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    Creare futuri credibili

    per l’adolescente

    Gustavo Pietropolli Charmet

    (NPG 1997-08-31)


    Nel proporre alcune riflessioni sulla ricerca L’età incompiuta, seguirò un modello classico della psicoanalisi, che, fuori dal contesto terapeutico, utilizzo in una prospettiva di tipo prevalentemente educativo.
    La prima impressione è di una ricerca ad altissima problematicità.
    La lettura del testo mette a contatto con una problematicità che è requisito straordinario della ricerca, tanto da avere l’impressione di essere finalmente a casa, d’incontrarmi cioè con dati, riflessioni, con un tentativo di leggere la complessità dell’odissea adolescenziale in termini rispettosi, quasi devoti. Essa è molto lontana dall’esito di certe ricerche «pettegole» e «mondane» alle quali siamo abituati, che descrivono gli adolescenti attraverso tipologie, con termini retorici, ridondanti, vezzosi. In essa vengono certo costruite delle tipologie, ma la terminologia usata è espressiva di un atteggiamento di fondo da sottolineare.
    La differenza tra la citata ricerca e tante altre proposte negli ultimi anni, non certamente così esaustive, che non vanno tanto in profondità e non sono così corrette dal punto di vista metodologico, dipende dal fatto che questa decolla dall’ambiente educativo. C’è un retroterra di impegno educativo che a mio avviso pervade ed ispira proprio la lettura, l’interpretazione dei dati.
    Le tabelle, i calcoli, le valutazioni ci sono ed ovviamente hanno la loro opacità. Nel momento in cui vengono letti si dà senso e si crea lo sfondo all’interno del quale acquistano significato.
    Ma l’impressione è che più che una lettura di tipo psico-sociale e sistemico, quella che guida sia l’ispirazione educativa.
    Ed è per questo, presumo, che mi sento finalmente a casa: sia per il significato e l’ispirazione etica della ricerca, sia perché la ricerca e la sua lettura mi sembrano fondate su una vita segnata dal lavoro educativo. Ricerca che ci si aspettava per poter finalmente approfondire, chiarire, aspetti del vissuto adolescenziale collegati alla prassi educativa.
    Dal punto di vista metodologico viene collocata nell’interfaccia fra il sé dell’adolescente in trasformazione e i contesti evolutivi. È come se ci si trovasse lì a guardare e a cercare di capire quello che succede.
    In un certo senso si ha l’impressione che i ricercatori si siano profondamente identificati, empaticamente, con quell’area della mente dell’adolescente che ha una funzione autoscopica, che guarda cioè il proprio mondo interno, guarda intorno a sé e produce un sistema di rappresentazioni: quella zona intermedia fra dentro e fuori, che è un’area così porosa della mente adolescente, attraverso cui arrivano nel suo mondo interno tutta una serie di stimolazioni molto penetranti, molto intrusive, e da cui fuoriescono anche parti del sé che vanno ad arricchire la realtà circostante.

    Una identità declinata in tanti modi

    Uno degli aspetti che mi hanno fatto sentire a casa è legato proprio alla collocazione della sonda con cui si è operato. Non parlo tanto del metodo, quanto del clima complessivo che si respira addentrandosi in queste pagine, dove tutto rimane ampiamente in discussione, meritevole di ulteriori approfondimenti.
    Non è un caso, se si è scelto il termine identità come filo rosso che consente di percorrere l’esplorazione delle varie aree. Questo termine viene prevalentemente utilizzato come processo di integrazione dei sé ancora non integrati dell’adolescente che vivono nelle varie aree relazionali. Quindi è come se la ricerca cercasse di dare ragione di ciò che l’adolescente sviluppa come processo di simbolizzazione, di rappresentazione dei contesti evolutivi in cui vive (scuola, famiglia, tempo libero), ma anche delle vicende interne (la corporeità, il mondo dei valori, la spiritualità).
    Procedendo così, ossia collocandosi in questa area di confine fra il dentro e il fuori, fra il sé e l’ambiente, si giunge a scoperte di grandissima utilità per quello che potrebbe essere un manuale di base del buon educatore per adolescenti. Eccone una ad esempio. Usciamo da una problematicità paralizzante delle troppe adolescenze, e arriviamo ad asserire che, comunque sia, ce ne sono almeno due: quella maschile e quella femminile. Da questa ricerca emergono spunti di straordinario interesse al riguardo. Qual è infatti l’interpretazione del processo di femminilizzazione, di assunzione dell’identità di genere femminile nel contesto evolutivo attuale, dove è così impressionisticamente innegabile l’evidenza di una declinazione assolutamente nuova, originale, diversa dalle situazioni precedenti, ma dove pure vengono sottolineati gli aspetti di fragilità, di maggiore esposizione alla sofferenza, legata a tante componenti su cui si potrebbe a lungo discutere?

