale e problemi relativi al servizio di animazione;
    - individuare (se c'è) il diverso approccio all'animazione dei giovani ventenni e di quelli più adulti;
    - indicare i problemi più «attuali» di maturazione e identità personale che emergono dalle storie di vita e in cui si sentono direttamente coinvolti.

    Si può passare ad un Philips 6x6 rispondendo alla domanda: quali sono i problemi di identità personale degli animatori (giovani) oggi? Ne verrà un elenco tra i quali si possono scegliere i cinque più importanti.

    Seconda partenza: Cinque domande all'animatore

    Nel Q1, Domenico Sigalini aveva indicato cinque domande essenziali per la crescita dell'animatore come persona, pena il perdersi mentre si spendono un sacco di energie. Rimandiamo a quelle pagine, mentre elenchiamo le domande:
    - ma chi sono io? (la ricerca di identità personale);
    - chi me lo fa fare? (le motivazioni);
    - per quale uomo e per quale società? (la prospettiva di fondo);
    - quale stile di vita per me animatore? (la cura dei «personale»); - e la mia fede? (la spiritualità).
    A queste domande ognuno deve rispondere da solo, per iscritto, lasciando almeno una mezz'ora di silenzio.
    Subito dopo ci si ritrova a piccoli gruppi per confrontarsi non tanto su ciò che ognuno ha scritto, ma piuttosto su qualcosa di problematico o di esaltante.
    Ci si può anche limitare a riformulare i cinque interrogativi, concretizzandoli e arricchendoli di particolari, fino a che è possibile iniziare un dialogo su qualcuno di loro.
    Si può pensare anche che il responsabile dei corso si legga a parte le risposte alle cinque domande e ne faccia una sintesi «in bianco e nero» per poi iniziare il dialogo.
    È importante che egli riduca l'ambito di sintesi e relativa discussione ai soli problemi dell'animatore come persona.

    Terza partenza: «Ho fatto un sogno»

    Nella scelta di fare animazione vengono spesso a coagularsi i molti «sogni» dei giovane animatore. Far emergere questi sogni può essere un punto di partenza creativo per riflettere sulla propria identità personale «da animatore». Anche perché parlando di sogni è facile che si dia sfogo alle intime attese, utopie, speranze, paure.
    Si chiede a ognuno di inventare un sogno a proposito della sua vita di animatore, ricordando che un sogno non chiede un filo logico, ma delle scene flash collegate tra loro per assonanza, vicinanza, presenza degli stessi personaggi.
    L'analisi dei sogni può essere fatta secondo le cinque domande dei Q1, riportate sopra.
    Prima si può chiedere, a chi desidera, di raccontare il suo sogno. È importante creare un clima sereno o allegro, ma non per questo superficiale.
    Dopo un paio di sogni l'animatore li rilegge, aiutato da tutti, alla luce delle cinque domande, e così via.
    È facile che i sogni e la conversazione che segue lascino individuare non solo le motivazioni e il desiderio di fare animazione, ma anche la paura e il senso di inadeguatezza. Si impone la domanda: chi può fare l'animatore e quale maturità è richiesta?

    Andare sullo specifico della maturità personale

    Tutte e tre le «piste di partenza» vanno ricondotte al tema di fondo dei quaderno: la maturità personale dell'animatore.
    In ogni caso dunque chi guida il lavoro di gruppo dovrà aiutare a fare alcune distinzioni.
    Prima distinzione: problemi dell'animatore come persona (quelli di cui si vuole ora trattare) e problemi dell'animatore come «servizio» (non se ne parla per ora se non indirettamente).
    Seconda distinzione: non si vuoi parlare della identità di un giovane in genere, ma della identità di un giovane che sta facendo (o intende fare) l'animatore (il fare animazione non può non avere un feedback sulla persona che lo fa).
    Terza distinzione: ci sono problemi di maturità umana e ci sono problemi di maturità cristiana (di questi ultimi per ora non si parla, ma si rimanda al Q4 «La spiritualità dell'animatore».

    DI QUALE MATURITÀ PERSONALE SI VUOLE PARLARE?

    Nella fase precedente sono stati enucleati i problemi fino ad affermare che l'animatore fa bene il suo «servizio» solo se contemporaneamente risolve i problemi della sua vita (identità personale); in altre parole, se si pone in atteggiamento di «maturazione».
    Quali problemi, a questo punto, e come deve affrontarli un giovane animatore alla ricerca di se stesso? Indichiamo una traccia, in cui vengono raccolti alcuni contributi di Nanni, Scansani-Calorio (e anche Pollo).

