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    L'adolescenza,

    una seconda nascita

    Giuseppe Angelini



    A
    lla fanciullezza, età della vita 'facile', segue l'adolescenza, l'età più difficile. La fanciullezza è l'età più facile proprio per questo: in essa molto assistono le risorse 'naturali'. L'adolescenza appare età difficile anzitutto per questo preciso motivo: in quell'età tutto deve ricominciare da capo e pare per nulla 'naturale'. Occorre rinascere, questa volta dalla volontà; la 'natura' poco assiste. Per il nuovo inizio occorrono fondamenti 'spirituali'; quelli 'naturali' non bastano.

    L'aggettivo 'spirituale' è assai impegnativo. Lo usiamo qui secondo un'accezione che, almeno in prima battuta, può essere definita come antropologica e non invece teologica. 'Spirituali' debbono essere i fondamenti del nuovo inizio, nel senso che essi per loro natura esigono d'essere resi operanti mediante il consenso libero del soggetto; non possono diventare principi di vita nuova se non a condizione d'essere scelti. Mediante una tale scelta il soggetto decide anzi addirittura di sé. Essa dà forma ad una seconda nascita; a differenza della prima, essa non è garantita dalla carne e dal sangue, esige invece che decida quegli stesso che deve nascere.
    In tal senso si fa manifesta nell'adolescenza una legge che pure dovrà poi essere riconosciuta come qualificante per rapporto alla vita umana tutta. La vita non è possibile se non nel segno della libertà. L'uomo nasce senza scegliere; ma non può vivere se non a questa precisa condizione, di riprendere la prima nascita mediante la sua scelta libera. Fino a che non intervenga questa seconda scelta, l'uomo è vivo solo per modo di dire; non è ancora vivo davvero. È vivo, se così possiamo esprimerci, soltanto in prova. Nel gergo della vita professionale, quando si firma un contratto di lavoro, è previsto un periodo di prova; fino a che dura quel periodo, si dice appunto che il lavoratore è in prova. Molti indizi offerti dagli stili di vita correnti suggeriscono questo sospetto: che nelle nostre società occidentali e sviluppate le persone rimangano in prova per tutta la vita. Vivono certo, senza però avere ancora firmato alcun contratto; senza avere concluso alcuna alleanza sicura con la vita stessa; senza avere ancora deciso se la vita sia davvero un vantaggio e l'essere nati una grazia. Il sospetto così formulato molto assomiglia all'altro: l'adolescenza non sarà per caso diventata un'età `interminabile' nel nostro mondo? Questo sospetto, come già s'è notato, è espresso con insistenza dalla pubblicistica recente.
    Che l'adolescenza sia un'età difficile, è vero da sempre, non soltanto da pochi decenni. Per sua natura essa è una stagione di crisi. In altre epoche pareva però che la crisi fosse assai concentrata nel tempo, avesse dunque la consistenza di un momento puntuale di passaggio, dall'infanzia all'età adulta. In epoche ancor più remote, la gravità del passaggio trovava precisa espressione in appositi riti sociali, i riti di iniziazione; essi prevedevano per l'adolescente prove ardue, che davano espressione assai chiara a una consapevolezza comune: il passaggio dalla condizione infantile a quella adulta è denso di pericoli. E tuttavia, nonostante questa consapevolezza del suo carattere arduo, o forse proprio grazie a questa consapevolezza, l'adolescenza assumeva la fisionomia di un rapido passaggio, non invece quella di un'estesa stagione della vita. Il dubbio che essa potesse diventare un'età addirittura interminabile era lontano.
    In questa luce dobbiamo valutare anche la tesi, che viene talvolta espressa, secondo la quale l'adolescenza sarebbe addirittura un'invenzione moderna. Invenzione solo moderna non è propriamente l'adolescenza, ma la sua consistenza di età distesa nel tempo.
    All'estensione nel tempo corrisponde poi anche la sua estensione sociale. Soltanto nell'età moderna, o meglio in quella postmoderna, gli adolescenti hanno assunto la consistenza di un mondo, di un universo sociale dunque, con forme di aggregazione sue proprie, caratterizzato da stili di vita differenziali e distanti da quelli infantili, come da quelli adulti. Addirittura di un mondo si può parlare, nel senso che nelle società occidentali tardomoderne gli adolescenti vivono il rapporto tra coetanei come la forma tendenzialmente esclusiva di aggregazione sociale; essi paiono come sequestrati rispetto all'universo degli adulti. Questo non accade certo nel caso dei bambini; essi non sono in tal senso un mondo. Proprio il sequestro degli adolescenti rispetto alla società adulta pare disporre le condizioni meno propizie al superamento di questa stagione della vita.
    Oltre che difficile, e prima che difficile, quel superamento appare agli occhi degli adolescenti non desiderabile. Tra i fattori determinanti del carattere interminabile che minaccia l'adolescenza nel nostro tempo, sta appunto questo: negli adolescenti manca spesso anche solo il desiderio di diventare grandi. Adulto è brutto – così essi sembrano pensare.
    Questi nuovi tratti dell'adolescenza sono alla base del profilo differenziale che assume la difficoltà di un'età, che pure appare difficile per sua natura, e non solo nel tempo presente. Appunto tale profilo differenziale spiega come soltanto in tempi recenti il tema dell'adolescenza si sia imposto alla diffusa attenzione come oggetto obbligato di riflessione, e anzi come una questione grave, complessa e inquietante.
    Il tema si impone anzitutto all'attenzione dei genitori. Nessuno può riconoscere con competenza paragonabile alla loro gli aspetti provocatori e solo 'finti' del comportamento dei figli; proprio la loro 'finzione' irreale, ma ostentata quasi fosse la cosa più normale di questo mondo, ha di che inquietare e irritare. Della distanza dell'adolescente dalla realtà essi non possono fare a meno di sentire il peso provocatorio sulla loro stessa pelle. Il loro coinvolgimento emotivo, d'altra parte, ha di che rendere la loro testimonianza sospetta.
    Il tema s'impone però poi anche a tutti gli altri educatori. In tal caso al centro dell'attenzione stanno i risvolti sociali, la loro `devianza', non invece subito gli aspetti connessi con l'identità stessa degli adolescenti. La distanza sistemica, che tendenzialmente divide l'approccio della scuola da quello della famiglia, pare pregiudicare la possibilità di giungere a un'istruzione adeguata del tema dell'adolescenza. La relazione coi genitori costituisce, senza possibilità di dubbio, un nodo assolutamente qualificante per intendere che cosa è in gioco nella vicenda dell'adolescenza; si tratta peraltro di nodo che difficilmente può essere sciolto nell'ambito della famiglia stessa. Le altre agenzie educative paiono però ignorare ostinatamente quel nodo. Il silenzio su un aspetto tanto qualificante autorizza molti dubbi a proposito dell'effettiva competenza di queste altre agenzie educative.
    Il rilievo riguarda anche la Chiesa. Le forme correnti della pastorale giovanile, sorprendentemente, non prevedono affatto che tema qualificante della formazione cristiana sia il rapporto degli adolescenti con i loro genitori. Tale inconveniente è un'ulteriore espressione di quella distanza tra famiglia e società, alla quale più volte abbiamo fatto riferimento.
    L'approccio della scuola, istituzione 'pubblica', è quello che più facilmente plasma le forme complessive dell'attenzione pubblica al tema, e le stesse forme della ricerca 'scientifica' sull'adolescenza. Il tema ha acquistato infatti, nel corso del Novecento, una presenza crescente nella ricerca psicologica e rispettivamente in quella sociologica. Nell'uno e nell'altro caso, l'interesse è alimentato dalla considerazione della casistica per così dire 'patologica': quella di carattere propriamente clinico considerata dalla psichiatria e dalla psicoanalisi, e quella che assume invece la forma della devianza sociale, o comunque del disadattamento, considerata dalla ricerca sociologica. I due fronti di ricerca sono accomunati da una nascosta opzione pregiudiziale: la questione adolescenza sarebbe questione 'regionale', che riguarda cioè soltanto degli adolescenti. In questione viene certo anche quello che gli adulti possono fare per loro; ma, appunto, debbono fare per loro, non invece quello che gli adulti debbono fare di se stessi. E pregiudizialmente esclusa l'eventualità che il caso adolescenza metta in questione le forme tutte della vita comune della generazione adulta.
    In tal senso si riproduce anche per riferimento agli adolescenti la distorsione della quale già si diceva a proposito dei bambini; oltre che di tratto `puero-centrico' dell'educazione, si deve parlare anche di un tratto 'adolescente-centrico'. Tale tratto impedisce di scorgere gli aspetti, indubitabili, per i quali i problemi che diventano tanto evidenti nell'età dell'adolescenza sono in radice problemi di tutti, ma ostinatamente ignorati dalle forme del sapere pubblico del nostro tempo.

    Adolescenza e cultura pubblica

    A tale riguardo si può essere anche più espliciti. Fin dall'inizio della nostra riflessione abbiamo notato come i modelli di vita, che trovano espressione più evidente e insieme meno plausibile negli adolescenti, siano gli stessi proposti con insistenza a tutti dalle forme della comunicazione pubblica; in particolare, dalla cosiddetta 'industria culturale'. Questo aspetto della questione appare oggi decisamente poco considerato. Ne parlano sì, qualche volta, gli elzeviri dei giornali; poco o nulla invece esso è oggetto di riflessione nelle sedi di ricerca 'scientifica' sull'adolescenza. Anche così si esprime la distanza di tale ricerca dall'ottica propria della coscienza della persona che vive, figlio o genitore che sia.
    Le sorprendenti corrispondenze tra modelli di vita dell'adolescente e modelli proposti dalla cultura pubblica hanno alla loro radice la valenza 'simbolica' che deve essere oggi riconosciuta all'adolescenza per rapporto alla comune filosofia di vita. Questa come ogni altra età della vita, non può essere considerata quasi fosse soltanto fase di passaggio transitoria; porta invece ad evidenza aspetti della vita che sono di sempre: affetti di sempre, e anche interrogativi di sempre; di più, porta ad evidenza forme di risposta pratica a quegli interrogativi che si ripropongono in diverso modo come una possibilità attraente anche nelle altre età della vita. In tal senso appunto la riflessione sull'adolescenza può e deve istruire a proposito della vita tutta.
    L'affermazione di carattere generale deve essere illustrata attraverso qualche indicazione più concreta. L'adolescenza è l'età nella quale il minore deve passare dalla sua prima identità, definita nel quadro della relazione col padre e la madre, ad una seconda e più definitiva identità, che può definirsi soltanto nel quadro della relazione universale. Deve, sotto altro profilo, passare da un'identità che appare, fondamentalmente, assegnata a lui da altri ad un'identità che deve invece essere scelta. Un passaggio come questo ha di che suscitare timore. Non ha forse la stessa figura il timore suscitato da ogni prova successiva della vita? Da ogni esperienza, intendo dire, nella quale e mediante la quale la persona avverte d'essere chiamata a rendere ragione di sé? Non rinasce allora, sempre da capo, la tentazione per la persona di appellarsi a ciò che essa già è stata, quasi che l'inerzia del passato potesse esonerarla dal compito di decidere oggi di sé?
    L'identità cercata non è soltanto nuova, non è soltanto altra dalla precedente; ha invece di necessità la figura di una ripresa della precedente; in questo senso l'adolescente è chiamato a rendere ragione della nuova identità per riferimento a quel passato che lo costituisce e che è a tutti i suoi familiari ben noto. Questa necessità pare complicare il suo compito; alimenta infatti il timore di essere in tal modo sempre da capo ricacciato alla sua identità infantile. Parrebbe consentire una riduzione della complessità la scelta di cancellare del tutto la memoria. Di fatto proprio questo in molti modi accade, come attestano gli stili di vita perentori e `decisionisti' dell'adolescente. Non succede forse una cosa assai simile in molte altre occasioni della vita, quando cioè s'impongano nuove decisioni? Non accade questo, ad esempio, nel momento in cui iniziamo nuove conoscenze o nuovi legami affettivi? e soprattutto nel momento in cui interrompiamo legami precedenti? Avviene qualche cosa di simile anche ogni volta in cui è iniziata la frequentazione di un nuovo ambiente; oppure dopo una conversione di carattere religioso; spesso i 'convertiti' appaiono dispotici e senza memoria, appunto come adolescenti. La scelta di cancellare la memoria, quasi essa fosse di fastidioso ingombro per vivere il presente, costituisce oggi una tentazione diffusa, ma nascosta; gli adolescenti danno ad essa visibilità più clamorosa.
    La tentazione più radicale e qualificante dell'adolescenza è di staccare, almeno provvisoriamente, i comportamenti dall'identità personale. Questa appare infatti troppo imprecisa e inquietante; meglio dunque trattenere ogni investimento dei desideri e dei sentimenti 'profondi' nelle cose che si fanno, e si fanno talora anche con vivace interesse. Tale tentazione non si propone soltanto nella vita dell'adolescente; ad essa siamo invece esposti tutti, in questo nostro tempo in particolare. Nel caso dell'adolescente, appare addirittura dubbio che possa parlarsi di una tentazione; i molti esperimenti costituiscono invece un momento indispensabile, perché l'adolescente possa giungere alla decisione effettiva; essi sono come prove generali di una vita che ancora si cerca. Come distinguere tra esperimenti necessari e pretesa – questa certo indebita – di avere la `prova' convincente del valore di una scelta prima ancora di prenderla? La filosofia di vita sottesa ai luoghi comuni della comunicazione pubblica è attraversata proprio da questo poco plausibile assunto, che occorra provare per credere; la formula, caratteristica del lessico commerciale, pare oggi assioma della sapienza di tutti.
    I molti interrogativi accumulati non riguardano soltanto l'adolescente, ma ogni persona. Forse proprio per questo motivo l'adulto oggi teme l'adolescente: egli minaccia di porgli questioni alle quali non sa dare risposta. L'adolescente d'altra parte teme l'adulto, perché egli suppone che l'adulto abbia ben chiara la risposta a quegli interrogativi; troppo chiara, perché quella risposta prometta comprensione nei confronti delle difficoltà differenziali dell'adolescente, che sono obiettive, ma non sono facili da articolare.
    Per proporre una descrizione più analitica dell'esperienza dell'adolescente, per chiarire la qualità dei compiti che essa propone all'interessato e rispettivamente ai suoi educatori, si possono adottare diversi schemi. Ne distinguiamo due in particolare: il primo si riferisce ai diversi aspetti di quell'esperienza (il corpo, gli affetti, le immagini, i pensieri, i comportamenti, e simili) per riferimento all'arco intero di questa età; l'altro invece procede dalla comprensione pregiudiziale dell'adolescenza come un processo, e tenta quindi di individuarne le fasi tipiche.
    Il secondo schema è quello più frequentemente adottato dalla letteratura tecnica sul tema. Tale scelta non sorprende; l'adolescenza infatti, nella forma tipica che assume oggi nelle società occidentali, ha una grande distensione nel tempo; inaugurata dalla crisi della pubertà essa non si conclude se non oltre i vent'anni, o magari oltre i trenta. È difficile parlare di un processo tanto lungo in termini generalizzanti; più feconda appare la via di individuare singole fasi successive e descriverne la consistenza rispettiva; la successione della fasi consente insieme di suggerire il senso sintetico del processo complessivo. Ma d'altra parte, per descrivere queste singole fasi è comunque necessario fare riferimento ai molteplici aspetti dell'esperienza; l'irrisolta tensione tra questi aspetti genera l'incertezza caratteristica di questa età.
    Gli obiettivi della nostra riflessione, e i limiti ad essa imposti, ci consigliano di privilegiare il primo schema. Analizzeremo dunque tre diversi aspetti dell'adolescenza: il vissuto del corpo, gli affetti, i pensieri; per riferimento a tali aspetti cercheremo di disegnare un ritratto sintetico di quest'età. Soltanto a conclusione di questa descrizione più analitica suggeriremo uno schema sintetico delle fasi attraverso le quali si realizza lo sviluppo dell'adolescenza.

