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    “Perché mi cercavate?”

    Debitori del Vangelo

    ai giovani

    Lettera Pastorale alla Diocesi di Piacenza-Bobbio per l’Anno 2004­2005

    Luciano Monari


    Perché mi cercavate?

    «[41]I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. [42]Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l’usanza; [43]ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. [44]Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; [45]non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. [46]Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. [47]E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. [48]Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo. [49]Ed egli rispose: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio? [50]Ma essi non compresero le sue parole. [51]Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. [52]E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2, 41–52).

     

    “Debitori del Vangelo ai giovani”

    Tenendo fisso lo sguardo su Gesù

    1. Narra il vangelo di Luca che ogni anno i genitori di Gesù, seguendo l’uso di tutti gli Israeliti religiosi, si recavano al tempio per la festa di Pasqua. Non si trattava solo di seguire una tradizione antica ma piuttosto di rinnovare, attraverso il pellegrinaggio, la memoria delle grandi opere con le quali Dio aveva fatto esistere il popolo di Israele e aveva stabilito con lui un legame di alleanza. Da questa memoria dipendeva l’identità religiosa e culturale dell’Israelita, il senso di comunione e di solidarietà che lo legava a tutte le tribù e i clan di Israele, l’attesa fervente di una salvezza futura che era stata promessa da Dio e verso la quale Israele si protendeva con tutto il suo desiderio. Questo pellegrinaggio della intera famiglia rivestiva anche un chiaro significato educativo nei confronti dei figli. Faceva parte dei compiti di tutti i genitori ebrei trasmettere ai propri figli quella conoscenza del passato necessaria per riconoscere l’azione di Dio nella propria vita. Come si legge in un Salmo:

    «[3]Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato, [4]non lo terremo nascosto ai loro figli; diremo alla generazione futura le lodi del Signore, la sua potenza  le meraviglie che egli ha compiuto» (Sal 78, 3­4).

    Nella stessa logica al popolo, testimone dell’esodo è detto:

    «[9]Ma guardati e guardati bene dal dimenticare le cose che i tuoi occhi hanno viste: non ti sfuggano dal cuore, per tutto il tempo della tua vita. Le insegnerai anche ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli» (Dt 4,9).

    I genitori trasmettono questa memoria sia con l’insegnamento e la testimonianza di ogni giorno sia celebrando insieme ai figli quelle feste che ricordano i momenti chiave della storia e della salvezza d’Israele. Il pellegrinaggio a Gerusalemme in occasione della Pasqua è uno dei momenti più preziosi e solenni. Portando con sé il piccolo Gesù, Maria e Giuseppe lo introducono nella memoria del popolo ebraico facendolo partecipare attivamente alla festa di Pasqua coi suoi riti, i suoi racconti, i suoi simboli.

    2. Ma quell’anno – Gesù aveva compiuto dodici anni – accadde qualcosa d’imprevisto: al termine della festa:

    «[43] (…) mentre (i genitori insieme agli altri pellegrini) riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. [44]Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; [45]non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. [46]Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. [47]E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte» (Lc 2,43­47).

    Dodici anni rappresentano, per un ragazzo ebreo, la maturità religiosa con il diritto di proclamare la Parola di Dio nell’assemblea sinagogale e il dovere di osservare responsabilmente la Torah. È un momento magico, quindi, un traguardo atteso: il ragazzo non vive più solo di riflesso la religione dei genitori ma diventa membro attivo della comunità d’Israele.

    La scena di Gesù in mezzo ai dottori, cioè a coloro che hanno dedicato tutta la loro vita allo studio e alla conoscenza della Torah, dice l’interesse che il ragazzo nutre per la parola e la volontà del Padre. È l’anticipo di quello che Gesù dirà esplicitamente ai suoi discepoli:

    «[34] (…) Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4, 34).

    L’intelligenza delle domande e delle risposte di Gesù, un’intelligenza che suscita meraviglia negli ascoltatori, dice la misteriosa sintonia che comincia a manifestarsi tra questo ragazzo che viene da un borgo oscuro della Galilea e il mistero di Dio.

     

    Figlio, perché ci hai fatto così?

    3. Lo stupore degli ascoltatori diventa, per i genitori, anche sconcerto. Non si sarebbero mai aspettati un comportamento simile da parte di Gesù. E Maria lo fa notare apertamente:

    «[48] (…) Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2, 48b).

    Vale la pena osservare le parole precise di questo intervento delicatissimo di Maria.

    L’appellativo “figlio” ricorda in primo luogo l’amore premuroso dei genitori per lui; proprio questo affetto rende quanto mai dolorosa questa loro esperienza. Ma nello stesso tempo sottolinea la condizione di Gesù: per quanto responsabile nella sfera religiosa del suo rapporto con Dio egli rimane figlio, e quindi sottomesso ai genitori in tutta la sfera dei rapporti sociali.

