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    10. LEGGERE

    LA PAROLA DI DIO

    «DENTRO» IL QUOTIDIANO

    Armido Rizzi

    INDICE

    1. LA PAROLA DI DIO NASCE DALLA VITA: LA BIBBIA

    1.1. La bibbia nel suo contesto storico-culturale

    1.2. Genesi 1: 11 poema della creazione

    - Il contesto storico in cui Genesi è stato scritto
    - Continuità tra Genesi ed “Enuma Elish”
    - Genesi 1 nasce dalla fede messa alla prova

    1.3. Il caso dei vangeli: la loro formazione

    - Prima tappa: la raccolta delle parole di Gesù
    - Seconda tappa: blocchi narrativi di raccordo tra vita di Gesù e vita della comunità
    - Terza tappa: la “redazione” del singolo vangelo

    2. LA PAROLA DI DIO RIVIVE NELLA VITA QUOTIDIANA: LA TRADIZIONE

    2.1. La bibbia interpreta ed attualizza la bibbia

    2.2. Varie forme di attualizzazione cristiana della bibbia

    3. ERMENEUTICA, PAROLA DI DIO, VITA QUOTIDIANA. PROBLEMI DI PRINCIPIO

    3.1. La coscienza ermeneutica

    - Il rispetto per la storicità e oggettività del testo
    - La pre-comprensione del soggetto che interpreta

    3.2. Coscienza ermeneutica e parola di Dio

    - La bibbia non parla che della salvezza
    - Lettura di fede della bibbia: una lettura “per me”
    - La pre-comprensione soggettiva: il bisogno di salvezza

    3.3. La vita quotidiana: ricerca del senso

    - La vita quotidiana come prospettiva: la domanda di senso
    - La vita quotidiana come spazio: un insieme di rapporti

    3.4. Il circolo ermeneutico tra parola di Dio e vita quotidiana

    4. LA PAROLA DI DIO ALLA LUCE DELLA VITA QUOTIDIANA. RILEGGERE IL MESSAGGIO

    4.1. L'alleanza: legge e promessa

    - L'utopia del quotidiano in Israele: vita, pace, benedizione
    - La terra promessa é vincolata all'obbedienza alla legge

    4.2. La colpa e la morte

    - 11 legame indissolubile tra disobbedienza e morte
    - Il fallimento di Israele è frutto dell'alleanza tradita

    4.3. La redenzione messianica

    - L'azione messianica di Gesù
    - La passione messianica di Gesù

    5. LA VITA QUOTIDIANA ALLA LUCE DELLA PAROLA DI DIO. RIVIVERE IL MESSAGGIO

    5.1. Il contenuto centrale: la realtà ha senso

    5.2.Il senso della realtà si realizza nel dono

    - Il dono fonda la qualità delle cose
    - Il dono è un atto personale nella vita quotidiana
    - La conversione biblica: dal desiderio al dono

    5.3. Il senso della realtà si aliena nel rifiuto

    - II rifiuto del dono sconvolge l'ordine del mondo
    - Il rifiuto del dono altera i rapporti umani

    5.4. Il senso della realtà è riscattato dal perdono

    - La faccia attiva del perdono
    - Perdono contro risentimento

    6. BILANCIO: L'IDENTITA BIBLICA DELLA VITA QUOTIDIANA

    6.1. Cinque riferimenti

    - La crisi non può essere assunta fino in fondo
    - Il senso inizia “già” nella nostra storia
    - Il senso ha una dimensione oggettiva
    - Il senso si dà nella stona come frammento
    - Il piccolo e il grande

    6.2. Il soggetto: la comunità dei poveri

    - Il povero
    - La comunità
    - La comunità dei poveri

    6.3. Conclusione 


    Per comprendere il tema del quaderno occorre collocarlo rispetto agli altri quaderni. Fa parte della seconda serie “Animazione ed educazione alla fede” in cui vengono enucleati i contenuti della nostra proposta di animazione culturale e di educazione alla fede.

    ^ Tra i quaderni della seconda serie va fatta una distinzione. I primi quattro (dal Q5 al Q8) costituiscono la proposta globale. Gli altri tre (dal Q9 al Q11) sono approfondimento di dimensioni irrinciabili della proposta. I quaderni di questa serie rispondono dunque al “che cosa” dell'animazione ed educazione alla fede piuttosto che al “come” (compito della quarta serie).
    Veniamo ai singoli approfondimenti.
    II Q9 “II gruppo giovanile come esperienza di chiesa” riflette sul gruppo come luogo privilegiato in cui il giovane viene educato alla fede ed entra a far parte della comunità ecclesiale.
    II Q10 riprende invece il nucleo centrale della nostra proposta: per un cristiano ha senso la vita quotidiana e quale?
    II Q11 “Una proposta morale per un tempo di desiderio e frammentazione” approfondisce in termini di nuovo stile di vita per i giovani degli anni '80 la proposta, portando a sintesi quasi operativa gli stimoli dei precedenti quaderni.
    ^ Veniamo, più da vicino, a questo quaderno.
    Non bisogna lasciarsi distrarre dal titolo e pensare che si tratti di una introduzione alla bibbia o alla sua utilizzazione nel gruppo giovanile.
    II termine “parola di Dio” è inteso in generale come Rivelazione di Dio in Gesù Cristo testimoniata dalla bibbia e dalla riflessione che attorno ad essa si è sviluppata lungo i secoli. Così “parola di Dio” qui è immagine dell'intervento di Dio nella storia ed immagine di quel confronto e dialogo supremo a cui chi sceglie di essere cristiano si decide.
    ^ II contributo di A. Rizzi ruota, offrendo un contributo prezioso, attorno ad uno dei termini chiave dei nostri quaderni: l'ermeneutica. Rizzi presenta la vita del credente come ermeneutica che pone in gioco da una parte il vissuto e la sua “domanda” di senso e dall'altra l'esperienza dell'uomo biblico e la sua “proposta” di senso. L'ermeneutica presenta il credente come soggetto di due “movimenti” interpretativi:
    - il movimento che dall'uomo d'oggi, carico della sua domanda di senso, va incontro all'uomo biblico;
    - il movimento che dall'uomo biblico, provocato dalla odierna domanda di senso, va incontro all'uomo d'oggi come proposta di senso.
    ^ È importante sottolineare la convergenza dell'intervento di A. Rizzi con i Q5 e 6 sulla animazione culturale e i Q7 e 8 sull'educazione alla fede.
    Facendo riferimento all'attuale situazione culturale, Mario Pollo aveva individuato nella ricerca di identità personale il problema centrale della animazione dei giovani. Aveva, di conseguenza, posto come obiettivo generale dell'animazione: «Abilitare il giovane a costruire se stesso all'interno dell'avventura di senso che, dall'origine dell'uomo, percorre senza posa il mondo” (Q6, pag. 6). Ad una conclusione simile, partendo però dall'esigenza di una esperienza di fede, era giunto Riccardo Tonelli, secondo cui si può “parlare ai giovani di oggi in modo convincente del Signore della vita, solo dentro una riscoperta e sofferta passione per la vita, capace di ricondurli verso un regno dell'identità dell'uomo”.
    I due autori convergono quindi sulla ricerca e sulla proposta di senso come “luogo” in cui concentrare l'impegno di animazione ed educazione alla fede.
    Rizzi riprende il problema e offre un suo originale contributo che può essere così ripensato in chiave educativa:
    - è oggi urgente più che mai una “rifondazione” culturale e religiosa del senso della vita;
    - la rifondazione va affrontata alla luce della crisi culturale in atto e della nuova ricerca di senso che questa rilancia come “senso nella e della vita quotidiana”;
    - anche l'educazione alla fede deve ripartire dalla “rifondazione del senso”;
    - il procedimento per individuare il senso è quello che attiva un circolo ermeneutico tra parola di Dio e vita quotidiana.
    ^ Si è detto all'inizio che questo quaderno non è di iniziazione biblica. È vero. Si deve però aggiungere che offre del materiale prezioso per un approccio ermeneutico alla bibbia. II quaderno può essere allora letto, indirettamente, anche con quest'ottica; come indicheremo nella traccia del “canovaccio”.


    1. LA PAROLA DI DIO NASCE DALLA VITA: LA BIBBIA

    Introduzione

    “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68). Questa professione di fede che Pietro formula nel vangelo di Giovanni ci introduce immediatamente nel cuore del nostro tema. La parola di Dio dona “vita eterna”: che non è, nel vangelo di Giovanni, la vita dopo la morte, ma il senso radicale e ultimo di questa nostra vita.
    Ma anche la nostra vita ha donato qualcosa alla parola di Dio: un terreno per nascere dentro le parole umane, così da poter abitare per sempre, come libro, in mezzo alla storia degli uomini; poi, un orecchio vigile per farla sempre di nuovo rinascere lungo le giornate di questa storia. Un orecchio che è anche il nostro, attento a cogliere la parola di Dio “oggi”, a farla “vita quotidiana”.
    La metafora dell'udito è illuminante: senza orecchio non esisterebbe musica, e senza musica l'orecchio sarebbe orfano e vuoto. Così è del rapporto tra vita e parola di Dio; così, vedremo, è più specificamente del rapporto tra vita quotidiana e parola di Dio.

    1.1. La Bibbia nel suo contesto storico-culturale

    Uno dei termini magici degli studi biblici di questo secolo è “Sitz im Lebem”: un'espressione tedesca che significa esattamente “collocazione nella vita”, “ambientazione vitale”. In essa si esprime la coscienza che il testo biblico, come e forse più di ogni altro testo, può essere capito soltanto se risituato dentro un contesto non soltanto letterario ma più ampiamente storico, cioè culturale e ideologico, ma anche psicologico e sociale, politico ed economico.
    È difficile esagerare il carattere innovativo di questa scoperta.
    Essa rendeva possibile non soltanto una diversa e più appropriata interpretazione di questa o quella pagina biblica, ma una rinnovata comprensione del concetto stesso di bibbia. Che la bibbia fosse a un tempo parola di Dio e parola umana non era mai stato messo in dubbio; come testimoniano le due formule più correnti che la tradizione aveva adottato per formularne il mistero: la compresenza dei due autori - Dio e l'agiografo - e la dottrina dell'ispirazione, che vede lo scrittore umano messo e guidato dallo Spirito di Dio. Ma affermare con certezza che parola di Dio e parola dell'uomo sono due dimensioni ugualmente presenti nella bibbia è cosa diversa dal capire in che modo esse sono presenti e convivono e coagiscono.
    Il modo tradizionale di comprensione rischiava di assorbire il polo umano nel polo divino; non solo e non tanto in forza dell'accento posto su quest'ultimo, quanto per il modo improprio di intendere il primo. Ciò che soprattutto contrassegnava questo modo di intendere era il carattere disincarnato, senza radici storiche, senza spessore di umanità, che la scrittura biblica vi presentava.
    Era come se, invece che uomini, gli autori biblici fossero angeli; come se, invece che ebraica e greca, la loro lingua fosse un esperanto etereo; come se, invece di pulsare in quelle pagine sangue umano, vi scorresse un magico nettare celeste.
    Certo, si sapeva - e si credeva di sapere - dove e quando quei libri erano stati composti; ma erano un dove e un quando asettici, che non mordevano sulla loro carne di scrittori, che anzi ne ribadivano la sostanza sovrumana attraverso l'attribuzione a personaggi superiori e quasi mitici (Mosè, Davide, Salomone...).
    Ricollocare la bibbia nel suo contesto vitale significa prendere sul serio la sua umanità (al punto da rendere paradossale, davvero misteriosa, la sua origine divina); significa cercare in ogni pagina l'impasto di esperienze, l'intrico di relazioni, il peso di interessi che ne hanno suggerito e accompagnato la composizione, e che non possono perciò non avervi lasciato traccia.
    A volte si dice che la bibbia non è nata a tavolino; affermazione vera, purché si aggiunga che essa non è nata neppure nella cella di un monaco o sotto le volte di una cattedrale. O forse è più vero dire che essa è nata in tanti luoghi; libro al plurale (“bibbia” vuol dire appunto, in greco, “i libri”), la bibbia ha una genesi pluralista: vi sono pagine scritte in aperta campagna, altre nel buio di un carcere; alcune tradiscono una scottante situazione politica, altre una tensione comunitaria; alcune fervono di passione per la giustizia, altre riflettono una dolce luce di calma contemplativa. Vogliamo sviluppare brevemente due esempi: uno dall'Antico Testamento e uno dal Nuovo. E non sono esempi scelti apposta tra i più facilmente adattabili a dimostrare la tesi; sono anzi tra quelli che, per una ragione o per un'altra, dovrebbero opporre più resistenza a una precisa ambientazione storica.

    1.2. Genesi 1: il poema della creazione

    Per l'Antico Testamento ci rifacciamo al grande racconto della creazione, che inaugura l'intera bibbia secondo la disposizione consacrata dalla tradizione sia giudaica che cristiana. Pochi testi sembrano così esenti da condizionamenti storici, così puri nella loro enunciazione teologica; pochi testi hanno avuto lo stesso peso dottrinale di questo, quasi una definizione dogmatica formulata come se l'autore avesse colto Dio nell'atto di creare il mondo, e da quell'origine assoluta avesse detto parole anteriori a ogni tempo, non ancora sfiorate dall'ombra della contingenza e della relatività. Ma sappiamo che le cose stanno diversamente.

    1.2.1. Il contesto storico in cui è stato scritto Genesi

    Questo racconto è l'inizio di una storia che i critici. chiamano sacerdotale (per indicarne l'ambiente di provenienza). Essa abbraccia diversi episodi poi ripresi e sistemati, insieme con altri di differente provenienza, all'interno dell'attuale “storia delle origini” (Gn 1-11).
    Il racconto della creazione, come tutta la narrazione sacerdotale, risponde a una situazione storica ben determinata della vita d'Israele, a quella che è la rottura e la svolta decisiva nel decorso di questa vita. Ascoltiamo uno dei maestri della ricerca veterotestamentaria: “Dopo la caduta di Gerusalemme nel 586, la massa rilevante dei prigionieri giudei trasferiti a Babilonia si trovò di fronte a problemi religiosi completamente nuovi.
    Non si trattava più di regolare la vita e le vertenze degli individui nella terra di Canaan, oppure di far funzionare le istituzioni nazionali o monarchiche, per poter mantenere in Israele la religione di Jahvè, stabilita da Mosè.
    Bisognava organizzare in terra straniera la vita dell'antica comunità, era dispersa tra le nazioni, soggetta a un monarca universale ma pagano, esposta alle seduzioni di culti prestigiosi.
    Uno stesso sangue, le medesime tradizioni, un clero autentico: queste erano le uniche basi che potevano assicurare la perennità della vita religiosa in Israele esule, che non era più uno stato e non era ancora una chiesa.
    Si può ritenere che allora venne redatta... la storia sacerdotale. Questo compendio dà alle istituzioni di Israele un valore universale, inserendole in un quadro storico generale, guidato da una teologia della presenza divina e delle sue esigenze. Lo stile sarà dunque conciso, il vocabolario preciso e tecnico come quello di un catechismo; le narrazioni saranno soprattutto illustrazioni della dottrina spirituale; le cifre permetteranno di ambientare il pensiero. Infine, sullo sfondo, la fede nella legge di Jahvè e la speranza del ritorno nella terra santa” (Cazelles).

    1.2.2. Continuità e differenze tra Genesi 1 ed “Enuma Elish”

    Per quanto riguarda più in particolare il poema di creazione in Gen l, bisogna tener presente il carattere polemico che esso intende assumere nei confronti dell'analogo e anteriore poema babilonese (dal titolo Enuma Elish), se si vuole coglierne tutta la ricchezza di pensiero. Polemica condotta in maniera intelligente, che non demonizza l'avversario ma si confronta seriamente con lui, ne assimila le prospettive accettabili, ne corregge le lacune, ne integra le insufficienze.
    Gen 1 accoglie del poema babilonese soprattutto un punto: il rapporto tra alleanza e creazione, cioè tra particolarità e universalità.
    Nell'Enuma Elish il signore di Babilonia, il dio Marduk, diventa il Dio cosmico, il cui potere si estende a tutto il creato; in questo modo le istituzioni babilonesi trovano nella dottrina della creazione il loro fondamento ultimo.
    Così è anche per Israele: soltanto attraverso una maturazione dell'esperienza religiosa e della riflessione teologica il popolo eletto arriva alla fede nella creazione, quale si esprime nella pagina della Genesi: in tal modo gli articoli della Legge, statuto civico e religioso di Israele, vengono fondati sulla stessa Parola creatrice (simbolo di tutti è il riposo sabbatico, che in Gen 2,1-3 viene collegato all'evento creatore).
    Ma su questa base comune si staccano le differenze.
    Ne rileviamo due.
    Anzitutto, alla teogonia (nascita degli dèi) dell'Enuma Elish, Gen 1 oppone la trascendenza di Jahvè. Mentre Marduk infatti è figlio di quel Caos originario che egli pure abbatte e plasma nella creazione, il Dio d'Israele non ha origine, non ha alcun rapporto con le acque primordiali che preesistono all'atto creatore; il suo spirito si libra al di sopra di esse (v. 2). Di conseguenza, mentre Marduk deve lottare contro il Caos per superarlo, Jahvè lo domina con la parola. Il che significa: il Dio di Babilonia è una forza della natura, è la personificazione del processo necessario (lotta, opposizione, conflitto) attraverso cui la natura continuamente si rigenera; il Dio d'Israele è una realtà personale, che agisce liberamente e pone il mondo altro da sé, docile alla sua parola. In secondo luogo, l'ordine del mondo contempla già, a Babilonia, la prospettiva di un ritorno ciclico del disordine; la bontà delle cose, nata attraverso un atto di violenza (l'uccisione del Caos), non si sostiene senza ripassare attraverso la violenza. Invece Jahvè crea un mondo sette volte buono, cioè perfetto; il male non è l'altra faccia - ugualmente necessaria - del bene, ma lo scacco della creazione che sarà introdotto in essa dall'uomo e che Dio combatterà con i suoi interventi di salvezza.
    Ecco dunque come nasce una delle pagine più alte e decisive della bibbia. C'è alla base un'esperienza religiosa: Jahvè, Dio d'Israele, è signore di tutti i popoli e anche degli eventi naturali; egli può disporre di tutto, egli guida il cammino della storia. E c'è, inoltre, una speranza: che questo signore onnipotente intervenga in favore di Israele e lo riporti in quella terra che egli gli aveva donato.
    Ma esperienza e speranza maturano in riflessione teologica soltanto passando attraverso problematiche già pensate, attraverso concetti già elaborati. Sono le problematiche e i concetti di cui è ricco il poema habilonese: il rapporto con la natura, il problema del male, il valore delle istituzioni, ecc.
    Filtrata attraverso questi interrogativi e queste categorie, l'esperienza religiosa di Israele si dà un linguaggio più adulto; il che non vuol dire che Israele faccia sue le soluzioni di Babilonia. Le contesta, le confuta, le supera; ma si può contestare una risposta soltanto parlando lo stesso linguaggio, muovendosi dentro lo stesso problema. La fede in Jahvè può reggere all'urto della religione babilonese (che è, per gli ebrei esiliati, la religione vincente) soltanto misurandosi con essa, accettando di giocare sul suo terreno.

