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    L'esistenza giovanile

    tra disagio, ricerca di identità

    e comportamenti "contro"

    Vittorino Andreoli

    Crisi esistenziale non malattia

    Trattare il tema del disagio nel mondo dell'adolescenza non è necessariamente parlare di psicopatologia. Si usa comunemente questo termine per indicare una sensazione di malessere o di mal d'essere che compare in una situazione nuova: l'adolescente che si vede cambiato fisicamente, percepisce anche il mondo attorno a sé come diverso, nuovo. Insomma si cambia sempre insieme all'ambiente. Pertanto nell'adolescente il disagio è esistenziale, strutturale persino, non psicopatologico. Anzi se non comparisse, ci si dovrebbe preoccupare, perché significherebbe che non percepisce nemmeno il cambiamento e il bisogno di distaccarsi da certe figure, per poi mettersi in relazione con altre.
    Quando si parla di giovani viene subito da chiedersi quali giovani, perché ce ne sono molti e molti sono i comportamenti che li caratterizzano. In queste pagine intendo riferirmi a quei giovani – non so se sono percentualmente di più o di meno – che vivono in maniera più difficoltosa, talvolta persino più drammatica, l'esistenza del tempo presente. In loro non è il disagio a configurare una psicopatologia, ma l'esistenza stessa, semmai l'esistenza come psicopatologia.
    Il modello cui mi riferisco è quello dei casi estremi. Sono sempre affascinato dai casi estremi, che finiscono per coinvolgermi e portarmi ora nei tribunali, ora nelle carceri. Giovani "a temperatura elevata", in un certo senso, ma che comunque servono anche a capire il malessere di quelli in cui la temperatura non è così fortemente febbrile, e si comportano in maniera meno eclatante.
    Bisogna vincere lo stereotipo che i bambini e gli adolescenti siano persone felici, che vivano più o meno bene, ma comunque, non sperimentano la sensazione del dramma. È un errore: vivono in maniera angosciata, anzi sono fortemente dentro il conflitto, a contatto con una serie di desideri dell'adulto – della mamma, del papà, del gruppo familiare allargato, della scuola – su cosa deve fare, come deve giocare, quanto deve essere bello, la maniera in cui deve essere pulito. Un dover essere frustrante e angosciante mentre l'adulto è convinto di domandare sempre qualcosa che il bambino vuole. E questo accade perché l'adulto vive il bambino come parte di sé, misura i suoi desideri sui propri. Sono questi elementi che concorrono a trasformare l'esistenza del bambino e dell'adolescente in psicopatologia.
    Una psicopatologia dell'esserci, dell'esistere.
    Tenendo conto del mio particolare angolo di visuale di psichiatra, appassionato dei casi estremi, penso si possano evidenziare alcuni elementi che descrivono bene la sensazione di una vita non solo faticosa, ma percerti versi impossibile, dell'adolescente.
    Sono giovani che non hanno un senso, a cui la società non vi attribuisce un grande significato. "Soprammobili" faticosi perché bisogna pulirli spesso, bisogna stare attenti che non si rompano, ma nessuno – o pochi – pensano che in qualche modo i giovani possano essere dei piccoli protagonisti.
    La prima caratterizzazione del mondo giovanile di questa società è dunque la difficoltà di percepire un senso. Esistere significa, in fondo, riempire il tempo con qualche valore. Avere un ruolo interessante e almeno in parte condiviso. oggi l'adulto incorre spesso nella contraddizione di domandare a un giovane, al proprio figlio, per esempio, di studiare, pur considerando lo studio non più importante a fini pratici, anzi consapevole che talora i titoli raggiunti è meglio tacerli se si vuole accedere a una occupazione. In un recente concorso per casellanti dell'autostrada, si sono presentati molti ingegneri che hanno nascosto la laurea perché altrimenti non avrebbero potuto accedere. Mi chiedo se non sia tempo di cambiare quell'articolo della Costituzione che richiama l'importanza del lavoro: non capisco perché debba rimanere, la nostra, una Repubblica fondata sul lavoro se non sarà più necessario o possibile lavorare per tutti. Si deve considerare cittadino anche chi non lavora.