    «(…) perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo. Il rimprovero è delicato e nello stesso tempo preciso. Mentre Giuseppe e Maria stavano cercando Gesù e non potevano che vivere questa ricerca “angosciati”, lui, Gesù, stava inseguendo un suo desiderio, una sua pista di esistenza senza preoccuparsi di loro; sembra un’indifferenza difficile da capire e Maria la sottolinea: perché ci hai fatto così? Come a dire: contiamo così poco per te che tu non ti preoccupi della nostra serenità? Nello stesso tempo la forma interrogativa del rimprovero aggiunge una sfumatura preziosa, quasi che Maria non se la senta di esprimere un giudizio assoluto sul fatto e preferisca lasciar aperta la via per una spiegazione che riannodi i fili scompigliati della trama e ricomponga la corretta relazione: padre – madre – figlio.

    Perché mi cercavate?

    4. E di fatto la spiegazione viene data: “Perché mi cercavate – risponde Gesù a sua madre – non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio”. I genitori erano sorpresi per l’atteggiamento di Gesù; Gesù appare sorpreso per l’atteggiamento dei genitori. Sono le prime parole di Gesù che il Vangelo riporta e sono parole programmatiche, che rivelano in germe il mistero di una vocazione. Gesù non contrappone una sua volontà autonoma a quella dei genitori, come se dicesse: “Ormai sono maggiorenne e faccio quello che voglio”. Al contrario, egli esprime la decisione ormai irrevocabile di dedicarsi alla volontà del Padre, quella volontà alla quale i genitori stessi sono consacrati. C’è dunque una consonanza di fondo che sta prima delle prese di posizione particolari: sia Gesù che i suoi genitori cercano di fare la volontà di Dio anche se, nel caso preciso, Gesù intravede una volontà divina dove i suoi genitori rimangono ancora perplessi e incerti. Ascoltiamo subito dove porterà questo atteggiamento di Gesù:

    «[38] (…)  Io sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6, 38).

    Si capisce bene che di là dei rapporti terreni di parentela ciò che conta, per Gesù, è il legame con quel Dio che egli chiama “Padre” in modo unico; tutto si decide nella relazione con Lui.

    5. Anche la conclusione del racconto è sorprendente: «[50]Ma essi (Maria e Giuseppe) non compresero le sue parole. [51]Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. [52]E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2, 50–52).

    Dunque i genitori non hanno capito tutto; c’è un’intimità tra Gesù e il Padre nella quale nemmeno Maria e Giuseppe riescono a entrare. Per questo è necessario che Maria “serbi tutte queste cose nel suo cuore” meditandole sempre di nuovo fino a che parole e gesti di Gesù fioriscano dentro di lei e la conducano a quella comprensione di fede che la porterà ai piedi della croce e nel Cenacolo. Interessante, però, è notare che Gesù torna a Nazaret sottomesso ai suoi genitori. Anche se egli percepisce la sua verità in relazione con il Padre meglio di loro, sta loro sottomesso. Non si potrebbe dire più chiaramente che l’obiettivo di Gesù non è la sua autoaffermazione, ma l’obbedienza a Dio. Siamo di fronte a una duplice obbedienza: quella dei genitori che desiderano mettersi al servizio del disegno di Dio sul loro figlio; e quella del figlio che si sottomette ai genitori per compiere la volontà di Dio su di lui. In questo modo, dice Luca, «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2, 52).

     

    Il primato della formazione e la pastorale giovanile

    6. Vogliamo tenere davanti agli occhi del cuore questo episodio del Vangelo nel momento in cui cerchiamo di riflettere sulla pastorale giovanile nella nostra Chiesa piacentina e bobbiese. Ci sembra, infatti, che il compito della Chiesa nei confronti dei giovani possa essere ben illuminato dalla contemplazione dell’atteggiamento di Maria e Giuseppe verso Gesù. Con il loro comportamento Maria e Giuseppe cercano di inserire il ragazzo Gesù entro l’esperienza di fede del popolo d’Israele. E che altro è la pastorale giovanile se non tutto quel l’intreccio di attività attraverso le quali la Chiesa cerca di iniziare i ragazzi che crescono alla esperienza di fede, al rapporto con il Signore, alla visione del mondo e della vita che nasce da questa esperienza e alla prassi che la traduce in comportamenti concreti? In questo senso la Chiesa è Madre: essa, nel Battesimo, genera i credenti alla vita nuova della comunione con Dio, poi con l’annuncio e la celebrazione li accompagna nel loro cammino di discepoli.

