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    I ragazzi stanno male

    Rosella De Leonibus


     

    Alla banalissima domanda “E… i ragazzi come stanno?”, parecchi genitori oggi risponderebbero “Abbastanza male, grazie!”. Un drammatico epilogo della pandemia: l’aumento del disagio psicologico e dei disturbi mentali dei giovani, attivati o aggravati da un mix esplosivo, la cui tragica ricetta è la seguente: effetto diretto del virus più eventi ambientali (isolamento, convivenza familiare forzata, Dad e altro). Dal gruppo degli amici alla qualità della socialità, dal primo amore all’esame di maturità: la pandemia ha costretto gli adolescenti a vivere in modo alterato i momenti di passaggio fondamentali in questo periodo della crescita.

    NOMI E NUMERI DEL DISAGIO

    Un’ampia metanalisi (29 studi condotti su oltre 80mila giovani e da poco pubblicata su JAMA Pediatrics), testimonia spietatamente che oggi un adolescente su quattro mostra i segni clinici della depressione e uno su cinque quelli di un disturbo d’ansia. E sono il doppio rispetto al pre-pandemia. Il futuro della salute psichica dei ragazzi è a rischio, senza contare la vasta “area grigia” fatta di demotivazione e dolore psicologico, che non è ancora franca patologia, ma è in corsa per diventarlo.
    I bambini e gli adolescenti stanno male: disturbi della regolazione emotiva, autolesionismo e tentativi di suicidio, abuso di sostanze psicostimolanti e di alcol, episodi psicotici, disturbi del comportamento alimentare, violenza e bullismo, anche online, e ritiro sociale, abbandono scolastico, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione, disturbi cognitivi, mancanza di energia, riduzione della vitalità, autosvalutazione, povertà educativa. Tutto questo avviene in un quadro dove la quota della spesa del Fondo Sanitario Nazionale destinata alla salute mentale resta ferma in media al 3.5%, mentre la Conferenza stato-regioni l’aveva fissata almeno al 5% (l'Inghilterra destina il 9,5% delle risorse della spesa sanitaria alla salute mentale, la Svezia il 10%, la Germania l'11,3%). Il quadro è serio, perché da un lato al Covid si è accompagnato un aumento dei casi di depressione, mentre dall’altro lato i pazienti schizofrenici o con altre malattie mentali importanti non hanno potuto ricevere cure e assistenza adeguate. Ancora più bloccati sono stati gli interventi di presa in carico precoce e di promozione della salute, specialmente per l’infanzia e l’adolescenza.
    I ragazzi e le ragazze dai 15 ai 25 anni sono quelli che hanno sofferto di più, insieme agli anziani: questi ultimi soprattutto a causa della paura, dell’impoverimento della qualità della vita e delle conseguenze fisiche del Covid. Serve ricordare che è durante l’adolescenza, con le prime esperienze di autonomia fuori dalla famiglia e il confronto nel gruppo dei pari che si definiscono le abilità relazionali e affettive e le competenze nell’affrontare le situazioni. Serve ricordare che invece i ragazzi hanno vissuto un lungo periodo di allarme, di ansia e frustrazione. Serve ricordare che è in adolescenza che si manifestano l’80% dei disturbi psichici, e che se si interviene subito la prognosi è molto migliore anche per le forme più gravi. Invece manca un ponte di comunicazione efficace e scevro da pregiudizi con le famiglie e le scuole, manca anche all’interno della rete dei servizi per la salute mentale, il che sarebbe salvifico per i tanti ragazzi che mascherano le problematiche psicologiche sotto il consumo delle sostanze, e dove i problemi restano senza una vera accoglienza, se non si creano prese in carico coerenti tra salute mentale e dipendenze patologiche.
    Che fare? Forse non basta potenziare i servizi pubblici e dispensare bonus psicologici per accedere ai servizi privati. Perché non si tratta delle situazioni classiche di patologia, ma di un malessere diffuso, che rischia di peggiorare e di consolidarsi, trascinando in basso i percorsi di vita dei più giovani. Perché allo scoraggiamento e al ritiro sociale seguirà l’abbandono scolastico, e poi la precarietà e la disoccupazione, e poi la depressione e altre compensazioni con le sostanze, e poi, a seguire, le condotte violente e antisociali, e il drop out conclamato, la marginalizzazione sociale.