    Genesi 1 nasce dalla fede messa alla prova

    Ecco la “vita” di Gen 1: una preoccupazione per la fede messa alla prova, un confronto con la cultura egemone, una volontà di rifondare le convinzioni portanti su una base più solida e più ampia. Tutt'altro che una tesi teologica atemporale: un pane per sopravvivere, un'arma per combattere.
    Ancor più facile sarebbe mostrare la radicazione concreta di testi come le parole profetiche, così legate alle sorte storiche della collettività, e come le meditazioni sapienziali, così pensose, invece, dei destini dell'individuo; per non dire dei documenti storico-teologici, dove la narrazione del passato d'Israele è così fortemente segnata dalle preoccupazioni del presente. Ma l'esempio del poema di creazione dovrebbe bastare a testimoniare la radicazione della parola biblica nel terreno differenziato della storia umana, con i suoi succhi e le sue asprezze, la sua disponibilità e le sue riluttanze.

    1.3. Il caso dei Vangeli: la loro formazione

    La concezione dei vangeli come biografia di Gesù, che ogni evangelista avrebbe scritto raccogliendo i ricordi della sua vita con scrupolosa oggettività ed esponendoli con materiale esattezza, non risponde a verità. La scrittura dei vangeli è così fortemente marcata dagli interessi delle comunità cristiane primitive, che qualcuno ha potuto dire - certamente esagerando, ma non senza qualche ragione - che attraverso di essi noi veniamo a conoscere non la vita di Gesù ma la vita delle stesse comunità.
    Per situare la lettura dei vangeli nella giusta luce è necessario ricostruirne l'origine, vedere come essi siano nati da un travaglio esistenziale durato qualche decennio.
    Questa nascita si dispiega in tre tappe, che vogliamo brevemente ripercorrere.

    1.3.1. Prima tappa: la raccolta delle parole di Gesù

    Tutto inizia con la comunità dei discepoli raccolti attorno a Gesù. Era costume dei discepoli di rabbini raccogliere le parole del maestro mandandole a memoria; tanto più che, in una civiltà in cui la scrittura non era ancora una pratica diffusa, la memoria si sviluppava più intensamente, aiutata anche da tecniche di memorizzazione come la ripetizione, il contrasto, il richiamo. Nei vangeli ritroviamo di questi passi, in cui sembra risuonare, attraverso una testimonianza auricolare diretta, la viva voce di Gesù: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto” (Mt 7,7ss). “Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande” (Mt 7,24-27). E certamente anche diversi particolari narrativi riflettono, attraverso lo sguardo attento del discepolo che li ha fissati, questo e quell'episodio della vita pubblica di Gesù.
    Ma, se ci fermiamo a questo stadio, potremo raggranellare ben poco: qualche detto sparso di Gesù e qualche aneddoto. 1 vangeli sono altra cosa: e la memoria immediata dei discepoli lungo le strade di Palestina non ne è che la preistoria.

    1.3.2. Seconda tappa: blocchi narrativi di raccordo tra vita di Gesù e vita della comunità

    Il vero lavoro di gestazione comincia nella seconda tappa: la tradizione delle parole e degli atti di Gesù avviata dopo la sua risurrezione. Superato lo smarrimento della sua morte e il positivo sconvolgimento dell'incontro con lui risorto, i discepoli che riconobbero in Gesù Cristo il Signore della loro esistenza e della storia umana, non potevano non chiedersi: come tradurre in atto la nostra fede in lui? Come farne concretamente il principio della nostra vita di ogni giorno? E la risposta venne cercata nel rifarsi alla vita di Gesù, nel ricuperare come principio orientatore ciò che egli aveva detto e come si era comportato nelle diverse circostanze.
    Erano dunque due i punti di questo lavoro di memoria postuma, di raccordo, di confronto: da una parte la vita di Gesù, a cui si chiedevano le risposte; dall'altra la vita della comunità, da cui venivano le domande. E due sono infatti le modalità - opposte e integrantisi - che hanno presiedute alla raccolta delle parole e delle azioni di Gesù: fedeltà e libertà; volontà di distinguere le idee proprie, opinabili, da quelle del Maestro, indiscutibili; ma d'altra parte, libertà nel reinterpretare e nel riformulare quelle idee. Basti pensare che di parole importanti come quella dell'istituzione eucaristica abbiamo nel Nuovo Testamento quattro diverse versioni; così come ne abbiamo due delle beatitudini, due del Padre Nostro, ecc.
    Ora, il principio operativo di questi cambiamenti, di questi adattamenti di discorsi pronunciati da Gesù o di gesti da lui compiuti, è l'esigenza vitale della comunità.
    Esigenza variegata e mutevole: a volte si tratta di fronteggiare le polemiche dei giudei (sull'inosservanza del sabato o delle purificazioni rituali), altre volte bisogna riformulare l'imperativo etico su questo o quel punto (è lecito divorziare? come trattare le ricchezze? bisogna o no pagare le tasse ai romani? ...) o creare un ordinamento comunitario (avere dei capi? con quali funzioni?) o fissare una prassi liturgica (come celebrare là Cena del Signore?); o ancora, distinguere tra i punti essenziali di fede, da predicare nell'annuncio missionario rivolto agli esterni, e punti più sviluppati, di approfondimento, da riservare alla catechesi per coloro che già credono e fanno parte della comunità.
    Di fronte a questi frangenti e a questi compiti, i discepoli cercarono di ricordare in che modo Gesù si era comportato in circostanze analoghe e che cosa aveva insegnato al riguardo; cucirono insieme parole da lui pronunciate in tempi e luoghi diversi ma aventi un'unità tematica; collegarono episodi tra loro lontani cronologicamente e geograficamente ma vicini quanto al significato che essi vi trovavano.
    Si vennero così formando blocchi narrativi diversi, rispondenti alle differenti preoccupazioni delle comunità che li componevano.
    Una linea comune venne però emergendo: il cristallizzarsi del racconto attorno a due centri: l'attività di Gesù in Galilea e il suo viaggio attraverso la Giudea verso Gerusalemme (che si conclude con la passione e la morte). li primo centro sembra comandato dall'idea della prassi messianica di Gesù: miracoli in favore dei poveri e annuncio della buona novella; il secondo trova il suo perno nell'immagine profetica del “Servo di Jahvè” sofferente. La seconda tappa della formazione del vangelo si conclude con questa struttura narrativa unitaria.

    1.3.3. Terza tappa: la “redazione” del singolo vangelo

    Eppure noi non abbiamo un vangelo; ne abbiamo quattro. Ecco la terza tappa: la “redazione” del singolo vangelo.
    Se la seconda è stata ampiamente corale, questa è individuale: siamo in presenza di quattro autori - Marco, Matteo, Luca, Giovanni - ognuno dei quali scrive il suo vangelo.
    Che cosa significa?
    Significa che ognuno degli evangelisti, pur trovandosi di fronte a una narrazione ben organizzata della vita di Gesù, la vede in una prospettiva specifica, orchestra parola e atti di Gesù secondo una “regia” particolare, che risponde - ancora una volta - alle esigenze della comunità per cui scrive.
    Non è un caso, per esempio, che Matteo, e lui solo, riporti cinque lunghi discorsi di Gesù: è che il suo interesse per la concezione e la disciplina della chiesa lo porta a evidenziare di Gesù l'aspetto magisteriale, a vedere in lui nell'oggi della vita cristiana il Signore che ammaestra la comunità dei credenti come un tempo il Rabbi itinerante ammaestrava i discepoli che lo seguivano. 1 nostri vangeli non sono il resoconto della vita di Gesù; sono i dati di questa vita filtrati attraverso l'intelligenza e la militanza di fede delle comunità che in lui credono e dei teologi che per esse scrivono, e diventate così per queste comunità parole di vita.
    In conclusione: si tratti dell'Antico e del Nuovo Testamento, la bibbia non è parola di Dio rivestita di parole umane, ma parola di Dio che, affondata come un seme nel campo della vita degli uomini, nasce in forma di parole umane.


    2. LA PAROLA DI DIO RIVIVE NELLA VITA: LA TRADIZIONE

    Un'impressione superficiale identifica parola scritta e parola morta. Invece, scrivere non è congelare, bensì custodire e trasmettere.
    La bibbia è la conferma più grandiosa di questo fatto. Nessuna parola è stata, nel corso della storia umana, più viva di quella biblica; nessuna è stata più incessantemente e appassionatamente rivissuta e attualizzata.

    2.1. La Bibbia interpreta e attualizza la Bibbia

    Il fenomeno dell'attualizzazione non comincia con il concludersi della rivelazione biblica, non riguarda soltanto la sua ripresa dentro la successiva tradizione ecclesiale. Esso è già interno alla bibbia stessa, momento costitutivo della formazione del suo testo.Infatti i libri che compongono la bibbia, lungi dall'essere ogni volta frutto di un nuovo o inedito evento rivelativo, sono in buona parte riprese e ripensamenti degli eventi originari e degli scritti che li hanno fissati; sono “tradizioni” che si vengono formando lentamente, al punto che un grande esegeta ha potuto scrivere una teologia dell'Antico Testamento come storia delle sue tradizioni (e, per il Nuovo Testamento, ne abbiamo visto un esempio nella formazione dei vangeli). Ogni tradizione è rinnovata creazione, non stanca ripetizione di cose già sapute.
    A garantire questa novità, quest'originalità di attualizzazione, è la “situazione vitale” ogni volta diversa; lo stesso evento o testo, riletto in prospettiva e con preoccupazioni differenti, rivela aspetti prima ignorati, consegna una ricchezza di senso rimasta fino allora nascosta.
    Così, per prendere uno degli esempi più fecondi, l'esodo di Israele dal-, l'Egitto viene visto da un profeta in esilio come la promessa del nuovo esodo da Babilonia a Gerusalemme; viene riletto da un altro profeta, dopo il ritorno e in vista della ricostruzione, come esodo esistenziale, continuo cammino di conversione del popolo; e ogni anno viene reso presente liturgicamente nella celebrazione pasquale.
    Ma lo stesso Nuovo Testamento che cos'è se non un'attualizzazione integrale dell'Antico?
    In Gesù la comunità cristiana vede realizzate non solo le profezie messianiche ma l'intera economia di salvezza delineatasi in Israele; come dirà Agostino: “nell'Antico Testamento è nascosto il Nuovo, nel Nuovo Testamento è svelato l'Antico”. In altre parole: ciò che avviene in Gesù reinterpreta e mette pienamente in luce ciò che era avvenuto nella storia d'Israele. Certo, si tratta di una reinterpretazione tutta speciale, che produce un nuovo senso che supera e invera quello dei testi originari; si tratta di una nuova origine e di un nuovo fondamento: di quello che chiamiamo, appunto, il Nuovo Testamento. È attorno al Nuovo Testamento che nasce il nuovo popolo di Dio, la chiesa; e sarà ormai al Nuovo Testamento che essa si rivolge per cercarne una continua attualizzazione.

    2.2. Varie forme di attualizzazione cristiana della Bibbia

    È vero, l'attualizzazione cristiana non può superare e inverare il Nuovo Testamento come questo ha fatto con l'Antico, perché in esso è contenuta la rivelazione definitiva di Dio; ma può sempre farlo rivivere: far rivivere la parola di Dio per vivere di essa. Punto di partenza sono, ancora, e sempre, le esigenze vitali della comunità di fede; le quali mutano e si alternano, pur presentando alcuni tipi fondamentali e di più facile ricorrenza.

    Lettura dottrinale

    Nei primi secoli vediamo svilupparsi una lettura dottrinale della bibbia, sollecitata dalla necessità di far fronte alle insorgenti eresie.
    La formulazione dei grandi dogmi trinitario e cristologico è lontana, quanto a linguaggio, dal tenore delle confessioni bibliche di fede; ma l'esigenza a cui essi rispondono è la stessa: dare alla propria adesione a Cristo un'autocoscienza all'altezza degli interrogativi e delle difficoltà dell'epoca.

    La distinzione tra senso letterale e senso spirituale

    Accanto all'istanza dottrinale va facendosi strada, e diventa sempre più intensa, l'istanza più direttamente spirituale: nutrirsi della parola di Dio per sviluppare la vita di fede. È su questa linea che si disegna una distinzione che avrà un'enorme fortuna: tra il senso letterale della bibbia e il suo senso spirituale; distinzione che, pur nella varietà delle sue applicazioni e dei suoi risultati, presenta una struttura unitaria di derivazione filosofica. L'uomo e il mondo sono realtà a due livelli: visibile e invisibile, contingente ed eterno, corpo e anima.
    Questa concezione antropologica e cosmologica diventa, attraverso un grande Padre greco come Origene, criterio dell'interpretazione biblica: bisogna andare oltre il significato letterale del testo, per attingere il suo senso spirituale; è questo senso che può nutrire l'anima e portarla alla perfezione cristiana. Infatti, i nemici di cui la bibbia parla a ogni pagina (nemici di Israele, dei giusti, di Gesù ...) altro non sono che i peccati e i vizi, contro cui l'anima ingaggia il suo combattimento con l'arma della parola di Dio. E tutte le vicende di Dio con il popolo eletto non sono che immagini del rapporto tra Cristo e l'anima, del cammino che questa è chiamata a compiere dal peccato alla suprema unzione di contemplazione e d'amore.
    Attraverso S. Gregorio Magno, quest'interpretazione passa al monachesimo occidentale e diventa il lievito di tutta l'esegesi monastica medievale. Lettura liturgica della bibbia (opus Dei) e lettura personale nella cella (lectio divina) sono non solo i due tempi e luoghi dell'interpretazione biblica, ma le due coordinate che ne determinano lo stile: il vero senso della bibbia è, in sintonia con la chiesa, il nutrimento del cuore, dell'affettività religiosa.

    Il ritorno all'interpretazione dottrinale

    Con il sorgere della teologia scolastica ritorna l'interesse per una interpretazione di taglio più dottrinale; ma, a differenza dei primi secoli, comandata non tanto da una volontà di difesa contro le eresie quanto da un bisogno di penetrazione intellettuale (“credo per capire”), mediato soprattutto dalle categorie della filosofia aristotelica. Contro ' questa contaminazione insorge Lutero, che propugna un ritorno alle categorie bibliche stesse, una “interpretazione della bibbia attraverso la bibbia”.

    L 'interesse per una lettura pastorale

    Con il Concilio di Trento e la riforma cattolica che esso promuove prevale un interesse pastorale: la bibbia diventa maestra di buona condotta, strumento per guidare il popolo cristiano nella pratica dei comandamenti di Dio. Ma intanto si è venuta determinando per la chiesa una nuova situazione di lotta: non più contro le eresie dentro la confessione di fede, ma contro il progressivo allontanarsi della società dalla fede rivelata (illuminismo, laicismo, positivismo) e poi da qualsiasi fede religiosa (ateismo). Allora torna a imporsi l'interesse apologetico; la bibbia diventa, insieme con la tradizione ecclesiastica e con la “ragione”; un serbatoio di argomenti in favore della dottrina cattolica.

    Il “ritorno alle fonti”

    È soltanto dopo la seconda guerra mondiale che questo quadro angusto e depauperato di uso della parola di Dio esplode, con il “ritorno alle fonti”: insieme con la liturgia e la patristica, la bibbia torna a essere accostata per se stessa, valorizzata e utilizzata secondo quella ricchezza di senso che essa contiene e vuole donare.
    Tre sono le caratteristiche che questo risveglio va progressivamente assumendo: la saldatura tra senso letterale e senso spirituale, resa possibile dall'affinarsi degli strumenti di analisi; lo spirito critico, con cui si scevera nel testo biblico il suo messaggio autentico dalle formulazioni - ineliminabili ma sempre imperfette - che esso si è dato; lo slargamento del contesto vitale: non è più soltanto la “vita spirituale” che viene alimentata dalla lettura della bibbia; è ogni situazione umana a venirle accostata: soprattutto, quelle situazioni di oppressione, di sofferenza, di ingiustizia, su cui il testo biblico può gettare una luce di speranza e di mutamento. Ma qui siamo ormai all'oggi; e subito ad esso ci volgiamo.
    La rapidissima retrospettiva sulla storia dell'interpretazione biblica voleva soltanto confermare il rapporto tra parola di Dio e vita anche in questo secondo momento: oltre che nel suo farsi come complesso di scritti - la bibbia - anche nel suo essere custodita e operante come complesso di interpretazioni - la tradizione.