    «Due note per vivere»

    Il punto di partenza può essere un audiovisivo, soprattutto se gli animatori sono 17/18 anni: «Due note per vivere» (editrice LDC), che si propone di prendere coscienza della spersonalizzazione che produce la società e da qui motivare la necessità di iniziare un progetto di liberazione personale.
    I vantaggi nell'utilizzo di questo audiovisivo sono:
    - il linguaggio audiovisivo, più evocativo che intellettivo, facilita la presa di coscienza globale dell'identità;
    - l'identità personale non è trattata in termini puramente intimistici, ma in termini di confronto con tutto il reale, nei suoi aspetti positivi e negativi;
    - il soggetto di ricerca viene a rivelarsi un «gruppo» immerso in un processo pedagogico, il cui filo conduttore è la necessità di incontrarsi con se stesso in una società che gli offre come meta l'evasione e il consumo.
    In questa direzione il sussidio offre preziosi spunti relativamente a: la possibilità di essere se stessi in questa società; l'identità personale non si raggiunge autocontemplandosi ma ponendosi a servizio della liberazione degli altri; la conoscenza critica di sé come condizione preliminare; lo «sforzo collettivo» per dare un volto a se stessi e alla società...
    Una volta proiettato l'audiovisivo si passa alla sua interpretazione, partendo dalla sequenza delle immagini, analizzandole e collegandole per attivare una riflessione critica e una presa di decisione sulla propria identità.

    Alcune piste di riflessione sull'identità

    * A questo punto vanno inseriti due interventi da parte di chi conduce il corso:
    - primo intervento: i «compiti» di un adolescente o di un giovane per «camminare» verso l'identità (ripresa delle osservazioni di Scansani-Calorio) al paragrafo 2.2. «Compiti di identità personale nell'adolescenza e giovinezza», o, come vedremo, di Pollo nel Q5 e Q6 dove si parla della identità come «costruzione di un centro esistenziale»;
    - secondo intervento: di quali attenzioni e atteggiamenti il giovane animatore è chiamato ad «attrezzarsi» per mettersi in cammino (ripresa delle osservazioni di Nanni al paragrafo 1.2. «La ricerca dell'identità personale»).
    * Ecco in sintesi l'intervento di Scansani-Calorio (2.2.).
    L'adolescente deve integrare le sue identificazioni con quattro mondi: famiglia, adulti, coetanei, se stesso. In questo lavoro deve porsi alcune domande o compiti:
    - qual è il proprio posto come uomo/donna
    - che tipo di persona è o vuole diventare;
    - quali obiettivi si propone sul piano lavorativo e in che direzione vuole avviarsi;
    - quale rapporto intende instaurare con le persone di altro sesso; - che futuro potrà costruirsi
    - se riuscirà a cavarsela da solo nella vita.
    E il giovane invece, che si trova in una «posizione interlocutoria» rispetto alla società, deve:
    - rinegoziare il suo rapporto con la società, decidendo tra il cambiare se stessi e la società o il cercarsi una nicchia;
    - chiarire le questioni di etica sociale relative al suo rapporto con la società vista come realtà autonoma da sé: ad esempio, quale compromesso? quale successo? quale integrazione e a quale prezzo? come accettare i propri limiti e quelli della società?
    * Ci permettiamo di suggerire un'altra pista per l'intervento dell'animatore e di «andare oltre» le indicazioni di Scansani-Calorio (che volutamente si limita alla dimensione psicologica e psico-sociale della identità), riprendendo le riflessioni di Pollo nel Q6 quando parla dell'obiettivo generale dell'animazione.
    Richiamiamo velocemente la proposta di Pollo e la sua concezione globale di «identità».
    Intanto l'obiettivo generale: abilitare il giovane a costruire se stesso, all'interno dell'avventura di senso che, dall'origine dell'uomo, percorre senza posa il mondo (p. 6).
    L'obiettivo generale viene poi ripreso e suddiviso in tre direzioni che dallo stesso Pollo vengono sinteticamente indicate:
    - area dell'identità personale/culturale: accostarsi al quotidiano come luogo in cui l'orizzonte di senso si dispiega (p. 7);
    - area del sociale: scoprire il sociale come luogo della solidarietà in cui riproporre se stessi senza mistificazioni (p. 8);
    - area del trascendente: riconoscere l'invocazione che la realtà rilancia come invocazione aperta ad una speranza totale (p. 8).
    Come si può vedere nel Q6, queste tre aree vengono successivamente specificate. Non ci resta che rimandare a quelle pagine e al «canovaccio» per la loro utilizzazione.
    Ovviamente dopo la relazione dovrà seguire una verifica personale sull'obiettivo generale e sulle tre specificazioni, confronto a piccoli gruppi, assemblea per chiarificare e ribadire alcuni «punti fermi».
    Segnaliamo solo la possibilità di utilizzare l'immagine di centro esistenziale legata al simbolismo dei centro come capacità di distinguere e far comunicare cielo (mondo dell'utopia e della fede), terra (mondo della ragione logica e dell'azione concreta), inferi (mondo dei desiderio e dell'inconscio).
    * Il secondo intervento «magisteriale» a cui accennavamo riprende il contributo di Nanni (1.2.) e sposta l'angolatura dei discorso ponendosi dal punto di vista di un giovane animatore che cerca la sua identità mentre svolge il suo servizio.
    Nanni riconduce la sua riflessione a quattro attenzioni e atteggiamenti che l'animatore deve fare suoi per assicurarsi che sta camminando verso la sua identità:
    - soffici rispetto ai ruoli e alle aspettative sociale (1.2.1.);
    - veritieri (ma buoni) con se stessi (1.2.2.);
    - capaci di apprendere dal ruolo che si svolge (1.2.3.);
    - capaci di tollerare l'ambiguità, e cioè lasciar parlare le «cose», leggere in modo non strabico la realtà, «far professione dei contrari» (1.2.4.).
    Anche a questa relazione segue lavoro personale per misurarsi su tali affermazioni e confronti a piccoli gruppi e in assemblea.