    Come comunità ecclesiale, ci riconosciamo nel pellegrinaggio pasquale che Maria e Giuseppe compiono insieme con Gesù. Vorremmo anche noi riuscire a introdurre i giovani allo splendore, alla gioia, alla libertà che scaturiscono dalla Pasqua di Gesù. Anche il nostro cuore, come il loro, è nell’angoscia quando abbiamo la percezione di avere “smarrito” i giovani, l’impressione che essi non camminino più con noi, che non gradiscano la nostra compagnia e non apprezzino il dono incredibile del Vangelo e dell’Eucaristia. Le parole di Maria a Gesù assomigliano a quelle di tanti genitori ai figli adolescenti, assomigliano a quelle della Chiesa stessa: “Figlio, perché ci hai fatto cosi?’”. Leggere questa nostra esperienza con le sue delusioni alla luce delle parole del Vangelo ci aiuta a metterci nell’atteggiamento giusto, a interrogarci sul disegno di Dio nei confronti dei giovani d’oggi. E dovrebbe aiutare anche i giovani a interrogare se stessi e a riconoscere con lucidità il perché di tanti loro rifiuti. Sono davvero il risultato di una ricerca appassionata della volontà di Dio? O esprimono solo una ricerca esasperata di autonomia? C’è in essi il desiderio sano di comprendere e seguire la propria strada o solo quello di non dover rispondere a nessuno delle proprie scelte, di non avere confronti scomodi? E noi, Chiesa, siamo stati sensibili e accoglienti nei confronti delle loro domande, e interpreti aperti di quanto intendono comunicare di là delle parole? Forse il Signore sta chiedendo una conversione profonda alla Chiesa e ai giovani. Alla Chiesa una conversione che la renda più trasparente e accogliente, più capace di manifestare la presenza e lo stile di Gesù; ai giovani una conversione che permetta loro di guardare con passione al mistero singolare della loro vita, li renda attenti a percepire l’appello del Vangelo come esperienza di grazia e di libertà.

     

    Di generazione in generazione

    7. La trasmissione della fede da una generazione all’altra è sempre stata difficile, ma oggi l’incomunicabilità tra le generazioni sembra essere diventata ancora più problematica e non di rado gli adulti stessi rinunciano a educare: i padri e le madri che, contro tutte le indicazioni dell’anagrafe, rinunciano a essere quello che sono e s’illudono di poter diventare “amici” dei figli; gli insegnanti che vorrebbero poter essere semplici informatori senza dover rispondere ai ragazzi della loro coerenza personale, della loro maturità. Nella Chiesa è usuale innalzare lamenti per l’esito deludente dell’iniziazione cristiana. In questi anni è stato fatto uno sforzo grande per il rinnovamento della catechesi, eppure a questo sforzo non corrispondono risultati effettivi. Si ha l’impressione che l’iniziazione cristiana con tutto il complesso di catechesi e di celebrazioni sia solo un dovere subito controvoglia, dopo il quale il cammino dei ragazzi e dei giovani prende più volentieri strade lontane dalla Chiesa. Come non rimanere sconcertati? “Figlio, perché ci hai fatto così?’”. In realtà, sarebbe ingiusto attribuire tutte le difficoltà al modo in cui l’iniziazione cristiana viene proposta. Viviamo in una cultura soggetta a continui mutamenti. La proposta cristiana soffre una crisi di persuasività e di incisività. Non c’è da meravigliarsi perciò se gran parte dei giovani non si riconosce nel cammino ecclesiale e cerca altre forme di introduzione al mistero dell’esistenza. Ma è altrettante vero che non possiamo tranquillizzarci con queste riflessioni. Siamo convinti che il vangelo di Gesù sia «potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede» (Rm 1, 16), quindi per i giovani come per gli adulti; siamo convinti che la fede cristiana costituisca per l’uomo uno sprone efficace per affrontare in modo positivo la sfida della vita. E quindi non possiamo nasconderci né arrenderci di fronte alle difficoltà e ai rifiuti. Siamo debitori del Vangelo anche ai giovani; direi, soprattutto ai giovani.

    8. C’è nel vangelo una bellissima scena, quando Gesù, dopo aver attraversato il lago di Tiberiade coi suoi discepoli, sbarca sulla riva orientale e lì:

    «[34] (…) vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose» (Mc 6, 34).

    Davvero abbiamo l’impressione che a molti oggi la vita appaia più come un peso a cui sottrarsi che come una possibilità. Ma il Vangelo è vita. Questo è lo stato d’animo che sta dietro a questa Lettera pastorale. Certo, la trasmissione della fede non potrà mai diventare un’azione “garantita”; si tratta sempre di un appello alla libertà delle persone e questa loro libertà va non solo rispettata, ma difesa, voluta, proclamata senza riserve. Bisogna valorizzare tutto quello che è in grado di produrre speranza e amore, di far vivere la persona e di rendere la sua vita feconda anche contrastando l’opera dei falsi maestri e di pastori mercenari. Non si può lasciare il campo dell’educazione a chi non ama e non rispetta l’uomo e la vita.

