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    dell'animatore


     14. «IMMAGINI D'UOMO»

    NEGLI ANNI 80

    Carlo Nanni

    INDICE

    1. I MITI DELL'UOMO MODERNO E LA LORO CRISI

    Premessa

    1.1. L'immagine moderna dell'uomo

    1.2. L'uomo dell'ideologia del progresso

    1.3. L'uomo dell'ideologia del cambio

    1.4. Le coordinate dell'uomo ideologizzato

    1.5. La crisi dei «difficili anni '70»

    1.5.1. La crisi della «società opulenta»
    1.5.2. L'impossibile cambio rivoluzionario
    1.5.3. Una diversa qualità della vita e l'emergenza dei personale

    1.6. Il «Riflusso»

    1.7. Morte dell'uomo?

    2 TRA CATASTROFISMO E RESTAURAZIONE

    2.1. La cultura della morte

    2.2. Il movimento restauratorio

    3. LA NUOVA RICERCA ANTROPOLOGICA

    3.1. L'uomo nella cultura radicale

    3.1.1. Il deterrente freudiano
    3.1.2. Il marxismo libertario di Marcuse
    3.1.3. La rivoluzione della vita quotidiana
    3.1.4. Il nuovo radicalismo
    3.1.5. Oltre il radicalismo: l'uomo «disorganico»
    3.1.6. Accenni di critica

    3.2. L'uomo nichilista

    3.2.1. La dialettica negativa della scuola di Francoforte
    3.2.2. L'esistenzialismo negativo di Sartre e di Heidegger
    3.2.3. Nietzsche nuovo Profeta
    3.2.4. La negazione della verità e di valori assoluti
    3.2.5. I diversi esiti del nichilismo
    3.2.6. Rilievi critici

    3.3. L'uomo cibernetico

    3.3.1 Il nuovo volto della scienza, rete di modelli
    3.3.2. L'influsso dell'informatica e della cibernetica
    3.3.3. La cibernetizzazione dell'esistenza
    3.3.4. L'uomo programmato del comportamentismo
    3.3.5. Rilievi critici ed influssi

    3.4. L'uomo dell'ìautorealizzazione

    3.4.1. La psicologia umanistica
    3.4.2. La psicoterapia gestaltica e transazionale
    3.4.3 La psicoterapia relazionale
    3.4.4. La religione dell'io?
    3.4.5. La commercializzazione della «selfrealization»: l'uomo dei massmedia

    4. I MODELLI EDUCATIVI

    4.1. Educazione e sviluppo sociale dal dopoguerra agli anni '60

    4.1.1. L'indirizzo personalista
    4.1.2. L'indirizzo marxista
    4.1.3. L'indirizzo laico

    4.2 La pedagogia degli anni '70 tra critica e liberazione

    4.2. 1. La «morte della scuola» e della pedagogia tradizionale
    4.2.2. Alcune proposte alternative

    4.3. Le «riforme» tra animazione e formazione delle intelligenze

    4.4. Apprendere il futuro

    5. PER UNA PRESA DI POSIZIONE CULTURALE E OPERATIVA

    5.1. Tra pluralismo e riduzionalismo antropologico

    5.1.1. Quadro di riferimento per l'azione educativa
    5.1.2. Pietre di paragone

    5.2. I cristiani e l'animazione della cultura

    5.2.1. Per una cultura della vita e della promozione umana
    5.2.2. La partecipazione ai movimenti culturali
    5.2.3. La via della scienza e della tecnologia
    5.2.4. Per una cultura pedagogica
    5.2.5. La via della fede

    LETTURE DI APPROFONDIMENTO

    Fin dal Q1 ci si è soffermati sulla importanza per un animatore di una visione generale della vita e dei mondo. Citando Laberthonnière si diceva: «L'idea che ci si fa dell'educazione e dei compito dell'educatore dipende evidentemente dall'idea che ci si fa dell'uomo e dei suo destino». Questa affermazione ritrova, proprio per il momento di crisi culturale che stiamo attraversando, tutta la sua forza. Dato che mancano quadri culturali di riferimento relativamente stabili e riconosciuti da tutti, l'animatore rischia di limitare (a sua azione a «fare delle cose» senza una prospettiva di fondo e senza interrogarsi sul «progetto uomo» a cui intende lavorare. Oppure rischia di limitare il suo intervento alta sola dimensione religiosa e di fede della vita, dimenticando tutto ciò che va sotto il nome di cultura.
    Il quaderno, curato da Carlo Nanni che già nel 01 ne aveva annunciato i temi di fondo (cf p. 25ss), risponde al bisogno di qualificazione antropologica dell'animatore da due angolature o punti di vista. Il quaderno offre anzitutto una documentata e critica analisi delle immagini d'uomo presenti nella società degli anni '80 e di quelle dei passato più o meno recente da cui queste dipendono o con cui sono in comunicazione.
    Il Q14 prosegue così l'analisi della realtà che è l'obiettivo dei quaderni della terza serie «fare animazione con questi giovani». Si collega, utilizzando una lettura filosofica della realtà, al 012 «Il trapasso culturale e la difficile identità dei giovani» e al 013 «I giovani della vita quotidiana» che, attraverso letture di tipo sociologico e psicologico, avevano dato un quadro generale della società italiana e della condizione e cultura giovanili negli anni '80.
    Proprio perché indirizzato ad animatori, il quaderno non si limita alla recensione delle immagini d'uomo che si impongono nel mercato culturale, ma prende anche in esame le varie scuole pedagogiche e i vari modelli educativi dal dopoguerra ad oggi. Viene così tracciata, anche se ovviamente solo per accenni, una storia della pedagogia recente che sollecita l'animatore a collocarsi criticamente al suo interno, traendo lezione dal passato e collaborando alla «ricerca» di un «uomo nuovo» che oggi si impone per tutti.
    La seconda angolatura, più implicita nel quaderno ma non meno presente, è l'offerta progressiva di una serie di punti fermi e di criteri attraverso cui non solo recensire e valutare le immagini d'uomo esistenti, ma anche riconoscere l'immagine d'uomo sottostante alla propria azione educativa e elaborare un nuovo «progetto uomo». Nello studiare questo quaderno l'animatore non troverà delle formule risolutive in risposta alla domanda «quale uomo per l'animazione», ma apprenderà a collocare i suoi interventi nel complesso panorama dei movimenti culturali e a fondare con «buone ragioni ~ la propria visione generale dei mondo e della vita.
    Il contributo di Carlo Nanni trova a questo punto la sua collocazione nel progetto di animazione culturale dei quaderni. Fin dal primo quaderno si è parlato di animazione culturale e di animazione della cultura.
    Con queste parole si voleva insistere su tre affermazioni basilari. Anzitutto che non c'è educazione delle nuove generazioni senza un loro inserimento nell'alveo della cultura in movimento.
    In secondo luogo che compito dell'animazione non è tanto o solo l'educazione dei giovani, ma anche e in un certo senso prioritariamente il «fare cultura» attraverso l'educazione dei giovani. In terzo luogo che utilizzare lo stile dell'animazione nella pastorale giovanile significa farsi attenti alla promozione educativa dei giovane nella sua globalità, di umano e di religioso, di culturale e di personale, di individuale e di collettivo, di razionale e di emozionale, Il confronto tra le pagine di questo quaderno ed il contributo di Mario Pollo (Q5/6) sull'animazione culturale permette di approfondire e chiarire il senso di queste ultime affermazioni.
    È innegabile che queste sono anzitutto pagine di studio. Non di immediata applicazione. Ancora una volta si vuole rimanere fedeli al principio di offrire materiali per farsi una mentalità da animatore attraverso un'adeguata «cultura pedagogica».

    1. I MITI DELL'UOMO MODERNO E LA LORO CRISI

    Premessa

    Non esistono prassi o tecniche educative che siano del tutto neutre. L'attività educativa non avviene mai a mente «pura», senza idee, ma sempre secondo certi quadri di riferimento più o meno coscienti, più o meno organici, ma sempre in ogni caso presenti. Ogni educazione ha una soggiacente visione del mondo e della vita che incide profondamente nel determinare quelle che sono le finalità, i contenuti, le metodologie e le tecniche educative, così come H rapporto educativo e l'organizzazione sociale dell'educazione.
    Più specificamente, si può dire che la comprensione dell'educazione e del ruolo degli educatori dipende in gran parte dall'idea che ci si fa dell'uomo e del suo destino. Ad essa si chiede di fornire i quadri di riferimento e gli orizzonti di senso del progetto e dell'azione educativa. Qualcosa di simile va detto per ogni attività catechetica e pastorale: come si potrà evangelizzare e approfondire l'annuncio se non si conosce e non si comprende il contesto umano che ci circonda? Se non si percepisce il clima e le tendenze antropologiche dell'ambiente?
    Sembra quindi importante per la formazione dell'animatore arrivare ad idee chiare in proposito.
    Un tale lavoro, valido sempre e ovunque, assume caratteri di urgenza a motivo del clima culturale che stiamo vivendo segnato da una certa sfiducia nei confronti delle tradizionali centrali produttrici di cultura, e delle grandi «filosofie», che pretendevano di narrare e ritessere in modo limpido e sensato la vicenda umana.
    Il quaderno cerca anzitutto di ripercorrere la storia di questa recente crisi e ricerca, attorno all'uomo e la sua crescita. Si proporranno quindi alcune indicazioni per un giudizio e per un vaglio critico in proposito e, per quanto è possibile, si indicheranno piste per la formazione personale e per l'azione di promozione culturale

    1.1. L'immagine moderna dell'uomo

    Per indicare il clima culturale di questi anni parliamo di tramonto delle ideologie, di fine dei miti, di crisi, di riflusso.
    Le ideologie che sarebbero al tramonto sono quelle fino a ieri vincenti, le ideologie «forti»: l'ideologia del progresso e l'ideologia del cambio.
    I miti che sarebbero caduti sono quelli del progresso illimitato e quello del cambio politicostrutturale totale, o come si disse, il «cambio del sistema». Ma forse la crisi ha attaccato le radici stesse del nostro modo di pensare e di prospettare le cose. In questione è stata posta quella che potremmo chiamare l'immagine stessa dell'uomo moderno: cioè la rappresentazione mentale secondo cui l'uomo vede, pensa se stesso e prospetta la sua esistenza nel mondo e nella storia.
    Le trasformazioni economiche e politiche conseguenti alla cosiddetta rivoluzione industriale, le conquiste della scienza e della tecnica, lo sviluppo prorompente delle tecnologie, le lotte sociali e civili, l'emergenza di nuove classi nella vita politica hanno portato l'uomo moderno ad una nuova coscienza di sé e delle proprie capacità di modificazione del reale attraverso l'azione individuale e collettiva, sorretta dalle forze della ragione.
    Rispetto alle età precedenti l'uomo moderno si è visto e si è prospettato come centrato su se stesso, non tanto su Dio o sull'Universo. Si è parlato per questo di «uomo copernicano», nel senso che l'uomo si veniva a porre come centro solare, attorno a cui veniva a ruotare tutto il resto.
    Posta piuttosto in ombra la dimensione creaturale e quella di particella dell'universo, l'uomo ha esaltato la sua qualità di soggetto e di costruttore del suo destino attraverso la sua propria azione e l'energia pratica della sua razionalità. Egli ha visto se stesso essenzialmente come homo faber, cioè costruttore e non esecutore o fruitore di un mondo o di un ordine già dato, già determinato. In questa linea si è spesso arrivati a mettere tra parentesi ogni senso dei limiti, dell'errore, dello scacco, della colpa, o anche del diverso, dell'altro, della oggettualità delle cose, delle strutture, delle leggi, dell'istituito.
    Nell'ideologia del progresso e nell'ideologia del cambio l'immagine moderna dell'uomo ha trovato le sue versioni operative più «forti».
    Nell'una i destini dell'uomo sono stati affidati alla potenza della scienza, della tecnologia e della produzione economica, lasciata al libero gioco delle leggi di mercato; nell'altra ci si è affidati piuttosto al preventivo cambio del sistema strutturale, economico/politico.

    1.2. L'uomo dell'ideologia del progresso

    Gli anni '60, con quello che in Italia fu detto il «boom economico», fecero rinverdire negli animi e fecero considerare finalmente alla portata di tutti quella che E. Fromm ha denominato la «Grande Promessa» dell'umanesimo illuminista, il movimento culturale sorto a seguito della rivoluzione industriale e che ispirò la rivoluzione francese e la rivoluzione borghese.
    I progressi continui in campo industriale hanno insinuato l'idea di poter avere una produzione sempre più grande e quindi sempre più vaste possibilità di consumi, che avrebbero permesso benessere e felicità.
    Come ha scritto lo psicologo americano di origine ungherese, Rollo May, da allora nei cervelli degli uomini ha preso consistenza il modello di sviluppo dominato dalla «logica del dinosauro» cioè dalla logica di una crescita illimitata. La tecnica è apparsa sempre più come la scala che conduceva all'onnipotenza, e è sembrato che la scienza stesse per renderci onniscenti.
    In un crescendo storico, la potenza della macchina e la forza della scienza hanno attratto sempre più le menti degli uomini: possederle ha voluto significare di essere grande, di avere il dominio sugli altri e sulla natura, di avere in mano il potere economico, politico, sociale. La scienza e la tecnologia sono diventati il criterio e il metro di giudizio supremo di ciò che è vero e di ciò che ha valore.
    Industrializzazione e macchine sono diventati in tutte le società come i portabandiera della pace, della libertà, della civiltà, della felicità. t sembrato fuori discussione, che le sorti della democrazia (Il potere sociale per tutti), della piena umanizzazione (la libertà per tutti) e della felicità del genere umano (il benessere per tutti) fossero legate a doppio filo con la realizzazione di questa grande promessa. La convivenza umana è sorretta e ispirata dalla convinzione di fondo che le forze umane, lasciate libere di esercitarsi pienamente, possano, attraverso la scienza e la tecnica, arrivare ad assicurare l'instaurarsi di una società armoniosa per tutti. Qui democrazia vuol dire anzitutto garanzie concrete di libertà e spazi per la libertà, individuale o di gruppo. La storia è fatta dalle individualità o dalle forze capaci di controllare e guidare le energie e la produzione secondo i dettami della scienza e della tecnica.
    Il modello ideale d'uomo è visto soprattutto nella figura dell'imprenditore o del «manager».

    1.3. L'uomo dell'ideologia del cambio

    Le prime avvisaglie della crisi economica, il divario tra istruzione e possibilità di lavoro, fattisi sentire nella seconda metà degli anni '60, la contestazione giovanile e studentesca del '68, hanno dato vigore all'ideologia del cambio politico e strutturale.
    Secondo essa il conseguimento di una società a misura d'uomo, e cioè la realizzazione effettiva e per tutti della Grande Promessa è possibile solo mediante la previa collettivizzazione o socializzazione dei mezzi di produzione e della ricerca scientificotecnologica, a servizio di una prassi liberatrice, emancipatrice e disalienante. Solo così sarà possibile evitare l'altrimenti inevitabile mercificazione, espropriazione e alienazione del lavoro umano, così come la reale dominazione dell'uomo sull'uomo.
    A tal fine è necessario rivoluzionare, cioè cambiare totalmente le strutture della convivenza sociale, per evitare che l'industria si riduca a essere strumento del capitalismo e scienza e tecnica siano asservite al potere di classe; diventino cioè irrimediabilmente «borghesi».
    È chiaro che in questo caso democrazia viene a significare piuttosto perequazione sociale e accesso di tutti alle opportunità di sviluppo storico, individuale e sociale.
    Perché si dia effettivamente è necessario lottare contro le forze reazionarie e produrre una cultura nuova, diversa, liberatrice.
    Questo compito storico è proprio della classe operaia e di chi in qualche modo si assimila ad essa.