    L'esperienza del corpo

    Prendiamo le mosse dunque dall'esperienza somatica, che è anche quella che segna in maniera più evidente e sicura l'inizio dell'adolescenza. Essa infatti inizia dalla pubertà, la quale ha i tratti di una vistosa trasformazione somatica. Appunto da una tale trasformazione è anzitutto segnalata la necessità di un nuovo arrangiamento della stessa coscienza di sé.
    Già nell'infanzia la nascita della coscienza è propiziata da esperienze del corpo, come la fame e la nutrizione, il sonno e la veglia, il freddo e il caldo, la presenza e l'assenza di altri, la progressiva capacità di muoversi intenzionalmente, di camminare, e così via. La coscienza allora 'nasce' – per così dire – dal vissuto del corpo; nel caso dell'adolescente invece la coscienza, già costituita, assiste quasi 'da fuori' all'emergenza delle forme nuove del corpo; si propone dunque per essa il compito di appropriarsene. Già così si rende evidente la differenza tra questa seconda nascita e la prima: la prima è 'naturale', la seconda è 'spirituale'.
    L'esperienza dell'adolescenza porta a nuova evidenza il legame obiettivo che sempre sussiste tra corpo e identità; necessario quel rapporto, appare insieme come arduo. La distanza tra coscienza e corpo ha obiettivamente di che illuminare la qualità del legame.
    Abitualmente noi non abbiamo alcuna necessità di pensare per compiere i gesti abituali della vita, come ad esempio respirare, camminare e muoverci in genere; la docilità del corpo all'anima appare spontanea. Vengono però momenti nei quali i gesti più abituali cessano d'essere ovvi; allora diventa necessario pensare i gesti prima di compierli; s'impone, in ogni caso, un'attenzione riflessa ad essi. Basta una distorsione a una caviglia perché il gesto di camminare non sia più ovvio. Basta una lieve vertigine, perché l'equilibrio normalmente spontaneo diventi invece oggetto di una ricerca attenta e incerta, e il suo ritrovamento occasione addirittura di stupore. Basta un attacco di asma, perché anche la respirazione diventi un compito che sequestra l'attenzione. La necessità di una cura riflessa per il corpo è indice innegabile di una diminuita integrazione del corpo nella coscienza abituale. Quando il respiro o l'equilibrio devono essere tenuti sotto controllo deliberato, ci accorgiamo insieme di quanto poco probabile sia l'idea che la conoscenza possa sostituire la coscienza, e dunque il complesso delle forme arcane nelle quali in maniera non deliberata si realizza la presenza a sé del soggetto.
    Qualche cosa di simile accade nel caso dell'adolescente. La prima forma in cui si manifesta l'incertezza della coscienza, della presenza ovvia dunque a se stessi, è proprio quella legata alla percezione del corpo proprio come distante. La trasformazione somatica costituisce il primo e più appariscente segnale della necessità che si produca una corrispondente trasformazione della stessa coscienza psicologica, o comunque un suo incremento.
    I tratti somatici nuovi suscitano in tutti coloro che ne sono testimoni, nei genitori prima e più che in ogni altro, una reazione di incredulità, e addirittura di disagio. Suscitano anche reazioni di timore: la trasformazione del corpo dei figli propone infatti anche ai genitori il compito di adeguarsi; ora questo appare come un compito comunque assai impegnativo, che suscita incertezza. Una tentazione facile è quella di difendersi da questo compito mediante il sorriso; ad esso può certamente essere riconosciuta una ragione di pertinenza; ma come evitare che diventi irrisione? Essa, come subito si capisce, sarebbe reazione sterile, e anzi francamente crudele.
    La voce più grave del ragazzo suona inizialmente quasi come una passeggera raucedine; una domanda spontanea –come per esempio: «Hai mal di gola?» – può risuonare come irridente banalizzazione di un'esperienza che, ancora assai oscura, è da subito percepita dall'adolescente come grave. L'inasprirsi dei tratti del volto e la comparsa della prima peluria appaiono, in primissima battuta, come compromettere la bella immagine del bambino; facilmente questo modo di percepirla trova espressione anche nelle forme della comunicazione; e questo certo ferisce. Come una sconveniente insidia alla bella immagine infantile appare anche il primo abbozzarsi delle forme rotonde del seno nella ragazza; gli occhi dell'adulto si fissano facilmente su questo particolare; quegli sguardi alimentano un imbarazzo che la ragazza avverte comunque. La prima mestruazione ha di che apparire come evento assai inquietante; esso è oggi esorcizzato mediante il linguaggio asettico dell'informazione scientifica. L'informazione certo è necessaria; ma non basta; anche attraverso di essa minaccia di realizzarsi la condanna della coscienza alla solitudine; il compito di appropriarsi delle nuove forme del corpo rimane esclusivo della ragazza. I genitori, e ancor più i nonni, commentano oggi spesso la trasformazione in termini molto espliciti: «Peccato che crescano così in fretta».
    Il rifiuto che gli altri oppongono alla sua incipiente immagine 'adulta' è percepito con molta prontezza dall'adolescente, in forme atmosferiche. A tale percezione non corrispondono pensieri precisi. Possono tuttavia essere distinte, con qualche schematismo, due forme alternative di risposta: il tentativo di nascondersi, in particolare l'ostinato silenzio, oppure una mimica `adultista' deliberatamente e provocatoriamente esibita. Sia la prima sia la seconda figura della risposta rischiano di aggravare l'effetto goffo che comunque suscita il suo aspetto. Proprio perché solo istintive, non consapevoli né deliberate, le due risposte possono essere insieme presenti; anzi, sempre esse sono in diversa misura compresenti, e addirittura correlative, nel senso che l'una alimenta la necessità dell'altra.
    Oltre e prima che nelle forme del rapporto con altri, l'oscillazione tra i due atteggiamenti può essere rilevata nelle forme del rapporto immaginario che l'adolescente ha con se stesso. Egli cerca la propria identità spiando, per così dire, il proprio corpo, divenuto estraneo. Immagine icastica di tale ricerca cauta è lo specchio; esso effettivamente assume rilievo significativo nella ricerca della propria immagine. Davanti allo specchio l'adolescente oscilla tra un atteggiamento euforico e un atteggiamento depresso. Il primo atteggiamento assume la forma della fantasia idealizzante; davanti allo specchio l'adolescente pare come mimare la favola del rospo magicamente trasformato in un magnifico principe; la crisalide attende il momento in cui si rivelerà l'immagine della farfalla. Il secondo atteggiamento si esprime invece nella forma della sempre rinnovata constatazione della trasformazione che si è prodotta nella sua immagine più familiare. Lo specchio assume in maniera trasparente la consistenza di una metafora. Anche nel-la sua mente, e non soltanto nel suo corpo, l'adolescente si vede soprattutto come in uno specchio.
    I due atteggiamenti alternativi, euforia e depressione, sono in qualche misura sempre presenti insieme; essi alimentano la vertiginosa incertezza di questa età. Nei singoli casi può certo prevalere l'uno o l'altro, in corrispondenza alla qualità del temperamento di ciascuno, e rispettivamente alla qualità dell'integrazione della propria immagine che già è stata realizzata nell'età della latenza. Riconoscere quale sia questa qualità nel caso singolo è ovviamente assai importante, per decidere gli atteggiamenti educativi di caso in caso più opportuni.
    L'atteggiamento che abbiamo indicato come mimica adulti-sta deve essere però precisato, per riferimento al contesto sociale concreto nel quale essa oggi si realizza. L'immagine di riferimento non è più oggi, tipicamente, quella dell'adulto reale; non è in particolare quella del proprio genitore. È invece un'immagine spregiudicata e non convenzionale, in molte forme proposta dall'immaginario pubblico. Essa serve in tal modo alla dissimulazione del bambino, che l'adolescente o il preadolescente porta in sé, assai più che alla ricerca mimica della propria immagine adulta. Appunto come una strategia di dissimulazione debbono essere intese, per esempio, le improbabili stravaganze nell'abbigliamento dell'adolescente o nell'acconciatura dei suoi capelli. Esse obbediscono all'obiettivo di disorientare l'occhio dello spettatore, assai più che a quello di raccomandare una figura ideale di sé, sia pure solo immaginaria e velleitaria. L'abbigliamento degli adolescenti appare all'occhio dell'adulto come una maschera brutta, assai più che come espressione di un'assunzione orgogliosa e magari esibizionistica del loro nuovo corpo giovane.
    Gli adolescenti sembrano in tal senso assai più preoccupati di farsi 'brutti', che di farsi 'belli'. Infieriscono sui segni attraenti del loro corpo giovane, quasi volessero tacitare preventivamente ogni attesa suscitata dal messaggio promettente della loro trasformazione somatica. In tal senso sbaglia il proprio obiettivo il genitore che cercasse di convincerli del loro errore ricorrendo a considerazioni di carattere estetico; essi infatti non sono interessati ad apparire belli; al contrario, stranamente sembrano quasi temere di apparire belli. Il loro modo di sentire trova poi obiettiva complicità nell'immaginario offerto dall'industria della moda, che è in ogni caso spettacolare, spesso anche grottesco.
    Considerazioni come queste valgono sia per il ragazzo sia per la ragazza. Nei due casi tuttavia debbono essere rilevate differenze significative. Nel caso del ragazzo, appare più evidente la ricerca di un effetto caricaturale; mentre nel caso della ragazza si afferma con più evidenza il tentativo certo goffo di anticipazione mimica e provocatoria della figura della femmina attraente. La differenza è da intendere sullo sfondo dell'altra, più nota e più descritta nella letteratura, che riguarda il linguaggio. L'attrattiva quasi infallibile che esercita il discorso osceno' già nella preadolescenza, e anzi soprattutto allora, è comune ai due sessi; nei maschi però quell'attrattiva predilige gli argomenti 'sporchi' piuttosto che quelli di carattere propriamente 'sessuale', a differenza da ciò che accade nel caso delle femmine. La circostanza è presumibilmente da porre in relazione con la maggiore precocità delle femmine, e le forti paure con le quali deve misurarsi invece il ragazzo sul tema della sessualità. Le compagne coetanee sono da lui tendenzialmente e segretamente idealizzate. In ogni caso, nei confronti dell'altro sesso il preadolescente si sente assai insicuro, si comporta in modo ostile verso le ragazze, ne parla in maniera irridente, cerca di evitarle, e quando è in loro compagnia fa lo spaccone, le prende in giro, si dà arie. In sostanza tende a negare la propria angoscia, piuttosto che cercare di stabilire un rapporto. Sullo sfondo di questa paura è da intendere anche il fatto che le fantasie sessuali dei maschi preadolescenti sono assai più nascoste di quelle della ragazza. I discorsi sporchi sono in tal senso al servizio della dissimulazione di sentimenti troppo incerti. La ragazza invece ha meno timore che traspaiano i suoi desideri rivolti al coetaneo dell'altro sesso.
