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    Adolescenti in celluloide

    Simona Di Luise

    (NPG 1999-09-24)


    Perché i ragazzi non si fanno vedere,
    sono sfuggenti come le pantere,
    quando li cattura una definizione,
    il mondo è pronto a una nuova generazione.
    (Jovanotti)

     

    Nella disperata ricerca della propria personalità spesso gli adolescenti trovano il maggior ostacolo proprio in se stessi. Di fronte allo «specchio inquieto» che essi sono e in cui si osservano e misurano, si riflette un’immagine cangiante, diversa da quella pensata, sognata: un’immagine impacciata ed insicura. Dei potenziali esseri umani i cui influssi culturali, familiari e ambientali renderanno degli uomini e delle donne, sono ora come l’argilla che prende forma, ma che prima di raggiungere le fattezze definitive è in continuo mutamento.
    Quasi in tutti gli individui il periodo adolescenziale rappresenta un momento difficile e dai grandi contrasti con chi si ha intorno e soprattutto con se stessi; quell’immagine che appare nello specchio sorprende e sconvolge soprattutto chi la riflette.
    Ciò che più caratterizza questa tappa della vita è proprio questo mutamento in cui affiorano nuovi sentimenti, nuove pulsioni psicofisiche. Improvvisamente il cuore comincia a battere così forte che sembra debba uscire fuori dal petto, in modo sorprendente, imprevisto, inaspettato, nuovo. Quello che sulla nostra pelle abbiamo provato e che tanto spesso il grande schermo degli anni ‘90 ha rappresentato, è proprio l’inadeguatezza con cui rispondono a questo nuovo stimolo il nostro corpo, la nostra gestualità.
    La nostra fisicità ha nuovi messaggi da inviare... ma come fare? Come usare il nostro corpo come mezzo per dire: “Ti amo”, “Ti voglio”, “Mi piaci”?
    Gli sguardi, i movimenti, i gesti non sembrano essere all’altezza del grande compito, della missione che gli abbiamo assegnato. Nessuno di coloro che ci circonda sembra capirci: dai genitori agli insegnanti, dai fratelli agli stessi amici che abbiamo scelto come confidenti. Sentire di essere al centro di un mondo che improvvisamente sembra diventato così complicato, così pieno di ostacoli e nel contempo di grandi emozioni e gioie da consumare in un istante, anche solo il tempo di uno sguardo speciale.
    Primo esperimento della serie è, senza dubbio, Il tempo delle mele (1980), intelligente e attenta descrizione degli adolescenti anni ‘80, di Claude Pinoteau. Dal sapore leggero, colorito da un linguaggio adatto ai giovani di quegli anni, il film è  l’analisi della crescita di una giovane dodicenne, Vic, interpretata da Sophie Marceau. A più di dieci anni dall’uscita del film, i problemi dell’età si sono forse complicati ed evoluti, eppure frasi come: «a voi non ve ne frega niente se sono felice o disperata... e se ero in ritardo e voi eravate preoccupati non mi interessava perché ero felice sotto la pioggia e senza una lira in tasca per prendere un taxi!» sembrano risuonare nelle orecchie di chiunque di noi abbia vicino un adolescente nella disperata ricerca di se stesso.
    Eppure nelle tematiche trattate da Pinoteau, che oltre ad essere il regista è anche lo sceneggiatore, non si fa mai riferimento (come nel seguito de Il tempo delle mele 2 -1982) all’anoressia, all’omosessualità, alla droga, alla prostituzione minorile: insomma a tutti i temi che oggi sono presenti nelle descrizioni dei giovani non solo del nostro tempo, ma anche del passato.
    Tanti sono gli argomenti che nell’analisi delle pellicole possono dar vita ad un interessante studio; la mia scelta, però, ricade su quattro temi in particolare:
    – la prima volta;
    – una sessualità «diversa»;
    – amore e logos;
    – il telefono.
     