    Genitori e adulti

    Un altro spunto di riflessione riguarda il rischio di una dismissione precoce dei genitori dalla funzione educativa. Anche qui, chiunque lavora con gli adolescenti non può non rimanere sorpreso dal fenomeno molto diffuso di incontrare adolescenti che si istituiscono e sono istituiti dal contesto familiare come orfanelli e che al contrario hanno alle loro spalle dei genitori ampiamente in forma. I quali potrebbero essere una risorsa anche per poter affrontare le situazioni di disagio e invece si mettono in cassa integrazione come educatori, accettando la proposta formale dei loro figli adolescenti di essere lasciati in pace nell’esercizio della loro pseudo-autonomia e prendendo per buono, diciamo così, questo invito a sentirsi esonerati.
    In situazioni di crisi invece uno dei primi passi da compiere sta appunto nel riconvocare i genitori dimissionari e ridare loro capacità e competenze per adempiere al loro mandato educativo. Essi, contro le apparenze, riprendono volentieri il loro mandato, anche perché semplicemente si accetta la realtà dei fatti, e cioè che l’adolescenza è tutt’altro che compiuta. Questo stesso vissuto può essere di chi lavora all’università dove incontra studenti non di rado ancora adolescenti e dove si tocca con mano nella quotidianità che o l’università riesce nel suo insieme a recuperare una funzione educativa, oppure la mortalità scolastica resterà caratterizzata da una forte tendenza al figlicidio.
    Altro spunto di grande interesse per la ricaduta sulla prassi educativa è la richiesta da parte dell’adolescente di una figura mitica, quella dell’adulto competente nei vari contesti evolutivi più o meno istituzionalizzati. Una questione complessa sta nel che cosa significhi per l’adolescente la competenza dell’adulto nel contesto attuale: ossia quali sono le caratteristiche, le doti, le qualità, la disponibilità che l’adulto può e deve assumere per essere vissuto dall’adolescente come un adulto significativo e quindi essere oggetto di un massiccio investimento affettivo.

    Scuola

    Non c’è dubbio che nell’immaginario adolescenziale attuale la scuola non venga rifiutata, anzi sia sostanzialmente in recupero, perché in qualche modo ha tentato negli ultimi tempi di avallare la forte istanza dei propri utenti di dilatare lo spazio educativo, di consentire di essere utilizzata come spazio di socializzazione. E da questo punto di vista allora merita di essere ai primi posti nella hit parade delle preferenze degli adolescenti, proprio perché garantisce quotidianamente uno spazio di socializzazione orizzontale che in qualche modo vi si istituisce. Organizzandosi e legittimandosi all’interno della cultura del ruolo, il docente chiede aiuto per capire come possa essere presidiato nel metodo uno spazio educativo che sta espandendosi rispetto allo spazio didattico.
    Tantissimi spunti della ricerca sono molto vicini alla possibilità di essere applicati e spesi nella relazione educativa.
    Certamente abbiamo maturato la convinzione dell’assoluta utilità di adattare e seminare gli spazi di ascolto dell’adolescente lungo gli spazi di vita convenzionale, senza dover dare troppo credito all’eventualità che l’adolescente si rechi nei posti istituiti ad hoc dalla cultura degli adulti. La quale deve saper riuscire a collocare e a presidiare delle risorse lungo l’itinerario di vita convenzionale dell’adolescente, regalandogli l’illusione di aver creato lui ciò che istituzioni degli adulti, sufficientemente buone, gli hanno messo in mano.