    3. ERMENEUTICA, PAROLA DI DIO, VITA QUOTIDIANA: PROBLEMI DI PRINCIPIO

    Abbiamo visto come il testo biblico si sia costituito, forgiato, modellato dentro il vivo della storia di uomini; poi, come esso sia stato rivissuto dalla storia di altri uomini, portato ogni volta a contatto con quel catalizzatore che è l'esistenza dei lettori, individui e comunità.Era naturale aspettarsi che le due linee di esigenza e di collocazione vitale non sempre convergessero; che interessi e concetti, problemi e categorie della tradizione non sempre collimassero con quelli della bibbia.
    Tra la vita del lettore e il mondo del testo biblico si è verificato spesso un incontro sbilanciato in direzione della prima.
    E questo, sia che gli interessi vitali del lettore fossero riconosciuti e accettati, sia che, al contrario, si presumesse di eseguire una lettura altamente oggettiva. In questo caso si prendeva per oggettività universale quella che era la mentalità (europea) del lettore; e si proiettavano nella bibbia schemi mentali, di pensiero e d'azione propri dell'uomo moderno.

    3.1. La coscienza ermeneutica

    La svolta fondamentale nel modo di accostare la bibbia può essere sintetizzata in una sola parola: coscienza ermeneutica.
    Coscienza ermeneutica è la consapevolezza della storicità di ogni parola umana, del suo collegamento essenziale a una situazione di vita, da cui trae sostanza di significato e di comunicazione; ed è, ancora, la consapevolezza della storicità di ogni lettura, del suo collegamento essenziale al mondo di interessi e di prospettive del lettore.
    L'ermeneutica è una teoria che porta a una pratica; ed è una pratica che porta in sé, con avvertenza riflessa più o meno acuta, una teoria. Quanto abbiamo detto, nelle prime due parti, sul nascere e sul rivivere delle pagine bibliche dentro le situazioni vitali cangianti della comunità di fede, è frutto della coscienza ermeneutica contemporanea nel suo risvolto pratico, nella sua applicazione a concreti problemi di interpretazione dei testi e di storia della loro interpretazione.
    Ma per comprendere questi testi dentro il nostro oggi dobbiamo fissare anche alcuni punti di carattere più teorico della svolta ermeneutica; dobbiamo, in particolare, considerare con una certa attenzione quello che è il fuoco, il centro della teoria ermeneutica: il rapporto stesso tra lettore e testo, cioè l'atto dell'interpretare e del capire.

    3.1.1. Il rispetto per la storicità e l'oggettività del testo

    Interpretare è comprendere il mondo umano. Mondo umano è tutto ciò in cui si incarna e si esprime un'intenzionalità, cioè un'idea, un progetto, una volontà d'azione.
    Un gesto e un manifesto, un rito e un'istituzione, un'iniziativa politica e un'opera d'arte: sono altrettanti fatti dotati di significato perché traducono un'idea in realtà, materiano una volontà in una situazione.
    Ora, interpretare è appunto capire quale significato sia inscritto nel fatto, di quale senso esso sia porcata re; e poiché il significato non è altro che l'idea che il soggetto agente vi ha impresso, interpretare è leggere quest'idea, risalire dal fatto al progetto, all'intenzione che l'ha pro. dotto e lo anima.
    Questo vale anche di un testo; anche il testo è realizzazione di un'idea, è incarnazione di un progetto in quel materiale che sono le categorie culturali e i segni linguistici di cui l'autore si serve.
    Ogni testo è dunque storico, perché vi si esprime un soggetto ben situato secondo le coordinate dello spazio e del tempo, del modo di produzione economica e di elaborazione culturale, oltre che - spesso - d situazioni puntuali e mutevoli. Eppure tutto ciò non significa relativismo o soggettivismo, non compromette la verità di cui il testo è portatore; anzi, proprio la storicità del testo ne garantisce l'oggettività: esso è di fronte a me con quel mondo di significati che l'autore ha inteso comunicare e che nel testo si sono oggettivati e hanno acquisito una specie di esistenza eterna pur senza abdicare alla loro storicità.
    L'autore è “altro” dal lettore, é questa alterità è la fonte dell'oggettività della parola, dello scritto nella sua singolarità e concretezza. Interpretare non è prendere occasione dal testo per enunciare idee proprie; è lasciarlo parlare, ascoltare ciò che esso deve e vuol dire. Storicizzare il testo non è vanificarne la verità; inserirlo nella vita non è svuotarne il messaggio; al contrario, è l'unico modo per riscoprirlo quale: esso è e non quale vorremmo che fosse.
    Con un gioco di parole: ridare al sto il suo contesto non è farne pretesto: è creare la condizione individuarne l'identità.
    Ci sono due modi di fraintendere l'oggettività del testo: a un estremo, prendere tutto alla lettera, come se le parole fossero essenze immutabili e non prodotti storici dell'uomo; all'altro, scavalcare la lettera per trovare un senso che non è più frutto di interpretazione, ma di invenzione. E come spesso gli estremi si toccano, anche qui da ambedue le parti si arriva a liquidare la serietà dell'impegno ermeneutico, cioè l'attenzione all'autore, l'ascolto, il rispetto, la considerazione per colui che parla attraverso il testo.

    3.1.2. La precomprensione del soggetto che interpreta

    Ma oggettività non è distacco impersonale.
    Si può entrare nel mondo di un altro, cogliere il significato che egli vuole trasmettere, soltanto se si è in sintonia con quel mondo, se si ha congenialità con quel significato. L'interpretazione è un fenomeno soggettivo perché personale; non è come un obiettivo che fotografa la realtà, ma come un organismo che la assimila secondo la propria capacità di recezione e di reazione.
    Soltanto impegnando la soggettività dell'interprete si può entrare nell'oggettività del testo; diversamente, il testo rimane muto e insignificante.
    Questo non vuol dire abbandonarsi al gioco incontrollato della soggettivizzazione.
    C'è una soggettività buona, che mette il lettore sulla stessa lunghezza d'onda del testo, che ne permette e agevola la comprensione (e si chiama perciò precomprensione); e c'è una soggettività scorretta, che ostacola o addirittura chiude l'accesso al testo (ed è pregiudizio). Si può dire che l'educazione ermeneutica è il cammino dai pregiudizi alla precomprensione, dalla cattiva alla buona soggettività.
    Questo cammino si impara praticandolo.
    L'apprendimento dell'interpretazione avviene attraverso lo sforzo e l'esercizio dell'interpretare stesso. C'è un influsso reciproco tra testo e lettore chiamato circolo ermeneutico che. se praticato con vigilanza, porta alla progressiva sintonizzazione del lettore sul testo e alla sempre più intensa capacità di penetrarlo.
    Un'ultima osservazione. Ogni testo può essere capito per ciò che vuol dire in se stesso, senza che questa comprensione implichi un'adesione. una partecipazione esistenziale in prima persona. In questo caso l'apporto della soggettività del lettore consiste nel portare dentro di sé una ricchezza di interessi culturali che lo renda sensibile all'argomento trattato, aperto alle sue problematiche.
    Ma si può anche accostare un testo chiedendosi che cosa esso può e vuole dire per me, quale verità esistenziale intenda consegnarmi perché io la accolga e ne viva. In questo caso il contributo dei soggetto è più profondo: non basta un'identità di interessi culturali, ma è necessaria una disponibilità al coinvolgimento vitale, alla messa in questione di se stessi. in una parola. alla “conversione”. è questo il caso di testi portatori di messaggi religiosi e comunque salvifici; è, in particolare, il caso della bibbia.
    Se per comprendere qualunque parola è necessario essere mentalmente aperti al suo significato, per comprendere la parola di Dio come tale bisogna essere integralmente aperti al suo messaggio. Ma con questo siamo ai problemi ermeneutici che la parola di Dio comporta specificamente.

    3.2. Coscienza ermeneutica e Parola di Dio

    Se ogni testo ha una sua oggettività, che è l'intenzione dell'autore, qual è l'oggettività della bibbia in quanto parola di Dio?

    3.2.1. La bibbia non parla che della salvezza

    In una concezione destoricizzata, considerare la bibbia parola di Dio equivale a conferire a ognuna delle sue parole, a ognuna delle sue affermazioni, tutto il peso dell'autorità divina; indipendentemente dal suo contenuto, ogni proposizione biblica è vera, infallibilmente vera, perché garantita dalla veracità di Dio, che non può ingannarsi né vuole ingannare.
    Ma una volta che la parola biblica è letta e compresa dentro il gran mare della vita degli uomini, espressione della loro storia e dunque anche dei loro errori, non si può cercare in una legittimazione sacra di ogni frase il suo carattere di parola di Dio; questo va invece cercata sul piano del contenuto: di un contenuto di cui soltanto Dio possa farsi portatore, e di cui egli effettivamente si faccia portatore attraverso l'intrico di esperienze e parole umane.
    Questo contenuto è la salvezza dell'uomo.
    Per il momento non ci interessa determinare con più precisione che cosa significhi salvezza dell'uomo ma, piuttosto, che cosa significhi che essa è il contenuto centrale della bibbia in quanto parola di Dio.
    Che la bibbia sia stata scritta per la salvezza dell'uomo è un'affermazione che non fa problema. Ma questo dice soltanto che essa è il fine, la ragione che, per cosi dire, ha spinto Dio a ispirarne la scrittura.
    Affermando che la salvezza dell'uomo è il contenuto della bibbia, noi intendiamo dire qualcosa di più preciso; e cioè che la bibbia non parla d'altro che di questa salvezza; che essa non contiene né insegna direttamente dottrine su Dio e sul mondo, ma parla di Dio e del mondo solo in riferimento all'uomo, solo per parlare dell'uomo e dei suo destino, della sua vocazione e della sua realizzazione.
    Ma proprio questo la qualifica come parola di Dio: soltanto Dio può dire all'uomo chi egli sia, da dove venga, dove vada; soltanto Dio può definire l'uomo, misurarne la realtà, e comunicargli questa misura che è la statura del suo essere.
    Questa è l'oggettività della parola di Dio.

    3.2.2. Lettura di fede della bibbia: una lettura “per me”

    Su questo punto si innesta il discorso sulla soggettività dell' interpretazione.
    Per capire un contenuto ci vuole sempre una sintonia, una congenialità. Ma altro è percepire un contenuto “in sé”, altro è coglierlo “per me”. Nel primo caso la sintonia è un interesse comunque motivato; nel secondo è adesione al testo, è consenso a ciò che esso dice.
    Si può accostare la bibbia con simpatia, come un grande documento culturale, leggendovi ciò che essa dice sull'uomo come un'ipotesi interessante e istruttiva, da ascoltare con rispetto e da confrontare con altre. E la si può accostare come parola di Dio, sentendo rivolta a sé quella definizione d'uomo, quella proposta d'esistenza che essa avanza, avvertendola come parola che ha la forza perentoria di un imperativo assoluto, di un'interpellazione incondizionata.
    Leggere la bibbia con fede è, insieme, leggerla come parola di Dio e come parola assolutamente valida sull'uomo.
    Ma come si accende questa fede, come si arriva a percepire nella bibbia la parola di Dio e, di conseguenza, ad accogliere da essa la parola decisiva sull'uomo?
    Le strade effettive sono molte, e appartengono alla biografia individuale.
    Ma c'è un cammino di diritto che passa dentro tutte le strade di fatto, che le qualifica al di là delle modalità individuali come itinerari di fede, come accesso alla fede biblica. Fede autentica nella bibbia come parola di Dio è quella che ultimamente nasce non da circostanze esterne, come l'ambiente di provenienza e di appartenenza, né da un'idea di Dio già posseduta e poi applicata alla bibbia, ma dall'esperienza stessa della verità della bibbia, dalla percezione dei suo valore intrinseco, dall'evidenza esistenziale del suo messaggio, dalla forza di convinzione della sua parola.
    È come nella conoscenza di una persona: una cosa è rifarsi a una presentazione, a una raccomandazione, o comunque a un sistema di coordinate conoscitive e valutative correnti, altra cosa è scoprire direttamente il suo valore perché questo si impone con la stessa sua evidenza e irradiazione.

    3.2.3. La precomprensione soggettiva: il bisogno di salvezza

    Eppure, per quanto nuovo e creativo sia l'incontro con una persona, per quanto esso possa relativizzare tutti i modelli precedenti e determinare come un nuovo orizzonte, non sarebbe possibile se tra i due non esistesse alcun legame previo, alcuna affinità, se la situazione anteriore alla conoscenza fosse di radicale e totale indifferenza. Tutto ciò che, nella scoperta di un'amicizia, mi promuove e mi arricchisce, risponde a un'attesa che già covava in me, a un bisogno latente, a una ricerca che forse s'ignorava ma che non per questo è meno vera.
    Lo stesso vale per la parola di Dio. La possibilità di riconoscervi la parola di salvezza per l'uomo è legata al bisogno di salvezza che abita in ogni uomo.
    Come ama dire Bultmann, uno dei maestri dell'esegesi e della teologia del '900, la comprensione della bibbia esige nell'uomo una connaturata precomprensione; anzi, l'uomo stesso è questa precomprensione, perché l'uomo stesso è bisogno di salvezza, e dunque lo sappia o non lo sappia, lo voglia o non lo voglia è ricerca di Dio.
    Il bisogno di salvezza è cammino verso la fede per chi ancora non crede, ed è cammino dentro la fede per chi ne ha varcata la soglia; è disposizione a capire la bibbia per chi vi si accosta, ed è luce di interpretazione per chi la frequenta. Quella vita dentro cui la bibbia è nata, dentro cui è stata rivissuta, dentro cui va ricollocata per essere capita, non è altro che il bisogno di salvezza nella pluralità delle sue sfaccettature, nella complessità delle sue manifestazioni, nella polivalenza del suo dispiegarsi. Perché, se unico è il bisogno di salvezza, diverse sono le sue espressioni, secondo una gamma di diversità in cui entrano dalle grandi componenti storiche e sociali fino alle minime striature individuali.
    Questo spiega la diversità delle “letture” della bibbia lungo i secoli, già all'interno della tradizione biblica stessa e poi nella tradizione delle chiese cristiane (ma lo stesso si potrebbe dire delle comunità giudaiche).
    E questo spiega perché, negli ultimi decenni, l'esplosione della coscienza ermeneutica abbia significato un rapido moltiplicarsi di differenti e nuove letture; la consapevolezza che ogni comprensione è modellata da una precomprensione ha portato alla accentuazione di precomprensioni diverse, cioè di modi differenti di intendere il bisogno di salvezza e di sottolinearne questo o quell'aspetto.
    Si sono venute cosi delineando una lettura esistenziale, una lettura nonreligiosa, una lettura politica (a sua volta interiormente diversificata), una lettura “negra”, una lettura materialista; e, più recentemente, interpretazioni della bibbia comandate da un'ottica ecologica o femminista o altro.
    C'è qualcosa che, pur nella loro differenziazione, quasi tutte le accomuna, ed è il loro accento sul carattere presente della salvezza, sulla sua terrestrità; anzi, sul suo carattere oggettivo, esterno, sociale e cosmico. Ma nel frattempo riprendono quota letture spiritualiste, che della salvezza accettano la presenzialità ma ne rivendicano l'essenza di interiorità: all'interno dell'individuo e all'interno della comunità in preghiera. E gode di rinnovato prestigio la lettura apocalittica della bibbia, che vede la salvezza trasferita oltre la storia, nell'intervento definitivo di Dio che trasfigurerà ogni cosa. ognuna di queste letture ha una sua legittimità, in quanto coglie e valorizza un aspetto effettivamente presente nella bibbia. Ma noi crediamo che vi sia un luogo centrale e originario da cui leggere la parola di Dio e su cui interrogarla: e chiamiamo questo luogo vita quotidiana.

    3.3. La vita quotidiana: ricerca del senso

    Molte sono le definizioni di vita quotidiana, e spesso comandate da presupposti ideologici: come chi ne sottolinea il carattere di autenticità, legata all'immediatezza dei rapporti e contrapposta alla massificazione indotta dai grandi numeri; o chi, al contrario, ne ideva la dimensione di routine, cioè di ripetitività e di anonimato.
    Noi crediamo che la vita quotidiana non sia, come tale, né autentica né inautentica, né buona né cattiva. Noi diciamo che la vita quotidiana è il luogo della realizzazione del senso; ma non perché lo porti dentro di sé e lo produca in forza di se stessa, non perché sia, come tale, dotata e ricca di senso.
    La vita quotidiana è collegata al senso perché è dentro di essa che ne sorge la richiesta; è il luogo del senso perché ne è la domanda, la ricerca, la postulazione. Che vi sia una risposta, che si dia una possibilità di trovare H senso, la vita quotidiana non può dirlo da se stessa; ma, se questa risposta c'è, non potrà manifestarsi che nella vita quotidiana; se il senso si dà, non potrà che darsi dentro di essa.

    3.3.1. La vita quotidiana come prospettiva: la domanda di senso

    Che cos'è dunque la vita quotidiana? Crede che la si possa definire come prospettiva e come spazio.
    Come prospettiva. Ogni uomo, vivendo, apre attorno a sé un “mondo”. Noi siamo portati a pensare il mondo come il contenitore universale delle cose, mentre esso è prima di tutto la trama delle relazioni vissute che ogni individuo dischiude attorno a sé; è un mondo (il mio, il tuo, il nostro mondo) prima di essere il mondo. Relazioni vissute significano infatti rapporti dove le cose si presentano all'uomo non in quanto oggetti di conoscenza distaccata e neutrale, ma come correlati ai suoi interessi, come risposta ai suoi desideri e minaccia al loro soddisfacimento, come momenti dei suoi progetti (in quanto strumenti della loro realizzazione o in quanto ostacoli ad essa).
    L'uomo si sveglia al mondo come centro di interessi; il mondo viene incontro all'uomo come risposta, in bene o in male, a questi interessi: come cibo e come rifugio, come luogo di sussistenza e di conquista, di affermazione e di competizione.
    Ma accanto agli interessi settoriali, che trovano risposta in questa o quella risorsa, in questo o quell'aspetto della realtà, si viene configurando un interesse generale, dove l'uomo è coinvolto non in un suo bisogno specifico, ma in quanto soggetto nella sua globalità, e dove il mondo è guardato non nell'ottica di un bisogno e interesse particolare, ma come corrispettivo di questo soggetto globale.
    Ci si chiede, insomma, non solo se questa o quella cosa è buona, integrabile in un dato progetto umano, ma se la realtà come tale è buona; se l'uomo trova in essa una casa, una abitazione fatta per lui prima ancora che egli potesse pensarci, o se invece egli si trova gettato in un mondo fondamentalmente estraneo, indifferente, cosi che non gli resti altro che fare di necessità virtù: addomesticarlo, adattarlo a sé e adattarsi ad esso alla bell'e meglio. È questa la domanda sul senso.
    Domanda che, prima di essere teorica, ha la figura e la passione di un bisogno; non dunque interrogativo se vi sia un senso, ma sua attesa; non problematica speculativa, ma ricerca esistenziale.
    Affermando che la vita quotidiana è il luogo di ricerca del senso, si intende dire che il senso è legato al soggetto e alla sua esperienza; che non può quindi essere realizzato come si realizza un prodotto, non può essere attuato con procedimenti “in serie”, come quelli con cui operano scienza e tecnologia, né con analisi e interventi generali, come quelli che pertengono al diritto e alla politica.
    Non che scienza e tecnologia, diritto e politica, non abbiano peso nella realizzazione del senso; ma possono esserne soltanto gli strumenti, non la fonte: questa può aver sede solo in un principio che sia capace di raggiungere il soggetto nel suo fondamentale rapporto con la realtà. Da questo punto di vista, vita quotidiana non è altra cosa dalla scienza, dalla tecnologia, dal diritto e dalla politica; è la prospettiva di senso che collega tutte queste attività al mondo del soggetto, è l'anima che le umanizza, l'humus che le feconda, il riferimento che le orienta.