    1.4. Le coordinate dell'uomo ideologizzato

    Sia nel caso dell'ideologia del progresso sia in quella del cambio, l'immagine dell'uomo è stata fortemente ideologizzata, cioè rigidamente ricondotta entro gli schemi concettuali dell'una o dell'altra ideologia e dei loro rispettivi miti.
    Ogni altro modo di immaginare l'uomo è stato considerato di volta in volta arretrato, non scientifico, reazionario, borghese, alienante. là tuttavia da notare che nonostante le indubbie diversità ci sono in queste due immagini di uomo innegabili punti di convergenza.
    ^ In primo luogo è chiara l'affermazione di una fondamentale laicità dell'uomo e della sua storia, nel senso che secondo i canoni della Grande Promessa il progresso storico non discende da una visione religiosa o sacrale del mondo e della vita, ma solo dalle «leggi» scientifiche. Secondo lo «spirito» scientifico si deve pure foggiare il comportamento umano individuale e collettivo, dando luogo ad un nuovo comune «ethos», cioè ad uno stile di vita secondo la scienza. L'affermazione della laicità arriva spesso a forme di laicismo, che riducono il religioso soggettivo e la vita religiosa sociale a mero affare privato, quando non vengono considerati residuo irrazionale prescientifico o «strumento di potere» e «oppio dei popoli».
    Solo in pochi casi anche se in crescita significava negli ultimi tempi si ammette che la religione possa svolgere il ruolo di forza liberatrice e che comunque non si opponga necessariamente ad una visione scientifica del mondo.
    ^ In secondo luogo è tendenza abbastanza comune quella che quasi identifica la vita umana con la sola sua dimensione e configurazione sociale. Le altre dimensioni dell'esistenza vengono quasi messe tra parentesi o dimenticate: il pubblico sembra avvolgere tutto, in ossequio ad una mentalità che fa consistere la scientificità essenzialmente nell'osservabilità, nell'intersoggettività e nella comunicabilità linguistica.
    Un tal modo di vedere l'esistenza, a livello educativo, porta ad identificare l'educazione con i processi e le forme di socializzazione e di inculturazione.
    ^ È pure abbastanza diffusa, fino a sembrare scontata, una certa identificazione del termine «storia» con il termine «politica»: con la conseguenza di una certa politicizzazione dell'intera esistenza e della visione dei processi storici stessi. I problemi storici, così come quelli sociali sono visti in primo luogo od esclusivamente come problemi di potere (politico, economico, civile, ecc ... ) e di consenso.
    ^ Ma quel che sembra più decisivo per le sorti dell'uomo è il fatto che in queste ideologie l'orizzonte dell'uomo è circoscritto al mondo e alla storia.
    Non solo si afferma che l'uomo si realizza nella storia o che il mondo privilegiato dell'uomo è quello che lui forgia con le proprie mani e segna con la sua razionalità, facendo cultura e costruendo civiltà. Mondo e storia costituiscono anche il tutto entro cui ogni cosa umana avviene. Ciò che è al di fuori della storia è negato o semplicemente rigettato nel mondo dell'insignificanza umana. t l'immanenza radicale: affermata in nome dell'uomo e delle sue «magnifiche sorti progressive» (Leopardi).
    ^ Alla visione immanentistica si accoppia nella maggioranza dei casi una fondamentale concezione materialistica del mondo e della vita. La struttura portante del reale è individuata nei rapporti materiali dell'esistenza: alcuni ne danno una accentuazione sociale, altri una accentuazione economicistica.

    1.5. La crisi dei «difficili anni '70»

    Le ideologie «forti» e la loro concezione dell'uomo hanno fatto cultura in questi ultimi trent'anni. Tuttavia durante i «difficili anni '70» sono stati investiti da una profonda crisi di portata generale e onnipervasiva

    1.5.1. La crisi della «società opulenta»

    La limitazione della base energetica ha dato il tracollo all'idea di possibilità illimitate di produzione e quindi di sviluppo. Si sono allargati i fenomeni di stagnazione e di recessione. L'ideale della crescita zero è stato considerato augurabile per tanti versi. 1 tagli sulla spesa pubblica, la limitazione degli investimenti, la crisi dei complessi industriali, l'inflazione galoppante e quasi inarrestabile hanno allargato i termini quantitativi e gli effetti negativi della disoccupazione. Austerità e sacrifici sono diventate parole d'ordine. 1 facili sogni consurnistici sono stati drasticamente ridimensionati.
    Ma l'idea stessa dell'automatismo tra produzione e sviluppo è stata messa in crisi, sia perché non evidente sia perché ultimamente disumanizzante.
    Infatti quella che doveva essere la società del «benessere» si è andata sempre più dimostrando nel migliore dei casi una società dell'avere (l'affluent society = la società opulenta), in cui l'uomo vale non tanto per quello che è ma per quello che ha o riesce a produrre, pena di essere irrimediabilmente emarginato o rigettato nel mondo di coloro che non contano.
    Sotto il peso della crisi ci si è sentiti sempre più profondamente asserviti alle esigenze della produttività, del profitto, del mercato, delle forze economiche nazionali e multinazionali, e di quelle che comunemente sono dette le leggi del consumismo.

    1.5.2. L'impossibile cambio rivoluzionario

    A prescindere dalle speranze che potevano dare nelle loro movenze iniziali, gli esiti, tutto sommato, alla fine negativi dei tentativi di cambio politico e strutturale di questi ultimi anni (contestazione giovanile e operaia del '68; la fine dei «miti» storici marxisti: il socialismo dal volto umano, il Vietnam, la Cambogia, la Cina, Mao; il movimento delle donne; i movimenti di descolarizzazione della società e di cultura alternativa) hanno ingenerato un forte sospetto circa la reale possibilità di una rivoluzione, cioè di una trasformazione totale consentita e non subita, qui ed ora nel presente e non perennemente procrastinata, comprendente il soggetto e la sua vita quotidiana e non solo il mondo politico ed economico.
    È caduta l'idea di un'«epoca nuova» capace di incitare a prassi riformatrici e trasformatrici, almeno a livello di movimento sociale. «Il sol dell'avvenire» non sembra brillare più alto nel cielo. Al pensare fervido sembra esser succeduto il calcolare, alla fede ideale il managerismo efficientistico, all'esaltazione il disincantamento.
    Rimane difficile parlare di cambio, e anche di «transizione»: al massimo si può accettare che è in atto un «trapasso», cioè qualcosa ad andamento fatalistico, non totalmente governabile, certo doloroso e faticoso. Forse è meglio parlare di crisi e basta, ammesso pure che si sappia dire di che natura essa sia, cioè quale degli aspetti in crisi comanda l'intero processo (economia, politica, cultura, strutture, istituzioni, ideologie, religione, ecc.).

    1.5.3. Una diversa qualità della vita e l'emergenza dei personale

    Pur essendo indubbiamente accresciute le possibilità di accesso ai beni di consumo, si è fatta sentire in modo prepotente il senso di una cattiva «qualità della vita».
    Il deterioramento dei rapporti con la natura e il logoramento e scadimento delle relazioni interpersonali e sociali hanno spinto molti, nelle forme più svariate e con diversità di coscienza, alla ricerca di una diversa e migliore qualità della vita e dell'esistenza.
    Ad essa si è accoppiata l'esigenza di un miglioramento della vita quotidiana, di un esaudimento dei bisogni personali e privati: nella convinzione, più o meno tematizzata, che esistono nella persona aspetti e dimensioni che non sono totalmente riconducibili e non trovano risposta in termini puramente politici ed economici. Politica ed economia non sono tutto. Anzi spesso possono essere frenanti la libera espansione personale e coibenti la qualità della vita.

    1.6. Il «Riflusso»

    Ad indicare il fenomeno di sfiducia e di crollo delle speranze di cambiare questo tipo di società, si è parlato del «riflusso dal politico» nel «privato».
    Il fenomeno è tutt'altro che rassicurante e a senso univoco.
    Nel rifiuto del carattere totalizzante del politico; nella disincantata relativizzazione o nella caduta di credibilità dei modelli di sviluppo tradizionali, come delle elaborazioni utopiche sessantottesche; nella progressiva soggettivazione dei modi dell'esistenza, si può intravedere l'intuizione di significati che sono prima o oltre il politico o l'economico. E forse almeno come tentativo può esservi la ricerca di vie nuove per risolvere i problemi delle persone, un nuovo senso etico, una nuova «cura» del mondo personale, interpersonale e sociale: preliminari indispensabili per qualsiasi seria azione politica.
    Ma per lo più «riflusso» ha significato non solo caduta dello slancio o dell'impegno, ma anche sequela acritica dei miti del consumismo facile o accettazione passiva di quel sistema sociale, magari precedentemente contestato.
    Per molti, e soprattutto per gran parte dell'ultima generazione che non ha vissuto il '68, il sentimento di sfaldamento, di fine dei miti e di tramonto delle ideologie, assume le forme di una esistenza dominata dalla momentaneità atomizzata, senza quadro e senza progetto, ossessionata dalla ricerca spasmodica di sensazioni ed emozioni slacciate e mai del tutto soddisfacenti; quando non si perde nei sentieri allucinanti della via della droga.
    Talora sotto queste forme, che arrivano all'aberrante, sembra esserci la ricerca di una spontaneità espressiva e di relazioni interpersonaIi semplici, pacifiche, in cui non si abbia a dover pensare di aver sempre di fronte un nemico od un ostacolo.
    Spesso però indicano la povertà umana a cui si è stati ridotti dalla mentalità consumistica, tutta incentrata sulla appropriazione di beni materiali e sul «tutto, insieme e subito».
    Ad altro livello di ritorno al folklore, alle tradizioni locali, al recente passato, attraverso quello che è stato detto il fenomeno del «revival», è stato visto come recupero della memoria storica, come «ricerca del tempo perduto», come raccordo con il proprio passato individuale e collettivo. Tuttavia spesso ha dato l'impressione di essere anche rigurgito di forme reazionarie, ripresa di progetti e comportamenti grettamente chiusi.
    In questo senso «riflusso» viene allora ad assumere una accezione negativa di rifugio nel privato, inteso come assenza o rifiuto di prospettive sociali e collettive oppure di prevalenza data agli interessi egoistici o gruppali a scapito degli interessi generali.
    Così la rilevanza data ai bisogni e alle aspirazioni soggettive, al personale, diventa spesso, di fatto, individualismo, qualunquismo ideologico: quando non diventa ricerca nevrotica di piacere o all'opposto di sicurezze dì qualsiasi tipo e a qualsiasi prezzo.

    1.7. Morte dell'uomo?

    Si dovrà concludere, nella linea degli strutturalisti francesi Ch. Foucault e G. Deleuze, con la dichiarazione della «morte dell'uomo», almeno nel senso che l'immagine umanistica dell'homo faber, anche se riammodernata, non è alla fin fine niente più che un mito?
    Non si dovrà forse, come dice lo stesso Foucault, rispondere, a chi vi crede ancora, al massimo con un ironico e benevolo «riso filosofico»? Quello che afferma una certa ricerca delle scienze umane sembra dei resto confermato dall'esperienza storicoculturale e dall'esperienza quotidiana.
    L'arte, la letteratura, il cinema e la cultura in generale sembrano offrirci, in questi ultimi anni, innumerevoli testimonianze di una vicenda storica in cui il soggetto e la libertà umana, intesi come centro di attività, come creatori di senso, come fonte di processi storici, sembrano assenti, o in cui l'uomo è ridotto a luogo di passaggio di meccanismi anonimi che lo sorpassano in ogni dove.
    Da questo punto di vista lo strutturalismo, nelle sue conclusioni, esprime un movimento diffuso nel pensiero contemporaneo di questi ultimi anni; un qualcosa che è nell'aria e che la cronaca di tutti ì giorni attesta a chiare note: non è l'uomo mortificato nei più diversi modi e nei più disparati sistemi sociali? Non sono forse i suoi diritti fondamentali misconosciuti e calpestati?
    La morte dell'uomo, prima di essere una affermazione teorica, sembra un fatto concreto del nostro tempo. Alla esaltazione del soggetto, agente nella storia, creatore dello sviluppo e della propria felicità, promessa agli inizi della civiltà industriale, sembra succedere la visione di una storia senza soggetto, dominata invece dalla crescente potenza di meccanismi sociali che giungono a minacciare di morte l'esistenza soggettiva.
    Come è stato scritto, lo strutturalismo, assurto da metodo e forma di ricerca scientifica a ideologia e a visione generale del mondo e della storia, ratifica concettualmente quel che l'uomo è costretto a diventare sotto i rapporti di produzione del tardo capitalisrno, che ferreamente si consolidano, cioè un'appendice manipolabile di un apparato onnipotente.

    2. TRA CATASTROFISMO E RESTAURAZIONE

    Di fronte a questa situazione diverse sono le reazioni umane, individuali e collettive, così come le strategie che vengono proposte per uscire dai labirinti e dai «tunnels» oscuri della crisi.
    Con una certa dose di schematizzazione delle cose, si può dire che i due poli estremi di questa ricerca di senso sono dati dalla tendenza ad una cultura della morte e dalla tendenza restauratoria.

    2.1. La cultura della morte

    Senza volerlo mitizzare, è tuttavia difficile negare o sottovalutare quell'impalpabile ma diffuso «fantasma di morte», che sembra rivestire le forme di un vero e proprio progetto di vita, di una cultura che ha le sue ideologie, ì suoi quadri di riferimento, i suoi riti, i suoi linguaggi, i suoi modelli di comportamento, le sue proprie tecniche operative. Ne possono essere considerate produzioni storiche a livello soggettivo le mortali assolutizzazioni della droga e del terrorismo; o più comunemente il disinteresse qualunquistico per tutto ciò che è sociale o il rifiuto di ogni impegno attivo, a cominciare dal lavoro.
    Sotto queste manifestazioni c'è magari come si è già accennato una reazione sana ai metodi alienanti della produzione industriale, ai rapporti capitalistici che dominano le strutture materiali di vita, all'oppressione del potere politico ottuso e coibente. E magari è presente perlomeno una infinita aspirazione per l'assenza di ogni dolore ed ogni fatica. Ma più spesso c'è la delusione o la sfiducia per ogni militanza (la «corrente calda» dell'ideologia e dell'impegno, per dirla con Bloch) e per lo sforzo di analisi rigorosa, giudicata ultimamente inefficace («la corrente fredda», nei termini di Bloch); e nel cuore c'è la sensazione che non c'è più niente da fare, oppure che solo la distruzione totale dell'esistente può permettere un futuro diverso, o che solo la distruzione violenta dello stato, del diritto, della democrazia parlamentare potrà concludere a qualcosa e apportare quel cambio rivoluzionario che le mediazioni storiche e la fatica quotidiana invano promettono.
    Questa cultura di morte assume pure soprattutto a livello collettivo le forme della ricerca di ordine e sicurezza nella potenza militare ed economica; fino a forme di tracotanza imperialistica o fino a rigurgiti di intolleranza per il diverso; fino alla durezza e alla insensibilità di fronte alla morte altrui per fame, solitudine, angoscia, disperazione; fino al disinteresse per la distruzione degli ecosistemi.

    2.2. Il movimento restauratorio

    Secondo altri, essere in crisi non vuol dire essere morti e sepolti. Al massimo può significare «avere la febbre», più o meno patologica, o addirittura non dice niente altro che gestazione e momento di assestamento congiunturale, di più o meno lunga durata. Secondo costoro è ineluttabile la ricomposizione del mondo sotto precisi segni, che fungano da collante e che ricompongano le membra sparse del corpo sociale e politico. Per alcuni tale forza è costituita dal marxismo, rinverdito e spolverato delle sue incrostazioni storiche; per altri dalla religione, rinnovata o ritornata alla sua purezza; per altri ancora dalla «fede comune» (Dewey) laica nell'uomo e le sue capacità scientificotecnologiche. A dire il vero altri sono invece del parere che a tramontare e a finire sono solo le ideologie che hanno fatto il vento e la pioggia nel recente passato, non la verità e i valori di sempre.
    La verità c'è, altrove: basta andare a trovarla nei luoghi giusti e con le istituzioni, le persone giuste e le politiche giuste.
    Il ritorno di tendenze «fondamentaliste» o forme di integralismo e di intolleranza non è solo un fenomeno islamico, komeinista, ma qualcosa che è presente un po' dappertutto, ad occidente come ad oriente, nel vecchio mondo come nelle nuove configurazioni sociali del terzo mondo.

    3. LA NUOVA RICERCA ANTROPOLOGICA

    Tra queste due polarità di morte e di restaurazione si pongono tutta una serie di tendenze che ricercano vie nuove e diverse di intendere l'uomo e la vicenda umana. Non si tratta per lo più di concezioni organiche o definite, ma piuttosto di aspetti, elementi, accenni; di moti iniziali dagli esiti non scontati.

    3.1. L'uomo nella cultura radicale

    La più consistente e la più diffusa di queste linee di ricerca antropologica sembra essere quella che è denominata cultura o società radicale, un continente in piena ebollizione che per un verso sembra aver soppiantato e per altro verso sembra aver portato fino in fondo le istanze antropologiche dell'ideologia dello sviluppo e dell'ideologia del cambio politico.
    Nell'uomo dei bisogni radicali ha la sua ipotesi antropologica più condivisa: l'uomo è ridotto ai suoi bisogni, alle sue pulsioni, ai suoi desideri. La loro piena e spontanea espansione è la suprema legge d'azione. A queste affermazioni si giunge ritagliando influssi diversi, che però sono fatti confluire in un movimento unico, configurabile globalmente come naturalismo libertario e antiautoritario, fondamentalmente edonista.

    3.1.1. Il deterrente freudiano

    Una prima ascendenza è certamente quella freudiana.
    Con Freud viene ribaltata la prospettiva psicologica dell'uomo: non più i dati della coscienza (come era nella psicologia tradizionale) e neppure i comportamenti direttamente osservabili (come è nel beliaviorisino). L'inconscio, l'extrarazionale diventa l'osservatorio nuovo, la chiave di lettura, il punto di partenza obbligato da cui partire per qualsiasi indagine sull'uomo e sul sociale.
    Freud ha sempre pensato che l'uomo è maturo quando è capace di «amare e lavorare», quando l'Io riesce a regolare a suo vantaggio gli impulsi degli istinti (l'Es) e quelli che derivano dal mondo interiorizzato delle figure parentali, dell'ambiente e della cultura (il SuperEgo). Tuttavia il freudismo volgarizzato, soprattutto poi nella versione di W. Reich, ha accentuato il ruolo emancipativo, liberatorio degli impulsi istintivi del piacere (l'Eros) e dei sesso in particolare.
    A questa versione del freudismo si rifà la cultura radicale.