    La prima volta

    Non è facile trovare, nel cinema anni Novanta, soggetti cinematografici che concentrino la loro attenzione su tematiche legate al primo rapporto sessuale. Quello che infatti nel recente passato era l’argomento principale nelle discussioni tra i genitori e i figli, il motivo delle liti familiari, oggi assume una valenza completamente diversa; l’attenzione degli adulti ora è concentrata nel difendere i propri ragazzi dai pericoli che possono derivare dai rapporti occasionali: il timore di essere contagiati dal virus dell’HIV, da altre malattie infettive.
    Un esempio per tutti in questo senso è una scena di Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1996) di Enza Negroni. I genitori sessantottini del sedicenne Alex quando vengono a sapere che da più di una settimana il figlio esce con la stessa ragazza, senza molti discorsi, gli danno quindicimila lire per acquistare dei preservativi. La verginità non è più un valore.
    Bernardo Bertolucci con il film Io ballo da sola (1996) ha realizzato invece un esperimento originale: recuperandolo come valore del passato, lo ha reso nuovamente attuale ed interessante. La protagonista del suo film è Lucy, una giovane diciannovenne americana in vacanza in Italia, per farsi fare il ritratto da uno scultore toscano, che trova ospitalità presso vecchi amici dei genitori. Tra i pensieri della madre poetessa, morta quando lei era ancora molto piccola, la giovane protegge il vero motivo del suo viaggio: la ricerca del suo padre naturale, con il quale la madre l’ha concepita proprio nella campagna toscana che ora la ospita.
    Lucy cattura l’attenzione di tutti coloro che le sono intorno, non per la sua bellezza, per il suo fascino esotico, per la sua strana esuberanza adolescenziale: ciò che più di ogni altra cosa avvolge la ragazza di un alone di intrigo e interesse è che nonostante i suoi «consumati» diciannove anni Lucy è ancora vergine. Una ragazza moderna, aperta ad ogni esperienza, che non ha alcun falso pudore nel farsi ritrarre seminuda o nel fumare hascisc dalla mattina alla sera, è alla ricerca dell’amore vero, non di una storia consumata per gioco, non di un incontro occasionale, Lucy è alla ricerca dell’amore. «Attendo paziente vuota come una tazza da tè. Spero che tu venga a scuotermi, corri vieni a svegliare me», scrive sul suo diario.
    Si guarda intorno con attenzione e le occasioni che le si presentano non sono poche, tanti giovani di nobili origini o dagli atteggiamenti disinvolti, ma lei è alla ricerca di qualcos’altro. A seguito della sua ultima visita in Italia, qualche anno prima, aveva ricevuto una lettera anonima piena di passione, le cui parole le erano rimaste scolpite nel cuore. Nella ricerca dell’autore inciampa in diverse figure, ma nessuna di queste è quella che lei sta cercando. Poi un giorno per caso, passeggiando con un ragazzo schivo ed introverso, che vuole da lei notizie sull’America, trova in lui la persona giusta per lei. La timidezza e i modi impacciati del ragazzo la affascinano: lui è la persona che aveva tanto cercato. Tra le parole, i silenzi e gli sguardi, nasce l’amore e anche la voglia di consumare insieme l’esperienza sessuale: la prima volta, ma per entrambi. Una verginità ed un’inesperienza vissuta sia al maschile che al femminile. I corpi s’incontrano con imbarazzo, ma con la dolcezza di chi ha scelto di dare a quel momento un valore e un significato ormai quasi superato. La scelta particolare che Bertolucci fa è quella di mettere a confronto la verginità femminile e maschile (in questo caso forse un po’ surreale vista la giovane età con cui i ragazzi di oggi hanno il primo rapporto sessuale).
    Tutto il resto sono immagini, visioni: prima di compiere il «passo» Lucy avrà portato al termine le sue personali indagini ed avrà scoperto in colui che deve farle il ritratto il suo vero padre, e così l’opera che la rappresenta è giunta a compimento, quasi a rappresentare la sua personalità ricomposta, non più una donna a metà, ma una persona completa, capace di fare una scelta: darsi fino in fondo a qualcuno che pensa di amare.
    Altro film, che tra gli altri temi tratta anche questo momento, è Les roseaux sauvages (L’età acerba - 1994) di André Téchiné. Oltre ad un’attenta descrizione dell’omosessualità giovanile, infatti, il regista sofferma l’attenzione, anche se solo per un attimo, su un rapporto sessuale vissuto per la prima volta.
    Maité, una ragazza dalle idee progressiste e femministe, è convinta che nella sua vita gli uomini non avranno che uno spazio marginale: li considera esseri inferiori, insensibili. Dietro questi atteggiamenti duri in realtà quello che la giovane nasconde è il timore di soffrire come sua madre, dopo l’abbandono del padre. Decide così di condividere il suo tempo e la sua affettività con François, il suo giovane amico la cui omosessualità la rassicura e la rende certa che tanto tra loro mai nulla potrà accadere.
    Tutto è pianificato, pensato, tranne l’incontro con lui, Henri. Bussa alla finestra della sua casa per chiederle ospitalità per una notte. Nulla di lui le piace: è maschilista e di destra. Ma quando lo rincontra, però, si accorge di esserne innamorata, e così i pregiudizi e i preconcetti cadono, perché anche lui per molti giorni non è riuscito a lasciare la città per poterla rivedere. E così vicino al fiume, nel bosco, mentre gli amici sono lontani, Henri e Maité s’incontrano e si amano fino in fondo.
    La scelta che entrambi i registi operano è di non usare la completa nudità dei corpi dei protagonisti, forse per accentuare ed enfatizzare il momento di grande imbarazzo e pudore vissuto dai due giovani.