     

    Nodi problematici

    9. Sarebbe utile, a questo punto, fare una diagnosi accurata della società contemporanea e, al suo interno, del mondo giovanile. Ma un tale impegno supera le nostre possibilità. D’altra parte le analisi del mondo giovanile, spesso illuminanti, non mancano e possiamo far riferimento ad esse; avvertendo, però, che si tratta pur sempre di analisi “fluide”, sottomesse a mutamenti veloci; è reale il rischio di fotografare la realtà del mondo giovanile in modo statico senza riuscire a coglierne le trasformazioni continue. Ci limitiamo, allora, ad indicare alcuni nodi problematici con i quali deve confrontarsi oggi la pastorale giovanile allo scopo di cogliere le risorse sulle quali tale pastorale può contare.

    La stragrande maggioranza dei giovani della nostra Diocesi ha compiuto il cammino dell’iniziazione cristiana in parrocchia. In realtà ci troviamo di fronte a giovani che hanno bisogno di un percorso che permetta loro di riprendere, rinnovare, accrescere, a misura della loro età, il dono che li ha segnati. Con sempre maggior chiarezza emerge però anche la necessità di un deciso rinnovamento del percorso dell’iniziazione cristiana (IC). Dunque il cammino di iniziazione cristiana è stato inutile? Non ha lasciato segni duraturi nella coscienza di questi giovani? E perché? La riflessione sull’IC è ampia oggi nella Chiesa: si pensi soprattutto ai tre documenti della CEI relativi ai cammini di fede secondo le diverse età e situazioni e alle diverse proposte di sperimentazione in atto nella Chiesa italiana e nella nostra Diocesi. Ma di questo ci occuperemo nel Programma pastorale del prossimo anno.

    D’altra parte siamo costretti a fare i conti con la scarsità delle persone che si dedicano concretamente all’accompagnamento dei giovani. La prima osservazione macroscopica riguarda il calo verticale del numero di preti giovani incaricati di seguire ragazzi e adolescenti. Solo poche grandi parrocchie hanno preti giovani nel loro organico e questo riduce e impoverisce inevitabilmente gl’interventi possibili. E anche il numero di laici competenti e disponibili ad accompagnare i giovani è limitato. Per questo alcuni oratori sono in affanno e non riescono a proporre autentici progetti educativi; e anche il numero di gruppi giovanili che si ritrovano con continuità per riflettere e pregare insieme non è elevato. Insomma dobbiamo rilevare una carenza numerica e qualitativa negli operatori pastorali del mondo giovanile.

    Questo è tanto più grave perché solo un numero elevato di educatori preparati potrebbe garantire l’offerta ai giovani di itinerari di crescita nella fede. E senza questi itinerari ogni proposta rischia di rimanere sterile. Tanto più che avremmo bisogno di offrire itinerari differenziati, che rispondano in modo adeguato alle esigenze delle diverse persone. È evidente, infatti, che il punto di partenza dei giovani non è lo stesso e ogni serio itinerario di fede dovrebbe tenerlo presente.

     

    Un silenzioso divorzio

    10. Si è verificato una specie di “silenzioso divorzio” tra i giovani e la Chiesa, un atteggiamento di distacco intellettuale ed affettivo. Spesso la Chiesa è già etichettata prima ancora che inizi a parlare. Da una parte c’è un’estraneità nei confronti del pensiero cristiano. Il termine “dogma”, ad esempio, è usato con disprezzo come se indicasse un’affermazione arbitraria che si presenta come assoluta e non accetta di essere verificata liberamente. Agli occhi di molti la Chiesa sembra ancora il regno dell’oppressione intellettuale e dell’autoritarismo gerarchico; chi entra a far parte di essa deve rinunciare a ogni pensiero autonomo e ad ogni esercizio della libertà. La “morale cattolica” o “il pensiero della Chiesa in campo morale” appaiono blocchi monolitici di affermazioni che hanno la caratteristica di essere infondate, immotivate e oppressive. Il cosiddetto “oscurantismo cattolico ed

    ecclesiale” ha un peso significativo nei pregiudizi culturali del nostro tempo e contribuisce a squalificare il pensiero cristiano prima di un’analisi obiettiva.