    3.1.2. Il marxismo libertario di Marcuse

    Un'altra matrice culturale è data dal marxismo libertario. La contestazione giovanile del '68 contro i valori della società borghese egemone ha trovato nel marxismo l'apporto culturale per la propria alternativa. Ma ben presto si è rivelato che si trattava di un marxismo particolare, orientato più in senso soggettivista, al limite dell'utopico, focalizzato sui temi della emancipazione e della liberazione del soggetto dal potere e dall'alienazione del sistema.
    Non a caso ci si è rifatti al «Marx giovane», quasi contrapponendolo al Marx scientifico, deterministico-dialettico-oggettivistico degli scritti adulti, completato spesso da Engels. Così pure si spiega, mi pare, l'esaltazione (messa in discussione quando c'è stata una presa di distanza) di Marcuse, in cui appunto, il Marxismo è coniugato insieme a Freud e all'Hegelismo.
    Secondo Marcuse il «disagio della civiltà» (Freud) deriva dalla repressione sistematica degli istinti e dei loro moti spontanei, attuata in nome della produttività individuale e sociale. Nella nostra civiltà è H principio della prestazione che conta. Per dirla in termini freudiani il principio del piacere è sacrificato al principio della realtà: l'uomo e le sue aspirazioni, alle esigenze della produzione; non il lavoro per l'uomo, ma l'uomo per il lavoro: meglio per la mercificazione del lavoro.
    Secondo Marcuse l'avanzamento tecnologico e l'automazione del lavoro offrirebbero a dire il vero la possibilità, mai avuta prima nella storia, di emanciparsi dalla necessità del lavoro, per potersi dispiegare nella linea dell'eros liberato, nel pieno e fruitivo rapporto con la natura, nella libertà sessuale, nella fantasia creatrice, nella spontaneità del gioco (cf Eros e Civiltà).
    Ma purtroppo la civiltà industriale è dominata dalla logica dell'«uomo ad una dimensione» (titolo di un altro suo famoso saggio): l'uomo legato aggressivamente e libidinosamente alla merce da produrre, possedere, consumare. Non più o non tanto la classe proletaria, pericolosamente invischiata in questa logica della produzione, ma i giovani, gli emarginati, le donne, le popolazioni del terzo mondo sarebbero i nuovi soggetti rivoluzionari capaci di operare il cambiamento strutturale dei processo produttivo.
    Successivamente di fronte alla inconcludenza della contestazione Marcuse ha proclamato, al di là del cambio strutturale, l'esigenza di un cambio nel modo di vivere.
    Nel suo "Saggio sulla liberazione" proponeva una rivoluzione liberatrice a partire dal libero espandersi biologico, che avrebbe creato un nuovo modo di sentire e vedere le cose centrato sull'immaginazione creativa ed artistica, adeguatamente sostenuta dalla scienza.

    3.1.3. La rivoluzione della vita quotidiana

    Un altro termine di riferimento è costituito dalla filosofia radicale di A. Heller, conosciuta in Italia in coincidenza con il movimento degli «indiani metropolitani» del '77, da molti considerato il sussulto estremo del sogno utopico sessantottesco. A. Heller è discepola di G. Lukács, il marxista ungherese, che dopo il fallimento della rivoluzione tedesca e ungherese all'indomani della prima guerra mondiale, aveva messo in risalto il ruolo della coscienza nella lotta di classe per l'avvento del comunismo. In modo simile ella afferma che la rivoluzione sarà possibile solo se al programma politico, i movimenti rivoluzionari saranno capaci di offrire una nuova moralità e un nuovo modo di vivere che riescano a dare soddisfazione a quei bisogni radicali di ogni uomo o donna e che sono puntualmente repressi nelle società capitalistiche, di qualsiasi colore politico esse siano.
    L'emancipazione anticapitalistica e rivoluzionaria si accoppia alla tematica di una diversa qualità della vita e ad una «rivoluzione della vita quotidiana» (titolo di un suo celebre saggio) e dei suoi bisogni radicali. Al sogno e alla spontaneità viene conferita legittimità e forza politica.

    3.1.4. Il nuovo radicalismo

    Un'altra matrice culturale è data dall'individualismo empiristico borghese di Stuart MW e di Bentham, e il liberalismo progressista del secolo scorso. Di una tale concezione è caratteristica la priorità data all'esperienza, la teoria associazionistica della conoscenza, lo psicologismo deterministico, l'esaltazione della libertà e della iniziativa individuale, l'utilitarismo etico, l'economicismo della vita sociale e politica, il garantismo statale, ecc.
    Tuttavia il nuovo radicalismo va ben oltre.
    Rispetto al vecchio radicalismo non c'è più la norma oggettiva della natura. L'attenzione si focalizza sui bisogni cosi come si manifestano nell'immediatezza dell'esperienza soggettiva.
    L'individuo stesso è come atomizzato nella molteplicità dei suoi bisogni. Non esiste quasi più come soggetto. La ricerca dei piacere e della felicità attraverso l'immediata soddisfazione dei bisogni è la regola suprema dell'azione, non più l'utile, il dovere, il sacrificio, l'astinenza, la disciplina razionale: l'utilitarismo si scambia in edonismo.
    A sua volta, rispetto al marxismo e all'hegelismo, il nuovo radicalismo è decisamente per l'individuo, non per il collettivo: anzi solo la libera espansione soggettiva può dar luogo al benessere di tutti. Allo stesso modo è antistoricista nel senso che non crede in una razionalità immanente alla storia e alla lotta di classe per una società comunista.
    Così all'idea di rivoluzione si sostituisce piuttosto l'idea di espansione libertaria.
    Alla corporeità empirica, alla espressività immediata dei bisogni, al libero sviluppo del desiderio e delle aspirazioni soggettive, senza restrizione, è conferita dignità di forza liberante e di diritto inderogabile e inalienabile.
    Nella crisi attuale di senso, nella situazione di smarrimento e di insignificanza della vita dell'uomo contemporaneo il «bisogno» rimane legge per se stesso; la sua soddisfazione, il piacere assolve la funzione positiva di estremo orizzonte di senso. È da notare che il radicalismo va ben oltre il partito che da esso prende nome. L'ideale della società radicale che il nuovo radicalismo afferma è ben più penetrante del partito di Pannella. E tuttavia nel suo rivolgersi direttamente alla società civile e al cittadinoindividuo (e non ai politici e alle organizzazioni partitiche o sindacali); nella volontà di riscatto del quotidiano, del vissuto, del protagonismo soggettivo (lotte per i diritti civili, per la liberazione della donna, per la fame, ecc ... ); nella prevalenza data al privato sul pubblico e ai suoi corpi intermedi istituzionalizzati (lotta per il divorzio, e la liberalizzazione dell'aborto; critica allo statoregime, alla democraziapartitica, ecc.), il PR rappresenta il tentativo organizzato di dare spessore politico ad istanze che attraversano istituzioni e schieramenti politici, ideologici, religiosi, perché, bene o male, indotti o nativi, sono condivisi dall'opinione pubblica e rispondono ad esigenze profondamente sentite da tutti.

    3.1.5. Oltre il radicalismo: l'uomo «disorganico»

    Nella centralità del bisogno e della sua libera espansione, cosi come nella negazione di un filo razionale che cuce gli eventi storici, il neoradicalismo si ricollega anche agli strutturalisti francesi discepoli dello psicoanalista J. Lacan. Ma con essi si va forse più in là, verso gli ambienti vicini all'autonomia e ai movimenti dell'ultrasinistra, vicini al partito armato.
    Per parlare della condizione umana costoro si rifanno all'immagine del «rizoma».
    Come scrive I. Mancini, riprendendo il pensiero di uno di loro, G. Deleuze, «il rizoma è una pianta senza radice e senza fusto; un fusto che vive come radice, e una radice che vive come fusto, con diramazioni clandestine sotterranee, impensate e imprevedibili. In quanto non albero il rizoma indica il rifiuto totale dell'alto, del sopra, di ogni verticalità; quel procedere senza norma, senza un codificato sistema di valori. In quanto non radice, il rizoma significa il rifiuto di ogni fondazione razionale e tradizionale, il rifiuto di ogni riduzione all'unità». L'uomo è ridotto alla sua corporeità e all'insieme dei suoi impulsi in continua e libera espansione: con niente sopra e senza radici.
    La stessa psicoanalisi è superata: essa infatti, attraverso l'analisi, vuole ridurre l'inconscio o perlomeno scongiurarlo, regolarlo a vantaggio dell'io cosciente.
    Qui invece si vuole produrre l'inconscio, produrre nuovi desideri. In questo senso si auspica, in luogo della psicoanalisi, la «schizoanalisi», l'analisi che scioglie e libera la molteplicità spontanea degli impulsi.
    Essere «disorganico» e senza radici è anche la parola d'ordine a livello sociale e politico. La rivoluzione è affermata come produzione spontanea di ognuno per proprio conto, senza necessariamente dipendere da un dettato politico unitario o da leaders: è la molecolarizzazione della lotta che porta alla moltiplicazione delle forze, per la possibilità di ognuno di partecipare a diversi livelli e di appartenere a diverse forme di aggregazione politica. E essendo ognuno senza radici, la «deterritorializzazione» può portare la rivoluzione dappertutto e risorgere ovunque, come il rizoma.

    3.1.6. Accenni di critica

    È evidente il carattere eversivo dei modi tradizionali ed ufficiali di pensare e di prospettare le cose. t pure indubbia l'accalorata apologia della libertà soggettiva e la esaltazione della forza del desiderio.
    Ma la realtà, prima ancora che le scienze umane, si incarica di mostrare a chiare note l'ambiguità degli impulsi e la carica di aggressività o di morte che spesso veicolano.
    Il desiderio e i bisogni non sono valori «tout court». Ne dicono l'esigenza o ne esprimono forme aurorali, che richiedono di essere elaborate, integrate, educate, cioè fatte crescere e realizzate in un contesto pienamente umano.
    Allo stesso modo il rifugio nella privatezza della propria corporeità istintuale rende difficile poi il sortirne. Il rischio di una immensa solitudine è tutt'altro che ipotetico. Come infatti potrà esservi comunicazione se tutto è ridotto a pulsioni, senza mediazione espressiva o linguistica, senza cioè la presenza di una intelligenza e razionalità sorretta dalle mediazioni culturali e scientifiche?
    Parallelamente, diviene molto difficile in questa «gioia totale del corpo», godere di quella gioia che viene dall'incontro e dalla relazione interpersonale in tutta la sua complessità e situazionalità geograficostorica.
    In genere si ha l'impressione che certe affermazioni pongano più problemi di quanti piuttosto sbrigativamente intendano superare: può l'uomo vivere senza radici, senza continuità, senza un'unità in sé e con il suo ambiente? Che cosa rimane di un essere umano quando sia ridotto ad un fuoco pirotecnico di pulsioni, senza individualità e senza soggetto?
    E se è vero che non c'è libertà senza emancipazione e liberazione da condizionamenti psicologici e sociali che impediscono qualsiasi possibilità di espansione personale, è pur vero che essa non si riduce a libertà da , ma è sempre anche libertà di scelta, libertà per qualcosa che accresce l'umanità propria (= valore); con libertà che concresce con la comune aspirazione ad essere più umani e libertà che edifica nel proprio ambiente, nel proprio contesto, strutture, istituzioni, forme concrete, comportamenti di libertà. Da questo punto di vista, nonostante tutto, una tale immagine di uomo sembra ratificare la conclusione estrema dell'itinerario in cui si è rinchiuso l'individualismo e il soggettivismo dell'Europa moderna, che con ciò non è più riuscito a recuperare la dimensione dell'alterità se non nei termini di puro oggetto dell'io e oggetto del suo «oscuro» desiderio (come dice il titolo di un film di Bufluel).
    E naturalmente anche quando si è parlato di collettività non si è riusciti mai ad andare oltre un ammassamento dì individui o di nazioni. Al massimo si è arrivati ai livelli internazionali, mai a qualcosa di superiore, sovranazionale. Come ci rimproverano i movimenti di liberazione dell'America latina, noi europei. non siamo mai pervenuti alla realtà del popolo; o come ci rimproverano le culture extraeuropee, soprattutto africane, non abbiamo mai preso sul serio il concetto di comunità, al massimo vista come lo stadio precivile dell'anonimato societario.

    3.2. L'uomo nichilista

    L'affermazione dell'uomo disorganico viene spesso accomunata in quel movimento culturale che viene variamente inteso come pensiero negativo e come nichilismo. Rimanendo per ora ai termini generali diremo nichilista quell'immagine di uomo che vive la sua esistenza nella convinzione che non si diano verità e valori assoluti; ma anzi che ogni cosa e l'esistenza umana in prìmo luogo abbia il «niente» per sua porzione ed eredità.
    Diverse e non sempre omogenee sono anche qui le ascendenze culturali.

    3.2.1. La dialettica negativa della scuola di Francoforte

    Anche se il momento produttivo più tipico è da collocarsi agli inizi degli anni trenta, è vero tuttavia che la sociologia critica della Scuola di Francoforte (M. Horkheimer, T.W. Adorno, E. Fromm, H. Marcuse, ecc.) ha dato i suoi frutti soprattutto alla fine degli anni sessanta, fino ad apparire il supporto ideologico della contestazione giovanile e studentesca del 196768.
    La loro dialettica è detta negativa, nel senso che «nega» l'esistente per far spazio a progetti emancipativi; che non intende soggiacere a pressioni autoritarie o ad operazioni di dominio, riducendosi a ragione strumentale, ma cerca di liberare l'immaginazione alternativa e il pensiero divergente, che accentua la diversità più che l'unità, la nonidentità più che la conciliazione. Per rifarsi ad Hegel, è quasi un affermare che l'antitesi non può essere sussunta nella sintesi, ma rimane negazione della tesi e basta.

    3.2.2. L'esistenzialismo negativo di Sartre e di Heidegger

    Una seconda ascendenza può aversi già in Sartre della Nausea. Di fronte al mondo (alla «cosa in sé»), che è schifoso come un vomito e che si riproduce caoticamente e magmaticamente, l'io non può che avere la nausea. L'assurdità sembra la sorte di tutto a cominciare dalla propria «inutile passione» di libertà. Ma forse più che a Sartre, il pensiero nichilista di oggi si rifà a M. Heidegger e alla sua analisi esistenziale dell'uomo «gettato» nel mondo e nel tempo, che, scandagliando la propria angoscia, prende coscienza del suo esistere (= cioè di essere posto fuori dell'Essere con la maiuscola) e di essere come librato sul nulla (Dasein). Tuttavia è proprio nel riconoscersi come un «essereperlamorte», che può affermare la pienezza della sua libertà e passare da una esistenza banale ad una esistenza autentica.

    3.2.3. Nietzsche nuovo Profeta

    Ma lo stesso Heidegger viene assunto quasi solo in quanto ha riproposto una particolare interpretazione di F. Níetzsche, diversa sia da quella del superomismo decadentistico estetizzante (dannunziano) sia da quella anarchica, sia da quella nazista: accentuandone la coscienza della negatività e dell'«amor fati».
    Sta di fatto che Heidegger e Nietzsche sembrano comunque aver ribaltato in gran parte Marx e Freud nelle funzioni di paternità ispiratrice e come autorità culturale indiscussa. Il riferimento a Nietzsche, soprattutto, non solo tra intellettuali ma tra giovani studenti sembra simile a quello che era a Marxgiovane una decina d'anni fa.
    Di Nietzsche si mette in risalto la proclamazione della «morte di Dio»: essa non è vista tanto come negazione ateistica, quanto piuttosto come affermazione della fine di ogni certezza assoluta o di verità e valori eterni o immutabili. Più in generale lo si segue in quella demolizione della cultura borghese, di cui la negazione ateistica è solo un aspetto, portata avanti da Nietzsche in tutta la sua opera.
    In particolare si esalta la sua figura e la lucidità della sua coscienza nella attività di azzeramento della tradizione, nel dover vivere senza sicurezza, nella «ricreazione di valori» pur in questa coscienza di vanità e di «eterno ritorno del tutto».

    3.2.4. La negazione della verità e di valori assoluti

    Alla luce di queste ascendenze si definisce meglio ciò che è il pensiero negativo. Esso diventa pratica dell'«arte del sospetto» (Nietzsche) che mette in crisi le certezze del passato; che urge sulle contraddizioni del pensiero. Alla fine si giunge ad affermare che non esistono possibilità di conoscenze che siano valide universalmente, sempre e dovunque, indipendentemente dai soggetti conoscitivi, dalle condizioni e dai contesti storici in cui si colloca l'attività conoscitiva dell'uomo.
    Non esistono leggi universali o visioni del mondo e della vita che riescano a vincere e a districare una volta per tutte l'atomicità e la dispersione delle cose e degli avvenimenti. A questa concezione si accoppia in genere l'affermazione di valore propria del Qóelet biblico, secondo cui tutto ciò che è vive sotto il sole è «vanità delle vanità e tutto è vanità».