    L'uso della cosmesi e gli abbigliamenti assumono oggi, con certa frequenza, nelle ragazze appena adolescenti forme assai appariscenti. L'immagine di ragazzine di dodici o tredici anni con vistosi rossetti alle labbra, e un abbigliamento che ha il significato obiettivo di proporre un appeal di ordine sessuale, suscita un'impressione anzitutto sgradevole, poi anche inquietante. Esse per lo più non sono in grado di avvertire distintamente il significato che abbigliamento o trucco assumono a livello sociale; l'anticipazione fantastica della propria immagine di donna, e dunque la speranza d'essere oggetto di desiderio, si mescola in esse confusamente al desiderio di 'truccare' la bambina, di cancellare dunque agli occhi degli altri quell'identità infantile che appare ormai mortificante. Appunto la mescolanza confusa dei due atteggiamenti rende la ragazza assai vulnerabile: non solo nei confronti dei coetanei, ma anche nei confronti dei genitori; proprio perché ad essa sfugge il significato obiettivo dei suoi comportamenti, la correzione che i genitori propongono, che si riferisce spesso e in forme assai esplicite al loro significato sessuale, la ferisce profondamente. In tale ferita sono presenti i due significati distinti, equivocamente mescolati. Il primo è quello che corrisponde alla violenta riconduzione della ragazza alla sua identità infantile; il secondo è invece quello della disapprovazione morale. La mescolanza dei due significati è avvertita dalla ragazza; essa già da sola avverte quanto sia arduo trovare e poi anche realizzare la sua nuova immagine; la correzione perentoria del genitore, per un lato irridente e per altro lato indignata, appare a lei facilmente come espressione di una prepotenza arbitraria, o addirittura crudele.
    Espressione estrema, particolarmente chiara, e insieme assai inquietante, del difficile rapporto che la ragazza adolescente ha con il proprio corpo sono i comportamenti alimentari anomali, l'anoressia dunque e la bulimia. Come a tutti noto, tali sindromi conoscono oggi una significativa lievitazione; nella percezione immaginaria dei genitori minacciano di assumere addirittura la consistenza di un spettro, paragonabile a quello costituito dall'uso di droghe.
    All'origine di tali disturbi sta la percezione mostruosa del proprio corpo; quel 'mostro' minaccioso dev'essere ridotto all'impotenza o addirittura cancellato. Il corpo appare come un 'mostro', perché brutto, invadente, dilagante, ingombrante, addirittura osceno; e insieme perché imprevedibile, e comunque sempre esoso. La responsabilità di tali disturbi dell'alimentazione è attribuita con certa frequenza agli ideali estetici proposti dall'immaginario collettivo, e dunque alla raccomandazione ossessiva di una linea filiforme, che diventa poi nella mente della ragazza quasi una paranoia. A quanto ci pare, la diagnosi in questione non raggiunge la radice profonda del fenomeno. Determinante non è tanto la considerazione estetica del corpo, quanto il carattere dispotico dei suoi bisogni, della sua fame, e quindi anche dell'uso che il corpo poi fa di quanto gli mettiamo a disposizione. Il disegno assurdo, che sta all'origine nascosta dell'anoressia, è appunto quello di esorcizzare il potere del corpo sull'anima, percepito come dispotico. Le ragazze anoressiche, oltre ad essere in genere molto intelligenti e sensibili, mostrano un'estrema forza di volontà, addirittura un'ostinazione implacabile. Per altro verso, mostrano anche una vivace capacità di immaginazione, una spiccata inclinazione a confondere, se non anche a sostituire, l'immaginario al reale. L'inconsapevole progetto è appunto quello di sostituire a quella figura di sé sospetta e addirittura oscena, che il corpo vorrebbe loro imporre, un Io che nasca soltanto dalla loro mente.
    È importante capire la genesi psicologica dell'anoressia, per non sbagliare nelle risposte. Non paiono così decisivi i miti della moda, e quindi neppure le diete. Non si arriva certo alla radice tentando di esorcizzare con ragionamenti questi miti. Il terrore nascosto è nella percezione psichica che la ragazza ha del proprio corpo e della sua pericolosa voracità. La percezione di una tale voracità è talvolta alimentata dalla voracità della madre. Più precisamente, è alimentata dalla sua prossimità fisica e dalla sua invadenza affettiva, percepita dalla ragazza come attraente e insieme come esiziale. Essa trasmette un messaggio minaccioso: non è possibile che tu, figlia mia, diventi grande. Al di là di ogni precisa consapevolezza, la figlia è sensibile all'attrattiva di tale prospettiva, e insieme la teme. Attraverso la sua ascesi, i suoi comportamenti decisi e dispotici, attraverso l'adozione di una filosofia di vita spiccatamente intellettuale, attraverso tratti di comportamento persino 'mascolinizzanti', essa per un lato punisce la madre, e per altro lato la tiene in suo potere; ne attiva proprio quegli atteggiamenti materni e affettivi, che essa teme e rifiuta. Facilmente si innesca una sua segreta complicità con la madre.
    Subito si intuiscono alcune attenzioni che dovrà assumere l'atteggiamento della madre nei confronti di questa figlia. La prima attenzione sarà quella di non lasciarsi contagiare dal terrore. Proprio il terrore della possibile anoressia minaccia infatti, paradossalmente, di alimentare il terrore correlativo della figlia nei confronti del corpo proprio. Il sintomo si struttura proprio trovando alimento nella reazione repressiva e ossessionata della madre. Occorre a tutti i costi evitare la polarizzazione del rapporto tra madre e figlia intorno al tema del cibo. Un messaggio rassicurante può passare soltanto attraverso canali diversi rispetto a quelli delle prescrizioni di comportamento alimentare. Diversi in genere da quelli che assumono la forma di prescrizioni comportamentali. Diversi, rispettivamente, da qualsiasi messaggio verbale e didascalico. Oltre al registro didascalico occorre poi evitare decisamente quello patetico, illustrato da commenti del genere: "Facendo così, mi vuoi morta!"; "Così ti ucciderai!". La rinuncia a queste formule non è persuasiva, se fatta in forme finte, ostentando un distacco o un'indifferenza che, in ogni caso irreale, potrebbe apparire anche come crudele alla ragazza.
    La prossimità deve invece manifestarsi attraverso attese che non si riferiscano al cibo e al corpo, e non siano attese di mamma. I comportamenti della madre debbono dare figura ad una prossimità senza spasimo; in tal modo debbono esorcizzare il paventato pericolo del corpo, e quello ad esso strettamente legato di una vicinanza affettiva e soffocante della madre stessa. Più concretamente, quei comportamenti debbono esprimere un messaggio, che non si riferisce alla figlia e a ciò che potrà diventare, neppure alla madre e a ciò che essa a sua volta potrà diventare. Il messaggio deve invece dare figura al mondo intorno e aiutare dunque la figlia a scorgere come esso sia mondo accogliente e promettente nei suoi confronti. I comportamenti della madre debbono decongestionare in ogni modo la sua relazione con la figlia, e scavare tra sé e lei un posto per il mondo intero.
    Porta d'ingresso in questo mondo amico è la relazione della figlia con il padre. Appunto attraverso l'addomesticamento del padre passa la via privilegiata che consente alla figlia – ma anche al figlio, sia pure con modalità diverse – di uscire da quella prima percezione materna del mondo, che ora la spaventa. Attraverso quel rapporto la figlia deve giungere all'intuizione di questo messaggio liberante: per vivere, essa non è affatto condannata a dipendere dall'affetto infantilizzante e alla fine soffocante della madre; potrà invece trovare riconoscimento di sé in quel mondo più grande e liberante, del quale proprio attraverso le forme dell'alleanza sicura tra il padre e la madre essa ha primo documento. L'attenzione a questa alleanza, che la madre mostri con i suoi comportamenti, costituisce la risorsa essenziale per realizzare quella prossimità senza spasimo alla figlia, di cui si diceva.
    L'accenno al caso estremo dell'anoressia non è qui introdotto, merita di precisarlo, con l'obiettivo di suggerire rimedi in proposito. Essi chiederebbero considerazioni ben più analitiche, e in ogni caso eccedenti la competenza di chi scrive. L'accenno è fatto unicamente per riferimento al valore di paradigma che questa patologia psicologica assume per intendere in generale il nesso strettissimo tra corpo e psiche, rispettivamente tra mutamento somatico e conseguente necessità che assumano nuove forme gli stessi affetti. La strategia segreta, che tenta la ragazza anoressica, come si diceva, è quella di affidarsi unicamente alla mente, per trovare queste nuove forme; di staccare dunque pregiudizialmente gli affetti dal corpo. Nel suo caso assume forma clamorosa una modalità di risposta alla crisi dell'adolescenza, che è sempre operante, anche se fortunatamente non sempre in maniera tanto devastante. Il nesso di tali processi di intellettualizzazione con la trasformazione somatica è descritto con grande precisione da Anna Freud:

    Abbiamo l'impressione che i fenomeni, il cui complesso viene da noi chiamato `intellettualizzazione della pubertà', non rappresentino che l'esasperazione, nelle condizioni particolari di un'improvvisa esplosione della libido, di un atteggiamento generale dell'Io. E solamente l'aumento quantitativo della libido che attira l'attenzione su una funzione dell'Io che è altrimenti del tutto naturale e che si realizza normalmente senza esplosioni. Questo significa che l'intensificazione dell'intellettualità nell'adolescente, e forse anche il progresso considerevole nella comprensione intellettuale dei processi psichici caratteristico di ogni esplosione psicotica, fanno semplicemente parte degli sforzi abituali dell'Io diretti a dominare gli istinti per mezzo del pensiero. [1]

    L'intellettualizzazione costituisce una delle forme tipiche che assume la risposta alla crisi di quella complicità spontanea tra corpo e psiche, che è caratteristica della fanciullezza. Essa dà espressione a un segreto progetto, che alla fine si mostrerà impossibile: quello di realizzare un dominio sul corpo attingendo a risorse diverse rispetto a quelle espresse dal corpo stesso. L'anima dovrebbe assumere quasi la funzione di regista nei confronti del corpo, senza in alcun modo dipenderne. In realtà, per realizzare quella regia l'anima sempre dipende segretamente da immagini e sensazioni, che l'esperienza somatica le deve offrire. Tali immagini e sensazioni sono però, per così dire, strappate al corpo e utilizzate per comporre un disegno soltanto 'immaginario' di sé. La violenza nei confronti del corpo e della sua inaffidabile spontaneità sconta il più nascosto sospetto nei confronti dell'occhio dell'altro, e più radicalmente nei confronti della coscienza dell'altro; autorizzata dalla consuetudine dei rapporti pratici con me, tale coscienza suppone di essere autorizzata a nutrire attese troppo univoche nei miei confronti; pretende addirittura di assegnarmi un'identità.
    La prossimità 'magica', che si realizza attraverso le esperienze infantili, è effettivamente all'origine della coscienza; da una tale origine non è possibile semplicemente staccarsi. Essa è però gravida di una promessa, che attende d'essere oggettivata. Soltanto attraverso tale oggettivazione la prossimità originaria cesserà di apparire catturante e inospitale nei confronti della nuova immagine, che la trasformazione somatica segnala come necessaria.