    3.3.2. La vita quotidiana come spazio: un insieme di rapporti

    Ma la vita quotidiana è anche uno spazio. t l'insieme dei rapporti dei soggetto con uomini e cose che direttamente lo circondano, è la rete di azioni e reazioni, di attività e recettività, in cui ogni individuo si trova più immediatamente immerso, di cui riceve l'influsso e su cui può a sua volta esercitarlo in forma diretta. In questa seconda accezione, la vita quotidiana è distinta dalla scienza, dalla politica, ecc.; e può avere con esse rapporti più o meno positivi, di collaborazione o di conflitto, di conciliazione o di tensione.
    Ciò che collega tra di loro le due accezioni di vita quotidiana come prospettiva e come spazio è sempre l'idea del soggetto umano come centro di relazioni vissute e quindi di ricerca del senso.
    In quanto ogni uomo è centro attivo, apertura di un mondo, fonte della ricerca di senso, la vita quotidiana è prospettiva, è orientamento, è principio animatore di ogni umana impresa.
    Ma ogni uomo è anche parte del mondo, corpo tra altri corpi, oggetto di attività altrui; cosi che la sua prospettiva, per quanto virtualmente infinita e onnicomprensiva, è di fatto delimitata nella sua efficacia, è circoscritta nella sua azione, e descrive perciò attorno a sé un'area definita di irradiazione e di influsso. t questa la vita quotidiana come spazio.

    3.4. Il circolo ermeneutico tra Parola di Dio e vita quotidiana

    A questo punto non è difficile capire quale relazione di affinità elettiva leghi tra di loro parola di Dio e vita quotidiana.
    La parola di Dio, avendo come contenuto centrale e qualificante la salvezza dell'uomo, può far breccia soltanto lì dove si manifesti il bisogno di salvezza, lì dove l'uomo sia alla ricerca di un bene che non riguardi questo o quel suo bisogno settoriale, ma la totalità del soggetto umano.
    Ora, questo bene o salvezza non è che un altro nome di ciò che abbiamo chiamato il senso. Noi non sappiamo in che consista la salvezza; possiamo soltanto dire che essa è e non può che essere la risposta piena al bisogno di senso che inabita la vita dell'uomo.
    Dunque, se la parola di Dio annuncia all'uomo la salvezza, il luogo dove accoglierla può essere soltanto dove quel bisogno di senso si manifesta: può essere soltanto la vita quotidiana.
    Tra vita quotidiana e parola di Dio si stabilisce così un “circolo ermeneutico”: la vita quotidiana ci dona l'ottica in cui leggere la parola di Dio, l'angolo di precomprensione che ci permette di capirne il messaggio; la parola di Dio ci dona l'indicazione lungo cui sviluppare la vita quotidiana perché essa approdi al senso e si muova dentro la sua geografia. Questo riguarda la vita quotidiana come prospettiva.
    Ma anche la vita quotidiana come spazio è coinvolta nel circolo ermeneutico con la parola di Dio, poiché è in questo spazio che la prospettiva di senso originariamente si esercita. Intendiamoci: noi non possiamo sapere in anticipo che e come la vita quotidiana sia il luogo della salvezza; se così fosse, la lettura della bibbia sarebbe superflua. Noi portiamo la vita quotidiana nelle due accezioni dette nell'area di significato che il testo biblico disegna, per vedere se e che cosa esso intenda comunicarci.


    4. PAROLA DI DIO ALLA LUCE DELLA VITA QUOTIDIANA RILEGGERE IL MESSAGGIO

    Accostata all'ottica della vita quotidiana come ricerca di senso, la bibbia parla, si esprime, si pronuncia con una tale spontaneità ed esuberanza, da dare subito l'impressione che quell'ottica sia la sua, che la sua “collocazione vitale” più originaria sia proprio il quotidiano.
    Tentiamone una rilettura su questa lunghezza d'onda.

    4.1. L'Alleanza: legge e promessa

    Si ama dire che Israele nasce nell'esodo, con un atto di liberazione compiuto dal suo Dio, che lo strappa al la sottomissione e ne fa un popolo indipendente. Ma questa è soltanto la faccia negativa dell'identità di Israele, il suo punto di partenza: liberato dalla schiavitù.
    La faccia positiva è quella che risponde alla domanda: liberato per che cosa?
    E la risposta suona: per entrare nella terra promessa e vivere su dì essa come popolo di Dio. La terra promessa è l'utopia costitutiva di Israele, quella che lo definisce dal di dentro, che ne alimenta l'autocoscienza e ne fonda la speranza.
    Eppure, i contenuti che riempiono quest'utopia non hanno nulla di esilarante e di sbalorditivo: sono i beni che garantiscono e gratificano la vita di ogni giorno: salute, sufficienza, fecondità, integrazione nella comunità; insomma, un rapporto positivo con la realtà che circonda l'individuo: con uomini e cose.

    4.1.1. L'utopia del quotidiano in Israele: vita, pace, benedizione

    Si potrebbe dire: un quadro monotono, una promessa poco allettante. Ed è questo il nostro giudizio di popoli opulenti che, ormai assuefatti all'abbondanza, alla quantità, hanno perso sia il senso dei necessario che quello della qualità.
    È invece questo che caratterizza l'utopia quotidiana di Israele quale si esprime nella descrizione della terra promessa: quel senso del necessario, che soltanto i poveri sanno avere; e poi, il senso della bellezza, della qualità di questo necessario, della sua ricchezza naturale e umana. Perciò nelle pagine della bibbia circola l'odore della terra e dei suoi frutti, si distende la linea dei colli e delle valli di Palestina, scorre l'acqua dei suoi fiumi e gorgoglia quella dei suoi pozzi. La pagina biblica ha spesso l'incanto di un mondo di sogno; ma questo mondo non è altro che la vita di ogni giorno colma dei suoi beni elementari; e il segno è nella capacità di vederli, di apprezzarli, di gustarli.
    Perché i beni della vita quotidiana hanno tanto valore?
    Anzitutto, perché essi sono “vita”; e qui dobbiamo intendere il termine in un senso diverso da quello in cui l'abbiamo finora usato.
    Per noi vita è l'esistenza, e sono tutti i problemi che la agitano, la muovono; come abbiamo visto, vita è il bisogno di senso e di salvezza.
    Nel linguaggio della bibbia, vita è invece proprio il senso e la salvezza; non il puro esistere, ma l'esistere dotato di tutto ciò che lo rende desiderabile, amabile e degno. Il concetto biblico di vita corrisponde al nostro “qualità della vita”. Le cose di ogni giorno, quando ci sono, sono belle e buone, perché ricche di senso: sono “vita”.
    Non è, questa, una spiegazione (che non spiegherebbe niente); è un'evocazione, una suggestione.
    La vita biblica dice, come per noi senso o salvezza, un positivo che si definisce, da una parte, dal suo contrapporsi al negativo la morte, l'assurdo, la rovina dall'altra da un suo sapore interno, indefinibile ma realissimo. Israele sogna la “vita” perché nel deserto ha gustato la morte, la desolazione, e se ne sente ancora braccato, la sente ancora come una possibilità minacciosa; e poi, perché ne gusta a tratti la positività, e questa testimonia da sé il suo valore, come un bicchier d'acqua per l'assetato e la capacità di movimento per chi è stato paralizzato.
    Un altro termine a cui Israele ricorre per dire il senso delle cose è “shalom”, che noi traduciamo abitualmente con “pace”.
    Ma la definizione più giusta di shalom è “pienezza armonica”. Pienezza dice salute, benessere, integrità; armonica dice che tutto questo non è casuale ma risponde a un ordine delle cose, ha a che fare con i rapporti di cui il mondo è tessuto. Quando i rapporti sono buoni, un insieme funziona, un organismo sta bene, una collettività prospera: shalom significa pace in questo senso ricco e denso.
    Un terzo termine per dire il valore dei beni è “benedizione”: essi vengono da Dio, da quella sua parola efficace per la quale dire è fare; da quella parola che ha creato il mondo sette volte buono. Nei beni è come impastato anche quel bene che è la generosità di Dio verso il suo popolo, la sua bontà e grazia, la sua presenza donatrice.
    Vita, pace, benedizione: ecco ciò che Israele vede nel quotidiano riuscito; ecco il respiro della sua utopia, fatta di cose semplici, elementari. E quando questa visione utopica del quotidiano prende voce nasce la pagina biblica; quando la contemplazione delle cose di ogni giorno come vita, shalom, benedizione, trova le parole adatte, nascono le ammirate descrizioni della terra promessa, e i salmi di lode per la creazione o, più tardi, le figure stupende dei tempi messianici.
    Ecco perché queste pagine parlano soltanto a chi le legge alla luce della vita quotidiana; perché è in questa luce che sono state scritte come pagine fondamentali di teologia. Diversamente, esse sono soltanto oggetto di compiacenza estetica.
    Ora, le immagini bibliche dell'utopia hanno certamente una dimensione estetica; ma la loro bellezza non è un rivestimento esterno e superfluo: è la bellezza stessa della terra quale Dio la vuole per il popolo che egli ama; una bellezza dove splende la potenza della sua parola e la luminosìtà della sua grazia.

    4.1.2. La terra promessa è vincolata all'obbedienza alla legge

    Ma non abbiamo ancora toccato un punto sostanziale del quotidiano in Israele. La terra promessa non viene data da Dio come un possesso scontato e garantito una volta per tutte; il suo dono viene vincolato a una condizione: Israele deve comportarsi degnamente, deve vivere all'altezza di quella terra. Insieme con la terra, Dio offre al popolo la legge; e la legge è il codice di vita, è il modello di condotta, seguendo il quale Israele è in grado di sviluppare le virtualità che l'esistenza su quella terra contiene, è in grado di farne davvero un luogo dì vita, di shalom, di benedizione.
    La legge ha due facce: è data da Dio, espressione della sua volontà, esigenza di obbedienza da parte dell'uomo; ma i suoi contenuti sono in funzione dell'uomo stesso, sono rivolti al suo bene, alla riuscita del suo esistere.
    C'è già qui quella dualità di aspetti che poi si fissa nella bibbia: la legge è parola di Dio ed è salvezza dell'uomo; insieme con la terra, essa costituisce l'alleanza tra Dio e l'uomo, dove Dio è il signore e il donatore, l'uomo è il vassallo e il beneficiario.
    Ora, se già nel dono della terra spicca l'orizzonte della quotidianità, ancor più evidente è quest'orizzonte nel dono della legge: essa infatti si rivolge all'uomo in concreto, a Israele come collettività e come singolo interpellando la sua libertà, mettendo nelle mani dell'uomo la riuscita stessa dei proprio esistere.
    Ma questo vuol dire che tale riuscita non è mai né un dato naturale né una conquista fatta una volta per tutte: essa viene continuamente rimessa in gioco, nel gioco della libera decisione, della scelta di fronte a cui l'uomo continuamente si trova: la scelta tra l'obbedienza a Dio nella sua legge e il rifiuto di essa tra la fedeltà e l'infedeltà all'alleanza; di conseguenza, tra la vita e la morte, tra la benedizione e la maledizione.
    Il tempo della scelta è ogni giorno: è l'“oggi” che cosi spesso riecheggia nelle pagine del Deuteronomio, il libro dei presente di Israele (come l'Esodo è il libro della sua memoria storica). Oggi la parola di Dio chiama nel dettato della legge e sollecita la concreta obbedienza dell'uomo; oggi la terra deve diventare, attraverso quest'obbedienza, terra promessa, luogo di vita e di pace.
    Un termine che può sostituire quello di osservanza della legge è “giustizia”, che dice a un tempo l'essere giusti dinnanzi a Dio e verso gli uomini; infatti la legge morale che dà concretezza all'alleanza con Dio è un codice eticosociale che esige l'aiuto al povero, la sua promozione. Ed è proprio nella terminologia della giustizia che troviamo quella formulazione che riassume la spiritualità di base dell'Antico Testamento, e che sentiamo ancora così attuale: “frutto della giustizia sarà la pace” (Is 32,17).
    Tutto questo promessa e legge è rivolto direttamente a Israele; ma la logica che lo sottende è già universalmente umana. Vi sono comunque testi in cui quest'universalità è dichiarata; il più importante è il racconto delle origini nell'eden (Gen 2). t facile leggere in questa pagina il segno infantile di un mondo felice senza sforzo, riuscito senza fatica, perfetto senza impegno né lotta. Ma il suo significato è esattamente il contrario.
    L'eden è il mondo della maturità umana, perché è sotto il segno dell'alleanza e della legge. Adamo cioè l'uomo come tale ha dinnanzi a sé la possibilità di vivere su una terra benedetta, dove le relazioni con se stessi, con gli altri, con il mondo, presentano una pienezza senza riserva e un'integrità senz'ombra. Ma la realizzazione di questa possibilità non è scontata; è invece legata a un atteggiamento di fondo: vivere questa terra nella luce di Dio, accettarne la signoria e non volersi sostituire a lui. Come la terra promessa, anche l'eden che ne è la versione su scala generale ha in sé l'impronta della libertà, quindi del rischio, della scelta: può riuscire e può fallire; e l'alternativa tra riuscita e fallimento è nel cuore del'uomo.
    In questa congiunzione tra cuore e mondo, tra fedeltà dell'uomo e riuscita della terra, c'è la più profonda apologia della vita quotidiana.

    4.2. La colpa e la morte

    Se la vita viene dalla fedeltà all'alleanza, nell'obbedienza alla legge (cioè nelle opere di giustizia), la morte deriva dall'infedeltà, da una condotta che si discosta dal cammino della legge e si chiude alle esigenze della giustizia.
    Su questo punto, due sono le affermazioni che ci trasmettono il messaggio dell'Antico Testamento: una di principio e una di fatto.

    4.2.1. Il legame indissolubile tra disobbedienza e morte

    La prima è, appunto, che lo stesso vincolo indissolubile che lega tra loro obbedienza e vita salda tra loro anche disobbedienza e morte. E come vita non significa semplice sopravvivenza ma positività e sapore dei beni, così morte non è tanto la cessazione dell'esistenza quanto la sua corrosione: ogni forma di negativo che minaccia l'integrità dell'essere, che menoma la pienezza di vita, è biblicamente morte.
    Morte è la malattia, la povertà, l'emarginazione, il pericolo che incombe, l'esilio; tutte queste carenze, queste figure di negatività esistenziale, segnano un parziale fallimento dell'utopia umana e della promessa divina. Ora, dietro di esse la coscienza di Israele non vede profilarsi una fatalità, un destino baro, bensi un'altra negatività, più originaria e profonda: la colpa, la ribellione all'alleanza; dietro il male che colpisce l'uomo c'è il male che l'uomo fa.
    Si noti bene che il rapporto non si stabilisce dentro l'individuo (la connessione: hai peccato, dunque soffri, riferita all'individuo, è posteriore) ma riguarda la comunità, la trama delle relazioni tra individui dentro la collettività.
    L'alleanza non dice: chi rompe paga; ma: per ognuno che rompe c'è qualcuno che paga; afferma dunque un gioco di corresponsabilità reciproca, un principio di solidarietà. Perciò chi è colpito dal male si trova in una situazione paradossale: in quanto quel male è effetto della colpa, egli si sente oggettivamente lontano da Dio, escluso della sua benedizione; ma se la colpa non è sua, egli è vittima innocente, si sente più vicino a Dio e lo chiama con passione e fiducia.
    Come i beni quotidiani nella loro semplicità riempiono di gioia l'uomo di Dio perché sono vita e benedizione, cosi la loro assenza le riempie di un'amarezza che non è soltanto disagio sensibile ma coscienza che essa è morte e maledizione. E come il godimento dei beni fa sprigionare il canto di lode a Dio, così la loro mancanza strappa il “grido” di lamentazione e la domanda dell'intervento divino.