    Non piacersi

    Se faccio il confronto con la mia adolescenza, nel primo dopoguerra, penso a quanto eravamo orrendi, magri, il viso abbruttito dalla foruncolosi. Oggi, in un ragazzo o in una ragazza, la presenza di un piccolo brufolo scatena il dramma.
    Ricordo che mia madre, da buona veneta, mi faceva il bagno per controllare meglio se nel mio corpo c'era il rosario rachitico o le scapole alate del "mal sottile". Insomma eravamo orrendi, vestiti male e malati. I giovani di oggi sono bellissimi, ma hanno la paura di non piacere. Quindi alla mancanza di senso perché non godono di una posizione o di un ruolo esistenziale se non proprio lavorativo, si aggiunge questa percezione angosciante di sé: quasi uomini, piccoli mostri. Ed è una paura che fomenta l'altra, terribile, quella di non essere accettati, tanto che, pur di esserlo o pensare di esserlo, sono disponibili a qualsiasi metamorfosi, di abbigliamento, di immagine (piercing, tatuaggi), di linguaggio.
    Sono giovani che vanno verso la sterilità e l'impotenza. Un'impotenza sempre più frequente, l'"impotenza da disinteresse dell'organo". Giovani che funzionano benissimo dal punto di vista biologico,ma che non usano ciò che la natura ha dato, perché è problematico. Oggi quell'organo, una volta segno della virilità, è in realtà un oggetto di terribile conflittualità, fa fare brutte figure. Un organo di comunicazione molto più complicato del parlare o del pettinarsi o fare altre cose. Questi giovani possono passare tutto il giorno insieme in una camera da letto senza nemmeno sfiorarsi: si pettinano, oppure ascoltano musica.
    Insomma sono belli e sterili, non solo perché non esiste uno spazio sociale che spinga al compito del proseguire la specie, ma perché anche tutto ciò che è legato alla procreazione diventa molto difficile e occasione di frustrazione.

    L'idiot-savant

    Questi elementi mostrano già bene il fenomeno degli idiot-savant. Una signora, parlandomi del figlio di tre anni, si inorgoglì per la ricchezza del suo vocabolario: «Ha usato la parola semiotica». Di certo aveva sentito questo termine alla televisione, senza conoscerne il significato, ma lo aveva ripetuto. Ecco la ricchezza dei bambini e degli adolescenti oggi: sono incartati bene, incartati anche di frasi, ma non sanno nulla, non comprendono nulla.

    Il consumo dei sentimenti

    Un'altra caratteristica di questo mondo giovanile è il consumo rapidissimo dei sentimenti: i legami, le relazioni vengono consumati così come negli anni Sessanta avveniva per gli oggetti. Eravamo preoccupati, allora, dell'usa e getta delle cose, ma adesso si usano e si gettano i sentimenti. E non mi riferisco solo alle coppie, ma anche ai rapporti padre-figlio, madre-figlia: «Mi sono stufato di mio padre, di mia madre». Certo, talvolta si assiste al meccanismo opposto, ma si è, in entrambi i casi, in presenza di legami fragili che non contribuiscono a dare certezza. E invece i legami sono il fondamento della sicurezza.

    Il bisogno di eroismo

    A questa mancanza di senso, a questa bellezza che fa paura, perché o si teme di non piacere o si teme di perderla, a questa sterilità, a questa mancanza di critica dell'idiot-savant si lega una monotonia che ha bisogno di avere dei grandi riscatti. Ed ecco i giovani degli atti eroici, o pseudoeroici. Il bisogno di mostrare, in qualche momento della giornata o della settimana, che pur non esistendo, non facendo nulla, si riesce a combinare qualcosa che nessuno si sarebbe aspettato.
    Nessuno più potrà dire: ««Non ho fatto nulla».
    L'eroe è, fin dai tempi della mitologia greca, qualcuno che ha a che fare con la morte, attraverso il gesto eroico sperimenta la morte, una morte che è prevalentemente spettacolo ma che comunque ammazza.
    Questa, dunque, la condizione in cui molti giovani si trovano a vivere e l'esito è senza scelta: tra il nulla e lo pseudoeroico, tra il nulla e l'eroe del nulla.