    Il ritorno alla «vita personale» degli animatori
    A questo punto conviene ritornare più da vicino ad alcuni problemi concreti dell'animatore alle prese con la sua vita quotidiana.
    Ne indichiamo alcuni: l'animatore non ha più tempo per se stesso, ritorna la sua vita su quella del gruppo, è in coppia e non sa trovare il tempo per una sana vita di coppia, si consuma nel gruppo-ghetto senza saper nulla di quello che succede in parrocchia o in quartiere, considera l'animazione come vero luogo di autorealizzazione mentre non sa dove «collocare», la sua attività professionale, ha una famiglia ma non c'è mai...

    MA HA SENSO L'ANIMAZIONE?

    Diciamo subito che la domanda va posta in particolare: per me che senso (può avere) fare l'animatore?
    Rispondendo a questa domanda si parla di un altro capitolo della maturazione dell'animatore. Se finora la domanda era: «chi sono io che faccio l'animatore?», ora la domanda è «che senso riesco a dare al mio fare l'animatore?».

    Un esercizio di partenza

    Partiamo con un esercizio che permette di «agganciarsi» all'esperienza personale di ogni animatore e di far emergere il senso che attribuisce al fare animazione.
    È utile annunciare questo esercizio alcuni giorni prima. Si chiede ai partecipanti di fare una lista degli aspetti della vita (valori, ricchezze, libertà ...) che sono per essi più importanti e metterli sotto una delle tre categorie:
    - «cose alle quali non rinuncerei mai in nessuna circostanza»;
    - «cose alle quali rinuncerei per fare una società migliore attraverso l'animazione»;
    - «cose che vorrei condividere facendo animazione».
    Si lascia che ognuno compili con calma i suoi «elenchi» (non meno i 30 minuti), poi a piccoli gruppi ci si può confrontare sulle risposte e preparare un cartellone di sintesi. In assemblea si presentano i diversi cartelloni e se ne parla in una «atmosfera non giudicante».
    L'atmosfera non giudicante, del resto, deve accompagnare tutto l'esercizio: la chiarificazione dei valori alla base del proprio far animazione è infatti un processo aperto, non una certezza di giudizio. Quello che conta è l'aver posto ad ognuno il problema, lo scambio di esperienza, la possibilità (come ora vedremo) di avviare ad un lavoro ulteriore.