    3.2.5. I diversi esiti del nichilismo

    Dal punto di vista operativo questa accoppiata può dar luogo o ad un atteggiamento estremamente pragmatistico (che esalta il momento delle scelte politiche rispetto al momento delle ideologie, o la pratica rispetto alla teoria), oppure ad una sorta di «buddismo» teoricopratico, che proclama l'assenza dal mondo sia nella vita socialepolitica sia nell'impegno morale personale.
    O per lo meno si offre come atteggiamento «disincantato» dell'intellettuale che si ferma di fronte alla costatazione delle aporie e delle contraddizioni esistenti.
    In ciò non è da sottovalutare l'influsso del razionalismo critico, fondamentalmente relativista del sociologo ed economista tedesco M. Weber.
    Per altri invece il «nichilismo» non è così negativo.
    La fine delle certezze e dei valori eterni ed assoluti è salutata come l'aurora della liberazione e di una vita più a misura d'uomo. Infatti secondo costoro si sarà in genere meno sicuri e meno garantiti ma anche più autonomi e insieme più tolleranti e responsabili in prima persona del proprio destino.
    L'asserzione che l'esistenza esce dal nulla e ricade nel nulla della morte non nega l'arco temporale dell'esistenza, le sue leggi deboli (coscienti del loro limite, perciò non intolleranti, non violente, non dominative). E neppure viene meno l'infinito repertorio di possibilità date dalla pluralità e dalla diversità soggettive.
    Lo stesso scuotimento della vita dovuto all'urto impetuoso delle trasformazioni della civiltà industriale, più che allo scoramento invita alla assunzione del rischio e alla continua manipolazione di soggetti ed oggetti ai nuovi usi e consumi, offerti dalla civiltà tecnologica con il suo «fascino discreto». Lavorare e districarsi «tra le pieghe dell'esistente» è la regola aurea dell'azione. Certo l'atteggiamento primario dell'uomo rimane una fondamentale pietà e rispetto reverenziale verso l'esistenza, percorsa dal nulla, e verso le persone, segnate radicalmente dalla morte.
    Cosi a livello collettivo viene ad essere prospettata e auspicata una società non violenta, dalle istituzioni e rituali non fideistici, capace di adattarsi continuamente alla «differenza» e alla molteplicità del reale.

    3.2.6. Rilievi critici

    Questi autori (G. Vattimo, F. Rella, M. Tronti ed altri) prendono le distanze dall'ideologia dei partito armato, considerata ancora una forma di pensiero «assoluto», una sorta di catastrofismo tragico, in nome del quale si predica e si attua la soppressione del «diverso» esistente.
    Tuttavia è indubbio che l'enfasi posta sulla negatività, l'assurdità, la vacuità del tutto non è senza influsso.
    A questa cultura dell'assenza di verità e del divenire incessante e sfuggente non solo si imputa di non essere molto di più di un sofisticato gioco intellettuale, giustificatorio di situazioni esistenziali, ma di servire ultimamente al gioco sottile del potere economico e politico, che ha tutto da guadagnare dall'ammissione della fatale necessità di una civiltà, quale quella tecnologicoindustriale, che travolge uomini e cose nel flusso degli oggetti e delle merci che circolano tra produzione e consumo.
    Altri le fanno carico di gettare le esistenze in un «presentismo» affannoso, che pone ogni valore nella novità da possedere e dominare: fino a far perdere il senso della memoria storica o la coscienza della struttura temporale che è sottesa alla esistenza individuale e collettiva.
    C'è inoltre chi, come E. Severino, considera il nichilismo contemporaneo come l'esito estremo del pensiero occidentale, dimentico dell'essere e della sua assoluta stabilità, cosi come della «rotonda» verità, e tutto fissato sul divenire delle cose e degli enti particolari.
    La volontà di dominio e di possesso tipici della nostra civiltà si fonderebbero sull'idea che le cose (e le persone) sono oscillanti, malferme, soggetti al divenire, e perciò modificabili, manipolabili, trasformabili: tali cioè che possano essere condotte dal niente all'essere (prodotte, fatte, create) e dall'essere al niente (mercificate, alienate, possedute, consumate, divorate). Non è difficile vedervi riprodotta la logica tecnocratica, che appunto funzionerebbe come se le cose fossero niente nelle sue mani: da creare e da consumare. E se nei suoi movimenti inizali ha potuto dar luogo ad una euforica onnipotenza dell'uomo, non è chi non veda come il suo incrinarsi e i suoi guasti abbiano fatto pensare al nichilismo della realtà e alla vanità della vicenda umana.

    3.3. L'uomo cibernetico

    È caratteristico dei movimenti della «nuova sinistra», dal 1968 ad oggi, il «Gran Rifiuto» della società industriale, dei suoi metodi di produzione, della sua concezione del lavoro e dell'esistenza.
    Come si è visto, la tendenza radicale e quella nichilista sono fortemente critiche contro la civiltà tecnocratica. Ma proprio l'inconcludenza, il pressapochismo, l'inefficienza spontaneistica, o per altro verso il carattere eversivo dei loro progetti culturali e sociali, induce altri a ricalcare strade diverse nella ricerca di un futuro per l'uomo.
    Ci si muove non lungo la linea del rifiuto, ma piuttosto lungo quella del riaffidamento alle possibilità umanistiche di scienza e tecnologia, nel quadro però di una loro rigida e razionale programmazione e controllo. Riprende forza in questa prospettiva l'ipotesi dell'uomo cibernetico, che negli anni del «boom» economico si andava profilando come l'ipotesi d'uomo del duemila.
    In essa l'uomo e l'intero circuito dell'esistenza sono visti e modellati sui «computers» e il loro sistema di funzionamento.

    3.3.1 Il nuovo volto della scienza, rete di modelli

    Indubbiamente ciò comporta una rinnovata visione della scienza, e soprattutto del suo rapporto con la tecnologia.
    Quasi nessuno concepisce più la scienza come i positivisti e nemmeno come i neopositivisti. La fede ingenua nella scienza, la convinzione scientista sulla oggettività delle scienze naturali e fisiche e la possibilità di arrivare all'unità «fisicalistica» (cioè fondata sul modello del linguaggio della fisica) di tutte le scienze è crollata, insieme alla fiducia di poter illuminare progressivamente l'intero arco dell'esperienza umana attraverso la razionalità scientifica, secondo un inarrestabile cammino di comprensione e di possesso e di regressione di ogni forma di metafisicheria oscurantistica. I seguaci di Popper (Lakatos, Feierhabend, Agassi, Kulm, ecc.) hanno messo in risalto il ruolo delle teorie nella ricerca scientifica e dell'errore nello sviluppo storico della scienza.
    Non esistono, secondo alcuni, procedure e metodi scientifici univoci. La ricerca scientifica è piuttosto un «ritagliare» la realtà, secondo la propria visione, e su questa base costruire dei modelli che come una rete «pescano» nel mare dei reale, per comprenderlo e agire su di esso.
    Si tratta di una concezione più vicina alla creazione artistica e poetica, ma rimane lo scopo finale del dominio umano sui fenomeni che lo circondano e di cui è intessuta la sua esistenza: l'importante è che si possano ricavare, attraverso l'esplorazione intelligente e sistematica, quelle informazioni che permettono condotte efficaci.

    3.3.2. L'influsso dell'informatica e della cibernetica

    Senz'altro preminente è l'influenza dell'informatica con la sua capacità di analisi, elaborazione e trasmissione dei dati informativi (che assurge quasi ad ideologia di fondo di una scienza vista come «rete di modelli»). Ma lo è di più la esemplarità teorica e pratica dei computers, la rete degli elaboratori elettronici, che mostrano la forza della tecnologia e la sua egemonia nella stessa ricerca scientifica avanzata.
    L'indagine logicolinguistica e la tecnica si compenetrano nel rilevare l'automazione nei processi argomentativi e cognitivi.
    Con la messa in risalto della retroazione (in termini tecnici «feedback»), si tende a equiparare l'autoregolazione e i sistemi di controllo degli automi ai sistemi di adattamento, equilibrio, controllo e comunicazione dell'organismo vivente (in termini tecnici «omeostasi») e dell'uomo in particolare.

    3.3.3. La cibernetizzazione dell'esistenza

    La cibernetica, con le sue capacità conoscitivo/operative, deborda ben presto dai confini della ricerca scientifica e tecnologica per sfociare in una ipotesi antropologica globale e in progetto d'uomo totalizzante.
    L'uomo è definito come parola. Il suo funzionamento e il suo comportamento in termini di «informazione». Non solo il singolo, ma la società intera possono essere compresi, nella dinamica con l'ambiente, unicamente e semplicemente attraverso l'analisi dei loro linguaggi e dei loro sistemi di informazione e di comunicazione.
    Attraverso il controllo e l'uso regolato delle informazioni si viene a prospettare un futuro «in cui nulla sia lasciato al caso, alla fantasia ed all'umore, ma tutto sia precisamente determinato e previsto dal computer, in modo da evitare errori e sprechi in campo economico, il disordine in campo sociale e, soprattutto, quell'enorme cumulo di sofferenze che fino ad oggi hanno imposto all'umanità l'irrazionalismo, il fanatismo, l'imprevidenza, il mancato ricorso agli strumenti offerti dal progresso scientifico e tecnico per la soluzione dei problemi sociali ed umani» (Civ. Catt., 1981, 3133, p. 4).
    Computerizzazione dell'esistenza e programmazione a scadenze prefissate ne sono le vie di attuazione specifica.
    L'enfasi sulla programmazione educativa e didattica in questi ultimi anni si pone in questa linea.

    3.3.4. L'uomo programmato del comportamentismo

    Un'altra uscita di sicurezza, di fronte ai rischi che la società industriale e tecnologica sta correndo è, secondo altri, un rigido condizionamento della condotta umana, una tecnologia del comportamento, basata su una solida scienza del comportamento.
    Attraverso la tecnica psicologica del condizionamento operante», del «rinforzo» soprattutto positivo, si crede sia possibile modellare, manipolare l'uomo (così come si fa in laboratorio con gli animali), influenzare il suo agire intervenendo su quelle che ne sono le conseguenze, che appunto lo rinforzano. Uno scientifico dosaggio di ricompense e punizioni, costituiscono il nerbo di quella tecnologia del comportamento che potrà permettere una umanità e una civiltà nuova, razionale e socializzata, capace di far fronte alla svolta fatale della società tecnologica. Padroneggiando il meccanismo del rinforzo lo scienziato/ingegnere ha di mira l'eliminazione delle tensioni e la rimozione dei focolai dell'antagonismo, della competitività, del particolarismo economico, familiare, sociale, causa prima dei mali che ci affliggono e che ci impediscono il retto utilizzo della tecnica.
    Si tratta di una impresa gravosa, che costringe a misure estreme e che necessita di andare «oltre la dignità e la libertà» (come si intitola un volume di F.B. Skinner, psicologo e pedagogista americano, uscito nel 1971 e subito diventato un «bestseller»): le idee e i valori dell'umanesimo tradizionale vanno scalzati via, perché espressione viziata dell'antropomorfismo prescientifico, cagione di condotte irrazionali, passionali, illusorie, e quindi ultimamente dannosi in quest'opera in cui ne va di mezzo la sopravvivenza della cultura e dell'umanità.

    3.3.5. Rilievi critici ed influssi

    Dopo le intuizioni esaltanti di W. Cannon, C. Bernard, e soprattutto di N. Wiener, fondatore della cibernetica, sul finire degli anni sessanta, la denuncia delle mistificazioni e delle disastrose strumentalizzazioni politiche ed economiche delle apparecchiature tecnologiche, ha fatto da contrappeso agli entusiasmi sottesi a tali ipotesi.
    Si è messo in luce la loro inadeguatezza a spiegare la complessità dei fenomeni psichici e il mondo affettivo umano: la logica del cuore umano non è quella del cervello elettronico.
    Si è fatto notare che venivano dimenticati alcuni aspetti fondamentali e specifici della attività umana, come la capacità creativa e l'intrinseco carattere morale di essa. Se infatti è vero che l'attività della macchina può dirsi intenzionale, lo si può solo nel senso che ha una meta da raggiungere (magari operando successivi aggiustamenti e autocorrezioni), ma non nel senso che si pone una mèta, uno scopo, sulla base di una scelta, di un giudizio di valore, come invece fa l'uomo, al quale perciò è imputabile una fondamentale responsabilità dei suoi atti. In termini semplici, si è detto che una tale ipotesi riduceva il singolo e la collettività ad una ruota in un immenso ingranaggio, regolato da una «élite», magari anonima, nelle cui mani venivano messe le sorti del mondo e dell'umanità.
    Nonostante ciò, le ipotesi suddette continuano ad esercitare il loro influsso ideale. Il linguaggio quotidiano, la comunicazione di massa, la letteratura fantascientifica e di diporto, ne sono profondamente segnate. Qualcosa di simile va detto per la prospettiva del condizionamento del comportamento.
    È appena da rilevare in questo modo di vedere la riduzione oggettivistica dell'uomo al suo comportamento espresso, dimenticando gli aspetti di interiorità, di impulsività, di creatività che fanno da background alla manifestazione comportamentale. Più problematica poi è la questione della legittimità di un rigido condizionamento cui sottoporre la condotta umana. 1 risultati valgono la spesa?
    E poi anche in questo caso, chi controllerà la razza eletta dei condizionatori?
    Non si ridurrà l'uomo, risultato dal condizionamento, ad essere un uomo/robot?

    3.4. L'uomo dell'autorealizzazione

    Nello stato di crisi, più o meno consapevolmente, si è avuta una profonda soggettivizzazione dei modi di pensare e di vivere. L'io è diventato come l'ultima spiaggia da salvare a tutti i costi dai mali della vita moderna.
    Oltre ad una più attenta cura del proprio corpo è stata favorita una maggiore attenzione alla propria sanità mentale e psichica, cosi come alle relazioni interpersonali.
    In questo clima ha ricevuto consistenza quella immagine di uomo che esalta il prendere coscienza delle proprie risorse interiori e invita ad esplicare in modo creativo ed intelligente, in vista della propria ed altrui autorealizzazione («selfrealization»).

    3.4.1. La psicologia umanistica

    Nel 1962 A. Maslow lanciò l'idea dell'organizzazione di una «terza forza» nella psicologia, che superasse i limiti della psicoanalisi e del behaviorismo. Questa iniziativa ebbe i consensi di psicologi di varia formazione e provenienza, americana e europea (oltre A.H. Maslow, W. Stern, G.W. Allport, C. Rogers, E. Fromm, H.A. Murray, K. Goldstein, Ch. Búhler, R.May, V.E. FrankI, J. Nuttin, H. Thomae, ecc.). La nuova formazione fu conosciuta come Psicologia Unianistica. Gli aderenti furono d'accordo sulla necessità di privilegiare come campo di attenzione e di indagine la persona sana (e non i meccanismi psicopatologici, come nella psicoanalisi), soprattutto nelle sue innegabili manifestazioni di spontaneità, interiorità, creatività, libertà, ricerca di significato, ecc. Si volle inoltre mirare a tutta la persona, cosi come essa si dà, come totalità unica e differenziata, contrassegnata da attitudini irripetibili; capace di consapevolezza ' 'di libera scelta, di responsabilità; fornita di intenzioni e aperta ai valori; tesa ad un divenire che ha come meta l'autorealizzazione; e che ha il suo essere nel contesto umano, ma non si riduce a campo passivo di stimolazioni esterne (come per il behaviorismo).
    La stessa costruzione di una società rinnovata come asserisce Maslow sarà frutto solo di una lenta e graduale Vivoluzione «sinergica» (= che opera insieme), portata avanti da persone autorealizzate, non di rivoluzioni imposte.

    3.4.2. La psicoterapia gestaltica e transazionale

    Attorno agli anni '70 ha preso molta consistenza la terapia della Gestalt, fondata da Fritz PerIs e portata avanti soprattutto dal suo discepolo J. Sinikin.
    Gestalt è una parola tedesca che significa intero o figura, forma. In Germania prima e poi trapiantata negli USA a seguito di quella colossale fuga di cervelli, seguita all'imporsi del Nazismo, si sviluppò la psicologia della Gestalt, che in opposizione alla teoria psicologica tradizionale, affermava che la percezione non è frutto dell'associazione di puntuali e atomistiche sensazioni, ma avviene in termini di tendenza alla totalità, all'intero, secondo la dinamica di figurasfondo, in cui le singole parti avevano senso, e che solo analiticamente si potevano distinguere.
    Nella stessa linea la terapia gestaltica, influenzata dalla filosofia esistenziale, considera l'uomo come un organismo completo che funziona come un tutto.
    Le difficoltà sorgono quando l'organismo non è in contatto con l'ambiente esterno, ma si immerge nel suo proprio sfondo, nel suo proprio ambiente interno, nelle sue fantasie, creando insoddisfazione, tensione, aggressività, squilibrio, che si cerca di superare con «Gestalten» incomplete, distorte che disturbano, bloccano o fanno irrigidire ad un certo stadio la tendenza alI'integrazione del flusso e dei riflusso continuo tra organismo ed ambiente.
    La terapia della Gestalt opera soprattutto attraverso l'esercitazione e i giochi di gruppo che sostengono i processi di autostima e autosostegno del paziente: egli impara così a riprendere fiducia in se stesso e a ricomporre le scissioni che si erano prodotte e a chiudere i «buchi» della sua personalità, riappropriandosi delle parti di sé che aveva considerate nocive o inaccettabili o misconosciute.
    La terapia della Gestalt è spesso integrata, come metodo e insieme di tecniche terapeutiche, nell'indirizzo detto della Analisi Transazionale che fa capo a E. Berne.
    Anche in questo indirizzo si partecipa la convinzione che più che insegnare qualcosa ad un uomo c'è da aiutarlo a scoprirlo dentro di sé, e che ognuno deve prendere la propria vita nelle proprie mani.
    Il centro di osservazione sono gli interscambi e le interazioni, i giochi che avvengono tra persone = transazione) .
    La terapia è solo un aiuto a prendere coscienza di queste possibilità per poter così vivere autonomamente, cioè per scelta autocosciente spontanea e flessibile secondo le esigenze della vita e non secondo il «copione» che ci è stato introiettato nei primi anni di vita da quella che Berne chiama la «programmazione parentale».
    Superando la fissazione funzionale e la ripetizione coattiva del copione ognuno è capace di «vincere la vita», cioè sa reagire in modo autentico, essere creativo, credibile, degno di fiducia, genuino, pensante, consapevole, produttivo personalmente e socialmente (Nati per vincere, si intitola un volume di alcuni esponenti di questo indirizzo).