    Una sessualità diversa

    In questo quadro così incerto dove tutto viene messo in discussione, a volte anche l’identità sessuale diventa un interrogativo. Non sono rari, infatti, i casi in cui i giovani si chiedono il perché dell'attrazione che provano per l’amico o l’amica del loro stesso sesso, il desiderio di emularli, di essere come loro, in alcuni casi può essere confuso con il desiderio di possesso mentale e fisico. Così nascono i dubbi e le domande restano irrisolte. Alcuni psicologi affermano che questo è insito pressoché in tutti noi, e naturalmente viene fuori come interrogativo soprattutto nel momento delle grandi domande, all’epoca cioè dell’adolescenza.
    Il regista neozelandese Peter Jackson affronta il tema in Creature del cielo (1994), anche se in modo marginale. Le protagoniste, Pauline e Juliet, intente a creare un mondo di fantasia del quale loro sono le uniche protagoniste, rivivono insieme anche delle scene in cui mettono in gioco la loro sessualità, non come reale esigenza fisica, ma come divertente riviviscenza di un momento fantastico dei protagonisti e delle loro vicende.
    L’omosessualità è invece il tema centrale del poetico Beautiful Thing, trasposizione cinematografica dell’omonima opera teatrale scritta da Jonathan Harvey e diretta sia nella versione teatrale che in quella cinematografica dalla brava Hettie MacDonald. In un condominio popolare dell’hinterland londinese due adolescenti sono alle prese con un mondo esterno che sentono ostile. Uno con un padre e un fratello violenti, l’altro con una madre mascolina e un padre mai conosciuto, entrambi alla ricerca disperata di affetto e dolcezza. Nel loro incontro e nella scoperta della loro parte omosessuale riescono a trovare una identità, il loro modo di essere. «Per me – dice la giovane regista – è soprattutto la storia di un primo amore, la prima volta che ci si trova con qualcuno, quel qualcuno che si è sognato e non arriva mai. È il racconto di un momento felice, qualcosa di bello a cui aggrapparsi quando il resto sembra noioso e grigio». Il finale, un po’ troppo fantastico, vede i protagonisti ballare al centro del cortile dove sono cresciuti, con la piena approvazione della madre di uno di loro.
    La stessa delicatezza ci è proposta, con un soggetto tutto femminile, in Due ragazze innamorate (1995), film inglese diretto da Maria Maggenti. Evie e Randy si incontrano per caso e scoprono di frequentare la stessa scuola; ben presto arriva un secondo incontro, poi uno sguardo, un sorriso e così iniziano ad uscire ad ascoltare musica insieme. Per un caso le mani si sfiorano e Randy sente che sta nascendo qualcosa di forte. Sente il cuore che le rimbalza in gola, cerca Evie ovunque. Vorrebbe tenerle la mano ma non osa, prova a scriverle ma tutto sembra inutile, ogni sforzo per raggiungerla risulta vano.
    Dall’altra parte c’è lei, Evie, così bella nel suo modo elegante di muoversi, con i suoi libri, il suo mondo perfetto, le amiche del cuore, una mamma premurosa, un bel ragazzo. Evie che ama una musica che non capisce ma che le arriva al cuore, non sa che farsene di quel mondo perfetto, che non le comunica nessuna emozione. Vuole respirare la vita a pieni polmoni, vuole sentirsi viva, vuole amare con tutta l’anima... E quello che all’inizio sembra un gioco si trasforma in amore, si lascia trasportare dalle emozioni, perché anche il sorriso di Randy le arriva al cuore come quella musica che non capisce. Evie decide di andare oltre, di conoscere da vicino quel mondo diverso, perché sente che quel sentimento, che nasce dentro di lei, è buono e va al di là dei pregiudizi; poi una sera nel giardino, il primo bacio.