    I modi di sentire

    Nell'esperienza dell'adolescente come sempre, la distinzione tra momento somatico e momento psicologico è di necessità solo astratta. Momento psicologico è quello degli affetti o dei sentimenti; psiche infatti, secondo una prima definizione, certo ancora molto approssimativa, è appunto la designazione sintetica della sfera del sentire. Essa non è parte della persona, accanto al corpo e altra dal corpo. Tra corpo che si vede, che soprattutto vedono gli altri, e psiche che non si vede, sembra certo a prima vista che sussista una distinzione assai netta, addirittura una sorta di opposizione. Ciò che pare a prima vista però inganna. Anzi, quella che pare una 'prima vista', a una considerazione più attenta mostra di non esserlo affatto; essa è invece soltanto il modo di giudicare che riflette le rappresentazioni di sé alimentate dalle forme della comunicazione ordinaria. Il corpo infatti è davvero mio soltanto a misura in cui è investito di affetti; e d'altra parte gli affetti stessi sono miei, sono forme dell'io, soltanto a misura in cui essi possono essere da me rappresentati in termini somatici.
    Una caratteristica dell'esperienza infantile precoce è appunto questa: la percezione sensibile, visiva o tattile, che il bambino ha del suo corpo non ha i tratti della percezione del corpo proprio; il corpo, o meglio le sue singole membra, sono percepite quasi fossero un oggetto esterno. Tale 'esteriorità' del corpo visto o toccato non pregiudica il fatto che egli viva invece l'approvazione di sé o rispettivamente il rifiuto proprio attraverso il corpo. Questo accade però senza necessità che si stabilisca in forma riflessa nella sua coscienza la distinzione tra sé e il corpo proprio. Anzi, perché questo accada, è necessario che il corpo non diventi mai oggetto di considerazione riflessa. La considerazione oggettivante del corpo si realizza soltanto nel momento in cui il corpo soffre, o comunque non risponde all'iniziativa intenzionale del bambino. Abitualmente, il corpo del bambino rimane invisibile e `trasparente'; comanda le forme della sua percezione del mondo senza essere oggetto di percezione per se stesso. Appunto le sue forme del sentire garantiscono in maniera arcana questa trasparenza. In questo tratto dell'esperienza infantile è custodita una verità indimenticabile della relazione tra psiche e corpo, o diciamo pure tra anima e corpo.
    Psiche è la parola greca che la lingua moderna traduce con anima; la lingua antica non registrava la differenza tra momento psicologico della vita e suo momento spirituale; non distingueva in particolare tra desiderio impulsivo e volontà. Anche questo fatto è da leggere come indice di una verità, che certo dev'essere chiarita, che si può tuttavia riconoscere da subito come innegabile: le forme del sentire concorrono in maniera radicale alla nascita della coscienza del soggetto.
    Caratteristica appariscente dell'adolescenza, come già detto, è proprio il fatto che venga a cessare la trasparenza del corpo proprio. L'appropriazione di quel corpo diventa un compito; cessa di essere spontanea la sinergia tra corpo e anima. Il corpo appare in tal senso come ingombrante. Di riflesso, le forme stesse del sentire appaiono lì per lì come nude; esse sono vissute dal soggetto per un primo lato quasi fossero cosa soltanto interiore, per altro lato quasi fossero invece fatalmente esposte al rischio di apparire subito manifeste ad ogni altro attraverso alterazioni del corpo che egli non può governare. Questa impossibilità di governare l'espressione dei sentimenti appare all'adolescente pericolosa; essa minaccia infatti di rinviare da capo l'adolescente alla condizione infantile, quando la mamma sapeva di lui prima e meglio di lui.
    Proprio la percezione di tale rischio alimenta la spiccata inclinazione dell'adolescente alla rappresentazione di sé. È questo un altro modo di descrivere la sua inclinazione ad intellettualizzare. I comportamenti da lui adottati assumono facilmente la forma di una riproduzione mimica di modelli da lui apprezzati perché socialmente condivisi. Essi non danno espressione ai suoi modi di sentire, dunque ai suoi modi di vivere il corpo; gli consentono invece di dissimulare modi di sentire avvertiti ancora come troppo incerti.
    I modelli scelti dall'adolescente sono anzitutto quelli che ottengono visibile riconoscimento e apprezzamento tra coetanei. Oltre che utili al fine di ottenerne il riconoscimento, quei modelli hanno il vantaggio d'essere proporzionalmente semplici, spiccatamente 'rituali', suscettibili cioè d'essere adottati senza necessità di grande investimento dell'identità personale. L'affetto operante in questi comportamenti di carattere mimico è soltanto quello generico della gratificazione che deriva da una complicità ammiccante; non sono invece gli affetti espressi dalla consistenza obiettiva dei comportamenti, né quelli legati allo strato più profondo del sentire, plasmato dalle relazioni primarie.
    L'adolescente sfugge il rapporto diretto e personale col genitore; e sfugge, in generale, al rapporto con l'adulto. Sarebbe superficiale intendere questa fuga quasi fosse l'indice di disinteresse dell'adolescente per quei rapporti; essa è invece riflesso del fatto che in quei rapporti egli si sente a rischio. Sorprende la facilità e la frequenza con le quali i genitori intendono i comportamenti dei figli adolescenti, che esprimono grande distanza nei loro confronti, quasi fossero documento di disprezzo o di sufficienza nei loro confronti. Sorprende l'interpretazione analoga che danno gli educatori tutti. La verità è assai diversa, ed è soprattutto verità assai complessa.
    Troviamo un'illustrazione molto eloquente di tale verità nella Lettera al padre di Franz Kafka. Questo figlio mostra di sapere bene quanto il padre sia offeso dal disinteresse che egli stesso mostra nei suoi confronti; protesta però insieme una verità assai diversa. Sa di essere, in realtà, in attesa addirittura spasmodica di un segno di riconoscimento e di stima da parte del padre; non osa però chiederlo; non crede infatti che quel segno possa mai venire; e d'altra parte il segno opposto sarebbe per lui troppo grave da sopportare. Per questo appunto mantiene una grande distanza e ostenta distacco. L'ostentata distanza, che i suoi comportamenti esprimono, è espressione di paura. Troppe volte ha tentato timidi accostamenti, e si è sentito brutalmente rifiutato; non saprebbe sostenere oltre la derisione e il disprezzo, che gli pare di avvertire con insistenza nei comportamenti del padre. «La sensazione di nullità, che spesso mi domina - dichiara infatti esplicitamente - (una sensazione, in altro contesto, anche nobile e produttiva) ha origine in gran parte dalla tua influenza». Il padre invece interpreta il comportamento del figlio come espressione di un disprezzo, che Franz stesso intuisce e assai efficacemente descrive:

    Ti sembrava che le cose stessero all'incirca così: tu hai lavorato duramente tutta la vita sacrificando tutto per i tuoi figli, per me in particolare; insomma, io sarei vissuto senza pensieri, con la più ampia libertà di studiare quel che mi piaceva, senza alcun motivo di preoccupazioni materiali, vale a dire di preoccupazioni in genere. In cambio non hai preteso alcuna gratitudine, tu conosci [infatti] «la gratitudine dei figli» [e cioè che essa è come niente], ma almeno una certa compiacenza, un segno di simpatia; invece io mi sono sempre rifugiato nella mia stanza, tra i libri, con amici esaltati, in idee stravaganti, sfuggendoti; non ti ho parlato a cuore aperto, non ti ho accompagnato al tempio, [...] non mi sono mai occupato del negozio e dei tuoi affari. [2]