    3.4.3 La psicoterapia relazionale

    Alla corrente umaniztica sembrano richiamarsi anche gli autori che in qualche modo provengono dal "Mental Research Institute" di Palo Alto (D. Jackson, U. Satir, P. Watzlawick, J. Weakland, J. Haley, J.H. Beavin, G. Bateson, ecc.), e che si sono interessati in particolare all'analisi della comunicazione e alla terapia della famiglia.
    Sulla scia della teoria dei sistemi di L. von Bertalanffy, il biologo di origine austriaca che ha inteso superare il meccanicismo e il vitalismo, at~ traverso l'organicismo, gli autori della scuola di Paio Alto parlano della famiglia come «sistema aperto» (già Allport lo diceva della personalità), cioè in continuo scambio di materiale, energia ed informazione con il proprio ambiente. E mettono ad esempio in risalto il ruolo della comunicazione verbale e non verbale o l'interazionismo simbolico dei ruoli nelle dinamiche familiari.
    Gli sviluppi non sono omogenei e sussistono forti divergenze o accentuazioni tra singoli o gruppi di autori.
    In particolare è difficile negare del tutto l'impressione che in molti casi l'affermazione umanistica non sia un po' soffocata da vedute cibernetiche e dall'enfasí sull'analogia con il funzionamento di macchine o congegni tecnologici.

    3.4.4. La religione dell'io?

    Tutto il filone umanistico, soprattutto americano, non sembra andare esente da grossi interrogativi.
    In primo luogo un certo pragmatismo di fondo, che talvolta sembra bruciare, ai fini dell'efficacia e del benessere individuale e sociale, le lunghe e non sempre semplici vie della ricerca scientifica.
    In secondo luogo non sembra essere superato un orizzonte tutto sommato naturalistico: anche quando si parla di «bisogni superiori» (di riconoscimento di sviluppo di sé, di amore, di religiosità), tutto sembra rimanere nell'ambito della psiche e nell'arco del tempo, anche quando si parla e si invita al dono di sé e all'impegno sociale.
    In terzo luogo agli occhi di alcuni critici l'immagine dell'uomo autorealizzato sembra essere l'ipostasi scientifica (= il modello idealizzato e assolutizzato) del medio borghese statunitense (e del suo stato di avanzamento tecnologico, nella Scuola di Palo Alto); peggio, secondo qualcuno, l'esaltazione dell'uomo autorealizzato sembra essere la razionalizzazione di quell'idolatria dell'uomo moderno, che è il «culto di sé».
    Più attenti a significati e valori trascendenti sembrano essere gli europei Frankl, Thomae, Nuttin.
    Non è da tacere il possibile effetto magari non voluto, ma non per questo meno incombente che l'insistenza sulla realizzazione di sé, sull'essere «vincenti», non ponga l'esistenza individuale e le relazioni interpersonali in un regime di concorrenza (fino a forme di imposizione e dominazione sull'altro) o faccia perdere il senso del limite, del dolore (fino alla frustrazione esistenziale di fronte ad una eventuale o troppo dilazionata riuscita).
    Del resto l'«ottimismo naturalistico», che molti di questi autori proclamano, è quasi tutto o in gran parte da dimostrare.
    Allo stesso modo non sembra essere superata di molto quella prospettiva individualistica, fatta rilevare come un limite di altri orientamenti antropologici del nostro inondo occidentale, anche se qui si dà risalto alle relazioni interpersonali, al ruolo del gruppo, al rapporto organismoambiente, al contesto.

    3.4.5. La commercializzazione della «selfrealization»: l'uomo dei massmedia

    L'ideale dell'uomo autorealizzato capace di spontaneità, senza complessi nelle relazioni con gli altri, creativo nella vita e nella professione è diventato il nucleo centrale di quella che è stata proclamata la «psicologia per tutti» e le sue tecniche (Encounter Groups, Trainings autogeni, Creative Workships, sedute-maratone, Self Help Sex, ecc.).
    Per lo più secondo i canoni dell'industria culturale, che cerca di «mediare» tutto questa psicologia per tutti combina e fa incontrare sul terreno della «selfrealization», anche suggestioni e stimoli provenienti dalle forme volgarizzate e dalle immagini elaborate di uomo che abbiamo chiamato cibernetica, nichilista, dei bisogni radicali: in un aggregato comune che potremo chiamare l'immagine d'uomo dei massmedia.
    La sua influenza nell'affinità educativa, catechistica o nell'animazione culturale è molto rilevante, soprattutto tra i cattolici, a motivo degli indubbi aspetti personalistici che essa ha. Ma non è senza ambiguità e rischi: soprattutto quando non si cerca di andare oltre e sostanziare la creatività e la buona comunicazione con contenuti di verità e di valore.

    4. I MODELLI EDUCATIVI

    Come si è detto c'è uno stretto rapporto tra l'immagine che ci si fa delI'uomo e l'idea di cosa debba essere l'educazione. t quindi piuttosto agevole, in parallelo al disegno dei modelli riguardanti l'immagine di uomo, delineare brevemente i recenti modelli pedagogici, cioè i principali modi di intendere la crescita e lo sviluppo umano, sorretto dagli interventi formativi di varia natura.

    4.1. Educazione e sviluppo sociale dal dopoguerra agli anni '60

    La ricostruzione del secondo dopoguerra non fu solo materiale ed economica. Alla scuola e all'educazione si chiese di contribuire alla formazione dell'uomo e dei cittadino secondo gli ideali di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di uguaglianza, di solidarietà internazionale.
    La politica educativa pur con tutte le lentezze dell'attività legislativa prese a lavorare per la riforma della scuola, nel contesto della generale riforma dello stato e della società. Cominciarono a diventare di dominio pubblico le idee delle «scuole nuove» Q. Dewey, 0. Decroly, E. Claparéde, P. Bovet, C. Freinet, E. Demolins, G. Wyneken, G. Kerschensteiner, A. Manjon, M. Montessori, ecc.), che ponevano al centro dell'educazione la spontaneità creativa del fanciullo e l'importanza della sua attività nell'apprendimento. Psicologia e sociologia furono chiamate a dare i loro contributi per la comprensione dei processi evolutivi e per la proposizione di metodologie educative e didattiche nuove: e soprattutto in una rinnovata stagione neoilluministica furono assunte come criterio ultimo di giudizio e di validazione, in quanto aureolate e segnate dal crisma della «scientificità».
    Negli anni sessanta, col predominare dell'ideologia dello sviluppo affidato alla potenza di scienza e tecnologia, anche l'educazione fu segnata dalla istanza efficientista, che vedeva l'educazione come variabile dipendente dello sviluppo economicosociale e proprio per questo invitava la scuola e l'educazione a porre l'accento sul saper fare e sull'acquisizione di conoscenze di applicabilità operatoria immediata.
    Passati gli anni della guerra fredda, l'epoca del «disgelo» e dei centrosinistra accentuò parallelamente la funzione della educazione come agente del cambio sociale. E diffondersi e l'accesso di tutti all'uso, o meglio alla fruizione, dei mezzi di comunicazione di massa contribuì notevolmente alla circolazione di idee e al rafforzarsi di quella che fu detta la «scuola parallela», spesso antagonista delle tradizionali agenzie educative.
    Questa vivace azione formativa fu supportata da tre principali indirizzi pedagogici, spesso in serrata polemica reciproca, soprattutto in materia di politica educativa e scolastica: l'indirizzo personalistico, l'indirizzo 7narxista, l'indirizzo laico.

    4.1.1. L'indirizzo personalista

    Di fronte alla crisi mondiale degli anni trenta E. Mounier e i suoi amici prospettarono in una «rivoluzione personalistica e comunitaria» la via d'uscita ai rigurgiti reazionari e ai guasti della collettivizzazione economicistica.
    Negli anni cinquanta molti pedagogisti di estrazione cristiana, rifacendosi allo stesso Mounier e a J. Maritaffi, prospettarono una pedagogia incentrata sulla persona intesa come:
    - soggetto e non mai riducibile ad oggetto o a terreno di colonizzazione di altri, fossero pure i genitori, la famiglia, lo stato;
    - fine e non mai mezzo o strumento di operazioni altrui;
    - essere relazionale e aperto, che si costruisce, seppure laboriosamente, nel mondo e nella storia;
    - capace di comunione con il mondo delle cose, attraverso il lavoro; con gli altri, attraverso il linguaggio: con Dio, attraverso la religione.
    In questa prospettiva, educare vuol dire globalmente promuovere mondi personali e comunità di persone adulte e responsabili.
    Abilitare il soggetto a dirigere il proprio movimento di personalizzazione ne costituisce l'obiettivo ultimo. H soggetto, fin dagli inizi della propria esistenza, non è infatti un vuoto da riempire o una cera informe da plasmare o un essere da addestrare, ma una persona da suscitare e da dischiudere ad un «umanesimo integrale» (J. Maritain). Egli è il primo fattore insostituibile della sua stessa educazione. Gli educatori sono piuttosto dei cooperatori. Nella luce della persona i metodi e le tecniche educative, senza essere sottovalutati, sono inquadrati nell'insieme del rapporto educativo e della testimonianza personale, che mantengono una validità educativa prioritaria. t in ogni caso da rispettare il «mistero» del soggetto che si fa persona.
    È pur vero che, al di là delle stesse intenzioni, il personalismo pedagogico del dopoguerra, ha rischiato talora di dar spago alla retorica vuota; è apparso facile a cadute individualistiche; ha rasentato la astrattezza e la disattenzione alle condizioni storiche e ai condizionamenti concreti che premono i processi della crescita e l'azione educativa.

    4.1.2. L'indirizzo marxista

    Nel tutt'altro che unitario continente marxista, si è discusso fino a tempi piuttosto recenti sulla legittimità di una pedagogia.
    Il motivo principale è che l'educazione, nel gioco del potere economicopolitico, viene storicamente a risultare l'apparato istituzionale per la trasmissione e la interiorizzazione delle ideologie dominanti, che in tal modo si assicurano il controllo delle coscienze e hanno il modo di indirizzare gli intenti della gente.
    Da questo punto di vista il marxismo ha sempre portato avanti la critica contro la educazione vigente e le teorie o i modelli educativi esistenti, parallelamente e nell'insieme della critica al sistema sociale e all'ideologia cosiddetta borghese.
    C'è tuttavia, a parere di alcuni marxisti, una via d'uscita da questo legarne alienante tra educazione e potere: è quella che prospetta l'educazione come immessa nel processo storico di trasformazione rivoluzionaria dei sociale, facendosi momento e forma di prassi liberatrice.
    In questo contesto come illustrerà soprattutto A. Granisci l'educazione è opera «subalterna» rispetto alla lotta e alla prassi rivoluzionaria, di cui è soggetto storico per eccellenza la classe proletaria. In tale lotta di classe che opera per togliere l'alienazione dei rapporti sociali di produzione, propri al sistema economico capitalista, viene a trovarsi ultimamente il «principio educativo» e il senso dell'educazione scolastica considerata come aspetto di quella più generale formazione della classe operaia e degli intellettuali, organici ad essa e ai suoi obiettivi storici.
    L'educazione lavora in tal senso per l'«egemonia», cioè per quel momento della vita politica che è interessato alla formazione del consenso e della direzione culturale.
    In questo quadro tutte le strutture educative e in particolare la scuola sono coordinate strettamente a tutta la vita culturale e produttiva della società.
    Proprio per questo l'educazione è assimilabile ad un'opera «industriale», nel senso di azione e intervento sistematico che lotta contro la natura e gli istinti, per dominarli e formare l'uomo attuale alla sua epoca storica e al futuro socialista.
    Parallelamente si auspica una formazione fondamentalmente unitaria, in cui lavoro manuale e intellettuale, scienza e tecnica siano integrate e finalizzate allo sviluppo «onnilaterale», cioè pieno e armonioso.
    Tutto ciò, più che opera di educatori individuali fondamentalmente assimilabili in ogni caso ad agenti di cambio sociale è frutto di azione e di interventi collettivi, nel quadro di un progetto politico globale di trasformazione sociale.
    È trasparente il rischio che tutta l'educazione venga soggiogata dalla finalità dell'azione politica. Cosa pure non è difficile scorgere come gli aspetti di interiorità, privatezza e persino individualità e creatività possano essere mortificati o permessi solo nei limiti voluti dalla dirigenza politica.
    Il materialismo di fondo oscura gli innegabili aspetti di spiritualità presenti nella condizione umana. Ma è chiaro a questo punto che il discorso critico più che sulla pedagogia va a finire sulla concezione marxista, una realtà che come si è detto è tutt'altro che omogenea, e che appare una eredità culturale tutt'altro che ugualmente compartecipata da quelli che sì dicono oggi marxisti.

    4.1.3. L'indirizzo laico

    Parallelamente a quanto avveniva in campo politico, nell'Italia del dopoguerra si sviluppò un forte indirizzo di pedagogia cosiddetta laica, quasi una «terza via» tra l'indirizzo personalista e marxista.
    Come l'indirizzo personalista si rifaceva a E. Mounier e J. Maritain e l'indirizzo marxista a Marx e Granisci, cosi questo indirizzo si rifà fondamentalmente a J. Dewey. Di J. Dewey si condivide in primo luogo il naturalismo neoWuminista, fiducioso nelle possibilità della razionalità e della scienza al fine di sviluppare in senso positivo l'esperienza individuale e sociale, che viene a formarsi nella continuità e nell'interazione con l'ambiente.
    Con Dewey si compartecipa pure il suo ideale di democrazia progressista, alla cui realizzazione l'educazione, illuminata da ragione e scienza, è chiamata a collaborare formando uomini liberi e democratici.
    In questa linea l'educazione si caratterizza principalmente come «educazione alla ragione», in aderenza alla realtà storica, al progresso scientifico tecnologico, alle conquiste civili, sociali, politiche che qualificano la storia umana.
    Allo stesso modo la fedeltà alla ragione e alla sua autonomia conoscitiva ed etica porta ad enfatizzare l'educazione del e al senso critico. Similmente l'educazione si qualificherà essenzialmente come educazione «scientifica», nel senso che cercherà di utilizzare e di far propri i contenuti, i metodi e le procedure della ricerca scientifica. Da questo punto di vista è tipico di questo indirizzo una adesione entusiasta ai metodi educativi e alle tecniche didattiche delle cosiddette «scuole nuove».
    Parallelamente è sentita fortemente l'esigenza di passare dalla pedagogia tradizionale, in cui spesso asserzioni filosofiche si mescolavano ad affermazioni infondate o di senso comune, ad una vera scienza dell' educazione.
    È appena da notare come le critiche mosse alle prospettive antropologiche dell'ideologia dei progresso (e di quella del cambio) possano essere trasferite, almeno come rischio, anche a questo indirizzo pedagogico.

    4.2 La pedagogia degli anni '70 tra critica e liberazione

    La contestazione giovanile e studentesca che esplose nel '68 e che ha segnato profondamente i processi della realtà giovanile per circa un decennio, ha avuto l'effetto di mettere in crisi i precari equilibri che gli indirizzi pedagogici degli anni precedenti avevano inteso instaurare. Negli anni immediatamente vicini al '68, parallelamente alla caduta verticale della ottimistica fiducia in un illimitato progresso prima e poi in un globale cambio strutturale del sistema sociale, sono state messe in questione le speranze riposte nelle possibilità di progresso, di cambio e di promozione personale e sociale attraverso l'azione educativa.