    È interessante osservare che nell’intero film non si nota la presenza che di tre figure maschili del tutto marginali: la prima quella del fidanzato di Evie, giovane senza cervello attento solo all’esteriorità, l’altra quella di un meccanico rozzo e violento che tenta di aggredire Randy, il terzo un amico di quest’ultima che aiuta e consiglia le due ragazze. Di questo trio solo l'ultimo è una figura positiva, e guarda caso, è anche lui un omosessuale. Una visione un po’ troppo unilaterale forse…
    Un tema così scottante non poteva essere trattato con più delicatezza che descrivendo gli atteggiamenti imbarazzati e impacciati di adolescenti che nella ricerca di se stessi e della propria sessualità scoprono a volte di essere «fuori dal gruppo», l’eccezione alla normalità della società.
    André Téchiné si addentra nel tema dell’omosessualità adolescenziale con il suo Les roseaux sauvages. Nella Francia dei primi anni '60 quattro giovani sono alla ricerca della loro identità politica, intellettuale e sessuale. François, nella sua scelta omosessuale, è colui che in fondo ha le idee più chiare. La sua amica Maité sembra non voler lasciar entrare nella sua vita alcun uomo e per questo convince se stessa di essere innamorata di François; il quale non le chiederà mai nulla, se non la condivisione dei pensieri; le sue attenzioni sessuali, infatti, sono tutte concentrate sul suo compagno di camera Serge. Il ventunenne Henri ha al centro dei suoi pensieri la guerra in Algeria, la sua terra natale, dove ancora vive il resto della sua famiglia. Solo la conoscenza di Maité lo distoglie dal desiderio di raggiungere la madre riparata a Marsiglia. Anche questo personaggio, nella coerenza delle sua scelte e dei suoi obiettivi, non può nulla di fronte ai suoi desideri di adolescente di conquista verso la giovane donna.
    In questa storia quella che non viene sottolineata è l’emarginazione a cui i giovani con una «sessualità diversa» sono destinati: l’essere diversi li fa rimanere fuori da gruppo, mentre al contrario, François è proprio il trait d’union tra i personaggi, colui che li fa incontrare, conoscere.
    Un'ultima riflessione è per il film di Ferzan Ozpetek Bagno turco-Hamam (1996), in cui Alessandro Gassman interpreta la parte di Francesco, giovane architetto romano sposato con Marta, della quale mal sopporta gli atteggiamenti isterici. Per vendere un immobile, un vecchio bagno turco ricevuto in eredità da una zia, Francesco vola ad Istanbul con l’intento di realizzare nel giro di pochi giorni l’affare. Ma durante il soggiorno in Turchia rivive, attraverso le poetiche lettere indirizzate da sua madre alla sorella e sempre rinviate al mittente, il grande fascino che quella terra ha esercitato su quella che al tempo era una giovane e bellissima donna. L’amore per quel luogo così diverso e per quella gente sconvolge il suo pensiero e trasforma la sua esistenza.
    Della famiglia turca che ha accudito la zia fino alla morte, fa parte il giovane del quale Francesco si innamora. L’amore tra i due si consuma nei racconti e nelle reciproche confidenze sulla loro vita passata e futura, mentre l’acqua del bagno turco scivola sui loro corpi. Un’omosessualità vissuta alla maniera antica, quasi come nella Grecia del passato in cui i rapporti tra il maestro e il suo allievo prediletto rappresentavano la regola e non l’eccezione.
    La chance che il cinema come mezzo di comunicazione per il grande pubblico ha, è quella di poter affrontare i temi, anche i più scottanti, in forma romanzata, poetica. Nonostante i tempi e la nostra apparente apertura mentale, infatti, l’omosessualità rimane per la nostra cultura un argomento ostico, non da tutti accettato ancora con tranquillità. Quando il cinema riesce a descrivere dei personaggi positivi, che vivono con serenità la loro sessualità, e soprattutto quando riesce a mostrare la naturalezza con cui la diversità si presenta nel periodo adolescenziale, fa un importante servizio alla cultura di massa.