    Vediamo qui elencati in forma laconica, ma insieme assai precisa ed eloquente, sentimenti che molto spesso un padre esprime nei confronti del figlio adolescente, e vive ancor più frequentemente di quanto esprima. Un tempo quei sentimenti erano espressi dai padri con più facilità; oggi i padri, in molti modi avvertiti da una miriade di psicologi e maestri di ogni genere, sanno che quei sentimenti non debbono essere espressi e di solito si attengono alle indicazioni. Non è raro il caso che essi ostentino addirittura grande comprensione nei confronti del figlio, e anzi una complicità ammiccante. A giudicare da tali atteggiamenti, si direbbe quasi che siano i padri stessi a cercare l'approvazione dei figli, assai più che esprimere nei loro confronti un'attesa. Effettivamente, essi attendono un'approvazione; tale attesa è riflesso di un loro segreto timore, quello di non sapere più fare i padri. La mimica dell'apertura e della comprensione induce in essi addirittura la dimenticanza del loro risentimento nei confronti dei figli. Eppure quel risentimento è presente, e i figli lo intuiscono.
    In ogni caso, i figli hanno oggettivo bisogno di un'attesa dei padri, e anche di una loro approvazione; non osano chiederla né con le parole, né con forme pratiche di prossimità più franca, temendone il giudizio. La mimica della complicità adottata dai padri appare in tal senso più comoda; essa però condanna alla clandestinità i modi di sentire più profondi dei figli. Di riflesso, questi modi di sentire rimangono proporzionalmente indistinti ai loro stessi occhi, oltre che agli occhi dei padri.
    Quello che accade in forma più precisa e grave nel rapporto col padre accade anche, con le differenze del caso, nel rapporto con gli adulti in genere, e con coloro che hanno responsabilità educativa in specie. Un tratto assai evidente dei modi di sentire dell'adolescente è questo: essi sono sempre accompagnati da uno spiccato sentimento di pudore. Già le considerazioni svolte in precedenza, a margine del vissuto somatico, indicavano questo come il tratto fondamentale della sua esperienza psicologica. Il pudore non è da intendere, troppo precipitosamente, come inclinazione a nascondere quello che agli occhi stessi dell'adolescente apparirebbe vergognoso; esso inclina piuttosto a nascondere quello che è avvertito come troppo vulnerabile, quando sia esposto in maniera sconsiderata all'occhio di altri.
    In prima battuta, è utile distinguere tra pudore del corpo e pudore dei sentimenti. In seconda battuta però tale distinzione appare difficile. Sia quando si riferisce in prima battuta al corpo, sia quando invece si riferisce in prima battuta ai sentimenti, il pudore riguarda alla fine sempre l'immagine di sé che prende forma nell'occhio di altri. Il timore dell'adolescente è che altri conoscano i suoi sentimenti prima ancora che egli stesso ne sia venuto a capo. Esso trova alimento in quella percezione ingombrante del corpo proprio, di cui sopra si diceva; essa determina una corrispondente incertezza nella sua percezione abituale della propria identità psicologica. Appunto tale incertezza produce lo spiccato pudore dei sentimenti. In tal senso il pudore dei sentimenti è strettamente legato al pudore del corpo, fino a confondersi con esso.
    Una delle attenzioni fondamentali che occorre avere nel rapporto con l'adolescente è proprio questa: la comunicazione con lui (o con lei, ma soprattutto con lui) sarà possibile soltanto a condizione di riconoscere il suo grande pudore, e quindi anche di rispettarlo. Se l'educatore, il genitore e in modo del tutto particolare la madre, deve dire una cosa 'grave' all'adolescente, una cosa cioè che tocchi i suoi sentimenti più profondi, sarà bene che non lo guardi negli occhi, non mostri in genere di attendere subito una sua risposta; non la cerchi soprattutto spiando i tratti del suo volto; dovrà invece parlare a lui distrattamente, continuando ad occuparsi di altro con le mani, gettando – per così dire – le proprie parole dietro le spalle. A questa condizione forse il figlio ascolterà. Questo requisito è più urgente nel caso della madre; e d'altra parte, proprio in quel caso la sua realizzazione è più difficile.
    Attenersi al canone del rispetto del pudore dell'adolescente ha di che apparire meno ovvio a motivo del fatto che l'adolescente stesso appare invece assai spudorato nelle sue espressioni. Mi riferisco alla qualità del suo gergo, e alla stessa mimica dei suoi comportamenti. Mi riferisco per altro lato, meno appariscente e insieme più grave, alle forme nelle quali egli articola le sue osservazioni e le sue recriminazioni nei confronti degli adulti, e dei genitori in particolare. Non dovrebbe essere troppo difficile riconoscere nella stessa spudoratezza esibita dall'adolescente un segno paradossale del suo spiccato pudore; in particolare del pudore che si riferisce esattamente ai sentimenti. L'esagerazione e il tratto provocatorio dei suoi modi di esprimersi mirano appunto a questo obiettivo: dire senza esporsi, chiedere senza dimostrare in alcun modo di avere attese nei confronti dell'altro.
    Assai più facilmente che un'attesa l'adolescente esprimerà una pretesa, e si appellerà a presunti diritti universali, o in ogni cosa ad una legge generale. Questo è uno degli aspetti del suo modo di fare che più indispone i genitori; essi vi leggono un rinnegamento poco plausibile e addirittura ingrato del regime vero dei rapporti reciproci. Attraverso il suo modo di fare il figlio adolescente tenta di conferire ai rapporti umani più antichi e più profondi il tratto di rapporti a distanza, appunto per nascondere i suoi sentimenti imprecisi. Occorre certo correggere questo modo di fare, senza però scoprirlo troppo; lasciandogli una via di fuga ed evitando invece di conferire alla correzione stessa i tratti quasi dell'estorsione di una confessione. Magari occorrerà addirittura suggerire a lui la via di fuga. Risorse apprezzabili in tal senso offre sempre il sorriso, la ripresa sdrammatizzante cioè di parole e gesti che in prima battuta hanno assunto tono troppo enfatico e fatale.
    Con le loro espressioni enfatiche, spudorate e provocatorie, gli adolescenti perseguono anche, con maggiore o minore consapevolezza, l'obiettivo di sottrarsi preventivamente ad ogni manifestazione di affetto da parte dei genitori. Mi riferisco a quelle manifestazioni di affetto, ovvie nell'età infantile, alle quali essi pure ora non sono indifferenti, e tuttavia temono. Temono di chiedere, e temono anche di ricevere; tali manifestazioni minacciano infatti di dare consistenza a una persistente e 'indecente' nostalgia di infanzia. La domanda di segni di affetto è presente negli adolescenti più spesso di quanto si immagini; è talora addirittura spasmodica. Trovare le forme nelle quali l'affetto può essere espresso pur senza che sia chiesto, e senza che esso appaia come la riconduzione a un rapporto quale quello realizzato in età infantile, è uno dei compiti più difficili dei genitori.
    Le osservazioni fin qui proposte a proposito del pudore dell'adolescente valgono certo, nella loro sostanza, per riferimento alle forme che la sua esperienza assume in ogni tempo. E tuttavia esse acquistano particolare gravità proprio nel nostro tempo, in correlazione alle forme differenziali che assume quell'esperienza. Mi riferisco al tratto privato e tendenzialmente solo affettivo della famiglia nucleare, e quindi al tratto correlativo di relazione quasi esclusiva tra coetanei, che assume la socializzazione secondaria dei figli in questa età della vita. La distanza tra famiglia e gruppo dei pari, tra registro affettivo della prima e registro soltanto mimico delle relazioni tra coetanei, rende più difficile al figlio trovare le forme adulte nelle quali oggettivare la visione del mondo, obiettivamente iscritta nelle relazioni primarie. La dinamica del processo dell'adolescenza minaccia in tal senso di realizzare una distorsione di fondo: l'emancipazione 'culturale' del figlio dalla famiglia conosce una decisa anticipazione; perdura invece più a lungo la dipendenza emotiva del figlio nei confronti dei genitori.
    Espressione paradossale di questo andamento divaricato è un atteggiamento singolare abbastanza comune, e insieme assai imbarazzante dei figli adolescenti: essi mostrano in molti modi di aspettare un'approvazione dei genitori anche per quei comportamenti, per i quali pure non sopporterebbero in alcun modo un giudizio di merito da parte loro. Quando quell'approvazione non giunga, si sentono offesi negli affetti; addirittura traditi. Sembra infatti a loro del tutto ovvio che il fatto d'essere figli costituisca titolo sufficiente per imporre ai genitori un'approvazione forfetaria di tutto quello ch'essi fanno. Tale pretesa non dovrebbe troppo sorprendere; è conseguenza prevedibile del tratto solo affettivo che assume il legame tra figli e genitori. Qualificare quel legame come solo affettivo è certo un'esagerazione; e tuttavia, almeno quando si tratti di scelte proporzionalmente importanti, la complicità suggerita dagli affetti dovrebbe secondo i figli prevalere rispetto a ogni altra considerazione.
    La prolungata dipendenza dall'approvazione dei genitori costituisce uno degli aspetti più qualificanti della minaccia di cui più volte si è detto, quella cioè che l'adolescenza diventi interminabile. Che una precoce emancipazione culturale anticipi l'emancipazione affettiva, e dunque la capacità dei figli di sostenere la disapprovazione dei genitori senza scorgere in essa un ripudio affettivo, è fatto di sempre. In altri tempi però consentiva un superamento assai più tempestivo della divaricazione la vicinanza obiettiva della cultura sottesa alle forme della socializzazione secondaria rispetto alla cultura sottesa al rapporto familiare. Oggi spesso occorre attendere che il figlio diventi a sua volta genitore, perché riesca a intendere i giudizi del genitori nella loro consistenza obiettiva, magari anche ad apprezzarli, senza leggerli invece subito come espressione alternativa di fedeltà o infedeltà al legame affettivo.
    Dalla prolungata dipendenza affettiva dei figli appaiono prevedibilmente condizionati anche gli atteggiamenti dei genitori nei loro confronti. Essi temono che l'espressione troppo franca del loro modo di vedere risuoni nei figli come un ripudio e comprometta quindi il legame affettivo. Questo li induce ad assumere atteggiamenti spesso assai reticenti. Ciò che pure non viene detto non è, per questo solo fatto, del tutto ignoto ai figli; in tal senso accade che da capo si inneschino dinamiche di comunicazione assai distorta.