    4.2.1. La «morte della scuola» e della pedagogia tradizionale

    Alla scuola in primo luogo, ma anche alla famiglia, alle associazioni, alla Chiesa, allo Stato si è imputata la pesantezza di un clima autoritario; l'assenza di socialità; la burocratizzazione e l'impersonalità dei ritmi vitali e dei rapporti interpersonali e interistituzionali. A esse si è mossa l'accusa di ottundere i cervelli con il nozionismo e una educazione depositaria; di essere strumenti di repressione psicologica; di risolversi nella traduzione istituzionale di meccanismi di riproduzione culturale e di discriminazione sociale.
    L'ipotesi radicale della morte della scuola e della famiglia in vista di una società descolarizzata e senza padri, protesa verso forme conviviali e fraterne, è venuta ad assumere le forme di utopia concreta.
    Allo stesso modo la pedagogia e in genere qualsiasi teoria riguardante l'educazione sono rifiutate perché considerate scienza borghese, strumento ideologico asservito al potere dominante e ai fini dello status quo, sovrastruttura alienante di un sistema che manipola la generazione in crescita per obiettivi che non sono la liberazione e la felicità dell'uomo, ma gli interessi economici e politici della classe dominante.
    Al limite si teorizza la «morte» della pedagogia come scienza e come momento teorico a sé stante, per una totale «politicizzazione» teorica e pratica dell'impegno educativo.
    Ma anche quando la negazione della pedagogia non si fa totale, l'istanza della critica all'esistente e quella della innovazione emancipatrice e liberatrice sembrano caratterizzare in maniera decisiva H modo di intendere l'educazione: pur nella ovvia diversificazione di prospettive, legate alle diverse matrici teoriche cui si fa capo.
    Alla luce della concezione materialistica della storia, risalente a Marx e alle molteplici «riletture» neomarxiste (scuole di Francoforte e soprattutto Marcuse prima e poi J. Habermas), si continua a vedere come unica possibilità della pedagogia quella di essere una forma specifica di critica sociale, incentrata sulla cultura pedagogica veicolata e interiorizzata attraverso i processi educativi.
    Un'altra fonte di stimolazione critica viene dalla psicoanalisi freudiana soprattutto per la sua lettura del sociale e del culturale visti come frutto dei meccanismi di difesa o delle inibizioni collettive, messe in atto per arginare le spinte pulsionali incontrollate.
    In tal modo, oltre che come specifico contributo di tipo psicologico alla problematica educativa e come istanza antiautoritaria in educazione, la psicoanalisi agisce come strumento critico per la demistificazione dei mascheramenti inconsci e delle costruzioni reattive, di cui si serve la produzione ideologicopedagogica. In questa prospettiva di critica e di aspirazione innovativa globale, non è probabilmente da sottovalutare la ventata rinnovatrice portata dal Concilio Vaticano secondo, anche fuori del campo cattolico.
    La spinta che veniva da esso non solo intaccava quella che tradizionalmente era considerata la forza più resistente al cambio, l'istituzione ecclesiastica, ma allargava la critica anti~onalistica e antiautoritaria a tutte le istituzioni, che frenavano le «speranze» dell'uomo e del mondo contemporaneo: in nome della carica profetica del Vangelo e della istanza escatologica dell'uomo nuovo rinnovato in Cristo.

    4.2.2. Alcune proposte alternative

    Nella pratica educativa e nella ricerca pedagogica spesso queste diverse matrici teoriche si incrociano e, per lo più, fanno da sottofondo ideologico cui si ispirano o cui si rifanno, per la loro giustificazione, le proposte pedagogiche alternative che in diversi contesti si propongono in quegli anni.
    In ambienti tedeschi si parla di una scienza critica dell'educazione, cosi come di una didattica critica, funzionale ad una educazione e ad una comunicazione nonautoritaria.
    Più in generale la pedagogia è chiamata ad operare una continua integrazione tra azione educativa e processi sociali, tra ricerca dell'autonomia e dell'emancipazione soggettiva e l'emancipazione collettiva.
    In ambienti francesi, attenti alle indicazioni della psicoanalisi e dello strutturalismo marxista di L. Althusser, si prospetta una pedagogia istituzionale, che intende collegare il cambio delle istituzioni educative con il più vasto cambio delle strutture e delle istituzioni umanosociali e magari fare della scuola e della classe la cellula di questo processo di cambiamento sociale.
    In questo contesto di interesse per la liberazione dall'oppressione, non solo soggettiva ma dei popoli interi, parallelo alla fine dell'epoca della colonizzazione diretta e all'emergenza del terzo mondo, si può qui richiamare la pedagogia degli oppressi del brasiliano P. Freire, che coniuga insieme la liberazione dall'oppressione con l'opera di alfabetizzazione e coscientizzazione, attuata attraverso il metodo dialogico e una educazione comunitaria.
    Ispirazione cristiana, personalismo comunitario di E. Mounier, dialettica hegeliana e marxista, psicologia umanistica, linguistica, ispirano e sorreggono, come quadro di riferimento o come strumentazione intellettuale, una ricerca educativa intesa come pratica della libertà, in stretta aderenza alle possibilità inedite d'azione contenute nel contesto culturale in cui si opera.

    4.3. Le «riforme» tra animazione e formazione delle intelligenze

    Al momento del cambio rivoluzionario è successo ben presto quello dell'innovazione riforntistica, secondo diverse prospettive e lungo diverse direttrici.
    L'attenzione è stata posta principalmente sulla scuola e sul rapporto educativo e didattico. Ma i riflessi delle posizioni, che venivano via via prese in questa sede, si ripercuotevano nella vita e nella dinamica dei gruppi, nella condizione delle associazioni, nei rapporti familiari.
    Stampa, cinema, televisione, radio magari attraverso una comunicazione spesso caotica e contraddittoria si incaricavano per parte loro di sostentarne l'opinione pubblica.
    Le proposte educative, in questi anni, hanno spesso fatto «notizia».
    Da parte marxista e socialista si è lottato per l'uguaglianza, delle opportunità educative, per una gestione sociale e democratica della scuola, per la partecipazione delle diverse componenti sociali alla gestione della scuola, per il collegamento con il territorio. Su questi temi si è spesso incontrata, almeno sul terreno della pratica, con la più avanzata pedagogia cattolica (che magari parlava di «persona» e di «comunità»).
    Per altro verso, indirizzi di pedagogia di diversa estrazione ideologica, sulla scia di modelli emergenti in ambienti anglosassoni, hanno battuto le vie del decondizionamento psicologico e si sono fatti promotori di una pedagogia nondirettiva, e non repressiva, che esaltava la spontaneità e la creatività dell'educando in vista dell'autorealizzazione personale. I contributi della psicologia e della psicoanalisi, accoppiati a quelli della dinamica di gruppo e alla sua funzione di socializzazione, hanno dato luogo alle esperienze delle «scuole aperte», delle «scuole senza pareti», delle «scuole senza cattedra», dell'insegnamento collegiale (team teaching).
    In una nuova era di «puerocentrismo», la crescita dei ragazzo e il suo apprendimento sono stati posti al centro delle attenzioni educative.
    L'attenzione pedagogica si è spostata dall'insegnamento all'apprendimento, dall'insegnante all'allievo.
    A livello sociale si è parlato enfaticamente di protagonismo giovanile. L'azione educativa più che come intervento plasmatore è stata ricompresa piuttosto come opera di animazione del sociale, in senso di promozione della consapevolezza cuiturale, della interazione sociale e della comunicazione intersoggettiva. Per cause svariate, alle buone intenzioni non sempre ha corrisposto la realtà. L'istanza antiautoritaria è spesso scaduta nel lassismo permissivista; lo spontaneismo nella inconcludenza; il protagonismo nei lacci della colonizzazione culturale o in quelli della logica consumistica.
    Per tali motivi la pedagogia più recente ha cercato di battere le vie della competenza, contro il burocraticismo tradizionale e contro i guasti dello spontaneismo recente senza regola.
    A tale scopo si è cercato ausilio per un verso presso la tecnologia e per altro verso si è sottoposto l'insieme delle procedure educative e didattiche ad una forte spinta di razionalizzazione operativa.
    Si è cercato di introdurre nella scuola così come nella catechesi, le nuove tecnologie educative, le tecniche del microteaching e del masterylearning, in vista di un apprendimento individualizzato, padroneggiato e sviluppato di se stesso.
    Allo stesso tempo si è cercato di analizzare in modo sistematico l'interazione verbale e non verbale della classe, H comportamento degli allievi e degli insegnanti.
    Si è avuto una certa ripresa e rivalutazione della funzione dei documenti visti come organizzatori dell'apprendimento degli allievi.
    Si è parlato per questo di «industria dell'insegnamento» (Richrnond), nel senso positivo di applicazione a questo settore dell'esistenza (così come è avvenuto in altri settori, quali lo sport, il turismo, il tempo libero), di quei criteri di sistematicità e divisione razionale del lavoro che sono propri delle conquiste industriali del mondo contemporaneo.
    Allo stesso modo l'istanza di programmazione e di controllo della attività educativa e didattica, intende adeguare il mondo educativo allo sviluppo scientifico,tecnologico contemporaneo e allo spirito della programmazione economica e tecnologica.
    Sempre più forte si è fatto pure l'influsso della cibernetica, della telematica e delle scienze dell'informazione in genere. Anzi si può forse dire che esse hanno preso il sopravvento, in termini di incidenza, sulle pedagogie più progressive.
    A ben vedere si fa strada una concezione della scuola e della educazione che non mette più in primo piano la funzione della socializzazione e dell'inculturazione dei ragazzi, ma vi mette la formazione delle intelligenze e lo sviluppo padroneggiato delle conoscenze.
    L'attenzione si focalizza non sulle pulsioni istintive e attive del ragazzo, ma sul pensiero, visto in primo luogo come un «apparato» di organizzazione concettuale della realtà: quasi un «computer» naturale, da formare, da far funzionare in modo ottimale e in tal modo capace di corrispondere adeguatamente alle stimolazioni e alle provocazioni dell'ambiente. E magari proprio per questo si riafferma la separazione della scuola dalla vita e dal contesto sociale, non in funzione di distacco ma di simulazione scientifica, come se si fosse in un laboratorio o in una fase di installazione di un congegno elettronico.

    4.4. Apprendere il futuro

    L'istanza di promozione personale (= «l'apprendimento compete ad essere»), di adeguatezza scientificotecnologica e di esplorazione delle possibilità della intelligenza umana, qualificano pure il mondo della politica sociale riguardante l'educazione, sia a livelli locali sia a quelli nazionali sia a quelli internazionali.
    Espressione tipica di queste prospettive può essere considerato già il cosiddetto Rapporto Faure pubblicato dall'UNESCO nel 1972/73.
    Esso vuole per il futuro una educazione sostanziata di un umanesimo scientificotecnologico, in un quadro di educazione permanente, di società educante, di gestione sociale della scuola. Esso è subito diventato la piattaforma comune a tutte le pedagogie che vogliono essere all'altezza dei tempi.
    Se è vero che con il farsi evidente della crisi economica e culturale, nella seconda metà degli anni settanta c'è stato come si è detto un ripensamento di questo ottimismo pedagogico, è pur vero che non è venuta meno del tutto la fiducia in quel «capitale invisibile» (Gozzer) costituito dalle possibilità dell'intelligenza umana adeguatamente formata.
    Se ne può avere una precisa testimonianza nel V11 Rapporto (1980) del Club di Rorna, la fondazione scientificoumanistica fondata nel 1968 da A. Peccei, che si serve delle ricerche dell'Istituto di Tecnologia del Massachussets (MIT).
    Il rapporto si intitola: «apprendere il futuro». Secondo gli estensori del rapporto l'ipotesi di una catastrofe ecologica e di una crisi globale di civiltà richiedono di affrontare in modo nuovo le problematiche mondiali. Il «fattore uomo» è sempre più importante nonostante l'avanzamento tecnologico. Ma esso deve essere accuratamente formato. Ciò richiede di porre in modo nuovo tutta la formazione, centrandola più sul futuro che sul passato. La ricerca e la politica educativa dovranno rivolgersi verso la scoperta e l'attivazione delle possibilità insospettate e inesplorate che esistono nell'uomo e verso la individuazione di strategie formative che puntino ad un apprendimento capace di previsione, anticipazione, responsabilizzazione sociale di fronte ai problemi che la storia presenta.
    Nonostante tutto, la fiducia nella educazione come fattore primario di innovazione e di risposta alla crisi sociale, sembra quindi costituire una sfida per la ricerca e la politica degli anni '80.

    5. PER UNA PRESA DI POSIZIONE CULTURALE E OPERATIVA

    5.1. Tra pluralismo e riduzionalismo antropologico

    A loro modo la crisi e i movimenti di pensiero, che si sono mossi * realisticamente» entro di essa durante i difficili anni '70, hanno dato voce e vigore a istanze umane irrinunciabili piuttosto mortificate nel recente passato o poco considerate nelle immagini di uomo prevalenti negli anni precedenti: le istanze della individualità e dell'interiorità personale o delle relazioni interpersonali e amicali, rispetto all'invadenza del pubblico, del politico, dell'ideologico o del cosidetto oggettivismo scientifico; oppure le istanze del mondo emozionale e inconscio, rispetto ad una rigida e astorica supremazia di una coscienza e di una razionalità troppo «chiare e distinte», fonti e vittime, allo stesso tempo, di spinte autoritarie, repressive e antiemancipatorie.
    D'altra parte queste stesse espressioni di pensiero sembrano spesso assumere un carattere di costruzioni reattive, cioè sembrano ricalcare seppure in senso diametralmente opposto gli errori di cui accusano le ideologie forti del recente passato: l'intolleranza delle posizioni, l'assolutezza delle affermazioni, l'unilateralità delle spiegazioni.
    E ciò perché pur spiegando il reale non spiegano tutto il reale.
    Infatti il loro fissarsi sulle urgenze del presente rischia di far perdere di vista l'insopprimibile dimensione di passato e di futuro pur esistenti nel presente e nel vissuto.
    Allo stesso modo l'impietosa messa a nudo dei limiti umani può portare a misconoscere le reali capacità e potenzialità delle libere decisioni volontarie, per quanto si voglia ristrette e «sotto condizione» (Mounier ); i movimenti attivi dello spirito individuale e collettivo; le capacità della memoria del singolo e delle collettività, della fantasia progettuale e creatrice di ognuno e di tutti, della conoscenza veritativa e delle forze d'amore, che alla prova dei fatti si rivelano spesso come serbatoi di energie superiori ad ogni previsione. Così ad insistere troppo nel dare «la parola alle cose» esistenti e non alle vane conclamazioni ideologiche si può finire con il negare anche i movimentì «oltre» l'esistente che pure si trovano nel reale, almeno a livello esigenziale. Da questo punto di vista il pensiero cristiano, alla luce della visione biblica dell'uomo «immagine di Dio» e dell'umanità rinnovata nel Cristo, ha fortemente criticato le immagini di uomo emergenti nell'età moderna e contemporanea, perché, in diverso modo e sotto aspetti diversi risultano riduttive della gamma di possibilità che sono dotazione indiscussa della condizione umana. Invece dell'uorno, sembrano spesso delineare e prospettare un misero «hornunculus» (V.E. Frankl).
    È importante quindi, nella formazione di un preciso quadro di riferimento per l'azione educativa, tener presenti le esigenze di fondo. Tentiamo di precisarne alcune.

    5.1.1. Quadro di riferimento per l'azione educativa

    ^ Ciò che colpisce di più nell'uomoindividuo e collettivo, è la complessità, nell'essere e nell'operare; ma insieme una fondamentale unità e continuità, ricca di articolazioni e espressioni (pur nel bagaglio, più o meno abbondante, di contraddittorietà, di scompensi, di disarticolazioni, di squilibri, ecc.).
    Da ciò il primo e basilare criterio: è necessario assumere un'immagine di uomo che tenga conto di tale complessità, contraddittorietà, unità, storicità, impegno di realizzazione: i dati dell'esperienza comune costituiscono il punto di partenza a cui si dovrà ritornare e con cui ci si dovrà confrontare dopo ogni costruzione teorica.
    ^ Il secondo criterio è un po' corollario del primo: non bruciare tale complessità attraverso affermazioni riduttivistiche.
    Ciò è particolarmente importante in sede educativa. Se è vero infatti che l'immagine dell'uomo si rispecchia nella concezione che si ha della educazione, sarà pure vero che ad una immagine riduttiva dell'uomo seguirà facilmente una concezione distorta dell'educazione, ridotta di volta in volta, ad esempio:
    - a puro allevamento e addestramento, da certe forme di radicale biologismo antropologico;
    - ad addestramento e apprendimento, da certe forme di radicale comportamentismo o fenomenismo; ad educazione intellettuale, da certe forme di razionalismo;
    - ad educazione morale o forme di pietismo pedagogico, da certe forme di spiritualismo o idealismo;
    - ad educazione sociale o a semplice socializzazione, da certe forme di sociologismo;
    - a puro decondizionarnento psicologico ed ambientale, da certe forme di radicale spontaneismo psicologico.
    ^ Infine un terzo criterio, consistente nell'affermazione di un legittimo pluralismo nel sistemare, organizzare, interpretare questi fondamentali dati dell'esperienza comune in modelli antropologici particolari.
    È infatti da prendere coscienza che la costruzione di una visione antropologica è sempre in qualche modo conseguente ad un processo ermeneutico. t cioè frutto di una attività interpretativa più o meno laboriosa e riflessa, in cui entrano in gioco sia il mondo delle precomprensioni soggettive (ciò che uno pensa al momento, a seguito della propria formazione, dei proprio bagaglio culturale, della vicenda storica che ha passato) sia le attese che si hanno nei confronti della realtà, così come essa è colta e così come essa si desidera e si vuole che diventi, sia a livello individuale sia a livello collettivo. Con E. Husserl, il fondatore della fenomenologia, si può dire che il mondo della vita è più grande di quello delle sue concettualizzazioni; ed è quindi passibile di molteplici punti di vista ideali, che non si oppongono necessariamente e totalmente.
    Del resto la possibilità del pluralismo discende pure dal concetto stesso di modello teorico.
    Esso indica una costruzione meritale che sistematizza i dati di esperienza in forma unitaria e articolata attorno ad una (o più) idea o valore, al fine di avere una visione organica e globale della realtà che si intende osservare o su cui si vuole intervenire.
    Tutto ciò avviene a spese di una certa astrattezza, artificiosità e semplificazione della complessità reale o per lo meno con il privilegianiento di un aspetto piuttosto di un altro. t facile quindi che i modelli teorici rischino di cadere in affermazioni unilaterali o pecchino di esorbitanze o sbilanciamenti eccessivi.