    Una relazione sulle coordinate del senso

    A questo punto è necessario un altro intervento «magisteriale» che arricchisca, utilizzando dunque il risultato dell'esercizio precedente, la intuizione positiva che i giovani hanno espresso nel «riconoscere senso» al fare l'animatore.
    Il contributo di Nanni al paragrafo 1.3. «Maturazione e ricerca di senso». offre non delle risposte alla domanda, ma un «quadro» entro cui muoversi per rispondervi in modo corretto.
    Il fare animazione, secondo Nanni, ha senso se è collocato dentro le seguenti coordinate:
    - a servizio della vita: «perché sia possibile gustare un po' la vita e essere felici, per quanto è dato su questa terra». A servizio non solo della «vita negli altri», ma anche della vita in se stessi: fare animazione deve essere fonte di felicità per l'animatore (1.3.1.);
    - in un processo che da una parte realizza un senso personale/soggettivo: fare animazione è significativo per me, e dall'altra un senso collettivo/oggettivo: fare animazione è partecipare da cittadino attivo al processo di liberazione sociale (1.3.2.);
    - è realizzare storicamente dei valori che sono al di là della soggettività dell'animatore e al di là della sua appartenenza ad una società o comunità: nel fare animazione si sperimenta un «appello» che si impone e chiama ad una decisione etica che non ha altra giustificazione che non se stessa; da questo punto di vista fare animazione ritorna ad essere (cf Q1 «credo dell'animatore») una «scommessa» (1.1.3.);
    - infine un quadro di idee-valori significativo: la ricerca di un senso e di valori si nutre di idee, visioni ideali, teorie: la maturazione dell'animatore richiede anche una progressiva e sistematica «coscientizzazione del proprio bagaglio di modi di intendere il mondo e la vita» (1.3.4.).

    Il feed-back della relazione

    I quattro punti vanno ripresi, «verificati» e trasformati in strategie operative.
    Si può pensare anzitutto a un «perché credo nell'animazione», pensato prima in modo personale e poi in gruppi per arrivare ad un'unica formulazione.
    Si chiede ad ognuno di scrivere il suo credo tenendo conto di alcune domande:
    - che senso ha per me fare animazione? chi me lo fa fare? a servizio di chi o che cosa mi sento? quali valori mi «spingono» a farlo?
    - per quale uomo o per quale società voglio lavorare? e insieme a chi? mi sento partecipe di un progetto più grande di me?
    - cosa sono disposto a spendere per fare animazione? quale prezzo sono disposto a pagare? quale retribuzione mi aspetto?
    - infine: cosa c'entra Dio (Gesù Cristo, il suo Regno) in tutto questo?
    Una volta raccolti i vari «credo» ci si confronta a piccoli gruppi per stendere un testo comune che riprenda gli elementi più significativi dei vari credo.
    In un altro momento, con maggior calma, si può arrivare ad una formulazione a nome di tutti.
    Un altro lavoro è chiedersi a quali scelte operative conduce il dare concretamente senso al proprio fare animazione. In altre parole: quali condizioni rispettare, quali attenzioni avere, a quali regole di vita fare riferimento?
    È un lavoro da fare a gruppi, riprendendo i quattro punti del contributo di Nanni e cercando di indicare attività (ad esempio: impegno a leggere qualche rivista culturale per non morire di attivismo), appuntamenti (partecipazione alla vita di quartiere e di parrocchia per sentirsi parte viva di un progetto collettivo, sentirsi parte viva di un gruppo di animatori), regole di vita (chiedersi spesso qual è la retribuzione che ci si attende dal fare animazione; smettere di fare animazione se non dà felicità anche personale)...

    DAL RAPPORTO CON SE STESSI AL RAPPORTO CON GLI ALTRI

    Un passo in avanti: la maturità dell'animatore va anche verificata dalla sua capacità di stare davanti agli altri e relazionarsi con loro. A cosa deve abilitarsi l'animatore perché sappia relazionarsi? quale maturità interiore gli è richiesta?
    A questi interrogativi risponde il paragrafo 2.4. «Alcune condizioni materiali ed emotive per la "relazione" con l'altro» di Calorio-Scansani.