    I modi di pensare

    Per intendere gli aspetti scivolosi e poco univoci, che insidiano la comunicazione verbale con gli adolescenti, è necessario evidenziare alcuni tratti caratteristici del loro modo di pensare. Anche per riferimento a questo aspetto l'età dell'adolescenza porta alla luce tratti dell'esperienza umana che potranno e dovranno essere riconosciuti non esclusivi dell'adolescenza stessa, ma che appunto in quell'età acquistano evidenza maggiore. Sempre infatti la comunicazione verbale è esposta a questo rischio, di essere attraversata dalla presunzione pregiudiziale di poter contare su un'univocità della parola, che l'esperienza effettiva in realtà in molti modi smentisce. L'inconveniente, in radice, è di sempre; assume tuttavia tratti più insistenti nel nostro tempo; minaccia addirittura di alimentare un dubbio di fondo circa la possibilità di comunicare. La denuncia clamorosa di una presunta condanna radicale dell'uomo all'incomunicabilità è di fatto proposta con certa insistenza nella letteratura del Novecento. La denuncia deve essere interpretata, per molti aspetti, come il riflesso di una ingenua presunzione a proposito dell'univocità della parola, che il pensiero delle epoche precedenti ha in molti modi alimentato. La forma di questa ingenua presunzione appare più evidente, quando si considerino le forme della comunicazione verbale dell'adolescente, e prima ancora le forme che assume il pensiero suo proprio.
    A che cosa ci riferiamo quando parliamo di pensiero dell'adolescente? E più radicalmente, che cosa vuol dire in generale pensare? L'interrogativo è tanto radicale, da scoraggiare; per lo più esso non è neppure formulato. Ci si accontenta dell'apparente univocità che quel verbo sembra avere nella lingua comune; pensare vuol dire approssimativamente sapere o conoscere.
    La riflessione sull'età evolutiva impone di affrontare in maniera esplicita l'interrogativo. Con il passare degli anni infatti si produce non semplicemente un incremento del sapere del minore, ma una trasformazione evidente negli stessi schemi di fondo secondo cui si realizza la percezione significativa del reale. Parliamo di 'percezione significativa del reale' per suggerire la necessità di una correzione, o comunque di una precisazione, nei modi di rappresentare il pensiero sottesi alle forme correnti del discorso. Quelle forme attribuiscono infatti in maniera troppo precipitosa al pensare caratteri che sono invece propri di una sua forma specifica e parziale; ci riferiamo alla forma del pensiero ragionante, che argomenta per stabilire la verità o la falsità di ogni singola affermazione. Molto prima di assumere la forma del ragionamento, il pensiero è intuizione di significati, o meglio elaborazione di significati. Il senso del reale infatti non è oggetto di un'intuizione ideale, che si produrrebbe ad opera di un'arcana facoltà dell'anima, in ipotesi l'intelletto, a prescindere da ogni riferimento alle forme del vissuto somatico e dei modi di sentire.
    La percezione originaria del fatto che la realtà ha un senso, una ragione dunque di prossimità e congruenza nei confronti del soggetto, è strettamente intrecciata alle forme complessive mediante le quali il soggetto viene a coscienza di sé. Da quella percezione originaria procede appunto l'elaborazione dei significati, che vengono ad espressione mediante la parola. Appare illuminante, a questo proposito, il senso etimologico del verbo pensare; nella lingua latina esso significava 'pesare', o meglio ancora 'saggiare il peso'. Pensare vuol dire, prima di tutto, appunto questo: saggiare il peso della realtà; cercare di portare ad evidenza 'oggettiva', verbalmente articolata e dunque anche comunicabile ad altri, quel senso di tutte le cose, che sta all'origine stessa dell'emergenza del soggetto e insieme della comunicazione umana. Il riferimento alla metafora del `peso' per dire del pensiero si realizza ancora nella lingua corrente; ad esempio, quando si qualifica una riflessione come `ben ponderata' (pondus in latino significa appunto 'peso') .
    Lo schema convenzionale, a cui ricorre la tradizione dottrinale per rappresentare l'uomo, distingue i tre livelli: corpo, inclinazioni sensibili (pressappoco equivalenti ai sentimenti della lingua moderna) e anima razionale; all'anima sono attribuite le due facoltà distinte della ragione e della volontà. Siccome la volontà è rappresentata come strettamente associata alle forme della conoscenza razionale, ne deriva la fondamentale riconduzione del terzo e più qualificante livello appunto alla ragione; soltanto essa avrebbe la capacità di liberare l'agire umano dalla dipendenza inconsapevole rispetto a inclinazioni soltanto sensibili; consentirebbe dunque di realizzare la figura dell'agire propriamente volontario, e non solo impulsivo.
    La distinzione dei tre livelli sta certo sullo sfondo dello stesso schema che abbiamo qui adottato per dire dell'esperienza dell'adolescente. E tuttavia i tre momenti della nostra descrizione non debbono essere intesi quasi essi costituissero tre livelli distinti dell'essere umano; debbono invece essere intesi come tre momenti dell'unico fenomeno dell'esperienza umana, che soltanto ad opera della riflessione astratta possono essere distinti. L'unità sintetica di quell'esperienza è quella realizzata dalla figura dell' identità del soggetto, dunque della sua coscienza. Già parlando del rapporto tra corpo e psiche notavamo espressamente che non si trattava di due realtà separate; analogamente, anche la distinzione tra modi di sentire e modi di pensare è soltanto astratta. Per questo motivo preferiamo parlare di modi di pensare dell'adolescente, piuttosto che di `ragione'; certo la nostra dizione appare generica, ma insieme meno pregiudicata rispetto a quella categoria troppo impegnativa.
    Che cosa voglia dire pensare, dunque, non è facile dire. La riduzione del pensiero a esercizio della ragione è certamente riduttiva, comunque venga poi intesa la ragione stessa. Con l'espressione 'modi di pensare' ci riferiamo in genere alle forme mediante le quali il soggetto realizza la presenza a sé, dunque la sua coscienza e insieme la sua conoscenza del mondo. Tale consapevolezza di sé trova espressione nella parola, la quale consente di oggettivare i significati del vivere, e dunque anche di comunicare con altri, la cui presenza e le cui attese fin dall'inizio hanno reso possibile l'emergenza della coscienza. Attraverso i 'modi di pensare' il soggetto rende oggettiva la propria esperienza, la iscrive nel mondo da tutti abitato, si pone dunque nelle condizioni di poter realizzare quella responsabilità alla quale fin dall'inizio l'esperienza della prossimità lo chiamava. La stessa figura della ragione dev'essere intesa in questa prospettiva; assai prima e assai più che facoltà dell'universale, di conoscenza dunque da nessun luogo, essa deve essere pensata come attitudine del soggetto di rispondere di sé a fronte di altri; di rendere ragione della propria vita di fronte a quanti hanno un'attesa nei nostri confronti.
    L'oggettivazione dell'esperienza assume anzi tutto la forma della rappresentazione del reale; appunto mediante la rappresentazione il soggetto si stacca da quell'originaria dipendenza nei confronti della presenza effettiva, che è invece caratteristica dell'infante, del bambino ancora senza parola. Appunto mediante la rappresentazione il soggetto diventa capace di situare se stesso nel reale, e superare così l'egocentrismo infantile. Abbiamo visto sopra, occupandoci della fanciullezza, come proprio questa età della vita sia caratterizzata da un interesse vivace per la rappresentazione della realtà tutta; le acquisizioni analitiche che allora sono realizzate in questo senso appaiono addirittura esuberanti. La sicurezza infallibile, che allora il fanciullo sembra avere a proposito della propria identità, gli rende possibile dedicarsi all'esplorazione universale senza alcuna remora. L'esplorazione concorre certo alla definizione della sua stessa identità; lo fa però in maniera nascosta. Con formula breve e paradossale, si potrebbe dire che proprio perché non si cerca, il fanciullo di fatto si trova. Si trova, più precisamente, in questo senso: realizza in forma del tutto spontanea e persuasiva la scoperta d'essere di casa in questo mondo.
    Nella successiva età dell'adolescenza la prospettiva appare come rovesciata. Allora il minore soprattutto si cerca. Cerca un'immagine di sé, perché la prima che aveva, a seguito della sua trasformazione somatica, è parsa come sfuggirgli. In tale ricerca di sé egli non può evitare di riferirsi ad altri, e rispettivamente alla realtà tutta. Rimane anche allora operante la legge generale: l'identità del soggetto umano non è possibile in altra forma che questa, la sua integrazione nel mondo. Tra integrità dell'io e integrità del suo mondo sussiste un nesso inscindibile. E tuttavia rimane la differenza: contrariamente a quello che accadeva nell'età precedente, nell'adolescenza il centro di gravità degli interessi non è più il mondo, è invece l'immagine di sé. La stessa esplorazione del mondo è ormai guidata da questa attesa di fondo: spiare quali siano le opportunità che il mondo offre in ordine alla rappresentazione di sé.
    Già abbiamo fatto ricorso alla figura dello 'spiare', per suggerire il tratto caratteristico della relazione che l'adolescente trattiene con il proprio corpo. Dicevamo allora che egli si serve con insistenza dello specchio per vedersi. Lo specchio consente di guardare al proprio corpo staccandolo per così dire da sé; appunto attraverso uno sguardo distaccato egli attende di poter acquisire quella dimestichezza con il proprio corpo, che al presente pare mancare; quella mancanza suggerisce a lui di trattenere ancora la scelta di vivere il proprio corpo. Il senso espresso dalla metafora può essere parafrasato così: 'spiare' vuol dire guardare con insistenza e attenzione, ma insieme con la cura di non essere visti. Le due figure, dello specchio e rispettivamente dello spiare, offrono una traccia feconda per descrivere appunto i modi di pensare e di vivere caratteristici dell'adolescente.
    L'aspetto saliente del nuovo modo di pensare e vivere è il rilievo dominante che assume l'immaginazione. Appunto immaginando l'adolescente riesce a realizzare un'attenzione assidua e puntigliosa a se stesso, trattenendo insieme ogni investimento precipitoso e pericoloso della propria identità. Le forme che assume l'immaginazione nel caso dell'adolescente debbono essere precisate; debbono essere tratteggiate, più precisamente, nei loro tratti differenziali rispetto alle forme dell'immaginazione infantile. Anche nel caso del fanciullo, infatti, assume grande rilievo l'immaginazione; si tratta però allora di un altro genere di immaginazione.
    Ci aiuta a descrivere la figura dell'immaginazione dell'adolescente quanto è stato spesso osservato a proposito delle caratteristiche differenziali che assume il ragionamento nella fanciullezza e rispettivamente nell'adolescenza. La ragione intesa quale facoltà del ragionamento astratto è una conquista già propria del fanciullo; essa appare addirittura come qualificante nell'arco di età tra gli otto e gli undici anni. Con l'inizio dell'adolescenza interviene una capacità nuova, definita come quella del ragionamento ipotetico deduttivo. Esso non consiste nel trarre conclusioni a procedere dalla conoscenza della legge di carattere universale; non applica il già noto, la legge appunto, al giudizio sul concreto. Consiste invece nell'anticipare immaginariamente il corso di eventi messo in moto da ogni possibile scelta propria, e appunto mediante tale anticipazione cercare criteri per la scelta, dunque per l'apprezzamento delle diverse alternative pratiche.
    La capacità di anticipare il possibile conferisce rilievo nuovo alla distensione temporale della vita. Soltanto a procedere dall'adolescenza il futuro comincia a essere regolarmente anticipato. Non solo può, ma addirittura deve essere anticipato; nella forma di una tale anticipazione è realizzata la ricerca di quella nuova identità che l'adolescente deve in un modo o nell'altro realizzare. La necessità di tale anticipazione è una delle espressioni più appariscenti della nuova prospettiva, per la quale l'adolescente deve scegliere chi essere, e non ha invece un'identità assegnata a monte della sua scelta. L'anticipazione non ha così i tratti della mera previsione; ha invece quelli dell'attiva immaginazione del possibile. Essa è guidata dall'attesa di giungere ad un'immagine sintetica, quasi ad una 'icona', nella quale possa finalmente essere riconosciuta la figura dell'identità cercata.
    Il giudizio di valore sull'agire assume questa fisionomia di fondo: apprezzare l'attitudine del dramma immaginariamente anticipato a dare figura all'identità cercata. Il giudizio pratico non assume dunque più la forma della comparazione dei comportamenti singoli con una legge universale nota a priori; tanto meno scaturisce dall'apprezzamento della coerenza o meno dei comportamenti per riferimento a un'identità personale già nota. Attraverso le forme dell'agire possibile accade piuttosto che l'adolescente si cerchi, o addirittura si 'inventi'; egli dunque anzitutto esplora la qualità delle diverse immagini possibili, per riconoscere quella che lo convince.
    Il nesso stretto che lega l'anticipazione del possibile con l'intendimento di fondo, trovare un'immagine per sé, consente di intuire le ragioni per le quali in questa stagione della vita l'immaginazione conosce uno sviluppo ipertrofico. Attraverso l'immaginazione l'adolescente si mette alla prova della realtà. Solo di un esperimento si tratta, in prima battuta almeno. L'immaginazione è appunto solo immaginazione. In tal senso essa può essere paragonata allo specchio, sul quale egli contempla e insieme cerca il corpo proprio, spia le proprie possibilità. Questa immaginazione del possibile, d'altra parte, accompagna largamente la contemplazione della propria immagine allo specchio. Quella contemplazione infatti non ha come oggetto una bella statuina, un'immagine intendo dire senza tempo e senza luogo; essa invece colloca immaginariamente il corpo nelle diverse situazioni possibili; lo apprezza dunque per rapporto a possibili comportamenti, e quindi anche a possibili modi di vedere dell'occhio di altri. Il largo margine di congettura, che di necessità assume l'immagine in tal modo contemplata, conferisce al passaggio dall'ipotesi alla realtà un grande margine di rischio. La consapevolezza di quel rischio induce di conseguenza a trattenere l'agire, a prolungare invece la semplice immaginazione.
    Rischia in tal modo di innescarsi un circolo vizioso. Quanto più si prolunga il momento solo immaginario, tanto più l'immagine di sé così coltivata minaccia di allontanarsi dalla realtà; il passaggio alla realtà si prospetta di conseguenza sempre più pericoloso. Esso effettivamente lo diventa, e la percezione di tale rischio lievita nella coscienza dell'adolescente. Rimedio solo parziale a tale minaccia offrono le relazioni tra coetanei, che costituiscono il principale terreno di cimento pratico, e non solo immaginario dell'adolescente; quelle relazioni infatti, realizzate nello spazio del cosiddetto tempo libero, sequestrate rispetto alla sfera complessiva delle relazioni con adulti, e con i genitori in particolare, appaiono esse stesse largamente plasmate dall'immaginazione.
    Le considerazioni qui proposte suggeriscono le ragioni per le quali tanto rilievo assume nella vita dell'adolescente l'immaginazione, e insieme suggeriscono la qualità di quell'immaginazione. Non si tratta certo più di quella fantastica, caratteristica del bambino; essa assolveva al compito di dare figura e ordine al mondo, assai più che al bambino. Nelle fantasie infantili manca l'attenzione alla propria immagine; l'attenzione è subito tutta rivolta all'impresa della quale egli si immagina protagonista. In tal senso la fantasia del bambino produce un epos, e non un romanzo. Nello stesso senso la sua immaginazione è qualificata appunto come fantastica. Per l'adolescente invece l'immaginazione assume la fisionomia di una tra le molte forme, e anzi della prima forma, che assume la prova di sé. Nelle sue fantasie è presente egli stesso come oggetto principiale di interesse; il dramma immaginato deve servire alla fine solo a questo, drammatizzare la propria identità.
    Il bambino è centrato sulla realtà. Per ciò che si riferisce alla percezione di sé, la tonalità, di fondo è l'ovvietà. Proprio perché scontata, la propria immagine può rimanere soltanto implicita.
    La fiducia di fondo che assiste il fanciullo, per riferimento a tale aspetto, appare come la condizione originaria che consente la straordinaria capacità di apprendimento in questa età di latenza'; la fiducia appare, per altro lato, il risultato di questo stesso apprendimento; esso infatti ha di che incrementarla. Si stabilisce in tal senso quel circolo virtuoso, che rende questa stagione della vita straordinariamente feconda. Le cose vanno in modo decisamente diverso nel caso dell'adolescente: al centro della sua attenzione sta la sua stessa immagine; in tal senso egli può essere descritto come affetto da ostinato `narcisismo'. Il bambino è per molti aspetti egocentrico, non però `narcisista'; la centralità dell'io nel suo caso non corrisponde ad alcun `amore' per la propria immagine, né riflette l'apprezzamento per il quale tale immagine sarebbe la cosa che più conta. Certo, anche l'adolescente è attento alla realtà; cerca infatti l'incontro con altri, come pure e soprattutto la loro approvazione; la ricerca in tal senso appare a tratti addirittura affannosa; e tuttavia essa è nel segno dell'interesse preminente per l'Io, e non invece per la realtà stessa.
    In questa luce appunto occorre leggere la propensione facile che l'adolescente mostra per l'evasione fantastica: la sua corsa immaginaria è attraversata dalla ricerca impaziente di un mondo per lui praticabile. Proprio perché impaziente, la ricerca lo rende facile preda di illusione; lo espone quindi anche all'esperienza di una sorta di vertigine, quando sia riportato da capo alla realtà. Nel momento in cui la realtà di nuovo s'impone alla sua attenzione, tipicamente a seguito di sollecitazioni che a lui vengono da altri, l'impressione facile che egli vive è che gli sia tolta la terra sotto ai piedi. La terra nella quale egli preferisce indugiare, infatti, è solo immaginaria.
    Questa considerazione merita d'essere precisata per riferimento al tema della 'legge'. Appartiene alle necessità obiettive di questa età che la legge debba essere 'interiorizzata'; essa cessa in tal senso di avere quella fissità assoluta, che pareva invece assumere agli occhi del fanciullo. Per essere determinata nel suo senso, e insieme confermata nel suo valore, la legge deve essere ricondotta alla coerenza con gli apprezzamenti impliciti nell'elaborazione dell'ideale di sé. Il difetto di realismo di quella visione del mondo, alla quale l'adolescente dà corpo attraverso l'immaginazione del possibile, si converte in difetto di realismo della sua stessa immagine della legge. In particolare, il tratto spiccatamente idealizzante di quella immaginazione comporta il corrispondente tratto di irreale radicalismo che connota la sua stessa concezione della legge morale. In questa luce appunto si spiega il fatto che l'adolescente accusi facilmente di fariseismo l'adulto, e il mondo tutto degli adulti. Il radicalismo morale si produce a spese dell'aderenza al reale e alla sua obiettiva complessità. L'assoluta limpidezza delle proprie intenzioni, che egli protesta a giustificazione dei propri comportamenti, appare come smentita dalla percezione che di quei comportamenti hanno altri. Il giudizio degli altri impone a lui un esame di coscienza arduo, nel senso che esso comporta non solo la verifica della qualità morale dei singoli comportamenti, ma la verifica dell'irreale immagine di sé alla quale egli indulge. Anche sotto questo profilo l'adolescente appare esposto ad atterraggi improvvisi e dolorosi. La corrispondenza che egli immaginava tra i suoi comportamenti e la verità radicale della legge viene meno a fronte delle evidenze dischiuse dai rapporti pratici effettivi. L'adolescente si trova allora brutalmente confrontato con un'immagine della legge, e di sé stesso, assai distante da quella immaginata.
    La vertigine del reale, e della legge in particolare, concorre ad alimentare uno stato endemico di ansietà. Anche sotto questo profilo torna a raccomandarsi il dubbio: non dovremo per caso confessare di essere tutti 'adolescenti'? I tratti qualificanti dell'esperienza di quella stagione della vita non ha forse valore paradigmatico per rapporto alle forme che assume in genere l'esperienza umana nella società tardo moderna? Non solo l'adolescente, ma proprio tutti siamo oggi esposti al rischio di un idealismo morale illusorio e sospetto. La pretesa di definire la legge a procedere dalla propria coscienza, solitaria e sognante, dispone le condizioni per constatare poi la pratica impossibilità di riferirsi a quella legge nel rapporto con altri. Quella pretesa, certo solo inconsapevole, garantisce la buona fede, impedisce però le buone opere conseguenti. Si realizza quella figura della coscienza romantica, contro la quale si appuntava la critica di Hegel: essa trattiene dall'agire, e soprattutto dal coinvolgimento effettivo nelle forme dell'agire in un modo o nell'altro inevitabile, assai più di quanto non autorizzi l'agire stesso.
    Il radicalismo irrealistico dell'adolescente ha di che alimentare l'ironia dell'adulto nei suoi confronti. Ora tale ironia, oltre che obiettivamente ingiusta, ha facilmente i tratti di una forma di difesa dell'adulto stesso; perché questi è certo più realistico, ma senza avere risolto il conflitto tra ciò che appare praticamente immaginabile e ciò che sarebbe idealmente giusto. La difesa di sé diventa un consistente ostacolo alla comprensione dell'adolescente. La comprensione a cui alludiamo, e di cui lamentiamo il difetto, non è certo quella che consisterebbe nell'indulgenza a suo riguardo, ma quella che consiste nell'iscrizione di ciò che vive l'adolescente entro l'orizzonte, in ipotesi più largo, della vita propria dell'adulto. Comprendere è indispensabile, perché si possa anche educare; perché si possa dunque accompagnare l'adolescente verso la terra nella quale la sua vita potrà essere reale e non immaginaria.