    COMPETENZE PER LA RESILIENZA

    Eppure i processi di resilienza nei giovani e nei giovanissimi sono potenti e vivaci, e basterebbe una piccola spinta per metterli in moto, piccole modifiche ai contesti di vita, belle iniziative di speranza e solidarietà, di sostengo per il recupero delle competenze sociali, della motivazione, della progettualità.
    Uno spiraglio arriva dal ddl 2493, attualmente in discussione al Senato, che all'articolo 1 finalmente si preoccupa di introdurre a scuola aspetti educativi, sganciati dai saperi disciplinari, “competenze non cognitive” per integrare le materie di studio tradizionali con lo scopo di “migliorare il successo formativo prevenendo analfabetismi funzionali, povertà educativa e dispersione scolastica".
    Le istituzioni scolastiche statali e paritarie di ogni ordine e grado saranno quindi chiamate ad introdurre nei piani formativi attività educative e didattiche volte alla acquisizione delle cosiddette life skills, quelle abilità di vita che costituiscono il più potente fattore di protezione dalle derive e dalle complicazioni del crescere. Abilità la cui implementazione può fare da forte traino al recupero del benessere psicologico nel post pandemia. Queste abilità, da tempo individuate dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, sono 10, e sono divise in tre aree: area cognitiva (presa di decisioni, soluzione di problemi, pensiero critico e pensiero creativo), area relazionale (capacità di comunicazione e di gestione delle relazioni interpersonali, auto-consapevolezza, empatia), area emotiva (capacità di gestire lo stress e le emozioni). Un vero e proprio kit di base che funziona con forti sinergie interne, dove il saper prendere decisioni rispettose degli altri presuppone abilità comunicative ed emotive; dove la capacità di sostenere e bilanciare le situazioni stressanti funziona meglio se si è capaci di individuare e risolvere problemi, e il tutto si attiva se c’è autoconsapevolezza. In poche parole sarebbe questa la premessa indispensabile per crescere bene e diventare adulti responsabili, liberi, solidali.
    Le life skills saranno insegnate a scuola! E proprio ora, a sostegno della crescita sana e del benessere psicologico dei ragazzi e delle ragazze. Si tratta di una straordinaria innovazione, da molto tempo auspicata, tuttavia... ci sono alcuni quesiti che restano ampiamente aperti.
    1 - Che formazione specifica è prevista per i docenti? Tali competenze non possono essere insegnate agli allievi frontalmente, hanno assoluta necessità di essere apprese attraverso esperienze attive in gruppo. E soprattutto non si può insegnarle se non dopo averle integrate nella propria persona. Le life skills non si "insegnano", si sperimentano e si trasmettono attraverso esperienze adatte, non riducibili a banali esercizi preconfezionati.
    2 - Sarà una buona idea insegnare le life skills come discipline separate dalle altre? Non sono piuttosto abilità di vita, come dice la formulazione in inglese, atteggiamenti che dovrebbero permeare il proprio modo di essere, di rapportarsi con gli altri, di apprendere, e perfino il modo di studiare? Se separiamo da tutto il resto l'insegnamento delle life skills, che tipo di messaggio diamo alle ragazze e ai ragazzi? Non rischiamo di generare una scissione (e una gerarchia) tra le discipline hard e quelle soft, come se non fossero coessenziali? Non rischiamo le stesse incongruenze che abbiamo attraversato con l'educazione civica?
    E se si concorda sul punto 1, cioè sulla necessità di una metodologia didattica attiva, ci sarà bisogno di rivedere la metodologia didattica anche per le altre discipline, oppure ci si rassegnerà a trasmette ai ragazzi una immagine così scissa delle loro competenze fondamentali? E poi... c'è un terzo "ma".
    3 - Quali saranno gli insegnanti che diventeranno docenti di life skills? Da quali discipline verranno ricavate le ore? Forse lo troveremo scritto nella legge o nei decreti attuativi, o nelle circolari, speriamo. Purtroppo il rischio di trasformare una grande opportunità in un qualcosa di raffazzonato e posticcio rispetto alle discipline attuali, è piuttosto alto. Ci vorrebbero più competenze specifiche e più riflessione sull'insieme, forse...
    Ma, e questo sarebbe il quarto "ma":
    4 - Forse anche un grande cambiamento comincia così, un po' per caso, un po' ai margini, un po' "a spanna", nell’emergenza... Quella che sarà invece determinante è la presenza della psicologa, dello psicologo a scuola, che, come è indicato nelle Linee di indirizzo del Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Psicologi, interviene non solo per affrontare situazioni di disagio, ma anche per promuovere una condizione di benessere psicologico degli studenti. La sua competenza professionale, quindi, sarà fondamentale per formare i docenti alla progettazione di percorsi scolastici per la promozione delle life skills ed evitare il rischio che gli insegnanti si trovino a dover affrontare da soli problematiche psicologiche che è facile che emergano nel corso dei progetti sulle “competenze non cognitive”.