    Alcuni modelli relazionali dell'animatore

    Si può cominciare con alcuni mimi che rappresentano «modalità» di relazionarsi agli altri nel fare animazione. Così, si possono mimare quelli ripresi da Ulisse Enriquez (nell'articolo citato in «bibliografia»). Ne riprendiamo solo alcuni ricordando che l'animatore non deve aderire unicamente ad una di queste immagini (al massimo le altre convergono nel «formatore» - anche se è una parola non bella -, ma deve portarle ad una sintesi personale.
    - Animatore-formatore: colui che deforma gli altri, li riforma e li trasforma: trovandosi di fronte a persone che hanno una forma inadeguata egli si propone di aiutare a darsi una «buona forma»; con il rischio che l'animatore consideri se stesso come forma esemplare.
    - Animatore-terapeuta: colui che propone di far guarire e di restaurare gli altri; ma fino a che punto esiste uno «stato normale» di salute e di vita? in realtà non si guarisce mai ... ; per l'animatore è molto rassicurante credersi indispensabile; in effetti si evita così di porre il problema della propria vacuità.
    - Animatore-maieuta: colui che fa nascere, fa sviluppare potenzialità inibite o represse; il postulato è la bontà originaria dell'uomo, con la conseguenza che per educare basterà rispettare incondizionatamente l'altro, accoglierlo in modo empatico, ascoltarlo in modo comprensivo e non valutativo, dare fiducia... fino a che punto però l'uomo è buono? Rispettare anche i desideri aberranti degli altri?
    L'animatore in questo caso si idealizza (perché sa essere comprensivo, capace di non reagire alla violenza ...) o si considera un taumaturgo onnipotente (la madre che assiste il figlio nella conquista della autonomia). Una illusione piacevole: l'animatore si sente «missionario».
    - Animatore-interpretante: colui che vuole etichettare tutto, spiare le cose e acchiapparle, sopprimere la vita per farla entrare in schemi precostituiti; l'animatore prova sentimenti di potenza a buon mercato e sviluppa resistenze ad ogni messa in questione del suo parere,
    - Animatore-militante: colui che non rinuncia ad essere pilota delle trasformazioni sociali; si tratta di aiutare le persone a prendere coscienza della loro alienazione e di lottare attraverso azioni collettive per divenire padroni dei proprio destino. L'animatore si sente missionario nel restituire gli ideali perduti alla gente, una visione del mondo utopica e millenaristica (vogliamo tutto subito!... chiediamo l'impossibile!). Dietro ogni animatore militante... si nasconde un profeta o un candidato alla santità. Dimenticando però che il male non è solo nella società, ma anche in coloro che si animano... e di lasciarsi mettere in questione dalle cose nella loro crudezza.
    - Animatore-riparatore: colui che, in una società «cattiva», offre amore a coloro che ne sono sprovvisti, ripara per quanto è possibile il male che è stato fatto. L'animatore si trasforma in buon samaritano, si sacrifica per gli altri, vuol essere un prete-laico, passerà le notti ad ascoltare confidenze, lavorerà in quartiere con i poveri. t un redentore. Che a scorrere sia il suo sangue Piuttosto che quello degli innocenti.. . Niente di male, ma... riparando non contribuisce forse a tenere in piedi le strutture di esclusione che funzionano nella nostra società? Non c'è il rischio di proteggere troppo, divorare gli altri con il proprio affetto, fino a vivere della morte e distruzione degli altri?

    Il lavoro di gruppo

    Diamo indicazioni più precise per il lavoro di gruppo.
    Ad ogni gruppo si assegna un «modello (inconscio) di animatore» tra quelli descritti da Enriquez, chiedendo di mimarli come un animatore che lavora nel gruppo o nel quartiere, facendo attenzione ad evidenziare ciò che l'animatore vive dentro di sé nel rapportarsi agli altri.
    Appena pronti vengono rappresentati i mimi. Dopo ogni mimo (o dopo un blocco di tre) ci si chiede cosa si è voluto rappresentare del mondo interiore dell'animatore. Quali atteggiamenti positivi o negativi di maturità umana nel rapportarsi agli altri sono stati presentati o denunciati?
    Colui che guida il lavoro aiuta a metter insieme il mosaico della maturità relazionale dell'animatore.
    Al termine, seguendo le indicazioni di Scansani-Calorio (2.4.), offre una sua sintesi tra le cose dette dai gruppi e quelle dette nell'articolo. È portante che, a questo punto, il suo intervento faccia riferimento alla vita concreta che questi animatori devono condurre nei loro gruppi.

    ALTRE PISTE DI LAVORO

    Indichiamo velocemente altre piste di lavoro:
    - per una «maturità di competenza»: Q1, articolo di C. Nanni, paragrafo 3;
    - per la esperienza di fede dell'animatore: cf Q 4;
    - per «apprendere dall'esperienza»: cf il metodo della «revisione di vita» (vedere-giudicare-agire).

    Per concludere: l'esercizio dei naufragio

    È un esercizio abbastanza conosciuto e serve ad orientarsi, da soli o in gruppo, verso valori e preferenze.
    Chi conduce il lavoro dice che è su una nave che sta per affondare, carica di... animatori! li comandante dà cinque minuti di tempo perché ognuno possa scendere nella sua cabina e portarsi via quattro (soltanto quattro) oggetti tra quelli cari e importanti. Poi ci si imbarcherà sulle scialuppe.
    Ciascuno sceglie da solo le cose più importanti da salvare per l'animatore (e la sua maturità), orientandosi tra le cose dette negli incontri precedenti.
    Dopo che ognuno ha scelto, in gruppi di quattro o cinque persone si cerca di trovare velocemente un accordo sulle scelte da fare. Subito dopo si cerca un accordo in assemblea, raccogliendo su un cartellone le risposte dei vari gruppi.


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