    Percezione del futuro, percezione del desiderio, percezione della morte

    Ma di fronte a un simile scenario è necessario domandarsi: che cosa possiamo fare come adulti? Quale deve essere la reazione, la strategia di una società?
    Attualmente l'attenzione al mondo giovanile è presente, ma con modalità incostanti e poco razionali. Un argomento che pone in ansia, che suscita preoccupazioni da cui si scappa.
    Un segnale di questo atteggiamento lo si può vedere nelle famiglie e nella loro resistenza a rilevare nei figli "problemi" seri, interpretati sempre come "stranezze" o "capricci" passeggeri. È come se non si volesse vedere o non si volesse verificare ciò che si paventa: un temuto allarme.
    Persino la ricerca scientifica sul mondo giovanile risente di una certa fretta: nascono molti libri, ma per lo più sostenuti da buone intuizioni e interpretazioni, fondati su pochi dati e anche su fragili definizioni del "tema" di studio e della impostazione metodologica adatta a raggiungere un obiettivo, che, se vuole essere controllato, deve anche essere limitato nell'impatto concreto dell'agire dei giovani.
    Così, per esempio, domina ancora il termine "giovani" che in realtà è un contenitore poco specifico, o quello di "disagio", senza nemmeno precisare che, come si è detto, esiste una sensazione di malessere in un dato ambiente o relazione, pertanto circostanziato, che non va assolutamente considerata un sintomo o una malattia, ma rientra nei sistemi umani di adattamento, utili ad affrontare situazioni esistenziali nuove. In questo senso la parola è assolutamente aspecifica e ciò rende ostica ogni analisi che voglia essere fondata scientificamente.
    Del resto di fronte ai temi giovanili si impone la voglia di azione, di correzione, qualcosa che appare consono più a comportamenti magici, che sono fuori del tempo e dello spazio, rispetto a quelli scientifici che procedono lentamente e punto per punto.
    Invece la ricerca è essenziale anche in questo campo e un esempio della sua utilità deriva da una recente indagine promossa dal Ministero della Sanità che si proponeva di rispondere al quesito se la scelta di un comportamento estremo - il suicidio, la tossicodipendenza o disturbi gravi della alimentazione come l'anoressia
    e la bulimia nervosa - si legasse ad alcune componenti della personalità e, in caso affermativo, a quali. In altre parole, esistono delle caratteristiche della personalità, intese in senso biologico ma anche di cultura, tali da "spingere" un giovane in difficoltà a pensare
    e portare avanti un piano suicida, diverse da quelle che lo dirigono verso la dipendenza da sostanze stupefacenti entro una cronicità che sa di morte lenta?
    È chiaro che poter rispondere a una simile domanda ci doterebbe di ipotesi di intervento differenziate e della possibilità di distinguere all'interno del disagio (e in questo caso del disagio estremo) alcune aree peculiari.
    Per la ricerca sono stati scelti giovani di età tra la pubertà e i diciotto anni che avevano di fatto seguito queste vie estreme del disagio. Per i suicidi, ovviamente ci si è riferiti a casi di mancato suicidio, cioè giovani che lo avevano messo in atto con grande serietà, ma per motivi casuali non era stato raggiunto.
    Tutti i giovani del disagio estremo scelti sono stati "letti" su una griglia ampia di parametri della personalità. La scoperta è stata di rilevare che moltissimi non differenziavano in alcunché mentre tre di essi erano in grado di farlo: la percezione del futuro, la percezione del desiderio e la percezione della morte. Insomma il comportamento e anche le sue scelte estreme sono in qualche modo correlati alla percezione che i giovani hanno del tempo e dunque del futuro.
    Occorre ricordare che la percezione non richiede una valutazione del pensiero, una scelta critica, ma è la disposizione immediata ad awertire un tema. Questi parametri sono dunque di grande interesse per il tema del disagio estremo, ma nello stesso tempo meritano, anche alla luce di questa ricerca, una maggiore attenzione sul piano della formazione e della educazione giovanili.