    5.1.2. Pietre di paragone

    L'affermazione della legittimità di un pluralismo di modelli d'uomo sembra essere tipica di questa nostra età «postmoderna», che ha imparato dalla crisi a far spazio alla differenza, alla diversità, all'alterità, al limite, all'altemativo, all'oltre e all'ulteriore.
    D'altra parte cioè non vuol dire ammissione di relativismo o di storicismo: sarebbe un altro assoluto! Ma neppure significa omogeneizzazione e equivalenza di tutto.
    Ci sono infatti, per cogi dire, delle pietre di paragone reali che soppesano e misurano la forza di quanto si viene affermando.
    ^ Si può segnalare in primo luogo la rispondenza e l'adeguatezza all'uomo e al ragazzo reale, cioè alle persone concrete, materialmente individuate, storicamente deterrninate, geograficamente situate; e di conseguenza ai gruppi sociali, in cui le persone sono concretamente inserite.
    Come la legge, così anche le idee sono per l'uomo, non viceversa.
    ^ In secondo luogo, oltre che per la fedeltà all'uomoragazzo reale, i modelli antropologici e pedagogici reggono nella misura in cui sanno essere aderenti alla realtà e alle esigenze dello sviluppo storico (sociale, politico, economico, culturale, religioso), ed in particolare al parallelo sviluppo culturale, scientifico e tecnologico.
    Non basta che siano formalmente corretti e logicamente espressi, se poi risultano sfalsati di secoli o parlano un linguaggio incomprensibile all'uomo attuale.
    ^ In terzo luogo, d'altra parte, la fedeltà alla storia non significa idolatria dell'esistente. 1 modelli dell'uomo e della sua crescita devono corrispondere anche alle attese e alle speranze dell'uomo storico.
    In questo senso si può parlare di una necessaria fedeltà al futuro dell'uomo; e secondo il pensiero religioso al movimento di trascendenza che qualifica la sua esistenza e non fa essere la sua libertà ultimamente una «passione inutile» (Sartre).
    ^ Per il credente infine esiste un ultimo indice di validità; ed è quello della fedeltà a Dio, al Vangelo, alla vita comunitaria ecclesiale, alla prassi di fede.
    Un modello che non lasciasse spazi alla possibilità di un rapporto religioso con il trascendente (= immanentismo) e chiudesse interamente l'uomo e il suo destino entro le coordinate spaziotemporali (= storicismo), magari negando anche una qualsiasi possibilità di spiritualità (= materialisino), non si vede come potrebbe essere assunto da un credente. Se poi le concezioni antropologiche o pedagogiche non riuscissero a trovare integrazione, o per lo meno un rapporto, per quanto si voglia dialettico, con la fede in Cristo e il suo Vangelo, è chiaro che si rischierebbe da parte di un cristiano la schizofrenia della vita.

    5.2. I cristiani e l'animazione della cultura

    Nei riguardi dei modelli antropologici e pedagogici, non si tratta solo di dare un giudizio e di arrivare ad una presa di posizione critica. Infatti essi non sono del tutto esterni a noi, né noi a loro.
    L'immagine dell'uomo e dei suo destino costituiscono una parte rilevante della cultura (cioè dell'insieme di idee, valori, norme, modelli di comportamento, tecniche che un gruppo storico costruisce e possiede per poter leggere la propria vicenda storica, comunicare e intervenire sul proprio ambiente vitale). Nella misura in cui partecipiamo alla vicenda storica partecipiamo anche alla cultura della società cui apparteniamo. Attraverso i processi di socializzazione, di inculturazione, di educazione ne siamo stati messi a parte. Bisognerà quindi così come si dovrebbe fare per ogni prodotto che ci viene dai processi formativi non solo assumere cultura, o consumarla, ma fare cultura, cioè personalizzarla, reinterpretarla, innovarla, trasformarla e se c'è bisogno cambiarla, affinché sia sempre un mezzo adeguato alla vita comune e alle sue esigenze presenti e future.
    In questa opera i credenti, invece di chiudersi nel loro ghetto, sono chiamati a svolgere quel compito di animazione che, come ci dice la Lettera a Diogneto, è la caratteristica dei cristiani che vivono nel mondo: non avendo città proprie, ma operando il bene nella città di tutti, vengono ad essere come l'anima del corpo sociale.
    La cultura è certamente un luogo dove i cristiani possono continuare l'opera del Cristo e riscrivere ogni giorno il suo Vangelo.
    Ma che fare in concreto? Su cosa agire in particolare? Nessuno ha le ricette tutte belle e pronte e adatte per ogni situazione.
    Senza pretesa di esaustività, vorrei provare ad indicare alcune vie privilegiate per l'animazione del culturale da parte del credente.

    5.2.1. Per una cultura della vita e della promozione umana

    Si è detto che la pietra di paragone di ogni costrutto ideale è l'uomo reale.
    Sarà quindi da lavorare anzitutto sul terreno della liberazione e della formazione umana individuale e collettiva, così come sul terreno della ricerca di una migliore qualità della vita.
    Come il Papa ha ricordato, l'uomo è la prima via della chiesa: una via da percorrere, forse da ricostruire o addirittura in molta parte da suscitare.
    Oggi, in particolare sarà da andare alle sorgenti dell'umano.
    La minaccia della catastrofe ecologica, l'attentato alla vita individuale e collettiva, la spersonalizzazione invadente sono alcuni dei luoghi in cui operare, cercando idee, valori, norme, modelli, strumenti, cioè in definitiva una cultura, che sia adeguata ai bisogni reali.
    E già a livello personale sarà da imparare a riascoltare i segni della vita, i suoi movimenti, le sue spinte, le sue pulsioni, le sue aspirazioni. Bisognerà capacitarli a sentirla pulsare in noi ed empaticamente negli altri, attorno a noi, in tutta la sua complessità e molteplicità di manifestazioni.
    D'altra parte sarà da comprenderla e portarla, a tutti i livelli, alla sua pienezza soggettiva, personale, collettiva. Per il cristiano questa pienezza è ben oltre il cosmo ed è commisurata con la statura del Cristo totale, del Cristo risorto, che è diventato il capo del corpo che è la Chiesa e la primizia di tutti i viventi.
    In tal senso aver paura della vita è l'esatto contrario della volontà di Dio, e della incarnazione del Cristo, che è venuto «perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza».
    Più esattamente c'è da aver paura dei segni di morte, degli istinti di aggressività e di noninnocenza che alla vita si oppongono e che sarebbe sciocco far finta che non esistano o lasciarli a briglia sciolta.

    5.2.2. La partecipazione ai movimenti culturali

    Per tanti motivi, in gran parte di ordine storicopolitico, i cristiani precedenti alla nostra generazione hanno spesso sofferto del complesso «antimoderno», quasi che tutta la cultura moderna e contemporanea in quanto prodotta da forze che si muovevano in senso anticlericale o antiecclesiastico fosse da considerare negativamente o addirittura da rigettare in blocco. Spesso si è arrivati a far la figura dei tradizionalisti e antimodernisti ad oltranza. Il Concilio Vaticano Il ci ha liberato da questa situazione.
    Mettere in luce i limiti delle produzioni storicoculturali è segno di quella funzione critica che è tipica del cristiano. Ma in pari tempo cogliere i valori universali presenti in esiti ed espressioni particolari, e magari parziali, è indice di una lettura attenta ai segni dei tempi.
    In questo, come nel resto, la funzione profetica del cristiano non è solo di critica, ma anche di stimolo, di integrazione, di promozione.
    Tutto ciò impone all'animatore per un verso una buona conoscenza dei movimenti culturali (ideologici, filosofici, artistici, letterari) presenti nella propria cultura e per altro verso un ascolto vigile e approfondito di essi, in quanto potrebbero essere luoghi privilegiati della voce e della volontà di Dio per il nostro tempo.
    D'altra parte in questo lavoro non c'è da cominciare da zero. Lo si potrà fare con frutto se ci si saprà collegare con la tradizione cristianaecclesiale, sapendo scegliere, come dice il Vangelo, dal suo tesoro cose nuove e cose antiche.
    Se è vero che la Chiesa è «sparsa» tra le genti è pure vero che è «insediata» da quasi due millenni nella nostra storia.
    Si è formata una tradizione, meglio, delle tradizioni cristiane o più esattamente cristianeculturali (di usi, costumi, modelli di comportamento, idee, valori, ecc.).
    Ne abbiamo spesso sperimentato sulla viva pelle la pesantezza e talora persino l'oppressione. Senza quindi assoluti7=Ie e con una buona dose di vigilanza critica, tali tradizioni possono costituire un utile «codice» per interpretare fatti ed eventi e operare nel proprio ambiente.
    In particolare sarebbero da considerare attentamente le immagini di uomo che il pensiero, cristianamente ispirato, ha prodotto lungo i secoli e in questi ultimi anni (dalle forme di «filosofia perenne», tornista, agostiniana, alle antropologie che si richiamano a PascaI, Blondel, Kierkegaard, Rosmini, Maritain, al personalismo di Mounier, di Guardini, alla teologia nella speranza, della liberazione, della croce, ecc.; oppure al recente magistero conciliare e papale, o delle chiese locali, sull'uomo e il suo destino).

    5.2.3. La via della scienza e della tecnologia

    Un altro lavoro da fare a livello personale e a quello di socializzazione della cultura riguarda la natura e il senso della scienza e della tecnologia nell'insieme della cultura.
    In termini tecnici si potrebbe dire che occorre arrivare a formarsi una corretta epistemologia, cioè una concezione critica della scienza e della tecnologia.
    La scienza attuale non ha certo pretese di monopolio. Anzi in primo luogo esalta il suo carattere di operatività e di manipolazione modellistica sul reale. Riconosce, oltre le proprie procedure, altri approcci alla realtà e altri linguaggi, dichiarativi e comunicativi di verità, di problemi, di stimolazioni conoscitive.
    La metafisica e la religione possono animare addirittura la ricerca: possono diventare «aurora di scienza». Si vorrebbe ricordare che altrettanto è la scienza per la vita di fede. Vale in questo, quanto pregava S. Agostino: «Signore, ti prego, che io creda perché intenda: che io intenda perché creda». La povertà e la sobrietà della fede ne acquisteranno, ma anche la qualità umana di essa.
    E pure vero che nei confronti della mentalità comune c'è ancora qualcos'altro da fare. Se infatti lo scientismo a livello di ricercatori e di scienziati è in gran parte svanito, forse permane nell'opinione pubblica una sorta di scientismo pratico; cioè una fiducia assoluta e acritica nelle affermazioni scientifiche; in particolare in quelle delle scienze umane (psicologia, sociologia, antropologia, scienze della comunicazione, ecc.).
    Il lavoro da fare, senza negare la validità dell'apporto, sarà proprio di spezzare questo residuo di scientismo, sia in termini di esaustività ( la scienza e le scienze umane non riescono a dire tutto dell'uomo), sia in termini di univocità (la fede, la filosofia, l'intuizione empatica, il senso comune possono scoprire aspetti dell'uomo e avere delle ragioni che nessuna scienza riesce ad affermare).
    D'altra parte è da riportare la scienza alla sua radicale ragion d'essere (la scienza per l'uomo) e al suo radicale soggetto: l'uomo, individuo e gruppo, che conosce, comprende, opera nella realtà attraverso la scienza, la tecnica; ma non solo, non sempre e non totalmente attraverso essa.
    La tecnologia oggi è uno stimolo allo stesso sviluppo scientifico. Conoscerne la logica, saperla utilizzare a fini pratici, può dar efficacia storica alla propria azione. Ma potrà far toccare con mano come la tecnologia possa essere non tanto nemica ma piuttosto «alleata dell'uomo», come ha detto il Papa nella sua enciclica Laboreni exercens.

    5.2.4. Per una cultura pedagogica

    L'animazione è un fatto eminentemente pratico. Il suo miglioramento è certo collegato all'acquisizione di adeguate metodologie e tecniche d'animazione, così come alla capacità di saper ritornare e riflettere sulla esperienza propria ed altrui. là pure certamente di valido aiuto un buon bagaglio di conoscenze psicologiche, sociologiche, antropologiche, comunicative; come anche la recensione di valide e consolidate forme di sperimentazione.
    Ma la storia recente dell'educazione ha messo in luce l'insostituibile apporto di una soda teoria e di un organico quadro di valori, che facciano da quadro di riferimento per l'azione educativa concreta.
    Un tale quadro teorico richiede una buona cultura generale, e in particolare quella che potremmo dire propriamente una buona cultura pedagogica: cioè la conoscenza delle idee, delle prospettive, dei modelli, oltre che delle metodologie e delle tecniche, che in materia di educazione circolano nel proprio ambiente culturale e a livello internazionale o mondiale.
    Essere aggiornati in proposito è un obbligo morale per ogni animatore: almeno per quanto è nelle personali e concrete possibilità. Favorirne l'acquisizione attraverso opportune forme istituzionali (corsi, incontri, pubblicazioni, allestimento di materiali, ecc.) è compito doveroso delle comunità e dei centri di formazione. Alle comunità e ai singoli si impone pure il dovere, per quanto loro spetta, di stimolare e i proposito l'opinione pubblica: fino ad ipotizzare la creazione di movimenti d'opinione sui problemi educativi, perché ne va del futuro dell'uomo.
    In particolare c'è da formarsi a pensare e ad agire, cioè a saper vedere le cose e ad operare, secondo una logica educativa. Infatti, un educatore non conosce per conoscere, ma per educare, per ani mare, per agire insomma. In tal senso è un pratico. Di ciò che viene conoscendo cerca subito il risvolto o la traduzione operativa.
    Non si lascia abbacinare dall'esistente, ma lo forza persino in senso di futuro e di valore. In questo è un uomo della speranza.
    Ma tutto ciò è focalizzato sulla crescita e lo sviluppo di persone libere e responsabili. II termine della sua azione è in primo luogo il mondo della libertà e della crescita personale secondo valore; e in vista di ciò si interessa di quelle che sono le condizioni di possibilità: perché non si cresce come persone, fuori del mondo, della storia, della vita civile, sociale, economica, politica, religiosa, ecclesiale. Per così dire, il bersaglio è la persona; il riferimento è alla realtà circostante in cui si producono i processi di formazione. Non è in primo luogo un politico, un antropologo. Studia e si impegna politicamente, ma perché sa che ciò è il prolungamento della propria azione educativa. Meglio, collega la propria azione a quella degli altri, ben sapendo che come non si educa da soli, così non si viene al mondo e non si cresce in umanità da soli; e che nella diversità dei ruoli si attua l'azione differenziata, ma comune, della promozione umana.

    5.2.5. La via della fede

    Da parte del credente tutto ciò va d'altra parte inquadrato in un più vasto orizzonte di fede e visto secondo un superiore sguardo di fede; cioè, per così dire, secondo l'angolatura di Dio, che gli si è manifestato nel Cristo e nel suo Vangelo. L'umanità dell'uomo e la sua crescita vanno ricomprese nella linea del Dio ricco di misericordia e del Redentore degli uomini. E ciò, senza bruciare le differenze e le autonomie che questo stesso sguardo di fede proclama per le realtà terrestri e per la vita laicale.
    Allo scopo di rispettare questa indubbiamente non facile dialettica, bisognerà abituarsi a non contrapporre l'umano e il divino, il naturale e il cosiddetto soprannaturale, il profano e il sacro, la materia e lo spirito, il tempo e l'eterno, ma cercare non senza difficoltà, teorica e pratica di cogliere l'eterno che è nel tempo, lo spirito che è nella materia, il sacro che è nel profano, e, viceversa, di arrivare alle radici eterne del tempo, allo spessore spirituale della materia, alla sacralità dei quotidiano.
    Il Concilio Vaticano H ha aiutato tutti a rivedere o ricomprendere molte dì queste categorie concettuali che si riversano nella comprensione dell'uomo e nell'azione a favore dell'umano. Ma lo stesso Concilio è una proposta storica che è da rendere carne della propria carne e ossa delle proprie ossa, e inoltre è da far crescere nell'ascolto dei nuovi segni dei tempi, quelli cioè di questi nostri anni '80. Oltre un Concilio che è alle nostre spalle, da conoscere e da attuare, c'è un «Concilio davanti a noi» da rifare, da rivivere, da riploclamare per l'uomo del nostro tempo.
    Ma oltre le parole della multiforme tradizione cristiana, c'è una parola «antica», quella contenuta nei libri, che, nella fede, diciamo «i libri» per eccellenza: la bibbia.
    L'interrogazione sull'uomo e per l'uomo trova in essi una insostituibile chiave di lettura.
    L'uomo secondo il Concilio rimanda d'obbligo all'uomo secondo la Bibbia, secondo i Vangeli, secondo il Vangelo.
    A questa chiave di lettura il credente e la comunità cristiana dovranno familiarizzarsi prioritariamente, per averne luce sull'uomo e per l'impegno di promozione umana.
    D'altra parte sappiamo che attraverso la parola biblica è Dio che parla e che spiega l'uomo all'uomo. E sappiamo pure, nella fede, che la Parola di Dio, non si lascia chiudere nella parola scritta né in quella tramandata.
    A questa parola vivente meglio al Dio vivente «padre e redentore» dell'uomo si dovrà ritornare se si vuol conoscere e operare per l'uomo e per un umanesimo integrale. Una tale conoscenza e una tale azione ha, tra le sue condizioni favorevoli, l'invocazione, la vita di comunione con Dio e con gli altri, la fede fervida, la speranza fiduciosa, la carità operosa, verso Dio cosi come verso l'uomo.
    Una risposta non insulsa alla questione dei «che fare» per la promozione di una cultura a misura d'uomo, si declina in una testimonianza di fede trepida, consapevole della propria fragilità e della gratuìtà del dono di Dio; nella proclamazione, sobria e delicata, di parole di speranza in risposta al bisogno di senso e di assoluto che è nell'uomo; nell'attenzione fattiva ed efficace ai bisogni dei poveri e dei piccoli, cui aderisce il Cristo risorto: in un ternpo di crisi e di perdita dell'onnipotenza, come è il nostro, ogni giovane e ogni uomo, di qualsiasi condizione sociale esso sia, viene ad essere sempre più omologabile ad essi.