    Le distinte fasi dell'adolescenza

    Introduciamo a questo punto una breve riflessione sulla dinamica dell'adolescenza, e dunque sulle sue diverse fasi tipiche. Gli apporti più significativi a questo riguardo sono quelli prodotti dall'approccio psicoanalitico. In particolare, assai illuminante appare la descrizione sintetica che di queste fasi propone Peter Blos. Alla sua esposizione [3] faremo soprattutto riferimento, pur riservandoci la distanza critica per ciò che si riferisce ai presupposti di carattere teorico sottesi alla sua descrizione. Tali presupposti sono da riferire al modello antropologico di fondo, quello che intende la libido, dunque la pulsione sessuale, come cespite essenziale di ogni energia psicologica, e individua dunque il filo rosso dello sviluppo adolescenziale nella peripezia seguita da questa pulsione per realizzare la scelta del suo nuovo oggetto, e assumere dunque la figura di desiderio sessuale rivolto alla persona dell'altro sesso. La rigidità di questo schema è per molti aspetti corretta da Erik Erikson; egli conferisce infatti rilievo tendenzialmente preminente alle scelte dell'adolescente che si riferiscono ai rapporti sociali; in particolare, a quelle che si riferiscono alla professione; per altro aspetto, dimostra un'attenzione decisamente più esplicita per gli aspetti morali della crescita dell'adolescente. Non si impegna però nel compito di chiarire i problemi di carattere teorico che la correzione dell'ottica freudiana da lui prospettata obiettivamente solleva.
    Blos distingue dunque nel processo dell'adolescenza cinque fasi tipiche; il suo schema sembra suggerire con efficacia le linee essenziali secondo le quali si svolge il processo dell'adolescenza; ad esso dunque ci affidiamo.

    (a) Preadolescenza. Il processo dell'adolescenza è inaugurato, per consenso unanime degli studiosi, dalla crisi della pubertà. Essa comporta quella trasformazione somatica, della quale si è detto; comporta insieme un «aumento quantitativo della pressione istintuale» (p. 87). Appunto tale accresciuta pressione alimenta nel minore una generica ricerca di gratificazioni; la ricerca si realizza ricorrendo a risorse per molta parte solo immaginarie; le gratificazioni cercate possono trovare appoggio in comportamenti che non hanno alcuna evidente connotazione sessuale. È suggerito in tal senso l'accostamento delle modalità di comportamento proprie del preadolescente a quelle proprie del bambino piccolo, nel periodo anteriore alla sua prima identificazione di genere, che si produce nel quadro del rapporto con il padre e con la madre. Si parla in tal senso di 'regressione' del preadolescente a uno stadio narcisistico.
    Espressione appariscente di tale regressione è la sua propensione ad un linguaggio trasgressivo; come pure a fantasie trasgressive. Queste seconde sono, ovviamente, meno facili da rilevare rispetto alla qualità del linguaggio. Contro i prevedibili sensi di colpa, che comportamenti e fantasie trasgressive di questo genere suscitano, il preadolescente cerca un argine attraverso la ricerca della complicità ammiccante con il 'branco' dei pari.
    Già in questa fase precoce è possibile rilevare le asimmetrie tra maschio e femmina. Ci riferiamo in particolare a quanto già sopra abbiamo osservato a proposito dei discorsi 'sporchi': nel caso della ragazza essi assumono una declinazione espressamente sessuale in tempi più precoci rispetto a quelli del maschio. Anche le forme dell'abbigliamento e della cura del corpo in genere, nel caso della ragazza assumono più precocemente le forme di un appeal sessuale. In questa fase precoce della loro adolescenza i maschi preferiscono il gruppo dei compagni dello stesso sesso; ostentano una sorta di disprezzo per le loro coetanee; cercano conferma per i loro comportamenti nella complicità ammiccante del gruppo. Tutte queste circostanze depongono in favore di una tesi precisa: le femmine pervengono all'individuazione del nocciolo centrale della crisi in tempi assai più precoci dei maschi. In questa fase, sussiste nel maschio una spiccata paura della femmina: della coetanea, ma anche e soprattutto della madre; l'affetto della madre appare attraente e insieme pericoloso. Nel caso della ragazza, la paura della madre si esprime con certa frequenza nella forma del timore di divenire omosessuale; appunto ad esorcizzare quello spettro mirano i troppo evidenti e goffi atteggiamenti di 'seduzione' che essa esprime nei confronti del maschio, o rispettivamente i suoi atteggiamenti mascolinizzanti.

    (b) Prima adolescenza. In una successiva fase si realizza in maniera più precisa il distacco dagli «oggetti d'amore incestuosi», che sono la madre per lui e il padre per lei. Tali oggetti non sono subito sostituiti dalla ricerca del partner sessuale o anche solo della sua figura immaginaria. L'attenzione si rivolge invece nella direzione della ricerca di una nuova figura per sé, dunque dell'elaborazione di un Io ideale. Le forme tipiche nelle quali si esprime il conseguente 'narcisismo' sono quelle dell'immaginazione fantastica. Essa cerca sostegno nelle opportunità offerte dall'amicizia tenera per persone dello stesso sesso. La forma spiccatamente immaginaria della ricerca comporta in ogni caso una spiccata vulnerabilità dell'adolescente; il suo evidente distacco dalla realtà, e insieme la sua attenzione ossessiva alla propria immagine, operano in maniera congiunta nel senso di esporlo in forme appariscenti alla possibile offesa: da parte di tutti, ma in modo certo privilegiato da parte dei genitori. La loro correzione dell'adolescente non può e non deve mancare; deve esprimersi in particolare nel senso di impedire che amori immaginari e sognanti tra ragazze o rispettivamente tra ragazzi giungano fino a comportamenti effettivi di genere omosessuale. E tuttavia quella correzione deve esprimersi in forme indirette, che rispettino il pudore degli adolescenti; debbono riferirsi sempre e solo ai comportamenti effettivi, e non assumere invece la forma dell'irrisione dei sentimenti segreti.
    Anche in questo caso si possono individuare tratti differenziali nella dinamica della ragazza e in quella del ragazzo. La ragazza mantiene più a lungo una sorta di bisessualità; in altri termini, essa riesce ad apprezzare e coltivare insieme un attivismo mascolinizzante e una tenerezza femminile; il suo lato maschile appare ai suoi occhi più a lungo come una possibile strategia di difesa nei confronti dell'ansia, che per sua natura suscita la prospettiva di un amore passivo. Agli occhi del ragazzo invece il lato femminile e passivo della sua sensibilità appare subito solo come un rischio. Alla bisessualità della ragazza corrisponde un più spiccato attenuarsi nel suo caso dei confini tra realtà e sogno; un tale atteggiamento la espone al rischio proporzionalmente maggiore di tradurre le proprie fantasie sognanti in comportamenti effettivi. Il rischio è accresciuto dal contesto sociale odierno; il controllo sociale dei comportamenti è divenuto infatti minimo; i genitori stessi appaiono spesso affannosamente preoccupati di mostrare un atteggiamento liberale e 'aperto' nei confronti della figlia.

    (c) Adolescenza vera e propria. È questa la fase più qualificante del processo dell'adolescenza, e anche la più estesa e complessa. Il suo obiettivo sintetico è quello di realizzare quell'elaborazione immaginaria, la quale consente di dare forma al desiderio di amore per una persona dell'altro sesso. Realizzare una proporzionale precisione in tale elaborazione immaginaria è condizione previa, perché possa poi essere perseguita la scelta effettiva del partner. L'obiettivo in questione è realizzato, in questa fase dell'adolescenza, mediante forme effettive di relazione affettiva, le quali hanno la fisionomia della famosa 'cotta'. Queste relazioni possono essere qualificate come effettive soltanto con qualche riserva; la loro caratteristica saliente rimane infatti la grande interferenza dell'immaginario, e in ogni caso l'imprecisione dei confini tra immaginazione e realtà. Assai più che come relazioni effettive esse appaiono come relazioni ipotetiche, o se si vuole come esperimenti, volti ad accertare quello che accadrebbe se... In tal senso appare assai pertinente questa descrizione, che ne dà Anna Freud:

    Queste fissazioni amorose appassionate ed evanescenti non sono affatto rapporti oggettuali, nel senso in cui usiamo questo termine a proposito degli adulti. Sono identificazioni del tipo più primitivo, come quello che incontriamo nel primo sviluppo infantile, prima della comparsa di qualsiasi tipo di amore oggettuale [4].

    La consistenza soltanto ipotetica di tali relazioni precoci aveva risorse assai più precise per apparire tale alla coscienza stessa dei protagonisti nella società tradizionale. L'ambiente sociale esercitava infatti allora un consistente 'controllo' sui comportamenti degli adolescenti. È riduttivo intendere, e quindi anche disprezzare, quel 'controllo' quasi esso avesse natura soltanto poliziesca; esso non mirava semplicemente a segnalare in forme efficaci il confine tra lecito e illecito; aveva invece anche e soprattutto un profilo di carattere simbolico; ricordava all'adolescente quale fosse la meta dell'amore, e cioè il matrimonio. Oggi accade invece, con certa facilità, che gli adolescenti vivano le loro precoci esperienze affettive senza alcun preciso riferimento ad un futuro destino matrimoniale. L'assenza di tale prospettiva non può essere troppo precipitosamente considerata come scontata, invocando a sua giustificazione la sua ovvia distanza nel tempo; anche se remota, quella prospettiva appare essenziale, perché la relazione affettiva possa riconoscere le sue obiettive connotazioni. Il difetto di quella prospettiva conferisce a tali relazioni affettive una consistenza meno ricca sotto il profilo immaginario, e più 'realistica'. La frequentazione reciproca diventa molto assidua, addirittura senza interruzione; questa circostanza da sé sola espone la relazione al rischio di assumere la consistenza di un'inconsapevole strategia di difesa nei confronti della realtà ingrata. La facilità con la quale ogni forma di affetto si traduce subito in comportamenti sessuali impedisce poi di elaborare quella tensione obiettiva che, nell'età dell'adolescenza in specie, sussiste tra le due dimensioni del desiderio sessuale, la tenerezza sognante e il possesso prepotente. Il difetto di elaborazione degli adolescenti a tale riguardo è rinforzato poi dalle forme della comunicazione pubblica, le quali in tutti i modi rimuovono il compito così segnalato.
    Per riferimento a tutte queste caratteristiche, nell'esperienza diffusa delle società occidentali appare sempre più difficile per l'adolescente riconoscere il carattere soltanto preliminare, provvisorio e teso ad uno sviluppo futuro, delle loro relazioni affettive precoci. Il difetto di un tale riconoscimento rende proporzionalmente arduo il superamento di questa fase dell'adolescenza. Si conferma ancora una volta il principio generale: una società, che nelle forme delle sue espressioni pubbliche pare aver scelto come proprio il modello di vita dell'adolescente, è sempre meno in grado di aiutare gli adolescenti a crescere.