    Quanto al primo, la percezione del futuro, è chiaro che se il futuro giunge al massimo al fine settimana o alle vacanze c'è poco spazio per fare progetti e attuarli: la vita si consuma appunto nella strategia iperconcreta del day-byday. In una simile cornice diventa quindi inutile inserire discorsi incentrati sull'impegno, sul dovere. Naturalmente, in un simile ambito emotivo muore il desiderio, che è la capacità che ciascuno ha di immaginarsi differente da come è ora, nel futuro. Una capacità essenziale che permette per esempio di mitigare frustrazioni attuali in una visione di sé futura, in cui si pongano condizioni e speranze di gratificazione. Senza quella dimensione non c'è spazio né per progetti, né per realizzazioni e la vita si consuma in una logica "del vale ciò che accade oggi". Ed è proprio in questo strangolamento del tempo che si può comprendere il perché dei comportamenti estremi, che sempre hanno a che fare con la morte e portano a vedere la propria soppressione come una modalità per togliersi dalla difficoltà del momento, riportando così la morte ad un gioco meccanico e magari spettacolare della esistenza, senza pathos. La morte come nulla. Si può uccidere senza nemmeno cogliere il significato esistenziale della vita e della sua fine.
    È in quest'ottica che dovrebbero andare letti anche tutti i comportamenti che conducono al suicidio. Una soppressione di sé che assume due modalità predominanti: il suicidio acuto, di chi si toglie la vita con un gesto inaspettato, e il suicidio lento, meno spettacolare ma più doloroso. Ma le due categorie vanno unite sotto una sola matrice, poiché anche i suicidi acuti, prima di realizzarsi nella cronaca, nello spazio concreto, vengono consumati e ripetuti molte volte nello spazio mentale, e quindi nell'immaginario. Infatti, analizzando i mancati suicidi, ossia mancati per puro caso, per un intervento inatteso e studiandone la dinamica, si nota che quella persona si è già suicidata molte volte all'interno del proprio spazio immaginativo, del proprio spazio mentale. Ed è questa la ragione per cui molti dei suicidi avvengono con freddezza, con meccanicità, proprio perché sono anticipati da una serie di operazioni mentali che servono non ad ammazzarsi, ma a consumare l'emozione che accompagna il gesto suicida definitivo. È come se si verificasse un consumo delle emozioni, che poi permette, nel momento in cui viene espletato il gesto, un'esecuzione fredda: la separazione tra io e mondo è molto difficile e sovente si pensa di colpire il mondo e si colpisce se stessi, oppure si colpisce se stessi e si pensa di colpire il mondo, proprio perché c'è una sorta di difficoltà di identificazione o uno spostamento che permette quasi di portare un gesto contro se stesso visto dal di fuori. Insomma non è possibile parlare di suicidio senza affrontare la percezione della morte nell'adolescente. lo penso che non si possa capire un gesto suicida se in qualche modo non si riesce a risalire alla percezione che quel suicida o quel mancato suicida aveva della morte. Una sollecitazione a pensare di più a questo tema. Il rapporto adolescenza-morte è un classico, ma non ha più nulla a che fare con la percezione della morte dell'adolescente per esempio della mia generazione. La morte e l'eterno. La morte come desiderio di rimanere eterni nella situazione in cui si era. Una specie di romanticismo della fine.
    Oggi la morte non solo non viene collegata all'eterno, ma non c'è nemmeno una percezione spesso del significato di un gesto auto soppressivo. Come si trattasse di qualche cosa di transitorio, coerentemente con quella morte che viene insegnata agli adolescenti e ai giovani di oggi. Cioè la morte spettacolo. Nessuno parla della morte: l'abbiamo eliminata persino dalla pronuncia, come qualcosa di osceno. La morte, la putrefazione. E questo ha fatto sì che venga completamente evitata e a parlare e a insegnare la morte sono le comunicazioni spettacolari, sono i sistemi televisivi. La morte spettacolo non è mai lenta, agonica, nessun regista farebbe un'agonia, tutti cambierebbero canale. Una morte che awiene rapidamente e in modo spettacolare, per cui abbiamo anche inventato la bella morte. Una morte con il ralenty, è stupenda.
    Il mondo giovanile ha una percezione o meglio una dispercezione della morte, che si è formata attraverso una "educazione", certamente, non sistematica, ma spettacolare, eroica dei programmi televisivi, e quindi ha dentro di sé una percezione inconsapevole piena di fascino.
    Ricordo un lungo dialogo sulla morte con un ragazzo che era soprawissuto ad un colpo di fucile che si era sparato. Non aveva la percezione di che cosa veramente fosse la morte, ignorava che si trattasse di un fatto ineluttabile, drammatico. Un allarmante vuoto. La morte ridotta a immagini spettacolari e un po' eroiche. Senza alcuna elaborazione, non pensata, non approfondita, non immaginata al di là delle immagini del televisore. E una tale visione si associa sempre con una assoluta perdita della percezione del futuro.