    4.2.2. il fallimento di Israele é frutto dell'alleanza tradita

    Ma l'Antico Testamento non si limita a stabilire la relazione di principio tra peccato e morte; esso testimonia anche, in secondo luogo, che quella relazione ha trovato una puntuale messa in opera nella storia d’Israele.
    I poveri, i falliti, i privati delle benedizioni divine non sono un'ipotesi che la storia del popolo di Dio abbia scongiurato; sono una dolorosa realtà che continuamente la accompagna. E questa presenza si fa così consistente, da costituire e denunciare il fallimento stesso di Israele come popolo di Dio.
    È dall'interno delle sue file che si alza la denuncia: alcune voci ispirate i profeti richiamano al popolo, e soprattutto ai suoi capi, la legge fondamentale dell'alleanza nella sua faccia minacciosa: Il rapporto tra colpa e morte, tra ingiustizia ed eclissi della pace.
    Ma il richiamo, più che a evitare la catastrofe, serve a spiegarla quando essa arriva.
    Quando Gerusalemme cade nelle mani di Babilonia, quando il tempio viene distrutto e la parte più qualificata del popolo deportata, Israele comprende che tutto ciò non è cattiva sorte né soltanto malaccorta conduzione politica; è frutto dell'alleanza tradita, è la potenza di morte che emana dalla colpa. Dietro la caduta clamorosa di un regno c'era la quotidiana caduta dei suoi abitanti da quell'obbedienza alla legge che avrebbe potuto garantire la continuità della terra promessa. C'era lo svuotarnento della legge, che comandava che i beni fossero di tutti e li vedeva invece accumulati nelle mani di pochi, ridotti da dono di Dio per la comunità a possesso di settori privilegiati dentro la comunità.
    Come per la promessa, cosi per la colpa, Israele non fa che esprimere su scala ridotta la vicenda universale dell'umanità; vicenda che trova una formulazione diretta nella pagina del “peccato originale”: con la ribellione a Dio l'uomo determina la propria cacciata dall'eden, la perdizione del proprio esistere.
    Originale è davvero questa ribellione, e la rovina che ne deriva; ma non perché sia accaduta alle origini temporali del mondo, nell'episodica avventura di un individuo, bensì perché essa costituisce, in negativo, l'opzione fondamentale di ogni uomo e dell'intera collettività umana: rifiutarsi di vivere la terra secondo Dio e volerle imporre la propria signoria, volersene fare padroni. Allora la terra sfiorisce, perché cessa di scorrere nelle sue vene la linfa che la vivifica: la potenza d'amore e di benedizione che la rende buona.
    Anche qui l'ottica del quotidiano è decisiva: quello che, preso nella sua letteralità, sarebbe un mito inverosimile, interpretato nella prospettiva dell'“oggi” continuo diventa l'autocoscienza sempre valida della nostra capacità di guastare i rapporti, di rovinare l'amicizia con ciò che vive attorno a noi.

    4.3. La redenzione messianica

    Colpa e morte non sono l'ultima parola. Dio vi risponde con la proposta di una nuova terra promessa, di un rinnovato eden.
    È questa l'immensa speranza che attraversa le profezie messianiche: il mondo buono può tornare, vita e pace possono rifiorire. E perché la ribellione umana non abbia a far precipitare ancora tutto, Dio inventa una soluzione che l'alleanza con Israele non contemplava: dona all'uomo, invece di una legge come codice oggettivo di comportamento, il suo stesso Spirito come principio soggettivo: principio non di un comportamento automaticamente buono, ma di una libertà capace di rinnovarsi, di rialzarsi dopo nuove eventuali cadute, di risorgere continuamente dopo ogni colpa e ogni morte.
    L'arco intero del dono messianico è dunque questo: in Dio, la volontà efficace di perdono; nell'uomo, lo Spirito che restaura la libertà; nel mondo, la vita che scaturisce dalla libertà buona.
    Allora, anche il significato della presenza di Gesù come Messia va inteso sulla lunghezza di quest'onda riconciliatrice e ricreatrice: egli porta il perdono del Padre, dona lo Spirito, inizia la ricostituzione del mondo; e tutto ciò, prima nel tempo breve della sua vita pubblica e nello spazio limitato della sua terra, poi in tempo e spazio universali; prima nell'azione messianica, poi nella passione messianica.

    4.3.1. L'azione messianica di Gesù

    Sedendo a tavola con i peccatori, Gesù compie un gesto non solo di profonda rottura nelle convenzioni sociali, ma di sconvolgente portata teologica. In nome di Dio egli rivolge l'espressione più tipica di amicizia verso coloro che sono, ufficialmente e realmente, in posizione di inimicizia con Dio (“sotto la collera di Dio”, come dirà Paolo). Sedere insieme a tavola è ristabilire la comunione; non solo ricucire un'intesa funzionale, ma condividere quanto c'è di più personale: l'intimità della casa, il momento del pasto.
    Ma questa riconciliazione non vuol essere unilaterale: in Gesù, Dio diventa amico dei peccatori perché i peccatori diventino amici di Dio, si convertano a lui. Il gesto di pace è accompagnato dalla parola che chiama a conversione; e non si tratta di parola tutta esteriore, che richiami di fronte all'interlocutore l'esigenza di cambiare ma lo lasci in balia di se stesso, delle proprie risorse di mutazione.
    La parola di Gesù rende presente il regno di Dio: contiene e sprigiona quella signoria di Dio che il peccato ha cancellato dalla vita dell'uomo la parola efficace, che penetra nel cuore dell'uditore, che diventa il cuore dei suo cuore, che gli ridona la libertà per il bene, la capacità di aderirvi, di operarlo, di diffonderlo. E quale sia la creatività del bene, Gesù lo mostra in prima persona con quegli interventi che sconfiggono la malattia, la fame, la possessione diabolica, la morte: nella prassi messianica di Gesù si vede esemplarmente come il cuore giusto produca il mondo buono.

    4.3.2. La passione messianica di Gesù

    Ciò che Gesù realizza, agendo, per un piccolo numero di conterranei e contemporanei, lo realizza, morendo, per gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo. Nella morte di Gesù Dio concede il perdono all'intera umanità: è questa l'affermazione centrale del Nuovo Testamento. Il Crocifisso che risorge e siede alla destra del Padre è, rappresentativamente, l'umanità riaccolta nella casa dello stesso Padre, come il figliol prodigo.
    Ma perché la rappresentanza diventi realtà, dal Crocifisso risorto scaturisce lo Spirito che rende puntuale e attivo nelle coscienze il perdono, che provoca la conversione e fa germinare la libertà.
    Da questa libertà nasce la nuova esistenza, che nella primitiva comunità di Gerusalemme trova un'espressione eloquente: esistenza di comunione, di partecipazione, di sufficienza per tutti, di gioia (Atti 2): è il ritorno all'eden, è la terra promessa, è la pace segnata dai profeti.
    Le comunità dei Nuovo Testamento conosceranno la tentazione di fuggire dal quotidiano: alcune verso il futuro, con un'attesa spasmodica del ritorno di Gesù e della fine del mondo; altre verso l'interno, con una lo sopravvalutazione di fenomeni carismatici quali l'estasi, l'eccitazione nella preghiera e simili. Ma la coscienza di fede, guidata dai suoi maestri e teologi (soprattutto Paolo e Giovanni), sarà riportata all'autentica creatività dello Spirito: i frutti della fraternità, l'edificazione della comunità, l'aiuto reciproco, la volontà di pace. Vivere nel segno del Crocifisso risorto, accogliere e praticarne la signoria, è lavare i piedi agli uomini, è prolungare la sua prassi di servizio.
    Se l'azione messianica di Gesù è stata la consacrazione del quotidiano suo e di chi lo incontrava, la passione messianica è per sempre nella luce del Risorto e nell'effusione dello Spirito la consacrazione del quotidiano di ogni uomo, la ridata possibilità di viverlo con senso convivendolo con amore. Ma per trovare nei vangeli questo annuncio e questa promessa bisogna leggerli con quell'attesa e quella ricerca di senso che la vita quotidiana porta in sé.


    5. LA VITA QUOTIDIANA ALLA LUCE DELLA PAROLA Di DIO. RIVIVERE IL MESSAGGIO

    Se accostiamo parola di Dio e vita quotidiana, sappiamo che esse si illuminano a vicenda. Ma questo influsso reciproco non è uguale dalle due parti, la vita quotidiana funge da precomprensione e aiuta a rintracciare nel testo una linea di messaggio che, diversamente, passerebbe inosservata; la parola di Dio investe della luce del suo messaggio la vita quotidiana per indicarle quel senso di cui essa è in cerca. La vita quotidiana permette di trovare nella bibbia un significato che in essa è presente ma rischia di restare nascosto; la bibbia dà alla vita quotidiana un senso che questa da sola non possiede né saprebbe darsi.
    Dopo aver trovato quale messaggio emerge dalla bibbia interrogata con quella ricerca di senso che è la vita quotidiana, ora torniamo alla vita quotidiana con la ricchezza di senso che viene dalla bibbia.
    Ma dobbiamo qui distinguere due livelli di analisi: il primo riguarda la parola di Dio come tale, nella sua forma e nel contenuto centrale; il secondo riguarda l'articolazione di questo contenuto.
    Il primo risponde alla domanda: che cosa comporta per la vita quotidiana il sapere che Dio ha parlato e che la sua parola abita in mezzo a noi? Il secondo risponde a un'altra domanda, che specifica la prima: che cosa dice alla nostra vita quotidiana la parola di Dio insediata in mezzo ad essa?

    5.1. Il contesto centrale: la realtà ha senso

    Sapere che la parola di Dio abita in mezzo a noi significa affermare che la nostra vita quotidiana è dotata di senso.
    E poco ed è moltissimo.
    Non è ancora conoscere le determinazioni dell'esistenza, ma è sapere che questa non è abbandonata a se stessa, ha un fondamento; che alla sua origine non sta il caso ma un atto che le dà significato e valore, e che alla sua fine non sta il nulla ma il trionfo della vita.
    Ma la presenza della parola di Dio non riguarda solo il nostro esistere; essa abbraccia pure il nostro agire. in un'esistenza che non avesse ricevuto un senso ma dovesse darsene uno, quale che sia, l'agire dell'uomo sarebbe pura inventività, scelta che ha come misura unicamente se stessa; in un'esistenza a cui il senso fosse dato bell'e fatto, interamente compiuto, l'agire dell'uomo sarebbe semplice conservazione, mantenimento dell'ordine vigente. Ma la parola di Dio ha la forma di appello a gestire creativamente il senso che è stato donato; alla luce di quella parola l'agire dell'uomo è allora responsabilità, cioè libertà concreatrice, chiamata ad attuare quel senso che le è dato come possibilità, a portare a termine quel senso che le è dato come incompiuto.
    Alla luce della parola di Dio,* esistenza e attività dell'uomo costituiscono dunque un intreccio indissolubile di interpretazione della realtà e di trasformazìone della medesima. L'interpretazione è il momento fondante: è l'ascolto e la disponibilità, senza i quali la trasformazione si pervertirebbe in intervento arbitrario, in deformazione.
    La trasformazione è il momento della messa in opera dell'interpretazione, della sua traduzione operativa, senza la quale l'interpretazione ristagnerebbe in pura e inerte contemplazione.
    Interpretazione del senso e trasformazione del mondo non sono in contraddizione, ma in rapporto di continuità organica: il senso è dato ed è da fare, è donato ed è da operare; secondo la bella immagine evangelica, la parola di Dio è un senso: la vita è già nel seme, e non gli viene né dal terreno né dal lavoro, ma senza buon terreno e alacre lavoro il seme isterilisce e muore.
    L'incontro con la parola di Dio ha dunque questo duplice e unitario effetto: illuminare l'esistenza e attivarla, donarle la verità e chiederle di “fare la verità”.
    Ma come fare? che cosa fare concretamente?
    Per rispondere a questa domanda bisogna ricorrere alle parole in cui la Parola si è consegnata, bisogna interrogare la bibbia sulle linee specifiche del suo contenuto, indagare i tratti del suo messaggio. Vediamone l'articolazione.

    5.2. Il senso della realtà si realizza nel dono

    Lo scambio dei doni è una delle pratiche più diffuse nelle diverse culture umane. Ma quando noi leggiamo in profondità la storia di Dio con gli uomini quale è narrata nella bibbia, ci accorgiamo che qui il dono non è una pratica particolare, per quanto ampia, ma è la logica che tutto sottende.
    C'è un rito in cui questa logica prende figura, e che il Deuterononuo ci presenta in tonalità commosse e partecipi: è l'offerta delle primizie (Dt 26, 1 11). Con i primi prodotti annuali del suolo l'israelita si presenta al sacerdote, mette nelle sue mani la cesta (che viene deposta sull'altare) e pronuncia la professione di fede 01 “credo” d'Israele), in cui narra come Dio abbia liberato il popolo dalla schiavitù d'Egitto e l'abbia portato sulla terra promessa, da cui questi frutti provengono. Le primizie sono appunto il gesto di riconoscimento, insieme concreto e simbolico, che tutto viene da Dio ed è dono suo; inoltre alla gioia che si irradia da questo gesto sono chiamati a partecipare tutti, anche gli immigrati, così che non vi siano esclusi né emarginati.
    Il dono è scandito in due momenti: nel primo discende da Dio al popolo, nel secondo deve circolare dentro il popolo, da membro a membro, senza eccezioni. Al primo l'uomo risponde con la recettività, al secondo con l'attiva responsabilità.
    Abbiamo già incontrato questi due movimenti trattando dell'aspetto generale della parola di Dio: essa dà senso al mondo e sollecita la libertà dell'uomo a collaborare alla realizzazione di questo senso. Ma dobbiamo ora dare un volto più definito a questa presenza e attivazione del senso nella realtà; e la parola di Dio ci viene di nuovo incontro per dirci che questo volto va cercato nella logica del dono.
    In astratto, si potrebbe pensare che il senso della realtà debba essere accolto e custodito da ogni uomo nel segreto del suo cuore, e che la responsabilità nei confronti del senso sia di non disperderlo, di coltivarlo nella meditazione silenziosa, come luce e cibo dell'uomo interiore.
    Ma l'indicazione che ci viene dalla bibbia è diversa: essa ci dice costantemente dalla comunità dell'esodo alla comunità cristiana primitiva che il senso si oggettiva nei rapporti, che la responsabilità è corresponsabilità, che la realtà raggiunge il suo compimento soltanto se vissuta nello scambio della effettiva solidarietà.
    In una parola: secondo la bibbia il senso della realtà è il dono; e questa è la ragione più profonda per cui soltanto nella vita quotidiana esso può realizzarsi.
    Cerchiamo di riprendere quest'intuizione fondamentale della coscienza religiosa ebraica e cristiana, e di ripensarla a contatto delle esigenze di problematizzazione che sono le nostre.
    I punti che vogliamo brevemente fissare sono tre:
    - il dono come fondamento della qualità delle cose;
    - il dono visto nella prospettiva di atto personale che si dischiude nella vita quotidiana;
    - la conversione come cambio nel modo di guardare e trattare i beni terreni.

    5.2.1. Il dono fonda la qualità delle cose

    Anzitutto: l'affermazione che il dono è H senso della realtà non va presa come un'enunciazione retorica e devota, una parola d'ordine per risvegliare generosità sopite, per suscitare crocerossine dall'impegno inesauribile.
    Quell'affermazione vuol avere, invece, una portata ontologica: la realtà è nella misura in cui è donata.
    Per comprendere che significa questa asserzione, bisogna avere presente che le cose hanno senso soltanto in riferimento a un soggetto; in se stesse si limitano a “esistere”, come pure e mute presenze nel silenzio del mondo. t il rapporto con l'uomo che le fa “essere”, le illumina di un significato, fa emergere da esse un valore.
    Ma tale rapporto è molteplice.
    In quanto le cose entrano nel linguaggio dell'uomo, diventano intelligibili, si disegnano come figure nel quadro dell'universo progressivamente conosciuto e capito. Qui il loro “essere” è verità ed esprimibilità.
    In quanto rispondono ai bisogni dell'uomo, le stesse cose sono beni da usare e da godere; il loro”essere” è la bontà intesa come gradevolezza, fruibilità. Ma, come abbiamo visto, alla base di ogni cosa c'è l'amore creatore che la dona all'uomo, così che essa non è soltanto buona in quanto piacevole ma anche in quanto espressione di una bontà personale; così come un oggetto ricevuto in dono, oltre al suo valore intrinseco, ha H valore di testimonianza di un amore e di impegno a non dimenticarlo.
    È questa la dimensione radicale dell'“essere” delle cose; senza di essa, non sarebbero neppure intelligibili e piacevoli, utili e belle.
    La bontà del loro essere donate non appartiene loro, come invece vi appartengono le altre qualità; eppure è più interna alle cose di quanto siano le loro qualità, perché fonda queste qualità, è il loro stesso scaturire dalla sorgente dell'essere, è la creazione.
    Ora, questa dimensione si attualizza nella realtà se essa viene accolta e acconsentita; diversamente, rimane bloccata e come impedita. Accolta: il mondo mi viene da Dio ' Acconsentita: devo fare mia non solo la realtà ma anche l'intenzione che la dona; devo a mia volta donarla. In questo dono che consente al dono, in questa condivisione, la realtà raggiunge la pienezza dell'“essere” perché arriva alla sua destinazione, a quel fine che le urge dentro e che attende di essere compiuto.

    5.2.2. il dono è un atto personale nella vita quotidiana

    Ma allora è il secondo punto non esiste realtà che possa raggiungere la sua pienezza senza la mediazione della libertà personale. Infatti il dono è atto eminentemente personale.
    Tutte le tecniche e le strategie di trasformazione del mondo sono intrinsecamente inadeguate al compito, se non sono sottese da quella stessa volontà di dono da cui il mondo è creato e con cui è consegnato all'uomo. E invece, anche il minimo gesto di dono, se si concreta in un'azione oggettiva ed efficace, porta a compimento un frammento di mondo, gli conferiscono l'“essere” e il senso nella più profonda delle accezioni. Ecco la potenza della vita quotidiana: essa è il luogo privilegiato del senso perché è il luogo originario del dono.
    Se l'intenzionalità di dono può e deve essere presente in tutti gli ambiti dell'attività dell'uomo (dunque anche nella politica, nella scienza, nel diritto, nella tecnica ... ), essa ha nella vita quotidiana il suo laboratorio sperimentale e H suo segno efficace. Laboratorio, perché è qui, nelle relazioni immediate, che la persona mette alla prova la sua effettiva capacità di dono, misura quanto di autentico e quanto di illusorio ci sia nei propri segni di giustizia e di amore universale: segno, perché nei gesti semplici della vita quotidiana il dono non è solo presente ma è come visibile, palpabile, esperibile nel profumo di bontà che diffonde, è come la testimonianza di se stesso.