    LETTURE DI APPROFONDIMENTO

    1. Sul problema dell'uomo in genere

    CASSIRER E., Saggio sull'uomo, Armando, Roma 1972.
    COLZANi G., L'uomo nuovo: saggio di antropologia soprannaturale, LDC, TorinoLeumann 1977.
    GESTORI G., L'interrogativo uomo, Brezzo di Bedero, Ed. Salcom, 19801.
    GEVAERT J., 11problema dell'uomo, LDC, TorinoLeumann 19781.
    GEVAERT J., Antropologia e catechesi, LDC, TorinoLeurnann 1973. LADRIERE J., I rischi della razionalità. La sfida della scienza e della tecnologia alle culture, SEI, Torino 1978.
    VALORI P., L'esperienza morale, Morcelliana, Brescia 19751.

    2. Sull'immagine dell'uomo nell'ideologia del progresso e in quella del cambio

    FROMM E., Avere o essere?, Mondadorii Milano 1977.
    GARAUDY R., Prospettive dell'uomo. Esistenzialismo, Cattolicesimo, Strutturalismo, Marxismo, Borla, Torino 1972.
    PALUMBIERI S., tpossibile essere uomo? Progetti e messaggi a confronto, Delioniane, Napoli 1979.
    PERETTI M., Marxismo. Psicoanalisi e Personalismo cristiano, La Scuola, Brescia 1978.
    PIERETTi A. (a cura di), Lo strutturalismo e la «morte dell'uomo», Città Nuova, Roma 1977.

    3. Sui difficili anni '70 e le nuove tendenze in genere

    BASSI P. - PILATI A., I giovani e la crisi degli anni settanta, Roma, Editori Riuniti, 1978.
    BESEGHI E., Condizione giovanile e problernatica educativa, La Nuova Italia, Firenze 1980.
    COLLETTI L., Tramonto dell'ideologia, Laterza, RomaBari 1980.
    - I difficili anni '70, editoriale di «La Civiltà Cattolica», 3109 (5 gennaio 1980), pp. 311.
    - Realizzare insieme un «progetto d'uomo» veramente umano, editoriale di «La Civiltà Cattolica» 3133 (3 gennaio 1981), pp. 314. AA. Vv., Dal '68 ad oggi. Come siamo e come eravamo, RoniaBari, Laterza, 1979.

    4. Sulla cultura radicale

    BAGET-Bozzo G., Il partito cristiano, il comunismo e la società radicale, Vallecchi, Firenze 19761.
    BAGET-Bozzo G., La Chiesa e la cultura radicale, Queriniana, Brescia 1978.
    POSSENTI V., Cultura radicale e società italiana. Matrici e forme storiche, in «Vita e pensiero», 1980, l; pp. 415 l.
    POSSENTI V., Individualismo radicale e coscienza cristiana tra crisi di senso e ricerca dellafelicità, in «Vita e Pensiero», 1980, 2, pp. 40~5 1.
    TEODORI M. - IGNAZI P. - PANEBIANco A., I nuovi radicali, Mondadori, Milano 1977.

    5. Sulla teoria dei bisogni

    DELEUZE G. - GUATTARi F., Rizoma, Pratiche, Parrm 1977.
    HELLER A., La teoria dei bisogni in Marx, Feltrinelli, Milano 1974.
    HELLER A., Per una teoria marxista del valore, Editori Riuniti, Roma 1974.
    HELLER A., La teoria, la prassi, i bisogni, Savelli, Roma 1978.
    MARCUSE M., Saggio sulla liberazione, Einaudi, Torino 1969.

    6. Sul pensiero negativo

    MANCINI I., Come continuare a credere, Rusconi, Milano 1980 (ripre so in: Cultura giovanile: dalla crisi dell'epoca nuova al pensiero negativo, «Il Regnoattualità», 1981, n. 14, pp. 323334).
    MORRA G., La cultura cattolica e il nichilismo contemporaneo, Rusconi, Milano 1979.
    VATTIMO, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano 19791. VATTIMO G., Le avventure della differenza, Garzanti, Milano 1979.
    VATTIMO G., Al di là del soggetto, Feltrinelli, Milano 1981.
    SEVERINo E., Gli abitatori del tempo, Armando, Roma 1978.
    MAGRIS C. - W. KAEMPFER (a cura di), Problemi del nichilismo, Brescia, Shakespeare & Company, 1981.
    GOUDSBLOM J., Nichilismo e cultura, Bologna, Il Mulino, 1982.

    7. Sull'ideale cibernetico

    ROSSI P.A., Cibemetica e teoria dell'infonnazione, La Scuola, Brescia 1978.
    SOMENZI V., La filosofia degli automi, Boringhieri, Torino 1965.
    SKINNER B.F., Oltre la libertà e la dignità, Mondadori, Milano 1973. TONINI V., Le scelte della scienza, Studium, Roma 1977.
    PENTIRARO E., A scuola con il computer, RomaBari, Laterza, 1983.

    8. Sulla psicologia umanistica e l'autorealizzazione

    BUHLER C. ALLEN N., Introduzione alla psicologia umanistica, Armando, Roma 1976.
    BERNE E., Ciao!... e poi? La psicologia del destino umano, Bompiani, Milano 1979.
    HARRIS T., Io sono OK, tu sei OK, Rizzoli, Milano 1976.
    MURIEL J. D. - JONGEWARD, Nati per vincere, Paoline, Roma 1980. PERLs F., L'approccio alla Gestalt, Astrolabio, Roma 1977.
    WATZLAWICK P. - J.H. WEAKLAND (a cura di), La prospettiva relazionale, Astrolabio, Roma 1978.
    GEVAERT J., La vocazione umana, in A. FAVALE (a cura di), Vocazione comune e vocazioni specifiche, LAS, Roma 1981, pp. 209222.

    9. Sui modelli pedagogici

    FORNACA R., La pedagogia italiana contemporanea, Firenze, Sansoni, 1982.
    RAVAGLIOLi F., Profilo delle teorie modeme dell'educazione, Roma, Armando, 1979.
    ROVEA G. (a cura di), Educazione e scuola nelle ideologie contemporanee, Brescia, La Scuola, 1982.
    SCURATI C., Profili nell'educazione. Modelli e ideali nel pensiero contemporaneo, Milano, Vita e Pensiero, 1977.
    FAuRE E. (a cura di), Rapporto sulle strategie dell'educazione, Roma, Armando, 1973.
    FREIRE P., La pedagogia degli oppressi, Milano, Mondadori, 19801. MARITAIN ~., L'educazione al bivio, Brescia, La Scuola, 1976".

     

    IL CANOVACCIO

    Per una scuola di giovani animatori

    Franco Floris - Domenico Sigalini


    La utilizzazione del quaderno è allo stesso tempo facile, complessa e affascinante per giovani animatori.

    È facile, come metodo, dato che in fondo si tratta di studiare alcune pagine per sistemare in modo scientifico ed organico informazioni sparse che anche i giovani animatori possiedono sulle «immagini d'uomo». E’ complesso, perché richiede di lavorare sul piano dei concetti e della elaborazione filosofica della esperienza. Per molti animatori, soprattutto se provenienti da studi di tipo tecnico, queste pagine saranno facilmente il primo impatto con una riflessione organica di tipo filosofico culturale. Con i problemi conseguenti. E’ affascinante, infine, perché tocca da vicino quel «mondo dell'uomo» e quella domanda sulla vita a cui i giovani sono fortemente interessati, anche se mancano di quadri concettuali per riflettervi in modo sistematico. Il quaderno offre a loro proprio questi quadri e informazioni di base per entrare e muoversi in un mondo importante per chi vuole fare animazione e quindi elaborare con i giovani modelli di vita rispondente alle proprie attese e bisogni, ma tali da superare possibili scompensi e riduzioni. Dopo questa premessa non resta che indicare alcuni strumenti di lavoro, come aiuto allo studio del quaderno.

    ANZITUTTO GIUSTIFICARE L'APPROCCIO DISCIPLINARE E IL TEMA

    Poiché il quaderno procede con un linguaggio filosofico per far emergere le visioni generali della vita e del mondo, occorre in primo luogo giustificare il linguaggio e il tema di fronte al giovane animatore. Suggeriamo alcune piste operative da utilizzare a seconda dei casi.
    - Si può partire dalla analisi dei testi di alcuni cantautori di oggi facendo individuare dagli animatori il modello di uomo sottostante. Si può anche ipotizzare il confronto tra i testi di cantautori degli anni '80 e cantautori del cosiddetto '68. Allo stesso modo si può partire dallo studio di testi rappresentativi della ideologia del progresso o del cambio polìtico strutturale (ad es., testi di Che Guevara o Mao) e paragonarli con testi di autori del «riflusso» o della «crisi».
    - Altro punto di partenza: il confronto tra gli slogan del cambio rivoluzionario e gli slogan della crisi. I primi li riportiamo in una finestra a pag. 29. 1 secondi vanno ricercati. Di questi ultimi ne ricordiamo due, come esempio: «t un momentaccio» (Torino), «Dalla lotta continua, alla continua apatia» (Roma).
    - Allo stesso modo si può lavorare sulle lettere dei giovani alla rivista Dimensioni Nuove, scegliendole nell'arco di 10/ 12 anni. Si può anche ricorrere ad alcune «storie di vita» riprese dalla viva voce dei giovani. Ad esempio si veda: G. Milanesi (a cura di), Oggi credono così vol. 11, LDC 1981. Ed anche: E. Ferri, Contro il padre, Mondadori 1983.
    - Altro punto di partenza: il progetto di uomo che l'animatore ha in mente o implicitamente utilizza con i giovani. Si può anche non essere consapevoli, ma non si può non averne uno, povero fin che si vuole. Quale?
    Si può chiedere ad ogni animatore di mettere giù qualche riga, poi ci si confronta a piccoli gruppi ed infine in assemblea.
    In un secondo momento si può provare a indicare a quali altri progetti d'uomo (della famiglia, della società, dei mass media, della scuola ... ) il progetto dell'animatore intende opporsi.
    Dopo questo momento (o momenti) di sensibilizzazione si può concludere con una duplice esigenza: «chiamare le cose per nome» e quindi individuare con precisione i vari modelli di uomo; collocare in un quadro organico, sia in chiave diacronica che sincronica, i vari modelli.
    Può essere utile far notare la continuità e insieme discontinuità tra i quaderni 12 e 13 e questo quaderno.

    «LA FANTASIA AL POTERE» - SUI MURI Di PARIGI NEL MAGGIO '68

    Riportiamo alcune scritte comparse sui muri di Parigi e dintorni nel maggio '68. Sono simboli di una «immagine d'uomo» centrata sull'utopia e sul cambio politicostrutturale
    - Non ci saranno più ormai che due categorie di uomini: i pecoroni e i rivoluzionari (Educat. Surveillée)
    - Se è necessario ricorrere alla forza non state in mezzo (Sorbonne)
    - Essere liberi nel '68 significa partecipare (Scala di Scienze Politiche)
    - Cambiate la vita, cambiate il suo modo di impiego (Rue Rotrou0cIéon)
    - Per le strade che nessuno aveva intrapreso rischia i tuoi passi. Nei pensieri che nessuno aveva pensato rischia la tua testa (Scala Hafi.Ociéon)
    - Niente rabberciature la struttura è marcia (Facoltà di Diritto Assas)
    - Se vuoi essere felice, impicca il tuo padrone (Odéon)
    - Costruire una rivoluzione vuole anche dire spezzare tutte le catene inteme (Facoltà di Medicina)
    - Aprite il vostro cervello tanto spesso quanto i vostri calzoni (Odéon)
    - Non dimenticate mai la lotta di classe (Belle Arti)
    - I giovani fanno l'amore, i vecchi fanno gesti osceni (Condorcet)
    - Abbasso la società spettacolare e commerciale (Belle Arti)
    - Non c'è pensiero rivoluzionario, ci sono soltanto gesti rivoluzionari (Nanterre)

    LA SCHEMATIZZAZIONE DEL QUADRO ANTROPOLOGICO

    Qualche veloce suggerimento sul piano degli strumenti attraverso cui schematizzare, man mano che si procede nello studio, i contenuti del quaderno.
    Lo strumento più ovvio è il cartellone in cui sintetizzare i contenuti sia in chiave diacronica che sincronica. Così ad esempio, la tavola riportata in questa pagina, soprattutto se prima di presentarla si chiede agli animatori di prepararne una simile, permette un interessante lavoro di sintesi e confronto.
    Indichiamo altre due possibili tavole riassuntive.
    - Una tavola può riguardare il confronto tra i tre modelli educativi riportati a pag. 18ss.: personalista, marxista, laico. Indici di confronto: I. caratteristiche generali dell'educazione secondo il modello; 2. proposta centrata sulla maturazione della persona o sul cambio della società; 3. chi sono gli agenti formativi di maggior peso; 4. quali sono le radici filosofiche del modello; 5. attraverso quali slogan si possono esprimere le intuizioni di fondo del modello.
    - Allo stesso modo può essere organizzata una tavola riassuntiva dal titolo: «Immagini d'uomo e modelli educativi dagli anni '50 ad oggi». Sulla colonna verticale, possono essere riportati gli anni (anni '50; anni '60; anni '70; anni '80). Sulla colonna orizzontale invece possono essere riportati: la situazione sociale e culturale; i modelli d'uomo prevalenti; i modelli pedagogici corrispondenti; le innovazioni educative più importanti in quel periodo storico.

    q14 62

    IMMAGINI D'UOMO E GIOVANI

    Il quaderno non affronta se non indirettamente il «come» i giovani hanno vissuto e, in particolare, vivono oggi «dentro» i grandi movimenti culturali. Se da una parte essi sono «i nomadi della cultura» e si muovono con maggiore o minore spregiudicatezza tra i vari modelli d'uomo alla ricerca di una identità personale e dì nuove sintesi, dall'altra rischiano di essere soggetti passivi.
    Un momento nello studio del quaderno dovrà allora essere il ripensamento dei contenuti nella sensibilità dei giovani. Riprendendo gli spunti offerti dai Q12 e 13.
    Come tecnica di lavoro si può pensare a dei mimi o dei pezzi giornalistici umoristici che caratterizzino il giovane nichilista, il giovane radicale, il giovane tecnologizzato, il giovane narcisista...
    Per un lavoro più approfondito si può pensare ad un cartellone in cui sull'asse verticale compaiono i quattro principali modelli d'uomo in circolazione in questi anni, e sull'asse orizzontale le voci: I. valori privilegiati; 2. atteggiamento globale verso la vita; 3. atteggiamento verso se stessi; 4. atteggiamento verso gli altri; 5. atteggiamento verso il politico e il sociale; 6. atteggiamento verso il futuro; 7. atteggiamento verso il religioso.

    q14 63a

    A QUALE IMMAGINE D'UOMO EDUCARE OGGI?

    L'ultima parte del quaderno (paragrafo 5) ripensa i contenuti a partire dall'animazione. Come valutare dal punto di vista educativo i modelli di uomo e in che direzione muoversi per lavorare, anche se con mezzi poveri, per una nuova immagine d'uomo?
    In queste pagine il quaderno si rivolge direttamente agli animatori di gruppi giovanili ecclesiali e a tutti gli educatori di ispirazione cristiana perché si facciano promotori della vita e dell'uomo. Per rispondere alla domanda «quale uomo» il quaderno procede in due tempi: offerta di criteri di valutazione dei modelli; indicazione di alcune «vie» da percorrere come educatori a servizio dell'uomo e della cultura.
    ^ Cominciamo da criterio pietre di paragone. L'autore li riconduce a quattro, come si può vedere nella tavola riportata a pag. 31, dove li si utilizza per una riflessione globale sui vari modelli dal punto di vista educativo (cf pp. 917).
    Una tavola simile può essere pensata per i tre modelli pedagogici: personalista, marxista, laico.
    ^ Dopo aver indicato alcune pietre di paragone, il quaderno si sofferma su «cinque vie» per l'animazione della cultura da parte dei cristiani e, più specificamente, da parte degli animatori. Esse sono: la via della vita, la via della partecipazione ai movimenti culturali, la via della critica valutazione ed utilizzazione della scienza e della tecnologia, la via della fede come forza di umanizzazione, la via della cultura pedagogica che deve possedere chi vuoi fare animazione culturale.
    Come strumento di lavoro può essere utile la tavola riportata a pag. 3 1. Serve, una volta spiegati i contenuti del quaderno, a verificare l'orientamento personale e comunitario nell'animazione della cultura. Compilata la tavola si può discutere sui cambi di marcia che si impongono a livello personale e comunitario.
    La utilizzazione dello strumento prevede di dare un voto in risposta alle varie domande e di collegare con una linea i voti a livello personale e comunitario, in modo da sottolineare la possibile divergenza tra l'attenzione del singolo animatore alla cultura e l'attenzione della comunità ecclesiale di cui fa parte.

    q14 63b


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