    Essere contro

    Al di là dei casi estremi - che hanno a che fare con la morte - il termine giovani si coniuga frequentemente con la parola "contro". Nelle famiglie si sente dire che gli adolescenti, tutto d'un tratto, in questa metamorfosi della crescita si mettono contro la madre, contro il padre, persino contro lo spazio fisico della casa, non accettando più nulla. Qualche tempo fa si parlava molto dei giovani contro la società, un attacco non più al microgruppo ma addirittura all'assetto organizzativo dello Stato. Comportamenti giovanili contro la legge, contro le norme: da quelle del codice della strada fino a quelle del codice penale, quando appunto diventano estremi.
    Per affrontare quest'aspetto cruciale dell'esistenza giovanile credo sia necessario cominciare con una precisazione, ossia ci sono tre modi di andare contro: la trasgressione, la opposizione e la rivolta. Sarebbe un fortissimo errore diagnostico, di comprensione, scambiare l'uno con l'altro, oppure unificarli.
    Nella trasgressione un soggetto si porta fuori dalla norma per poi subito rientrare, anzi è una modalità che serve al conservatorismo. Diceva Herbert Marcuse che la trasgressione è un sistema inventato dallo statu quo per permettere di ubbidire ciecamente. Per questo occorre favorire delle piccole variazioni rispetto al programma stabilito, perché in questo modo si dà al soggetto o ai gruppi la percezione di una libertà che non c'è, per poi farli rientrare e continuare a vivere nella perdita di libertà.
    L'esempio classico della trasgressione nei gruppi è il carnevale e non a caso lo ha introdotto la Serenissima che ha saputo stare al potere per mille anni. Nel carnevale ciascuno poteva, mettendo una maschera, deridere persino il doge, ciascuno con la maschera perdeva la propria identità. La maschera diventava così una copertura del volto, tale da rendere irriconoscibili e consentire, durante quella settimana, di compiere qualsiasi gesto proibito. Ma, passato il carnevale, si tornava a seguire le norme.
    Riletto in una situazione educativa, assomiglia a quel comportamento della madre o del padre che, di fronte alla marachella del proprio figlio, adottano un atteggiamento formale di richiamo, pronti poi a vantarsi di quei gesti con gli amici, come se fossero prodezze: “Sai, mio figlio ha fatto una cosa da grande».
    Appartenevano all'arte dell'educazione. Insomma, se vuoi essere ubbidito, allora permetti delle scappatelle.
    Quindi, nell'analisi di un comportamento, è interessante capire se quell'essere contro rappresenta una forma di trasgressione e se, allora, rientra addirittura in una regola. Il trasgressivo pensa di essere contro l'establishment mentre è dentro, ne è parte, perché da sempre un buon governo, anche educativo, deve prevedere la trasgressione, un meccanismo che paradossalmente rafforza lo statu quo. E devo dire che, per questo, a me i trasgressivi non piacciono.
    La seconda modalità dell'andare contro è l'opposizione, che si sostanzia nel fare esattamente il contrario di quello che viene chiesto. Per esempio, se un padre dice alla figlia: «Con tutto quel rossetto non mi piaci», appena lei esce di casa, se lo mette. Non sa bene nemmeno lei se le piaccia o no quel colore sul suo viso, ma, dal momento che suo padre l'ha apertamente criticato, lei lo sceglie. Si tratta, insomma, di situazioni in cui il fatto stesso dell'esistenza di una proibizione ingenera la certezza che verrà eseguito esattamente l'opposto. Per questo l'opposizione non si distingue dall'obbedienza, dall'obbedienza passiva, semplicemente passa attraverso un trucco apparente, ossia fare il contrario. Ma la scelta non è libera, pensata, si scatena sulla base dell'esistenza di un divieto espresso. C'è una tipologia dell'opposizione da parte del mondo giovanile, e quindi se non viene capita la relazione, per esempio padri e figli o madri e figli, finisce proprio per sortire effetti opposti: anziché diminuire, ricarica il sistema educativo di frustrazione e di violenza. Frustrazione per il figlio, perché tiene dei comportamenti che non sceglierebbe mai, ma che vengono decisi perché sono l'opposto di ciò che è richiesto. Frustrazione da parte dei genitori, perché si vedono sistematicamente traditi, non ascoltati. Ed ecco la frase che risuona spesso nelle case con un adolescente in famiglia: «Ma è possibile che non gli vada bene niente!».