    5.2.3. La conversione dal desiderio al dono

    Il terzo punto è che la conversione biblica non consiste nel trasferire il desiderio dai beni terreni ai beni celesti, dal visibile all'invisibile, dal “materiale” allo “spirituale”, ma nel cambiare il modo di guardare e di trattare i beni terreni, visibili, “materiali”: è conversione dal desiderio al dono, è passaggio non da un ordine di oggetti a un altro ma da un tipo di soggetto a un altro.
    La pedagogia di Dio non va dall'Antico al Nuovo Testamento, nel senso di un'educazione al distacco dal terrestre (Antico Testamento) e di un'ascesa verso il celeste (Nuovo); ma è intrinseca all'Antico Testamento, come educazione nell'uso dei beni terrestri: la fiducia in Dio e la solidarietà invece che la ricerca del possesso come fonte di securizzazione e di soddisfazione egoistica.
    Il cammino dall'Antico Testamento al Nuovo è un altro; è quello su cui abbiamo scandito il nostro itinerario: la vocazione al dono e la colpa come suo rifiuto e fallimento (Antico Testamento); poi la redenzione nel perdono (Nuovo).
    Se la vocazione al dono ha illuminato la nostra comprensione della vita quotidiana, la denuncia della colpa non ha anch'essa qualcosa da insegnarci?

    5.3. Il senso della realtà si aliena nel rifiuto

    La colpa che i profeti denunciano in Israele è duplice: l'idolatria e l'ingiustizia. Ma dietro ambedue sta una radice comune: il possesso.
    È nella volontà di possesso che nasce l'ingiustizia, l'indebita appropriazione dei beni; ma è nella stessa volontà che getta le radici anche l'idolatria.
    Infatti gli idoli a cui Israele si rivolge sono le divinità cananee della fertilità dei campi e della fecondità del bestiame; è dunque una ricerca di sicurezza nel possesso dei beni che lo spinge al culto di quelle divinità.
    Identica è la storia della colpa originale: h frutto proibito non è un bene accanto agli altri, ma l'atteggiamento di avidità nei confronti di ogni bene: non basta ad Adamo godere la bellezza e bontà dell'eden; egli vuole possederla, vuol esserne il padrone, non riceverla in dono ma sentirla “sua”.
    Ebbene, conosciamo in ambedue i casi il risultato della volontà di possesso: Adamo viene cacciato dall'eden come Israele viene deportato dalla terra promessa; e in questa esclusione geografica è raffigurata la rovina che, nell'uno come nell'altro caso, i due protagonisti hanno operato con le loro stesse mani: un luogo dove è entrato il conflitto tra gli uomini e con la natura non è più l'eden, cosi come una terra dove si adora l'idolo e si pratica l'ingiustizia non è più la terra promessa. Cacciata e deportazione non sono che le ratifiche ufficiali di una morte che è cresciuta dentro e ha devastato la bontà del mondo.
    Anche qui la storia biblica è parabola, in negativo, della vicenda del senso; anche qui essa ci insegna, attraverso la narrazione, la legge profonda della realtà e della sua scansione nella vita quotidiana.
    Se il mondo è sotteso dalla logica del dono, negare questa logica equivale a sovvertire l'ordine del mondo; ora, il possesso è appunto il rovesciamento del dono.
    Se la logica del dono riceve il mondo dalle mani di Dio e si abbandona con fiducia alla gratuità del suo amore, la logica del possesso vuole affermare sul mondo il proprio diritto: sia per bisogno di sicurezza, che diffida dell'altro e vuole toccare con mano, sia per orgoglio che rifiuta la dipendenza e la riconoscenza. Ma ancora: se la logica dei dono fa circolare i beni, nella coscienza che essi sono di tutti e che bastano per tutti, la logica del possesso se ne appropria e li sottrae a questa destinazione comune.

    5.3.1. Il rifiuto dei dono sconvolge l'ordine dei mondo

    Ma la storia biblica ci dice che questo rovesciamento nell'atteggiamento umano di fronte al mondo non rimane un fatto circoscritto alla soggettività dell'uomo, ma si irradia sul mondo stesso e ne sconvolge l'ordinamento.
    Ne abbiamo un esempio di estrema attualità nel problema ecologico: la volontà di dominio e di sfruttamento della natura che è intrinseca alla tecnologia avanzata ha causato quei guasti nel tessuto naturale che ormai tutti conosciamo e lamentiamo. Facendosi padrone delle cose, l'uomo ne violenta la natura perché nega quel dono di senso che esse portano in sé.
    Un altro esempio e questo riguarda le cose come dono da condividere sono i rapporti NordSud su scala mondiale: la mancata divisione dei beni significa per le nazioni povere carenza di quantità, per quelle ricche carenza di qualità; quelle si dibattono nei problemi causati dalla miseria, queste nei problemi causati dall'opulenza.
    Se il dono è l'“essere” delle cose, viverle al di fuori della logica del dono vuoI dire negare questo essere, sottrarre loro ciò che hanno di più profondo, ridurle a strumenti, a mezzi per realizzare i propri scopi.
    In questo modo le cose perdono di dignità il mondo diventa un capanno di attrezzi e un serbatoio di materiali.

    5.3.2. Il rifiuto del dono altera i rapporti umani

    Ma, più ancora delle cose, il rifiuto del dono altera i rapporti tra gli uomini, insinuandovi l'indifferenza e l'inimicizia.
    La volontà di possesso rivolta ai beni porta all'esclusione e quindi alla concorrenza; l'altro diventa il nemico, l'ostacolo alla conquista, colui che devo sconfiggere o addirittura eliminare. E questa inimicizia non è soltanto un episodio che riguarda di volta in volta persone determinate; è un sentimento di fondo, che si forma e si deposita nel cuore come una seconda natura, come una potenza di aggressione che le circostanze mettono in movimento.
    Chi è comandato dalla volontà di possesso si sente in diritto nei confronti di ciò che lo circonda, e vive gli altri come minacce di questo suo diritto, come ingiusti aggressori. Allora la sua violenza gli appare come una elementare e necessaria controviolenza: è giustificata per definizione, è sempre legittima difesa. E’ questa la logica che comanda lo scatenarsi delle guerre; ma essa si verifica in miniatura nelle relazioni che costituiscono la vita quotidiana. Non è un caso che i vizi particolarmente presi di mira nelle esortazioni apostoliche del Nuovo Testamento siano quelli legati ai rapporti interpersonali nelle comunità. Paolo in particolare sa che queste sono le “opere della carne”, cioè effetti e manifestazioni dell'uomo chiuso in se stesso, dell'uomo che si è negato al dono; e conosce il loro potere di disgregazione: una comunità attraversata da questi sentimenti e atteggiamenti è votata alla morte, anzi porta già in sé la morte.
    Letta alla luce della parola di Dio, la vita quotidiana appare come il campo del conflitto tra dono e rifiuto; che essa diventi luogo di senso o suo vuoto non è, in ultima analisi, risultato di fattori esterni e di dinamiche psicologiche, ma di questa lotta che riguarda la vocazione del l'uomo e del mondo, e che nel cuore dell'uomo ha la sua sede e nello spazio del mondo umano e naturale il suo esito.

    5.4. Il senso della realtà è riscattato dal perdono

    Se il rifiuto non è soltanto una vicenda puntuale, più o meno fitta, della storia degli uomini, ma il gesto complessivo che riassume la storia dell'intera umanità, vuol dire che questo ha determinato il fallimento della creazione negando quella volontà di dono che la animava e la reggeva. t questo, ripetiamolo, il senso della cacciata dall'eden; ed è il senso di quella situazione disperata in cui Paolo vede precipitata sia l'umanità (Rom capp. 1 e 7) che la natura (Rom 8,19 ss).
    Allora, il perdono che Dio accorda all'uomo in Gesù non è un fenomeno che tocchi esclusivamente la coscienza, ma costituisce la vicenda sociale e cosmica per eccellenza.
    Croce e risurrezione di Gesù sono la ricreazione del mondo, perché gli restituiscono l'amore di Dio che gli dà senso e bontà.
    La creazione buona non ci giunge più soltanto dalla mano del Padre; essa passa attraverso il corpo crocifisso e glorioso del Figlio. Il dono dell'essere non ha più l'innocenza del primo mattino (la Genesi), ma è segnato dalla riconciliazione del secondo (la Pasqua).
    Questo fatto conferisce a tutta l'esistenza dell'uomo ne sia consapevole o meno un carattere cristologico: come ci dice con insistenza quasi ossessiva il vangelo di Giovanni, Gesù “è” ogni cosa buona: il pane e l'acqua, la vite e la luce, il pastore e la strada... (questo vogliono dire le autoaffermazioni: “Io sono il pane...”). Tutto riacquista senso il senso fondamentale nell'eventoCristo.

    5.4.1. La faccia attiva dei perdono

    Ma il carattere cristologico non riguarda esclusivamente la faccia recettiva dell'esistenza umana, il suo aprirsi al dono divino rinnovato dal perdono; esso investe pure la faccia attiva, la legge della circolazione del dono. Orinai non è più possibile donare senza perdonare, non è più possibile prolungare il gesto creatore di Dio senza passare attraverso il gesto della riconciliazione.
    Interpretata alla luce della parola di Dio, la vita quotidiana è chiamata a diventare l'apoteosi del perdono.
    Ma che significa perdonare?
    Perdonare significa vincere con un gesto d'amicizia la situazione di inimicizia che si è determinata tra noi e l'altro, superare H muro che ci divide, riconciliarsi.
    Ma qui le cose stanno diversamente per noi e per Dio.
    Quando Dio perdona, egli dissolve un'inimicizia che è stata interamente prodotta da noi; egli “riconcilia a sé il mondo” (2 Cor 5,19) facendosi vicino agli uomini con un gesto di nuova gratuità, di nuova qualità. Anche nel perdono umano c'è spesso questa dimensione di gratuità, questa potenza d'amore che vince l'indifferenza o la volontà di male che l'altro ci ha opposto. Ma il punto di partenza è diverso.
    Per noi riconciliarsi è sempre anzitutto superare l'inimicizia che sta dentro di noi; è negare quel cuore violento che altera la nostra visione delle cose facendo apparire tutti e tutto o come docili strumenti della nostra volontà di affermazione o come pericolosi avversari e ostacoli. Per noi, l'altro è colpevole a priori, è colui che lede i nostri diritti, che ci fa torto, che resiste ingiustamente alla nostra volontà di vita.
    Ora, perdonare non è certo far la pace con tutte queste cose, dove esse sono effettivamente presenti; non è lasciarsi opprimere, accettare che i propri diritti vengano calpestati. Perdonare è rinunciare a quell'occhio avvelenato che ci porta a vedere nell'altro l'oppressore e in noi l'oppresso, nel vicino il offensore e in noi stessi l'offeso; è rinunciare a proiettare irresistibilmente l'immagine dell'altro come nemico. t superare quella violenza germinale che ci fa sentire sempre in credito con la realtà perché la definisce pregiudizialmente come soggetto di doveri di fronte a noi soggetti di diritti.

    5.4.2. Perdono è vincere il risentimento

    C'è una parola che esprime questo atteggiamento negativo di fronte alla realtà: risentimento.
    Ebbene, perdonare è anzitutto, per l'uomo, vincere il risentimento, rimettere a fuoco la verità alterata, disattivare la pretesa di giustizia che ammanta l'orgoglio ferito. Allora uomini e cose riacquistano per noi la loro dignità; soprattutto gli uomini, tornano ad essere “persone” con cui si può dialogare (magari per portarli a riconoscere i loro torti effettivi), cessano di apparirci come belve travestite che minacciano i nostri interessi.
    Una lunga esperienza insegna che il vero acido corrosivo dei rapporti interpersonali è l'insana tendenza a proiettare nell'altro una volontà di inimicizia e a mettersi dinnanzi a lui come chi difende diritti lesi e rivendica diritti misconosciuti; allora il rapporto è subito guerra: dichiarata o mimetizzata, aperta o dissimulata. E questo vale sia nelle più intime relazioni tra singoli che nei rapporti tra gruppi: classi sociali, confessioni religiose, partiti politici, nazioni, razze.
    In ogni conflitto, insieme con gli interessi oggettivi che sono realmente in gioco, c'è sempre anche il peso del risentimento; ogni lotta, anche quando è giusta, è attraversata da questa corrente di diffidenza che ne oscura i termini reali e ne fa uno scontro di violenze.
    Il perdono è l'antitesi a tutto ciò; è La pacificazione dei cuore che genera trasparenza dello sguardo e, di conseguenza, la capacità di vedere le cose come sono. Il perdono non è rinuncia alla lotta, ma capacità di lottare senza assumere la stessa logica di coloro contro cui si lotta; è
    Capacità di servire davvero la giustizia, contro la tendenza ad asservire l'idea di giustizia ai nostri interessi sovrani.
    Ecco perché il perdono è ricreazione del mondo. Esso è ormai il presupposto indispensabile del dono. Senza perdonare non sappiamo donare, ma, al più, scimmiottare comportamenti esterni di dono. Senza perdonare non sappiamo costruire, ma, al più, accumulare prestazioni. Senza perdonare non sappiamo camminare in avanti, ma, al più, correre dissennatamente su strade senza sbocchi.
    Lo Spirito del Messia, datoci come perdono organico di Dio, opera in noi prima di tutto come forza di perdono incondizionato verso i fratelli. Soltanto le opere che scaturiscono da un cuore di pace sono prolungamento della prassi messianica di Gesù, sono lotta contro il potere di Satana e avvio del regno di Dio. Il senso del mondo è ormai affidato al perdono; l'essere è affidato alla volontà di pace, la conciliazione di tutte le cose alla riconciliazione dei cuori.


    6. BILANCIO: L'IDENTITÀ BIBLICA DELLA VITA QUOTIDIANA

    La vita quotidiana è alla ricerca di un senso che la parola di Dio riesce a conferirle, la parola di Dio è alla ricerca di un luogo in cui riversare la propria ricchezza di senso.
    Accolta dalla vita quotidiana, la parola di Dio attualizza se stessa; investita dalla parola di Dio, la vita quotidiana può attuare se stessa secondo la sua linea positiva.
    L'incontro tra vita quotidiana e parola di Dio dà luogo a quella sintesi viva in cui ambedue sono “realizzate”: la parola di Dio in quanto ideale che viene incarnato, la vita quotidiana in quanto attesa che viene colmata.

    6.1. Quattro riferimenti per una sintesi

    Questa sintesi viva può essere precisata in riferimento a quattro termini che le sono antitetici (anche se non necessariamente esclusivi). 

    6.1.1. La crisi non può essere assunta fino in fondo

    In primo luogo, in riferimento alla crisi che sotterraneamente scava da decenni la cultura occidentale e che Oggi è venuta allo scoperto. Crisi che non tocca soltanto i rapporti funzionali dell'uomo col mondo (aspetto economico, energetico, ecc.), ma investe i rapporti della più profonda identificazione dell'uomo nel mondo. Essa è infatti negazione di quel senso, non puramente soggettivo e parziale, ma ontologico e globale, che è radice e fondamento dell'esistenza dell'uomo e delle cose e delle loro relazioni.
    Nella sua ripercussione soggettiva, la crisi può essere vissuta come angoscia e senso di vuoto oppure come liberazione ed ebbrezza della totale autocreatività, o ancora come stoica volontà di assumere coraggiosamente il nonsenso, o come sobria determinazione di vincerlo parzialmente con le conquiste della civiltà. Ma tutte queste non sono che modulazioni psicologiche di una situazione fondamentale: la solitudine dell'uomo nel mondo, l'eclissi di una Presenza che conferisca alla realtà il suo significato primo e ultimo.
    Abbiamo visto come la parola di Dio sia, in quanto tale, segno e testimonianza di questa Presenza nella storia degli uomini; come essa sia perciò affermazione di senso.
    La crisi insegna molte cose al credente; soprattutto, gli ricorda che è proprio della fede biblica essere continuamente alle prese con la possibilità della non-fede, cimentarsi costantemente col dubbio, perché la presenza non è solare: il Dio della bibbia è il Dio nascosto.
    Ma la crisi non può essere assunta fino in fondo, lì dove essa è negazione senza appello. La fede deve vivere dentro la crisi, non morirci dentro.
    Vita quotidiana non significa fede che accetta il nonsenso come parola definitiva, ma fede che dentro l'esplosione del nonsenso dice il suo “però!”: malgrado tutto contraddizioni, sconfitte, alienazioni, caduta di utopie io continuo a credere.

    6.1.2. Il senso inizia “già” nella nostra storia

    Ma a credere in che cosa?
    Ecco il secondo riferimento della vita quotidiana come luogo dì senso alla luce della parola di Dio: credo che il senso non debba essere trasferito nell'al di là, ma inizi già in questa nostra storia.
    I tempi di crisi presentano come una delle possibili soluzioni quella di differire ogni speranza di bene in un tempo e in uno spazio esterni all'esperienza umana; e poco importa che essi vengano chiamati “cielo” oppure “altra terra”; il punto essenziale è che sono estranei alla vita cosi come noi la conosciamo, e sì definiscono proprio come l'opposto di questa, come la cancellazione di ogni sua negatività.
    Ora, l'epoca del Nuovo Testamento è stata certamente uno di questi tempi di crisi (sul piano sia politico che culturale e spirituale); si capisce allora come le due grandi culture del tempo ellenistica e giudaica fossero segnate dalla logica di trasferimento del senso: puntassero, l'una all'immortalità garantita dai riti misterici, l'altra all'avvento apocalittico di “cieli nuovi e terra nuova”.
    La coscienza cristiana primitiva ha fatta sua la speranza dell'oltremondo come risoluzione integrale del problema umano; ma si è rifiutata dì vedere la storia condannata al nonsenso, di considerare la vita presente soltanto in funzione del futuro Bisogna però riconoscere che nella successiva tradizione cristiana l'accento è caduto ben presto su questi momenti, facendo anche del cristianesimo una religione dei senso differito.
    Fare della vita quotidiana il luogo dei senso vuol dire riconquistare quella terrestrità a cui abbiamo visto resta ben aderente la coscienza biblica, vuoI dire riconoscere che la salvezza va cercata e il senso va costruito nella storia, va strappano pezzo per pezzo al fallimento che continuamente lo minaccia.
    La teologia ha coniato una bella formula per dire i due momenti presente e futuro della salvezza: essa è “già” e “non ancora”; già qui con noi come compagna di strada e come parziale riposo, come lavoro e fatica e come inizio di festa; non ancora presente nella sua figura piena e irreversibile.