    (d) La tarda adolescenza. In questa fase deve giungere finalmente a compimento il disegno ideale della vita adulta; un disegno questo al quale darà realizzazione pratica soltanto la fase successiva, con la quale ha termine il processo dell'adolescenza. Definire la qualità di tale disegno della vita matura appare obiettivamente difficile, a procedere dall'ottica della psicoanalisi; il disegno in questione ha di necessità una connotazione morale; ma di morale è difficile parlare nell'ottica della psicoanalisi. La descrizione della figura della vita matura si produce per riferimento alle esigenze psicologiche che debbono essere realizzate perché la persona appaia adulta. Raggiungere un consenso nella descrizione delle caratteristiche che dovrebbe avere l'età adulta appare relativamente facile; offrono un punto di appoggio in tal senso le forme del consenso sociale proprie della generazione già oggi adulta. Essa dovrebbe essere psicologicamente stabile, non (troppo) dipendente dal giudizio di altri, capace di promettere e di assumere impegni, dunque affidabile, e così via. Di questa costellazione fa parte anche il progetto di una relazione affettiva proporzionalmente stabile, se non proprio indissolubile. Assai meno facile è chiarire le condizioni psicologiche, o 'profonde' (come si dice), che sole potrebbero rendere possibile un risultato tanto strepitoso.
    Alla descrizione 'superficiale' del disegno di una vita matura non corrisponde un'effettiva intelligenza del processo che può condurre ad essa. Quel processo infatti prevede obiettivamente la risoluzione libera del soggetto; e la risoluzione libera è possibile soltanto per riferimento a una verità che sfugge a ogni descrizione psicologica.
    Più radicalmente, occorre riconoscere che, almeno nel presente contesto civile, le stesse forme effettive, che hanno permesso il risultato di un assetto stabile dell'Io, o invece lo hanno impedito, conoscono una disparità incomparabile. Tale disparità corrisponde alla distanza obiettiva dei processi biografici individuali, e quindi anche dei patrimoni di immagini e di idee, a cui ciascuno attinge per 'fingere' la propria identità. Usiamo il verbo 'fingere' in accezione volutamente ambigua; essa tiene insieme l'accezione latina del termine e quella italiana; l'accezione dunque per la quale 'fingere' significa 'plasmare', e insieme quella per la quale significa invece 'far finta'.
    Il disegno della vita adulta, che Blos propone, è posto sotto il segno qualificante del compromesso: «Sembra invero che l'aspetto del compromesso costituisca parte integrante della tarda adolescenza: la maturità conquistata è solo relativa» (cfr. p. 174). La vita adulta dunque, assai più che risultare dal superamento effettivo dei conflitti caratteristici dell'età adolescente, avrebbe la figura di una composizione compromissoria di quei conflitti; essi rimangono in ultima istanza irrisolti, e tuttavia il soggetto non se ne lascia paralizzare; può fare tanto, a prezzo di rinunciare ad un obiettivo così ambizioso, come sarebbe quello della loro effettiva composizione; appunto così egli si mostrerebbe `maturo'. Quanto poi al criterio che presiede al compromesso, esso sarebbe quello della composizione `egosintonica', tale cioè da produrre un effetto positivo di rinforzo dell'identità dell'Io. Il criterio non è precisato sotto il profilo concettuale; è invece illustrato attraverso una serie di esemplificazioni.
    In ogni caso, la composizione `egosintonica' dei conflitti attinge alle risorse della rappresentazione. Ad esempio, un trauma realmente vissuto e tuttora non risolto suggerisce la qualità della narrazione autobiografica, che può rendere la memoria di quel trauma operante nel senso del rinforzo dell'Io. E invocata a tale riguardo l'analogia con il modello offerto dalla creazione artistica, dal gioco e dalla stessa religione. Tutte queste attività, nella loro sostanza senza relazione perspicua con la vicenda pulsionale del soggetto, per la loro densità simbolica possono servire a drammatizzare in termini socialmente accettabili conflitti, che invece quando fossero riconosciuti come tali, in nessun modo potrebbero essere giustificati socialmente. La letteratura contemporanea effettivamente propone con frequenza la figura dell'artista come paradigma per dare rappresentazione alla difficile vicenda del divenire adulti.
    Occorre segnalare l'altra risorsa caratteristica, alla quale di fatto largamente attinge il compromesso `egosintonico' dell'adolescente, che intende rappresentarsi come adulto; ci riferiamo alla risorsa offerta dalla 'ideologia'. Anche in una stagione complessivamente qualificata come post-ideologica, i modelli ideologici offrono consistenti risorse per rappresentare come affermazione di carattere ideale le difficoltà reali che l'adolescente incontra a realizzare la propria integrazione sociale. Pensiamo ad esempio, per riferimento all'esperienza più recente, al successo che conosce tra gli adolescenti l'ideologia no globa4 assai più che rifiuto della globalizzazione – un processo questo che trova proprio tra gli adolescenti i maggiori successi – la professione di quell'ideologia esprime il rifiuto della società adulta e della sua complessità. Oppure pensiamo, più modestamente, al successo che hanno presso gli adolescenti concezioni libertarie in fatto di sessualità e di rapporti affettivi in genere; assai più che riflesso di un convincimento ideale, quel successo è da intendere come espressione del rifiuto degli adolescenti di rendere ragione dei loro comportamenti in tali materie. Più radicalmente, il successo di quelle concezioni legittima l'incapacità degli adolescenti a rendere ragione dei loro vissuti.
    La composizione compromissoria dei conflitti si produce in ogni caso a livello di rappresentazioni. I conflitti sono composti ad opera della coscienza e soltanto a livello di coscienza; a livello 'profondo' essi permangono. Anche la famosa sintonia rispetto all'Io è in tal senso esposta al sospetto d'essere soltanto immaginaria. Immaginario appare anzi in radice l'Io stesso. Come distinguere tra ciò che è solo immaginario e ciò che è reale, quando manchi il riferimento a una figura di valore della vita umana? Quando manchi dunque una visione morale della vita? La trattazione di questa quarta fase porta alla luce le difficoltà più radicali di un approccio come quello di Blos, e come quello della psicoanalisi in genere. Più in generale, porta alla luce alcuni tratti qualificanti della difficoltà della diffusa cultura contemporanea. Della difficoltà intendo, a pensare l'obiettivo della maturità umana, e quindi anche a perseguirlo praticamente.
    Nella descrizione della tarda adolescenza vediamo operante, in particolare, la tendenza della cultura diffusa a pensare l'identità umana in termini estetici piuttosto che morali. Questa appare infatti la sola via praticabile per 'fingere' un'identità, che non si saprebbe come pensare.

    (e) Il giovane adulto. La realizzazione effettiva del disegno ideale elaborato nella tarda adolescenza si produce attraverso la scelte qualificanti dell'età adulta, che sono il matrimonio e la generazione per un primo lato, la scelta professionale per altro lato. La pratica di ruoli socialmente codificati avrebbe di che propiziare un ulteriore aggiustamento del disegno precedente; avrebbe quindi di che propiziare l'integrazione effettiva e non solo immaginaria dell'Io sotto l'egida di quel disegno. La pratica effettiva conferma, prima ancora, la praticabilità di quel disegno, e dunque la stessa praticabilità della maturità del soggetto; o eventualmente falsifica quella praticabilità. Soltanto in questa stagione si realizza una rinnovata conciliazione con i genitori, e dunque anche l'accettazione della loro prossimità. Soltanto in questa stagione diventa possibile diagnosticare con certezza eventuali patologie della personalità, che invece nelle precedenti età ancora evolutive potevano essere intese come difficoltà destinate a dissolversi con la crescita.
    Soltanto quando tale stadio sia effettivamente raggiunto dai figli, ai genitori è consentita la consolazione di constatare che la loro opera educativa ha lasciato tracce assai più consistenti rispetto a quelle che essi vedevano negli stadi precedenti. Ma prima ancora che questo stadio sia raggiunto, i genitori stessi debbono tenere viva la speranza che esso possa alla fine essere effettivamente realizzato; lo debbono fare per i loro figli, e anche per sé stessi. Da tale speranza dei genitori, espressa attraverso la qualità complessiva dei loro comportamenti, delle loro parole, e soprattutto dei loro silenzi, i figli si nutrono assai più rispetto a quanto i genitori stessi non vedano. E d'altra parte l'effettivo raggiungimento dell'età adulta da parte dei figli costituisce una conferma irrinunciabile della stessa riuscita personale dei genitori.
    Queste ultime considerazioni sottolineano ancora una volta la grandiosa responsabilità che obiettivamente pesa sui genitori in ordine all'educazione. Tanto grandiosa è tale responsabilità, da incutere timore; da alimentare addirittura il dubbio a proposito dell'effettiva praticabilità del loro compito. Essi non possono in alcun modo sottrarsi all'evidenza che quel compito deve essere affrontato. Educare si deve, appunto. Che anche si possa, e come si possa, appare decisamente meno chiaro.
    Per chiarire il senso di tale scarto paradossale tra dovere e potere è indispensabile considerare la situazione civile complessiva, entro la quale si realizza l'opera dell'educazione. Pesa per la gran parte sui genitori una rimozione che attraversa le forme complessive della civiltà occidentale nell'età tardo moderna. La rimozione interessa le forme della cultura riflessa; ha però sullo sfondo le forme pratiche effettive del rapporto sociale. Esse non realizzano il compito di iniziare le nuove generazioni al senso di quella alleanza umana, che è obiettivamente sottesa al rapporto sociale. Non realizzano il compito della tradizione, che è parte essenziale del più complessivo compito educativo. Appare anzi improprio parlare di `parte'; soltanto attraverso il processo della tradizione culturale da una generazione all'altra può raggiungere la sua verità compiuta quello stesso processo primario di identificazione psicologica, che trova le sue prime condizioni nel rapporto dei figli con i genitori. La separazione tra momento affettivo o psicologico della crescita e momento culturale compromette la realizzazione dell'uno e dell'altro. Ora proprio una tale separazione pare la legge vigente, a livello di pratiche effettive e anche a livello di sapere riflesso. Mi riferisco in particolare ai cultori delle scienze umane nelle loro diverse articolazioni.
    Tentiamo nel capitolo successivo di proporre una descrizione sintetica della rimozione civile del compito educativo. Essa consentirà di guadagnare gli elementi per tentare, nel capitolo 6, una rinnovata definizione sintetica della questione educativa, come pure delle molte altre e complesse questioni teoriche che attendono di essere chiarite, perché sia chiarito il senso del compito educativo nel nostro tempo.

    NOTE

    1 A. FREUD, L'io e i meccanismi di difesa, Martinelli, Firenze 1967, p. 175.
    2 F. KAFKA, Lettera al padre, trad. it. di C. Groff, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 9-10.
    3 Dalla sua opera maggiore, L'adolescenza. Un'interpretazione psicoanalitica, apparsa nel 1962, trad. it. di D. Varin, Franco Angeli, Milano 19804, sono tratte le citazioni tra virgolette introdotte nella nostra esposizione e seguite dall'indicazione tra parentesi della pagina della traduzione italiana.
    4 A. FREUD, L'io e i meccanismi di difesa, 1936, citato da P. BLOS, p. 135.

    (da Educare si deve, ma si può?, Vita&Pensiero 2002, pp. 119-161)


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