    Ma, di là delle precomprensioni errate, è l’immagine della Chiesa in quanto tale che fa difficoltà ai giovani. Invece dell’immagine di Chiesa madre che genera alla fede con l’annuncio del Vangelo, con la celebrazione dei Sacramenti e che continua a offrire all’uomo l’amore che viene da Dio, in molti prevale l’immagine di un’istituzione “senza cuore” e “senza flessibilità”, incapace quindi di comprendere le sfumature dell’esperienza personale e di rispondere alle necessità dell’uomo con autentico rispetto e amore. Anche la mole immensa di servizi alla persona che la Chiesa promuove non cambia di molto l’immagine diffusa della Chiesa; si riconosce che i cristiani fanno molte opere buone a favore delle persone in difficoltà, ma si stenta a far entrare questa consapevolezza nella figura della Chiesa che rimane in ogni modo scostante, matrigna più che madre. Parafrasando Leopardi, si potrebbe dire che a molti la Chiesa appare senza una vera dimensione umana libera per cui quando essa opera a favore dell’uomo lo fa senza una vera attenzione alla persona; e quando col suo pensiero o la sua prassi opprime l’uomo lo fa non perché odi l’uomo, ma semplicemente per disattenzione: la Chiesa è attenta alle sue regole e alle sue idee e fa tutto in riferimento a queste.

    C’è naturalmente esagerazione in quanto stiamo dicendo; ma l’esagerazione è necessaria perché siamo di fronte non a un problema di idee che dovrebbero essere prima definite e poi valutate, ma a un problema di immagini che, per natura loro, sono sfumate, fatte non solo di forme definite ma anche di colori, di atmosfere, di rumori... per cui molte volte nemmeno si è consapevoli della propria visione della Chiesa.

    Non è facile combattere contro le “immagini”. Un’idea errata di Chiesa può essere definita con precisione e combattuta con efficacia attraverso argomenti precisi. Ma un’immagine è difficile da “smontare”; bisogna sostituirla con un’immagine alternativa e questo è un processo che avviene non con un semplice ragionamento per quanto motivato, ma attraverso un cumulo di esperienze che poco alla volta configurano un’immagine nuova e alternativa. Nello stesso tempo bisogna costruirsi una capacità di analisi critica delle immagini che regolarmente ci vengono proposte dai mezzi di comunicazione. Per questo si tratta di un processo lungo; ma è necessario essere consapevoli del problema per coglierne la presenza in tanti atteggiamenti delle persone e per rendere conto dell’inefficacia concreta di tanti nostri ragionamenti pur corretti.

    Tra i nodi intricati da sciogliere indichiamo ancora un motivo che rende difficile l’annuncio della salvezza che viene dal Vangelo. Come è stato più volte notato con acutezza, la nostra società ha preso l’esperienza del “consumo” come il simbolo e l’origine più efficace della sua identità. L’uomo d’oggi tende a concepirsi come un “soggetto di consumo”; l’identità dell’uomo gli è data esattamente da quei prodotti di consumo che egli desidera e, in parte, compera e usa. Va notato, infatti, che il consumo non è più semplicemente l’azione con cui uso le cose che mi servono per vivere; piuttosto la vita è pensata come una grande possibilità che si attua attraverso i diversi consumi. L’effetto di tutto questo è che tutte le dimensioni dell’esistenza umana assumono la forma e la struttura del consumo. È una specie di “effetto boomerang” che si verifica spesso nell’esistenza dell’uomo: il consumo ha permeato tutte le dimensioni dell’esistenza umana e di conseguenza tutte le dimensioni dell’esistenza umana hanno assunto la forma del consumo.

    Diventa allora consumo anche l’amore umano nel senso che la formula dell’amore non è più: “Ti amo e quindi mi prendo cura di te, della tua felicità”, ma: “Mi piaci e quindi vivo il piacere di stare con te fino a quando la tua presenza mi soddisferà”. Quest’ultima formula è quella propria del “consumatore”, ma ormai la usiamo in tutte le dimensioni della nostra esistenza rendendole così effimere, fungibili, sostituibili come gli oggetti di consumo. Si pensi anche alla dimensione religiosa: la tendenza alla “religione fai da te” così caratteristica dell’uomo d’oggi viene dalla stessa logica di consumo. La religione non è più il luogo del rapporto personale con Dio; è invece un oggetto di consumo che mi garantisce alcune soddisfazioni altrimenti irraggiungibili.

    Si capisce che in una temperie culturale di questo tipo sia enormemente difficile annunciare un Vangelo che pretende di essere sorgente unica di salvezza. Come gl’Israeliti al tempo di Elia, anche l’uomo d’oggi fa fatica a capire e ad accettare l’alternativa secca che il Vangelo gli pone di fronte:

    «[21] (…) Fino a quando zoppicherete con i due piedi? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui! Il popolo non gli rispose parola» (1 Re 18, 21).