    6.1.3. il senso ha una dimensione oggettiva

    E tuttavia anche questa formula è insufficiente.
    Perché e siamo al terzo punto essa può venire interpretata in chiave intimista, dove il “già” essi l'anticipazione dei futuro, ma unicamente dentro l'interiorità dell'uomo o dentro le pareti della comunità in preghiera. Luogo del senso è allora, nel presente, l'anima con le sue virtù e la celebrazione con i suoi riti e le esperienze che essi provocano. La vita quotidiana si distingue da questo luogo perché pone l'accento sulla dimensione oggettiva del senso: esso non è un aroma, uno stato d'animo, un sentimento, ma è la riuscita delle cose relazioni e istituzioni, situazioni e strutture la loro verità, il loro essere ciò che devono essere. Il senso non è il giardino de[l'anima nel deserto del mondo; è il inondo che, sia pure a frammenti, diventa giardino.

    6.1.4. Il senso si dà nella storia come frammento

    Sia pure a frammenti: questo inciso ci apre alla quarta dimensione.
    Il senso si dà nella storia soltanto nel modo del frammento; ma questo non contraddice alla sua autenticità, le è anzi legato per definizione.
    Infatti l'oggettività che esso presenta non è quella di un prodotto artificiale, che sussiste anche quando è scomparso il produttore. Il senso è l'oggettivarsi della libertà buona, è la logica del dono e del perdono che prende figura; dunque non può vivere che al soffio dei soggetto e, per così dire, nelle sue adiacenze. il senso ha necessariamente un'impronta personale, quindi la dimensione del piccolo, del finito. Eppure esso è davvero un tutto, una forma compiuta, qualcosa che “ha senso” in se stesso.
    Qui la vita quotidiana si oppone a quelle concezioni che oggi si è soliti chiamare totalizzanti, dove l'individuo e le sue azioni sono visti soltanto o prevalentemente come parti di un tutto superiore: la società, la cultura, il cosmo.
    In quest'ottica, il senso non può attuarsi che nella realizzazione della totalità; l'apporto individuale è solo funzionale alla riuscita di questa totalità. Se tale riuscita manca, se la costruzione si ferma a metà strada, il lavoro fatto è inutile, come una casa rimasta incompiuta e inabitabile. Invece, nell'ottica della vita quotidiana, ogni situazione anche minima, se vissuta con volontà di dono, disegna una pagina dì mondo riuscito, una casa accogliente, un'oasi. Luogo di senso contro la corrosione della crisi terrestre contro le dislocazioni troppo rapide oggettivo contro le fughe nell'intimo personale contro le totalizzazioni: ecco l'identità della vita quotidiana inabitata dalla parola di Dio.

    6.1.5. Il piccolo e il grande

    Non dobbiamo però dimenticare che la vita quotidiana è una prospettiva e uno spazio: la prima apre un orizzonte virtualmente infinito, il secondo lo recinge, lo delimita in un ambito finito.
    Entrando nella vita quotidiana, la parola di Dio sì spiega a queste due modalità che la scandiscono. In un caso come nell'altro essa infonde e suscita l'intenzionalità di dono e di perdono; ma articolandola secondo due diverse cadenze.
    Intesa come spazio, la vita quotidiana viene animata dal dono come gesto interpersonale, dove soggetto e destinatario sono a distanza ravvicinata, sia che vivano fianco a fianco sia che s1ncontrino in maniera casuale e fugace.
    Ma il dono non si esaurisce entro questo breve perimetro; esso può farsi tessuto dei rapporti umani molto al di là degli incontri diretti: può e deve sottendere tutte le relazioni macrosociali, la progettualità politica, le realizzazioni tecniche, le legislazioni, i costumi. In questo modo esso sottende la vita quotidiana intesa come prospettiva. E la necessità di mantenere la terminologia del quotidiano anche per questo ambito di vita “non quotidiana” è data proprio dall'unità della logica esistenziale che regge i due campi: la logica personalistica del dono.
    Gli ambiti macrosociali possono acquisire e mantenere un volto umano soltanto se sono comandati da quella stessa volontà di dono che costruisce i rapporti diretti.
    Il macrosociale non è sinonimo di spersonalizzazione, se si intende persona nel senso forte del termine, come soggetto chiamato alla libertà per l'amore, alla giustizia che genera la pace, al dono e al perdono. In questo senso, una società veramente personalistica non è quella in cui tutti si conoscono e si frequentano, ma quella in cui le stesse strutture generali del vivere e dell'operare sono improntate alla giustizia e all'amore, alla condivisione e alla riconciliazione.
    Al tempo stesso, però, quest'impronta non può mai diventare una qualità scontata, acquisita e solidificata una volta per sempre; essa va continuamente attivata e rinnovata dalle scelte dei soggetti individuali, delle persone singole; e queste hanno il loro luogo di vita nel quotidiano inteso come spazio.
    In conclusione: la vita quotidiana fecondata dalla parola di Dio e capace di fruttificare in direzione del dono è sia individuale che sociale, sia evento che struttura, sia carisma che istituzione, sia “quotidiano” che politica.

    6.2. Il soggetto: la comunità dei poveri

    Quanto detto ci porta a precisare qual è il,destinatario della parola di Dio, cioè il soggetto della sua interpretazione e della sua messa in opera.

    6.2.1. Il povero

    La precomprensione fondamentale della parola di Dio è costituita, sappiamo, da quella povertà ontologica che è il bisogno di salvezza.
    Ma la figura biblica del povero non può certo essere concentrata e contratta a questo livello radicale; il povero è, nella bibbia, colui che la sventura e l'ingiustizia hanno colpito nella carne dei suo esistere quotidiano: è l'orfano, la vedova, l'immigrato, il malato, l'emarginato... è colui in cui la povertà ontologica prende corpo e forma in una carenza di beni essenziali. Non è, questa carenza, un fenomeno superficiale ed estrinseco, come vorrebbe uno spiritualismo ambizioso; è l'emergenza minacciosa della povertà radicale, che frustra il disegno di Dio, vanifica la sua parola di benedizione. Allora, quando il povero biblico “grida” a Dio, il suo non è l'urlo dell'animale ferito, né un SOS lanciato sulle onde dell'essere, nell'incerta speranza che chissà mai qualcuno lo raccolga. t l'invocazione al Dio della vita perché tenga fede alle sue promesse e non lasci trionfare la morte, perché mantenga la sua parola e non abbandoni l'uomo alla rovina.
    Dietro il grido del povero c'è quindi già la parola di Dio; quell'invocazione è una risposta, un atto di fede nella potenza d'amore e di vita che ha creato il mondo e ha fatto alleanza con l'uomo. Se in linea di principio l'interlocutore di Dio è l'uomo bisognoso di salvezza, di fatto sono tutti coloro in cui quel bisogno assume figura e misura concreta; il principio si incarna e si determina nel fatto. Perché salvezza non è qualcosa oltre i beni che colmano l'esistenza dell'uomo, ma il senso profondo di quei beni: il loro provenire dalla mano di Dio ed essere inseriti nell'ordine del mondo.
    Il povero di cui la bibbia ci parla non è soltanto uno degli elementi del suo messaggio; è il soggetto del suo ascolto. La bibbia parla a ogni uomo in quanto radicalmente povero, e parla in maniera privilegiata a coloro che della povertà portano il peso concreto.

    6.2.2. La comunità

    Il povero biblico non ha fatto, normalmente, un'esperienza della parola di Dio di carattere esclusivo e straordinario. L'ha ricevuta in quanto membro del popolo eletto; essa è entrata a far parte della tradizione, di quel “brodo di cultura” su cui cresce e di cui si alimenta ogni esistenza individuale. Ma insieme, le situazioni di bisogno trasformano in esperienza personale quella che è una sedimentazione culturale.
    Quando si chiede se il destinatario della parola di Dio sia l'individuo o la collettività, bisogna rispondere che è la comunità, cioè le persone in comunione.
    Ma è la Parola stessa a fare dell'individuo una persona e della collettività una comunità; è la Parola stessa a strappare l'individuo all'isolamento e la collettività al corporativismo impersonale. Raggiunto dalla parola di Dio, l'uomo è chiamato al dono, che supera sia la chiusura dell'individualismo che l'organicità del collettivismo, e istituisce quella nuova figura che è la comunione tra persone.
    La comunità è a un tempo effetto e soggetto della lettura biblica; perché Dio parla a ognuno ma, in ognuno, parla all'essere-in-relazione e parla per promuovere la relazione. La parola di Dio costituisce la comunità e si consegna ad essa.

    6.2.3. La comunità dei poveri

    Povero e comunità convergono a costituire il soggetto integrale della parola di Dio: la comunità dei poveri.
    Questa è soggetto della parola in quanto ne è l'effetto.
    A che cosa tende infatti la parola di Dio?
    Tende ad arricchire l'uomo dei beni che ne disegnano l'esistenza come vita, come shalom, come benedizione. Ma questo, non attraverso colpi di fortuna bensì mediante la pratica del dono, della condivisione, così che quei beni siano portatori anche dei bene spirituale della fraternità. Allora ognuno si arricchisce di tutto ma senza possedere nulla, e dona tutto ma senza mancare di nulla. Ognuno vive per gli altri, e ognuno vive degli altri; cerca la loro sufficienza e trova in loro la propria sufficienza.
    E' questa la società messianica, espressione incoativa terrestre dei Regno; è questo l'effetto a cui la parola di Dio tende, H frutto che essa vuole maturare nella storia. Ma è evidente che questo frutto è al tempo stesso il terreno su cui matura che quest'effetto è al tempo stesso il soggetto che lo realizza.
    La parola di Dio può realizzare la società messianica soltanto attraverso la libertà di coloro che la compongono: fecondando questa libertà con l'ispirazione al dono; può realizzare la vita e la pace soltanto interpellando alla giustizia e alla reciprocità.
    Perciò la comunità dei poveri frammento della società messianica è il soggetto a cui la parola di Dio si affida per essere interpretata e attuata; è soggetto ermeneutico per essere soggetto pratico.

    6.3. Conclusione

    Il centro del messaggio biblico è il nesso indissolubile tra soggettività e oggettività, tra cuore e mondo; cioè, in positivo, tra giustizia e pace, tra dono e bellezza; in negativo, tra colpa e rovina, tra possesso e alienazione. Perciò la vita quotidiana è il luogo privilegiato della captazione del messaggio: essa infatti non è altro che quella giuntura in cui soggetto e mondo si saldano. Come prospettiva, la vita quotidiana è l'orizzonte del senso, che il soggetto umano proietta sul mondo postulandone la realizzazione; come spazio, è la trama primaria della ricerca di questo senso.
    Accostata alla bibbia, la vita quotidiana ne fa splendere il messaggio e ne riceve dono e compito, seme da far fruttificare il senso cercato; diventa abitazione dello Spirito, apparizione puntuale della città di pace.

    IL CANOVACCIO

    Per una scuola di giovani animatori

    Franco Floris - Domenico Sigalini


    Il quaderno di Armido Rizzi può essere letto e studiato da due angolature tra loro complementari.

    La prima è leggere il quaderno dal punto di vista dei contenuti che offre per dare una risposta al problema centrale dell'animazione culturale dei giovani (aiutarli a dare un senso alla vita) e dell'educazione alla fede (apprendere a dire la fede in Gesù Cristo come “amore alla vita” in un tempo di vita quotidiana). La seconda angolatura legge invece il quaderno dal punto di vista del metodo (ermeneutico) con cui affrontare un problema specifico nell'educazione alla fede, cioè abilitare ad un corretto approccio alla bibbia.
    Il canovaccio è così organizzato:
    - dal punto di vista dei contenuti vengono offerte tre tracce di lavoro:
    ^ il collegamento fra questo quaderno e gli altri quaderni, soprattutto quelli della “seconda serie”;
    ^ cosa intendere per vita quotidiana e per ricerca di senso;
    ^ il “dono” come modo per riconoscere e dare senso alla vita quotidiana;
    - dal punto di vista del metodo ermeneutico vengono date altre tracce di lavoro:
    ^ riflessione sui procedimenti ermeneutici attraverso cui si è formata la bibbia;
    ^ tre momenti tecnici nel cammino di interpretazione.

    IL COLLEGAMENTO CON GLI ALTRI QUADERNI

    La utilizzazione del materiale di Rizzi richiede anzitutto una sua ambientazione nel progetto generale dei quaderni.
    Indichiamo alcuni “agganci”.
    ^ Si può ripartire dai Q5 e 6 (l'animazione culturale) e dal Q7 (la scelta dell'animazione nell'educazione alla fede).
    Mario Pollo, nel Q5, ha offerto una analisi della realtà culturale e giovanile come crisi di identità e di senso. Nel Q6, a partire da questa analisi, ha affermato che il problema cruciale della animazione dei giovani oggi è aiutarli a darsi una identità (cf pp 915).
    Riccardo Tonelli, a sua volta, nel Q7 ha definito “l'amore alla vita” come orizzonte della pastorale giovanile, un amore che comporta una “scommessa” sull'uomo a partire dall'evento sull'Incarnazione di Dio in Gesù di Nazaret.
    ^ Armido Rizzi riprende le istanze di fondo dei due autori e le sviluppa, in modo originale, procedendo con lo stesso metodo.
    Rispetto a M. Pollo si colloca dentro lo stesso problema ma ne cerca la soluzione non più in una “antropologia dell'animazione” e dunque in una filosofia della vita, ma in una rilettura della parola di Dio e dunque dell'esperienza religiosa dell'uomo biblico.
    Rispetto a R. Tonelli, Rizzi offre un originale contributo sul problema del senso della vita per un cristiano e quindi del “contenuto” da dare all'amore e alla passione per la vita.

    COSA INTENDERE PER SENSO NELLA VITA QUOTIDIANA

    Su cosa intendere per “senso” e “senso della vita”, sono già state offerte indicazioni operative nel canovaccio del Q6. Si rimanda a quelle pagine, qualora non fossero ancora state utilizzate.
    Il quaderno di A. Rizzi affronta lo stesso problema, non in generale ma nell'ottica della vita quotidiana, cioè in un momento di attenzione, soprattutto tra i giovani, alla cosiddetta vita quotidiana.

    Cosa intendere per vita quotidiana?

    Le risposte possono essere numerose, a seconda anche della diversa disciplina (sociologia, psicologia, filosofia ... ) che se ne interessa. Accentuazioni diverse, ad esempio, si possono trovare nel Q12 (i giovani della vita quotidiana), nel Q5 e 6, o in questo quaderno.
    Seguiamo più da vicino le riflessioni di A. Rizzi.
    Egli parla di vita come “luogo della realizzazione del senso”, non in quanto portatrice da se stessa di senso, ma in quanto è al suo interno che si dà la domanda di senso.

    q10 27

    Strumenti

    1. Ci si può chiedere come riflettere sul significato del termine vita quotidiana.
    Indichiamo alcune piste di lavoro. a Si può anzitutto fare una ricerca su quali sono “per me” i luoghi, i fatti, le esperienze che più ne provocano e che chiedono una qualche risposta.
    ^ Si può utilizzare lo schema riportato a pagina 27, chiedendo di rispondere all'interrogativo: “in quali spazi, tempi, occasioni un adolescente (o un giovane o un giovane-adulto), si pongono domande sulla vita?”. Subito dopo può riprendere la traccia offerta nel Q6 (pp. 2930) sulla ricerca di senso.
    ^ Altra possibilità: un mimo sulla vita quotidiana. Può essere un mimo di gruppo sullo sfondo di una canzone moderna. Il mimo può rappresentare “scene di vita quotidiana”: i diversi rapporti con le cose e le persone nei vari momenti della giornata. La canzone può evidenziare il bisogno di senso (e di salvezza) che la routine silenziosamente rilancia.

    2. Altra ricerca che può essere affrontata è come riempire di senso la vita quotidiana.
    Si possono organizzare due diversi procedimenti.
    ^ Il primo è un dialogo sul come i giovani oggi cercano di “riempire” di senso la loro vita. Attraverso quali strumenti e strategie? Da che cosa fanno dipendere il senso della vita quotidiana?
    ^ Si può anche pensare ad un gioco: riempire il bicchiere.
    Vengono rappresentate tre scenette: nella prima si prova a riempire d'acqua un bicchiere senza fondo, oppure si prova a riempire un bicchiere con una bottiglia vuota; in altri termini: la vita non ha senso;
    - nella seconda su un tavolo stanno un bicchiere e una bottiglia (piena, questa volta), ma nessuno si alza per riempire il bicchiere; per complicare la scena uno si può mettere in ginocchio e mima una invocazione a Dio perché riempia il bicchiere; in altre parole: la vita non ha senso se non esiste un'operazione di travaso ... ;
    - nella terza scena uno prende bicchiere e bottiglia, riempie e poi offre da bere; in altre parole: la vita diventa sensata quanto è donata.
    Il gioco non deve essere preso troppo sul serio... ; serve solo per scatenare una ricerca sul come, attraverso il dono, dare senso alla vita quotidiana.
    A questo punto si può iniziare un dialogo su come i giovani oggi cercano di “riempire” di senso la loro vita.