    Amore e logos

    Forse perché sono il vero frutto della generazione del sessantotto, ma i giovani anni Novanta hanno una gran voglia di parlare, di raccontarsi e di raccontare tutto quello che c’è dentro e fuori di loro. Forse proprio perché i tabù di un tempo sono stati abbattuti, questi ragazzi che hanno tutto e a cui tutto è concesso, sono alla ricerca di altro: a volte dell’eccesso a tutti i costi, altre (e credo che questo accada nella maggior parte dei casi) delle cose semplici.
    È proprio così che i giovani del nostro tempo vengono descritti: che passeggiano e parlano, parlano, parlano. La libertà che agli adolescenti di oggi è concessa e che tanto spesso viene criticata, forse li aiuta a scegliere il modo più puro e semplice di vivere un rapporto in cui la loro affettività viene messa in gioco. A volte, infatti, le eccessive proibizioni da parte dei genitori aumentano il desiderio di varcare la soglia del non concesso e del non lecito; quando invece la libertà e la possibilità di scegliere è lasciata al libero arbitrio del giovane, quasi sempre mostra la capacità di scelta tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, l’eccesso e la misura, e quindi evidenzia l'interiorizzazione di un codice etico condiviso.
    La centralità che i rapporti d’amicizia ricoprono nelle vite dei giovani del nostro secolo, le continue discussioni sulla possibilità di un vero rapporto d’amicizia tra due ragazzi di sesso diverso, dimostrano quanto sia importante nelle esistenze di questi adolescenti il momento della condivisione dei pensieri e delle parole. Quasi sempre i rapporti amorosi tra due giovani hanno origine nello scambio di idee, una conoscenza approfondita che poi diventa amore. Non più incontri occasionali, non più l’innamoramento solo degli occhi, ma la parola che domina, che descrive e che fa comprendere al di là della sola apparenza.
    Per descrivere quest’aspetto adolescenziale ho scelto due film: Prima dell’alba (1995) di Richard Linklater, vincitore dell’Orso d’oro per la migliore regia, e Jack Frusciante diretto da Enza Negroni. Entrambe le pellicole, ambientate nei nostri anni, hanno come protagonisti un ragazzo e una ragazza figli di genitori sessantottini che s’incontrano e che desiderano soprattutto conoscersi fino in fondo: parlano di se stessi e della loro storia con la sensazione che il tempo a disposizione (nonostante la precarietà della giovane età) sia poco, e quindi con il desiderio di viverlo fino in fondo.
    I due ragazzi fanno conoscenza sul treno, lei si chiama Celine è francese e studia alla Sorbonne, lui Jesse, un giovane americano in rientro da un giro per l'Europa. Il ragazzo deve scendere a Vienna ed attendere il giorno successivo per prendere l’aereo che lo porta in America; lei deve proseguire il viaggio per arrivare fino a Parigi. Dopo un veloce scambio di battute Jesse le chiede di scendere a Vienna con lui ed aspettare insieme il giorno successivo, per poi riprendere ciascuno la sua strada. La ragazza ci pensa un po’ e poi decide di condividere insieme al giovane sconosciuto il tempo che manca al sorgere del sole.
    Anche Alex e Aidi, protagonisti della pellicola tutta italiana Jack Frusciante è uscito dal gruppo, tratta dall’omonimo romanzo di Enrico Brizzi, hanno poco tempo a loro disposizione: la ragazza infatti, ha vinto una borsa di studio e presto dovrà andare a vivere negli Stati Uniti.