    Gruppo e individuo

    Nella ricerca non manca un largo spazio ad un soggetto psicologico peculiare dell’adolescenza attuale, e cioè la vita di gruppo. La sfida educativa dei prossimi anni consisterà proprio in questo: come riuscire a garantire il processo di individualizzazione dell’adolescente dal suo gruppo, nel quale si trovano situazioni di fragilità e nel cui confronto egli rischia di sviluppare forti dipendenze. Ma c’è un dato di grande interesse: nella mente dell’adolescente il gruppo viene vissuto come una grande risorsa, sostanzialmente un punto irrinunciabile della vita di relazione.
    E tuttavia l’esperienza reale del gruppo è spesso altamente deludente. Il gruppo virtuale è molto amato, e il gruppo reale è noioso, apatico, frustrante. In questa divaricazione tra ciò che l’adolescente dice della propria esperienza di gruppo e ciò che poi davvero gli succede, si pone uno spazio per l’intervento educativo che consente di capire e sviluppare capacità critiche.
    Nei prossimi anni, probabilmente, in certi contesti, lo sforzo educativo più significativo sarà quello di aiutare taluni adolescenti a dire no al gruppo reale, conservando internamente la relazione d’amore col gruppo come spazio di socializzazione, ma negandosi nella realtà alla danza interattiva del gruppo. La questione mi sembra davvero molto complessa, perché dalla ricerca emerge come il gruppo sia un laboratorio sociale, aperto giorno e notte, deputato a favorire, anche da un punto di vista educativo, la costruzione dell’identità. Se ci si chiede inoltre da che cosa derivi il suo straordinario potere e quale ne sia la nascita e storia del gruppo come oggetto d’amore, le cose si complicano ancora di più. Sotto il profilo clinico, tramite dunque la ricostruzione di vita di adolescenti in crisi, il gruppo appare proposto dalla madre in epoca molto precoce, cioè durante la socializzazione primaria del bambino. Al nido il gruppo diviene come una fonte di nutrimento affettivo integrativo alla presenza dell’amore materno. Un invito quindi ad appoggiarsi al gruppo dei fratelli della stessa età nel costruire una specie di famiglia sociale precoce che lavora a staffetta con la famiglia naturale.
    Indicando, e favorendo, attraverso un’accorta politica di pubbliche relazioni da parte della madre, una nicchia di relazioni orizzontali, il bambino, nelle sue rappresentazioni, si rivela capace non di sostituirla mentre lavora, ma di erogarne nutrimento specifico. La nuova madre, quale una primaria pulsione del bambino, porta a giocare coi coetanei e coi nonni, traendo dallo spazio di gioco e dall’appoggio al gruppo una serie di esperienze importanti per la crescita. Se l’idea del gruppo nasce così come un oggetto d’amore molto precoce, allora, nel momento in cui l’adolescente diventa tale e quindi decolla tutta la problematica dell’identità di genere espressa attraverso la fame di relazioni orizzontali, il gruppo si fa oggetto di un investimento straordinario, che ha alle sue spalle una storia antica e che viene particolarmente rinfocolato da istanze del momento evolutivo. Se poi il gruppo diventa appunto tale perché lavora attraverso processi di cooptazione molto selettivi, allora esso consente l’accesso alla sua anima soltanto a quei soggetti che entrano in risonanza e intimità.
    Ed è molto difficile sapere in cosa consista realmente come fenomeno mentale. Ma verosimilmente ha molto a che fare con la condivisione di un progetto comune, legato alla declinazione e interpretazione dell’identità di genere maschile e femminile. Un ragazzino si approssima a un gruppo e avverte che due o tre amici stanno elaborando un progetto col quale sente telepaticamente di avere qualcosa in comune: entra nel gruppo perché, in grado di comunicare con gli altri, coglie in profondità, al proprio interno, l’esperienza di un progetto che lo riguarda ed è presente in qualche modo allo stadio virtuale come fantasia della mente e quindi condivisibile.
    Un altro ragazzo passa di lì accanto al gruppo, e non viene lasciato entrare, perché non si stabilisce risonanza: è solo un compagno o anche un amico. Con questi dinamismi si capisce allora come possa instaurarsi una strana tossicofilia di gruppo, per cui si vorrebbe anche farne a meno in quanto deludente, ma non diventa possibile. Il gruppo viene consumato a forti dosi, anche se dà fastidio e si vorrebbe in realtà essere da esso più indipendenti, più autonomi, fare da soli. Ma insieme nel gruppo hanno telepaticamente individuato un progetto comune, pur fragile, rispetto a cui ovviamente si sviluppano atteggiamenti etici o masochistici. Non si può dunque abbandonare la compagnia, in quanto è come se avesse messo al mondo un bambino, ossia un fragile progetto di crescita che ha bisogno delle cure di tutti: nessuno può andare via e disertare, anzi tutti devono stare sempre appiccicati, anche se in preda spesso ad una noia mortale.
    Da tutto ciò risultano evidenti le difficoltà nell’immaginare un intervento educativo che sostenga la crescita dell’adolescente, poiché proprio una delle istituzioni cruciali che svolge una funzione educativa, ma che è pure promotrice di elevati rischi, è il gruppo, con il quale l’adolescente ha una relazione difficile da definire e rispetto a cui mantiene un livello di devozione e una capacità sacrificale che non ha certamente verso la famiglia, la scuola e la società.
    Ma perché l’adolescente – ci si può chiedere – deve soffrire tanto nei confronti di soggetti che in qualche modo sono stati cooptati e che non può abbandonare o disertare se non con sacrificio considerevole?