    IL “DONO” COME SENSO DELLA VITA

    Facciamo ora riferimento a quanto svolto nel quaderno ai paragrafi 4, 5 e 6.
    Riprendiamo il filo di collegamento.
    Il paragrafo 4 parte dall'attuale sensibilità per le tematiche della vita quotidiana per rileggere il testo biblico. Non dunque una lettura qualsiasi, ma a partire dalla precomprensione: ricerca dei senso nella vita quotidiana.
    Emergono tre grandi punti di riferimento: l'alleanza, il fallimento e la redenzione messianica.
    - Il paragrafo 5 compie un percorso inverso: dalla parola di Dio, compresa alla luce della vita quotidiana, si ritorna proprio alla vita per far rivivere il messaggio biblico.
    Emergono tre grandi punti di riferimento: il dono, il rifiuto del dono, il riscatto attraverso il perdono.
    - Il paragrafo 6 tira alcune conclusioni da questo doppio cammino ed afferma, in sintesi:
    ^ se oggi esiste crisi di senso, questa non può essere assunta fino in fondo da un cristiano;
    ^ il senso biblico della vita inizia “già” nella nostra storia: è un dono che crea responsabilità;
    ^ far fruttificare il dono non è un fatto di pura interiorità: richiede frutti sul piano obiettivo, a livello della “trasformazione” del mondo in cui viviamo;
    ^ infine: il senso della vita si dà per intero nei “frammenti” di dono e di perdono che l'uomo realizza nel piccolo della vita quotidiana.

    q10 28

    Il collegamento con il progetto dei “Quaderni”

    Dopo questa rilettura veloce dei tre paragrafi ci si può chiedere: come “collocarli” in una riflessione sull'animazione dei giovani alla fede?
    - Abbiamo già parlato del fatto che la ricerca del senso è il problema centrale per la animazione e la educazione alla fede (cf Q6 e Q7).
    Con questi presupposti (eventualmente da richiamare) procediamo oltre.
    - La prima cosa da mettere in luce è che la risposta al senso della vita quotidiana viene data non da una filosofia della vita, come nel caso dell'animazione culturale (Q6), ma in chiave religiosa e anzi biblicocristiana.
    In altre parole: la risposta viene non cercata, ma “accolta” nel messaggio biblicocristiano.
    - Il messaggio biblico viene a sua volta riformulato nella categoria del “dono”. Nella scelta di questo termine si attua il circolo ermeneutico tra vita quotidiana (che parla del dono come luogo di comprensione del mondo e di se stessi) e parola di Dio. Sulla categoria dono è importante soffermarci un attimo perché la parola non sembra, anche per i giovani, immediatamente significativa.
    Proviamo ad individuare una traccia di lavoro.

    Traccia di lavoro

    - In un primo momento si può chiedere ad ognuno di prendere un foglio e fare un “elenco delle cose che ti circondano, a partire dall'importanza che esse rivestono per te”. Esempi: moto, tavolo, quadro, poster, libro, maglietta, ecc... Dopo ogni oggetto si deve dire perché è importante “per me”.
    - In un secondo momento si può chiedere di stralciare da questo elenco “le cose che hai ricevuto in dono”. Ad esempio: un disco, un libro, una collanina... Di ciascun oggetto-dono raccontare in quale occasione e con quali sentimenti è stato regalato e ricevuto.
    - In un terzo momento si può guidare ad una verifica personale su: “sei maggiormente orientato al dono o al possesso?”. Si può utilizzare lo schema riportato a pagina 28. Lo si presenta dicendo di fare un'elenco di fatti concreti e di sentimenti provati in tali occasioni) che lasciano intuire un orientamento personale al dono oppure al possesso.
    - In un quarto momento si possono offrire alcune riflessioni sul “dono” riprendendole dalle pagine di Rizzi .

    La comprensione biblico-cristiana del dono

    Con queste premesse si può passare a riflettere sulla dimensione biblicoreligiosa del dono.
    - La bibbia si propone come risposta al problema fondamentale: ma ha senso il dono?
    La prima e grande affermazione della bibbia è proprio: la realtà ha senso.
    - Su questa affermazione si costruisce il resto del discorso che si muove tra due polarità distruttive:
    ^ il senso è già dato per intero e l'uomo non ha che da viverlo. Se questa fosse l'affermazione della bibbia andrebbe contro l'esperienza che l'uomo e il giovane hanno del “nonsenso” oggi;
    ^ il senso non esiste, ma l'uomo lo costruisce e lo “produce”. Se questa fosse l'affermazione biblica l'uomo non avrebbe bisogno di una salvezza.
    La risposta biblica è invece quella del “germe” di senso che viene offerto gratuitamente e che l'uomo è chiamato responsabilmente a far crescere: il senso è un dono che chiede responsabilità.
    - L'uomo biblico quando parla di dono non s'inganna della situazione di fatto. Sa bene invece che il “rifiuto” del dono è frequente a livello personale e collettivo.
    Si entra qui nella “triade”: dono-rifiuto del dono-perdono.
    È il realismo dell'uomo biblico: il senso non è dato una volta per tutte se non come germe. Dar senso, attraverso il dono, è una possibilità. Il “perdono” che emerge non è solo più una indicazione moraleggiante: viene a far parte in modo costitutivo dell'uomo. Non è solo un fatto intiMista e interpersonale, ma strutturale e politico.

    Abilitare al dono per amare davvero la vita

    Si tratta a questo punto di ritornare all'affermazione ed educazione alla fede. Come il tema dei dono può arricchire l'animazione e l'educazione alla fede?
    Una risposta può essere data a due livelli.
    - A livello di obiettivo generale. La riflessione sul dono può aiutare a precisare i contorni, a volte sfumati, di termini come: amore alla vita, scommessa sull'uomo, passione per l'uomo, la vita come sacramento di incontro con Dio. La riflessione sul dono assume e qualifica tutte queste affermazioni.
    - Un secondo modo di utilizzazione può essere relativo al prodotto, dall'animazione ed educazione alla fede. In altre parole: le riflessioni di Rizzi quale contributo possono dare per un identikit e spiritualità di un giovane credente?
    Offriamo alcuni spunti da cui partire per un eventuale “decalogo di vita cristiana” per i giovani degli anni '80:
    - la crisi non può essere assunta fino in fondo da un credente;
    - il senso della vita non è solo al di là, ma già qui;
    - il senso della vita è “dono” (di Dio) e responsabilità (dell'uomo);
    - ogni uomo è chiamato al “dono”;
    - non si vive senza perdono;
    - l'uomo non produce il senso: accoglie un germe e lo fa fruttificare;
    - le cose esistono quando vengono “regalate”.

    I TRE MOMENTI DELL'INTERPRETAZIONE DI UN TESTO BIBLICO

    Comprendere un testo, anche quello biblico, è un cammino, con cui il lettore s'avvicina sempre più al mondo del testo, sintonizzandosi progressivamente alla sua lunghezza d'onda attraverso l'esercizio stesso della lettura. Ma non tutti i testi hanno le stesse condizioni d'esistenza, non tutti sono nella stessa situazione di fronte al lettore.
    Due tra le variabili di maggior peso sono la distanza e la rilevanza.
    Distanza. una cosa è un testo contemporaneo, appartenente allo stesso mondo culturale che è il mio; altra cosa un testo lontano, in cui prende voce un mondo il cui tessuto linguistico (categorie mentali, rappresentazioni, forme di discorso ... ) mi è estraneo,
    Rilevanza. una cosa è un'indagine storica, che intende ricostruire il passato in quanto tale, altra è un messaggio per esempio, religioso che contiene sempre una volontà di influsso sul presente e sul futuro. Ora, il testo biblico si caratterizza appunto per il peso che vi hanno queste due circostanze: distanza culturale e rilevanza esistenziale. Vi sono allora modalità ermeneutiche specifiche che ne scandiscono il cammino di comprensione.
    Diciamo che per testi come la bibbia questo cammino deve articolarsi in tre tappe o momenti, che chiamiamo esegesi, attualizzazione culturale (o transculturazione), attualizzazione esistenziale (o applicazione). Esegesi è la ricostruzione del senso che il testo ha nel suo contesto culturale; attualizzazione culturale è la trascrizione di quel senso entro il contesto del lettore; attualizzazione esistenziale è l'incidenza del messaggio che il testo porta sulla vita del lettore. L'esegesi è il presupposto di ogni ulteriore operazione ermeneutica; l'attualizzazione culturale risponde al problema della distanza; l'attualizzazione esistenziale a quello della rilevanza. Dobbiamo ora dedicare un po' di attenzione a ognuno di questi momenti dell'itinerario interpretativo.

    Esegesi: leggere il testo nel contesto

    Il primo suo compito è di rendersi contemporaneo al testo, di acquistare familiarità con tutto quel mondo di rappresentazioni entro cui il testo diventa significante, comincia a parlare. In certo senso, l'esegeta mette tra parentesi la sua cultura di partenza, il suo essere uomo d'oggi, per diventare l'uomo che ascolta Geremia o Marco parlare ai rispettivi uditori del loro tempo.
    Il grande servizio che l'esegesi biblica ha reso nell'ultimo secolo è stato di dare carne e sangue alla scoperta della storicità della parola, di aver cancellato (o estremamente ridotto) la lunga fila di fraintendimenti che secoli di lettura meno attenta avevano accumulato. li carattere dissacratore che molti studi critici del nostro secolo sembravano avere non era, salvo eccezioni, rivolto al testo biblico e al suo messaggio, bensì alla crosta di letture non appropriate che si era fermata attorno al testo, lo aveva parzialmente corretto e ne ostruiva la corretta comprensione. Si trattava di restituire la parola alla bibbia, di rimetterle in bocca le sue parole, di riapprendere che cosa fossero, nell'ambito dell'esperienza religiosa biblica, grazia e peccato, fede e incredulità, spirito e carne: che cosa fossero creazione, alleanza, salvezza, rivelazione, parola di Dio, chiesa, battesimo, speranza, amore.

    L'attualizzazione culturale: portare il testo al nostro contesto

    L'attività interpretativa non può limitarsi a restituire al testo il mondo di significati dentro l'orizzonte cooriginario al testo stesso, ma deve ridire quei significati entro l'orizzonte di comprensione dei lettori.
    Si deve anzi dire che questo trapasso culturale si verifica sempre, in una certa misura; il problema riguarda piuttosto il modo in cui si verifica: con la necessaria vigilanza critica o con un'attualizzazione che si identifica con una ingenua e rozza appropriazione.
    Comunque sia, ogni generazione che si accosta alle parole fondamentali nel caso nostro, all'Antico e al Nuovo Testamento istituisce nei confronti di quelle un tipo di lettura che non è più soltanto il commento interno al loro mondo, ma una risignificazione entro il proprio mondo; istituisce una rilettura. Questo fa si che le generazioni seguenti non si trovino più soltanto in rapporto con il testo fondante; dietro di loro c'è tutta la storia delle riletture, quella storia che è, in senso proprio, la tradizione. Il rapporto con il testo è mediato dal rapporto con la tradizione, In ogni caso proiettare nel testo le categorie di oggi (o quelle di un “oggi” passato) è attualizzarlo in maniera indebita; un'attualizzazione corretta distingue i due momenti od orizzonti: quello del testo e quello dell'oggi. Più che di una “fusione degli orizzonti ^ si tratta di una capacità, da parte del lettore, di trascendere i due orizzonti in gioco, di raccoglierli sotto un unico sguardo e di scoprire le equivalenze, di individuare i punti o le strade di una possibile comunicazione tra di essi. Per questo l'attualizzazione è normalmente un lavoro interdisciplinare, ed esige la collaborazione di più competenze.

    L'attualizzazione esistenziale: portare il testo alla vita

    Per un testo che vuol essere portatore di verità salvifica l'approdo ermeneutico decisivo non può essere costituito da un'operazione culturale, per quanto riuscita. Ogni rilettura sul piano delle rappresentazioni e dei concetti non può che essere al servizio di una lettura sul piano personale, dove il testo, capito nel suo significato contestuale e ricapito nell'orizzonte dell'attualità, viene “applicato” all'esistenza dell'uditore, individuo e la comunità.
    Possiamo parlare di attualizzazione esistenziale; ma con due precisazioni. Anzitutto, attualizzazione è qui il farsi atto della parola nella vita dell'uomo, il diventare principio delle sue scelte e operazioni. In secondo luogo, esistenziale non si riferisce a una qualche filosofia dell'esistenza umana (per es. l'esistenzialismo), ma all'esistenza stessa nel suo farsi, nel suo responsabile dispiegarsi in azione.
    Il punto di arrivo è dunque la decisione sotto il segno della Parola. La decisione genera una prassi ed è illuminata da quell'autocomprensione davanti a Dio che è l'essenza della contemplazione.
    Il rigore dell'esegesi, la proprietà e originalità della transculturazione, sono soltanto premesse di quel movimento dell'ascolto che tende alla fecondità, alla fruttificazione.

    (A. Rizzi)

    PER LEGGERE LA BIBBIA CON SENSIBILITÀ ERMENEUTICA

    E veniamo allo studio del quaderno come introduzione alla interpretazione alla bibbia.
    Il materiale offerto può essere organizzato in tre fasi di lavoro:
    - presentazione e studio delle pagine che parlano dei come si è formata la bibbia dal punto di vista ermeneutico e di come sia soggetta ad una continua reinterpretazione nei secoli;
    - messa a fuoco di alcune condizioni preliminari per un corretto uso della bibbia in chiave religiosa;
    - indicazione dei tre principali momenti tecnici nella interpretazione di un testo biblico.

    Prima riflessione sulla storia della bibbia

    Facciamo riferimento ai primi due paragrafi del quaderno che affrontano la dimensione ermeneutica della bibbia esaminando come è nata (§ 1) e come è stata di fatto utilizzata nei secoli (§ 2).
    - Nel primo paragrafo l'autore fa osservare come la bibbia sia nata da un popolo che voleva interpretare i fatti della sua storia alla luce di un “evento religioso”, quello della vicinanza di Dio al popolo ebraico e della sua Incarnazione in Gesù Cristo.
    Due sono le esemplificazioni: la nascita del capitolo primo di Genesi; la formazione dei quattro Vangeli. Partendo da questi due esempi è facile far rilevare che la bibbia è nata attraverso processi ermeneutici e che l'ermeneutica include sempre una reciproca interpretazione fra esperienza religiosa (e testo religioso) e colui che si accosta a tale testo ed esperienza. Ed è anche facile rilevare come all'interno dei libri della bibbia si è attuato un continuo processo interpretativo.
    - Nel secondo paragrafo invece l'autore fa osservare come la duplice interpretazione non sia finita, ma sia continuata nei secoli e continui oggi.

    Traccia di lavoro

    Offriamo una traccia di lavoro per illustrare come si è formata nei secoli la bibbia. Prevede una serie di disegni schematici con relativo commento.
    Tre disegni eseguiti in successione su un cartellone o lavagna permettono di attivare una ricerca tra i presenti.
    - Il primo disegno rappresenta il primo procedimento ermeneutico alla base della bibbia. Potrebbe essere Abramo con la sua “cultura ~ da una parte e dall'altra la sua esperienza religiosa, rappresentata dall'incontro con i vari messaggeri di Dio. Si può subito far notare il doppio cammino interpretativo.

    q10 31a
    - Il secondo disegno può rappresentare i diversi ermeneutici di cui sono frutto i libri dell'Antico Testamento e anche quelli dei Nuovo Testamento.
    Si può far notare che Gesù non solo è interprete dell'Antico Testamento, ma che con la sua esperienza gli dà fondamento e innesca ulteriori processi interpretativi, rappresentati dai libri del Nuovo Testamento.

    q10 31b
    - Il terzo disegno può essere applicato alla bibbia ormai consolidata e alle diverse interpretazioni lungo i secoli a partire da sempre nuove “domande” sollevate dalla storia.

    q10 31c

    È importante sottolineare che:
    ^ mentre il rimando interpretativo tra i vari libri della bibbia fonda l'esperienza religiosa del credente oggi, le successive interpretazioni lungo la storia della Chiesa da una parte arricchiscono ma dall'altra possono impoverire l'interpretazione. Per evitare questo rischio è necessario un continuo “ritorno alle fonti”;
    ^ per essere competenti sull'ermeneutica biblica occorre non solo conoscere la Bibbia, ma anche conoscere l'uomo d'oggi e le sue domande e, infine, conoscere le regole dei gioco ermeneutico.

    q10 31

    TRE MOMENTI NELL'INTERPRETAZIONE DI UN TESTO BIBLICO

    Una riflessione più articolata può essere fatta sul metodo da utilizzare nell'interpretare una pagina della bibbia.
    Oltre alle indicazioni offerte dal quaderno si può fare riferimento alla finestra preparata dallo stesso Rizzi e riportata alle pp. 2930.
    La interpretazione prevede tre momenti:
    - primo momento: esegesi: leggere il testo nel contesto;
    - secondo momento: l'attualizzazione culturale: portare il testo al nostro contesto;
    - terzo momento: l'attualizzazione esistenziale: portare il testo alla vita.

    Traccia di lavoro

    - Occorre anzitutto ambientare e motivare allo studio di tali pagine del quaderno. Si può partire dalla vita dei gruppi giovanili, stimolando attraverso un “gioco” a identificare modi di commentare la bibbia che soddisfano o meno. Si può fare riferimento alle omelie, alla catechesi, ai momenti di preghiera di gruppo...
    Si può arrivare così ad una prima catalogazione da cui emergeranno aspetti negativi e indicazioni positive, che vengono raccolti in un cartellone.
    Ricordiamo i “rischi” estremi che si possono correre nel leggere la bibbia: il fondamentalismo, il soggettivismo, l'emotività e l'intimismo.
    - Sulla base dei dati offerti dal gruppo si può tentare di fare insieme una omelia. Si sceglie un test. e si dà il mandato: “preparare l'omelia domenicale per una messa con adolescenti e giovani”. Si può lavorare a piccoli gruppi e si raccoglie il materiale giudicandolo alla luce dei criteri positivi e negativi raccolti in precedenza.
    - Ora tocca all'animatore prendere la parola. Riprende il lavoro appena svolto e lo mette in ordine seguendo la traccia in tre momenti offerta da Rizzi.
    Subito dopo a gruppi si può leggere il testo riportato nella finestra. È possibile una sintesi finale utilizzando lo schema riassuntivo di pag. 31.
    Infine si può prendere un testo biblico e percorrere insieme, con l'aiuto di strumenti esegetici, le tre tappe dell'interpretazione.


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