    Ritengo che l'opposizione vada inserita in un quadro di psicopatologia, cioè è un atteggiamento malato che si fonda su un automatismo della risposta che deve essere analizzato, va capito, perché porta ad una rigidità comportamentale che limita assoluta mente, anzi toglie del tutto l'autonomia. Per questo non posso dire se gli oppositivi mi siano simpatici o antipatici. Vanno invece aiutati e curati.
    C'è infine una terza modalità di andare contro: la rivolta.
    Per la rivolta si possono usare probabilmente molte definizioni. lo preferisco l'accezione che ne dà Albert Camus, nel libro che porta proprio questo titolo: L'uomo in rivolta. L'uomo in rivolta è l'uomo che sa dire di no, ma che arriva a questa decisione dopo aver valutato la richiesta che gli viene fatta e aver constatato che è incompatibile con le proprie convinzioni. E a quel punto, dire di no è una precisa consapevolezza di non poter accettare. La rivolta, nel significato che gli dà Camus, comporta prima la valutazione della richiesta, quindi non è l'opposizione automatica, ma una scelta determinata da una precisa considerazione, ossia se quella richiesta è in qualche modo compatibile con i propri principi e sentimenti. Non solo raffrontandola con i principi razionali, dunque, ma anche con la parte emotiva di sé.
    Secondo Camus la rivolta assume un grandissimo significato sia per l'individuo, perché è un atto che definisce la stessa libertà, sia per la società, perché è opporsi ad una comunità di cui si è parte. Anche in un altro romanzo, La peste, Camus affronta il tema della rivolta. E lo fa dalla parte di un medico, il cui compito è cura re, che deve affrontare una malattia terribile, fatale. Ma il protagonista decide di rivoltarsi anche verso l'ineluttabile, contro il destino, trovando una soluzione che almeno diminuisca l'epidemia in corso. Ecco, quindi, che la rivolta finisce per avere un risultato. E Camus non si è limitato a scrivere della rivolta, l'ha anche attuata nella sua vita, tutta la sua vita è stata una rivolta. Credo che la disobbedienza rappresenti un'espressione coerente con questa concezione più estrema del comportamento, con la rivolta.
    Ma per trovare una simile forza in sé, la forza di valutare e scegliere come comportarsi di fronte a richieste della società, degli adulti, i giovani devono avere fiducia, e la fiducia significa credere nel futuro, avvertire desiderio.
    È essenziale interrogarsi, di fronte ad un adolescente, su quale sia la sua percezione del futuro. Perché è la sola via per accedere al mondo della fantasia, della sua fantasia e attuare persino una terapia della fantasia. Non può mancare negli adolescenti una prospettiva, che significa pensarsi diversi nel tempo. In altre parole, avvertire in sé un io ideale, qualcosa cui tendere attraverso un progetto. È esattamente lì, dentro la fantasia, che bisogna intervenire, mettere desideri, creare prospettive. È lì che rinasce il desiderio. Fare in modo che i ragazzi incomincino a desiderare. Il desiderio è stato loro espropriato, il desiderio è ridotto ad uno spot, il desiderio è "avere quell'oggetto, se non ce l'hai sei un imbecille".
    Bisogna restituire ai giovani il desiderio che è la capacità che ciascuno di noi ha di pensarsi diverso, trasformare l'insoddisfazione in un motore per fare un progetto. Non un diverso magico, da metamorfosi, ma un diverso programmato, un piano futuro. Lontano dal momento presente e proiettato fino alla fine, fino alla morte.
    Tra tutte le domande che si rivolgono ai giovani, occorre mettere anche questa, tesa all'analisi del desiderio, capire se c'è desiderio in ciascuno di loro. Solo così possiamo arrivare alla radice dei comportamenti estremi di cui ho parlato, alla morte come sfida, all'eroe del nulla che non sa nemmeno che cosa sta distruggendo: ossia non si riconosce, non c'è. Perché non ha percezione del desiderio, del futuro, e nemmeno della morte.


    T e r z a
    p a g i n A


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