    In entrambe i casi, quindi, un tempo limitato da condividere, non la prospettiva di una vita intera come nella maggior parte dei casi dopo un incontro tra due adolescenti. Ebbene qual è la scelta delle due coppie? A dispetto di ogni previsione i ragazzi hanno una gran voglia di conoscersi, di parlare. Spendere tutto il tempo che viene loro concesso a descriversi e farsi domande, scoprire i loro desideri, le loro ansie, le loro paure.
    «Hai mai sentito dire che in una coppia che invecchia si perde la capacità di ascoltarsi l’un l’altro?». Questa è la prima battuta che scambiano Celine e Jesse vedendo un marito e una moglie litigare. «Voglio continuare a parlare con te perché sento che tra noi si è stabilito un contatto», dice Celine quando decide di seguire il suo compagno di viaggio in giro per Vienna. In questo bel film, la voglia di parlare e di comunicare va anche al di là delle parole. Durante la loro passeggiata tra un pub e un ristorante, tra un autobus e una metropolitana, i due ragazzi decidono di entrare in un negozio di dischi. Nella cabina d’ascolto Celine e Jesse rimangono in silenzio per due lunghi minuti di pellicola, ma i loro sguardi sono eloquenti, la voglia e l’imbarazzo di guardarsi negli occhi li descrive in tutta la magia della loro adolescenza. Poi, quando si trovano sul prato e l’alba è quasi arrivata, scelgono insieme di non fare l’amore, perché visto che non si rivedranno mai più, salutarsi sarebbe ancora più difficile. Non è così ben riuscito il film di Enza Negroni. Ciò che salta agli occhi anche ad uno sguardo poco attento, è che il protagonista Alex, giovane sedicenne, è interpretato dal quasi trentenne Stefano Accorsi.
    Per il resto, molte citazioni di libri famosi nelle discussioni tra i due ragazzi, da Il Piccolo Principe a Il giovane Holden. Una descrizione di due giovani con tanta voglia di capire, di conoscere. In realtà, però, oltre a qualche trovata senza grande importanza, il film risulta una gran delusione per chi, come me, si era appassionato al libro di Brizzi, che solo l’anno precedente aveva ottenuto il record delle vendite.
    Altro film italiano che descrive questo bisogno di comunicazione è Senza pelle di Alessandro D’Alatri. Saverio, giovane ritardato mentale, incontra Gina, una donna sposata e con un figlio, della quale si innamora perdutamente. Guardandola camminare, muoversi, gesticolare, mentre svolge il suo lavoro di impiegata alla posta, egli immagina della donna il suo modo di pensare, di vedere il mondo. Al marito di Gina, preoccupato per le continue e ossessive attenzioni del ragazzo per la moglie, la sua psichiatra lo definisce un «senza pelle»; «noi – dice – possiamo controllare le nostre emozioni, lui non sa gestirle, è continuamente esposto, come se non avesse la pelle. La pelle è il nostro ultimo confine, poi c’è il resto del mondo. Lui non ha la pelle».
    Ma, nonostante ciò, Saverio ha il dono della parola nel senso più alto del termine. Nelle lettere che invia a Gina i suoi pensieri, le sue osservazioni sul mondo sono espressi in uno straordinario modo che arriva dritto al cuore. Al contrario i suoi movimenti sono scoordinati, il suo sguardo è sempre rivolto verso il basso e i suoi scatti sono da perfetto squilibrato: ma quando Saverio parla o scrive, riesce ad ammaliare chiunque, forse anche la sua amata Gina. Al termine del film la donna infatti è costretta ad allontanarsi dal ragazzo, e la paura che prima aveva di lui si trasforma nel timore di guardare dentro se stessa con onestà e scoprirsi forse, un po’ attirata da un pazzo «senza pelle».