    Un altro aspetto in cui la cultura giovanile d’oggi sembra farsi impenetrabile all’annuncio del Vangelo riguarda il futuro. Fino a qualche decennio fa il futuro appariva come il tempo delle promesse e i giovani lo attendevano con speranza, fiduciosi di poterlo affrontare e di poter trovare nel futuro quello che costituiva il loro desiderio. Oggi, osservano i sociologi, non sembra più così. Molti giovani vedono il futuro come una minaccia: l’incertezza del lavoro, la globalizzazione con le sue dinamiche che sfuggono al controllo, il confronto con culture diverse e stili di vita diversi, la fragilità di tutti i rapporti umani cospirano per costruire un contesto d’incertezza di fronte alla vita. Non c’è niente di sicuro, niente su cui poggiare l’esistenza. Per cui prepararsi alla vita finisce per essere inteso come armarsi per affrontare le sfide che gli altri e la vita rappresentano. I rapporti con gli altri, anche quelli più intimi, non riescono a essere immuni da sospetto, da paura, da aggressività che sono modi di difendere se stessi e il proprio futuro.

     

    Rischiare il gesto del dono

    11. Come rendere credibile l’annuncio dell’amore di Dio in un contesto del genere? Come chiedere un impegno di fedeltà a Dio senza riserve e senza pentimenti? L’esistenza cristiana chiede di fare credito all’altro, di rischiare il gesto del dono con la speranza che esso susciti una risposta altrettanto generosa, ma senza nessuna garanzia previa. Da una parte nella nostra cultura permane un bisogno immenso del Vangelo che salva dalla spirale del cinismo, dalla sfiducia e dall’aggressività; dall’altra in essa c’è una tendenza ad opporsi profondamente allo stile cristiano o a considerare la gratuità come irrazionale e la speranza a lungo termine come illusoria. Per fortuna non ci sono davanti a noi solo difficoltà e ostacoli. È giusto renderci conto anche delle risorse su cui possiamo contare per trasmettere ai giovani il Vangelo. La consapevolezza di queste risorse ci libera da ogni sconforto e ci permette di ricominciare sempre daccapo, ostinati, l’opera dell’Evangelizzazione.

    12. La prima risorsa è il Vangelo stesso! Che, come scrive san Paolo:

    «[16] (…) è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco» (Rm 1, 16).

    Il Vangelo non è solo una bella idea, è Dio stesso all’opera nella storia del mondo. Non sappiamo attraverso quali vie passa il Vangelo per raggiungere tutti gli uomini, ma sappiamo che ormai questa dinamica di salvezza è stata immessa nella storia e che non ci sono forze in grado di estrometterla. Nel Vangelo si rivela il disegno di Dio sul mondo e se le tappe di questo disegno ci rimangono ignote, il suo contenuto, la sua meta ci sono chiari. Il contenuto è Cristo; la meta è quel regno di Dio nel quale Dio «sarà tutto in tutti» (1Cor 15, 28).

    Questa consapevolezza ci impedisce di lasciarci schiacciare dalle difficoltà. Portiamo «un tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4, 7); se dunque la povertà di quei vasi che siamo noi stessi può umiliarci, la preziosità del tesoro di cui siamo portatori ci consola e ci conforta. Valgono per noi le parole di Paolo:

    «[8]Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; [9]perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi» (2 Cor 4, 8–9).

    Ancora:

    «[10]afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!» (2 Cor 6, 10).

    A noi viene chiesta la costanza del seminatore che continua a gettare il seme anche di fronte a

    tanti fallimenti: il seme sulla strada, quello tra i sassi, quello tra le spine (...) tanti insuccessi; eppure basta quel poco seme che cade su terra buona per ripagare di tutte le fatiche e per compensare tutti i fallimenti (cfr. Mt 13, 3–9). Il vangelo di Gesù è buono: basta questo per ridarci sempre di nuovo la gioia di testimoniarlo.

    13. La seconda risorsa, naturalmente, sono i giovani stessi con il loro desiderio di vita e di felicità. L’uomo è costituito in modo da trascendere se stesso. Lo fa attraverso l’apertura della sua conoscenza al mondo, quando è conoscenza vera che “morde” la realtà effettiva; lo fa con l’apertura all’amore di se stesso, del mondo, degli altri. Il cammino dell’amore è un itinerario di superamento di sé, dei propri interessi che porta all’incontro all’altro prendendosene cura. E infine l’uomo supera, trascende se stesso quando apprende ad amare Dio con tutto il cuore con tutta l’anima, con tutte le forze. Proprio nell’amore di Dio l’autotrascendenza dell’uomo, il suo autosuperamento raggiungono il compimento pieno. Questa “forma” dell’esistenza umana fa sì che l’uomo non si accontenti mai di ciò che possiede, ma si proietti sempre di nuovo alla ricerca degli altri, dell’Altro; che l’esistenza dell’uomo sia essenzialmente creativa, desiderosa di immettere un frammento di vita nuovo, originale nel contesto del mondo. Per fortuna, l’uomo non si accontenta di meno. Il consumismo può essere attraente, il permissivismo allettante, l’aggressività rassicurante ma l’uomo non riuscirà mai a trovare la propria quiete e serenità nel possesso, nel lasciarsi andare, nell’affermarsi sopra gli altri. Abbiamo fiducia in questa struttura dell’esistenza umana e siamo convinti che farà sempre udire la sua voce.