    UNA UTOPIA CON VALORE DI PROGETTO

    Intanto, mentre la scuola si attrezza, mentre la sanità pubblica (e privata) recupera il passo e ricomincia fare prevenzione e a poter accogliere anche il disagio e non solo la patologia conclamata, per favore permettiamoci un sogno, perché è dalle utopie che provengono le idee migliori da realizzare concretamente.
    Sogniamo insieme quindi. Progetto nazionale per i giovanissimi e i giovani: “Riabilitazione delle competenze relazionali penalizzate dalla pandemia”. Finanziamento totalmente pubblico, un investimento sulla salute dei giovani, che renderà il mille per uno domani. Estate 2022, grandi campus residenziali della durata di due-tre mesi, con soggiorni di durata crescente per fascia di età, per i più grandi con servizi logistici almeno in parte autogestiti, per tutti in aree paesaggistiche cariche di bellezza e avventura, a contatto con la natura, con tante attività all’aperto, col corpo al centro, un corpo liberato, un corpo che si emoziona e si esprime, man mano riabilitato alla fatica fisica, alla vicinanza, al calore del contatto. Gruppi grandi, di 50-60 ragazze e ragazzi, provenienti da una fascia territoriale non troppo ristretta, organizzati in sottogruppi mobili di 5-6 giovani, con educatori che si alternano nel facilitare le varie attività che vengono proposte. Vasti spazi comuni, con strumenti musicali, materiali per attività artistiche, attrezzature teatrali, arredi per sostare in piccoli gruppi, per stare insieme in alcuni momenti della giornata anche in modo informale. Serate lunghe, varie, autorganizzate, con la guida di animatrici e animatori esperti, serate dove essere protagonisti, e creare, sperimentare, proporre ai compagni e alle compagne. Spazi/tempi anche per stare una mezz’ora da soli, a riposare il cuore e il corpo, e un sostegno psicologico qualificato disponibile su richiesta, giorno e notte a livello individuale, e presente ogni giorno con attività di supporto alle dinamiche di gruppo, per riapprendere la socialità.
    E poi, da settembre, un format di questo tipo allestito in ogni città, anche piccola, per il week end e per una parte delle vacanze di Natale, e luoghi dedicati, diffusi nel tessuto urbano, hub in parte autogestiti, allestiti per la peer education e che comprendano, oltre ad attività di tempo libero e percorsi di crescita personale, iniziative per il territorio e sostegno alla pari ai ragazzi più in difficoltà lungo tutto l’arco dell’anno.
    Ecco, questo è il sogno. Sarebbe bello, sarebbe utile, sarebbe un investimento sul futuro e sulla speranza. I ragazzi della pandemia lo meriterebbero.

    (Rocca 6/2022)


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