    Famiglia e nascita sociale

    Così pure ci si domanda: in che modo potrà essere aiutata la famiglia, che esprime, soprattutto nel momento dell’adolescenza dei figli, ansie genetiche molto importanti, tali da consentire di collocarle dentro una motivazione alla formazione di ruolo? Ansie di ruolo che sono del tutto simili a quelle genetiche che caratterizzano lo stato di gravidanza. In effetti la nascita sociale può andar male, può nascere un mostro!
    Questo rischio sollecita assai la motivazione dei genitori a sviluppare competenze proprio attraverso processi formativi di ruolo. Senza dubbio è in realtà la famiglia, sottilmente e per certi versi subdolamente, a prolungare una situazione di dipendenza ambigua pacifica, ma nei fatti del tutto soddisfacente. C’è della coerenza in tutto questo, perché è vero che la famiglia attuale fa, fin dalle prime mosse educative, una scelta radicalmente anestetica: essa ritiene cioè che la quantità di dolore mentale da somministrare a un bambino per scopi educativi debba essere obbligatoriamente molto bassa. Ma questa ricerca di costruire figli felici, ossia al riparo dal dolore mentale, si protrae troppo nel tempo, esponendosi alla inevitabile dura frustrazione della separazione al momento della immissione sociale, appunto perché dalla cucina di casa l’ambiente sociale non è visto come amichevole, ma più un ambiente frequentato da predoni e malfattori, a cominciare dallo stato, dal mondo del lavoro e via discorrendo. C’è una consegna chiara: la tutela e la protezione del progetto generativo da un ambiente sociale che può solo contaminarlo e rovinarlo, oppure provocare dolore. Quindi, più o meno consapevolmente, viene protratta la funzione protettiva anestetica per evitare il dolore della separazione della crescita: non ci può essere niente di meglio che ripari dal dolore, delle buone relazioni familiari, tenute in piedi a tutti i costi.

    Rendere pensabile il futuro

    In sintesi, appoggiandoci alle riflessioni pedagogiche sui dati della ricerca, si possono intravedere eventuali strade educative che confortano la correttezza e la giustezza di alcune scelte, come pure la delicatezza del processo di accompagnamento, soprattutto se il vero problema dell’educatore, da sempre d’altra parte, rimane non tanto quello di restituire situazioni di cui il bambino o l’adolescente è stato deprivato, bensì quello di creare futuri credibili e pensabili. Nulla più di questa ricerca autorizza però a legittimare l’importanza decisiva del progetto educativo e dell’accompagnamento, che hanno come oggetto d’amore il rendere pensabile il futuro.
    Questi ragazzi di oggi sono spaventati dal futuro, tanto che addirittura decidono di non pensarlo neppure e di eternizzare il presente, che è uno dei rischi più sconvolgenti. Ma il futuro, elemento cruciale del processo di crescita, può essere accettato come sacrificio se in esso sarà evidente la possibile soddisfazione del sogno, del desiderio. Un qualsiasi buon educatore non può che avere come obiettivo decisivo quello di aiutare i ragazzi a pensare al futuro, a deciderlo, a trovare dentro di sé la vocazione, il sentimento di chiamata da parte del sociale, di un’arte, di un mestiere, da parte di una scelta etica. In questo senso davvero mi sembra che siamo davvero di fronte ad una ricerca assai facilmente spendibile sotto il punto di vista della pratica educativa.


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