    Questa dimensione è presente in modo particolarmente vivo nei giovani per il loro desiderio immenso di creare, di porre dentro al mondo qualcosa di nuovo. Ogni uomo, e soprattutto il giovane, è l’artista della sua vita; ogni uomo è chiamato a creare un’opera d’arte con quel materiale concreto di cui dispone. Credo che la pastorale giovanile debba fare leva su questa caratteristica dell’età giovanile perché solo i giovani stessi possono diventare protagonisti del loro cammino di maturazione e di amore. Credere nei giovani significa proprio questo: credere che in loro c’è un impulso irresistibile che li conduce verso il mondo e verso Dio. Nel Vangelo, che è il venirci incontro di Dio stesso, questo impulso profondamente umano viene manifestato, purificato, orientato, irrobustito. Potessimo essere capaci di mostrare che il Vangelo non mortifica l’uomo ma ne rispetta e valorizza tutta la ricchezza!

    14. Una terza risorsa su cui contare si richiama a quell’esperienza di Pastorale giovanile che ha, nelle nostre parrocchie, una tradizione antica. Si pensi ai gruppi giovanili presenti in alcune parrocchie e che sono sempre stati luogo di maturazione personale, di incontro con gli altri. In particolare facciamo riferimento all’Azione Cattolica con i programmi formativi offerti ai gruppi giovanili parrocchiali; alle diverse strutture oratoriali, ai campeggi estivi, alle esperienze di volontariato, all’impegno dei gruppi missionari. Si pensi poi all’esperienza dell’AGeScI e più recentemente al cammino dei nuovi movimenti ecclesiali. Non partiamo da zero: dobbiamo solo prendere coscienza di ciò che è sempre stato fatto e confrontarlo in modo rigoroso con la situazione attuale, con le forze disponibili per riuscire a fare programmi pastorali che siano efficaci.

     

    La Pastorale ordinaria e la Pastorale giovanile

    15. Ma che cosa intendiamo con l’espressione “Pastorale giovanile”? Intendiamo, molto semplicemente, il complesso di tutte quelle attività attraverso cui la comunità cristiana trasmette alle nuove generazioni la propria esperienza di fede in Gesù: l’annuncio della Parola, la celebrazione dell’Eucaristia e dei Sacramenti e l’esperienza di Chiesa, cioè della comunione che si stabilisce tra tutti i credenti. Questo è il contenuto della pastorale; e se la pastorale vuol essere  “giovanile” ci si deve chiedere come coinvolgere i giovani in questa esperienza. Ma prima credo si debba fare una premessa importante.

     

    La fede come inizio

    L’esistenza cristiana non si presenta come una costruzione umana creata per rispondere al bisogno religioso della persona, anche se questo bisogno naturale esiste e costituisce la struttura fondamentale su cui s’innesta l’annuncio del Vangelo. Il cristianesimo pretende di avere origine dalla rivelazione di Dio. È Dio che ha preso l’iniziativa e si è rivelato all’uomo con eventi e con parole; è Dio che ha mandato il suo Figlio, Gesù Cristo, perché con la sua stessa presenza, con parole, gesti e soprattutto con la sua morte e resurrezione ci rivelasse l’amore infinito del Padre e ci chiamasse a una vita di comunione con Lui.

    Questo significa che l’educazione alla fede non va pensata come la costruzione di un edificio dove tocca all’uomo pensare e attuare ogni elemento del progetto. Se così fosse, dovremmo partire dagli elementi primi e costruire poco alla volta: bisogno religioso della persona umana, esistenza di Dio, credibilità di Dio e così via fino a giungere alla Chiesa e ai diversi capitoli dell’etica cristiana. L’ottica corretta è un’altra. Dio ha rivelato se stesso nella creazione, nella storia di Israele e ultimamente in Gesù Cristo; la sua parola/azione ha prodotto nella storia una realtà concreta che è il suo popolo, cioè un frammento di umanità nel quale la parola di Dio è  stata accolta con fede e produce sentimenti, desideri, decisioni, comportamenti che sono la risposta umana alla parola preveniente di Dio. Nella vita di questo popolo continua a essere proclamata oggi la parola di Dio, a essere vissuta oggi la comunione con Dio. Si tratta, allora, di porre le generazioni giovani in contatto con questa rivelazione perché prendano posizione di fronte ad essa. Se si dovesse partire dal basso questa sarebbe l’ultima tappa di un lungo cammino intellettuale e morale; nell’esperienza della Chiesa invece questo è il primo passo a partire dal quale diventano possibili tutti gli altri. La decisione di credere o di non credere al Vangelo non è un “optional” che ciascuno può assumere o rifiutare secondo le sue preferenze; è piuttosto una risposta che siamo costretti a dare di fronte all’annuncio del Vangelo. La situazione è simile a quella di una ragazza che si sente dire dal suo ragazzo: “Ti amo e desidero sposarti”. A una dichiarazione di amore e a una proposta di vita insieme si è costretti a rispondere sì o no. Quello che non si può fare è voler essere padroni assoluti del rapporto in modo da gestirlo da soli, secondo le proprie preferenze: il rapporto è a due e lo si deve vivere come tale. La religione cristiana è rapporto con Dio nel modo che a Lui piace. Non è un edificio religioso che mi costruisco secondo i miei desideri e le mie necessità.