    Il telefono

    Da recentissime statistiche il telefono risulta al primo posto nelle spese degli adolescenti. È una conferma ufficiale ad un sentire comune di molti genitori.
    A partire dal già citato Tempo delle mele, il telefono rappresenta un momento essenziale della giornata di ogni adolescente cinematografico. Tornare a casa dopo aver appena lasciato i compagni ed avere una notizia immediata e di «vitale importanza» da comunicare: questo è quanto gli adulti fanno tanta fatica a comprendere.
    «Ma se siete stati fino adesso insieme cosa avrete mai da dirvi?», questo è l’interrogativo che alle mamme rimarrà per sempre senza risposte convincenti. Tutto deve essere comunicato ai propri amici, perché gli altri non capiscono, fraintendono. E così l’amico-telefono diventa il vero confidente, perché oltre il filo c'è qualcuno che comprende il nostro stato d’animo, qualcuno che, come noi, condivide le nostre stesse ansie, che ha i nostri stessi desideri.
    Così la comunicazione via cavo diventa protagonista assoluta in un film del 1995 dello statunitense Hal Salwen, Hallo Denise (1995). Incontri, scontri, rappacificazioni, amori, litigi e feste, tutto avviene tramite il telefono. Una ragazza combina un incontro tra due suoi amici che non si conoscono, ma per mancanza di coraggio i due non si presentano all’appuntamento, poi si chiamano per scusarsi reciprocamente e così nasce l’amore. Ma non è uno sguardo né un sorriso che fa scattare la passione, ma il trillo dell’apparecchio. Dunque tutto si realizza via cavo: la conoscenza, l’innamoramento... fino all’atto sessuale: gemiti, sospiri e descrizioni eccitano a tal punto emittente e destinatario da non avere bisogno d’incontrarsi fisicamente. Anche un parto e un funerale sono vissuti al telefono. In questa simpatica parodia della vita moderna, l’amara sensazione che il film lascia è quella dell’incapacità dei giovani di vivere davvero, di uscire allo scoperto e di prendersi in prima persona le proprie responsabilità.
    Più realistica è la presenza del telefono nel film di Cameron Crowe, Singles-L’amore è un gioco (1992).
    L’attesa snervante di una chiamata che precede l’incontro, prepararsi ogni tipo di domanda e di risposta a seconda di come va la conversazione, passeggiare per casa facendo finta che il telefono sia già squillato e si sia in conversazione, ma all’atto pratico, dopo tante prove di scioltezza, balbettare qualche stupida frase quando il telefono trilla realmente. E al termine della comunicazione rialzare immediatamente la cornetta per comunicare per filo e per segno all’amica del cuore il preciso contenuto della conversazione. Diviso in episodi che raccontano le intricate storie d’amore di adolescenti ad oltranza, il film è una descrizione schietta e sincera che, seppur priva di grandi trovate originali, è molto aderente alla realtà come nel citato rapporto con l’amato telefono.
    Anche Alex, protagonista di Jack Frusciante, incontra per la prima volta la ragazza che gli farà cambiare vita proprio grazie ad un appuntamento telefonico, seguito però da un ravvicinato incontro sotto i portici nel centro di Bologna, che rende tutto molto più reale. Alcune volte il telefono non è usato come mezzo di comunicazione, ma come semplice ricerca di qualcuno che non si ha il coraggio di avvicinare.
    Le telefonate anonime, gli squilli senza risposta, hanno quasi sempre come emittente qualcuno che non ha il coraggio sufficiente per esporsi, per parlare. L’incertezza, l’inadeguatezza del proprio aspetto fisico che caratterizza questa tappa della vita, trova rifugio nel telefono che difende dall’incontro diretto. Il desiderio di barricarsi dietro una cornetta, perché la voce può trarre in inganno, può farci apparire diversi da quello che siamo: sicuri, disinvolti, spigliati. Ma l’incontro vis à vis... quello no! Ci scopre, ci rende vulnerabili, mette a nudo tutta la nostra insicurezza.
    In Senza pelle di Alessandro D’Alatri, di cui abbiamo già parlato precedentemente, Saverio è un ragazzo ritardato innamorato di Gina, ma non ha il coraggio di avvicinarla; ma venuto a conoscenza del suo numero di telefono la tempesta di chiamate senza avere la forza di parlare, solo ed esclusivamente per sentire la sua voce.
    Altre volte, questo fantastico mezzo di comunicazione riesce ad essere presente nella narrazione filmica anche senza apparire sul video. Un esempio esplicativo in questo senso lo troviamo nella già citata pellicola di Richard Linklater. I due protagonisti Celine e Jesse, per esprimere ciò che provano l’uno per l’altra, inscenano un finta telefonata ai due loro amici del cuore. Mentre si trovano seduti al tavolo di un ristorante, l’uno interpreta la parte di se stesso e l’altro dell’amico che riceve la telefonata; in questo modo i due ragazzi hanno la possibilità, barricandosi dietro la finzione scenica, di farsi delle reciproche domande, e darsi delle risposte, chiarendosi così l’un l’altra quale grande emozione hanno provato incontrandosi... magia di una telefonata!!!
    La possibilità che tutti i mezzi di comunicazione hanno è di riuscire a raggiungere una ampia fetta di pubblico che spesso, se dotato di capacità critica, riesce a trarne delle conclusioni, degli stimoli. Sarebbe bello e molto importante che educatori, genitori, insegnanti e tutti coloro che hanno a che fare con i giovani, riuscissero a riflettere su quanto sia difficile il periodo dell’adolescenza, quanti e quanto grandi sembrano gli ostacoli da superare. Il cinema, con la sua possibilità di descrivere, di raccontare e di mostrare storie, vere o frutto della fantasia, può farci uscire fuori da noi stessi immergendoci completamente nell’esistenza di qualcun’altro, anche solo per un paio di ore. Quando questo altro poi è un adolescente con i suoi problemi e con le sue ansie, un buon film può aiutarci a ricordare quello che siamo stati e a capire meglio i giovani che ci camminano accanto.


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