     

    La vita con Dio (...)

    16. Dobbiamo interrogarci su che cosa significhi declinare l’annuncio della Parola, la Celebrazione dei sacramenti, la vita Ecclesiale

    (...) annunciata dalla Parola

    Se Dio è un Dio personale, l’importanza della Parola nel rapporto con lui è fuori discussione. Non basta certo riflettere su Dio per conoscerlo; bisogna che Dio nella sua libertà si faccia conoscere, e questo avviene in primo luogo attraverso la sua Parola:

    «[1]Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, [2]in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1, 1–2).

    Ora, la parola di Dio non è solo un insegnamento su idee considerate importanti; è piuttosto la via d’ingresso a un rapporto personale con Lui. Attraverso un contatto perseverante con la Bibbia impariamo a pensare e agire la nostra vita come un’avventura di comunione con Dio, al suo cospetto:

    «Io sono El Shadday; cammina alla mia presenza e sii integro!» (Gen 17, 1).

    In concreto ci sono alcune categorie fondamentali che ci diventano familiari attraverso la lettura e l’ascolto costante della Bibbia e ci permettono di comprendere tutta la ricchezza del nostro rapporto con Dio. Enumero le più significative: creazione, benedizione, vocazione, elezione, fede, liberazione e salvezza, alleanza, legge di Dio, amore, comunione, peccato, giudizio, perdono e riconciliazione, promessa, speranza, compimento.

    L’esistenza di ogni uomo è una storia che ciascuno costruisce a partire dalle relazioni che egli intrattiene con la natura, gli uomini, la storia, se stesso. Il cristiano vive tutte queste relazioni come ogni altro uomo, ma le vive “di fronte a Dio” e non di fronte a un Dio qualsiasi, ma a quel Dio che si è rivelato nella storia d’Israele e che mi viene incontro nell’esperienza di Chiesa, quel Dio che ha la sua rivelazione esattamente nella Bibbia. Non è possibile vivere questa relazione senza conoscere la Bibbia e non è possibile prendere sul serio la Bibbia senza prendere posizione di fronte a quel Dio che in essa è annunciato.

    Vorrei spendere una parola sull’importanza delle “immagini” del rapporto Dio­uomo che la Bibbia ci offre. La Bibbia non è un libro di filosofia su Dio; è il racconto di un’esperienza di vita condotta davanti a Dio. Questo non significa che la vita di Israele o della Chiesa così come è testimoniata nella Bibbia siano senza contraddizioni. Queste esistono ma anch’esse vengono vissute, interpretate all’interno della relazione con Dio; diventano allora consapevolezza del proprio peccato, esperienza di giudizio, perdono, conversione. È proprio attraverso questa storia complessa che prendiamo coscienza di che cosa significhi vivere “con Dio” e interpretare la nostra stessa vita all’interno di questa relazione. E sono convinto che, quando qualcuno ha fatto l’esperienza di questa relazione, non la dimentica più. Questo non significa che sarà migliore degli altri, ma che non riuscirà più a vivere senza riferirsi a Dio, magari contestandolo, lamentandosi o disobbedendogli, ma sempre in relazione a Lui. Si pensi all’esperienza del Salmista:

    «[7]Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza? [8]Se salgo in cielo, là tu sei, e scendo negli inferi, eccoti» (Sal 139, 7ss).

    Questo è l’obiettivo che deve proporsi un annuncio del Vangelo ai giovani. Dovrà dunque essere un’iniziazione alla vita in comunione con Dio attraverso l’assimilazione delle immagini e delle categorie bibliche che permettono di interpretare ogni evento entro l’orizzonte aperto dalla rivelazione.

    Non sarebbe difficile mostrare come tutto quanto abbiamo detto trovi il suo compimento nella comunione amicale con Gesù e nel discepolato. Non solo Gesù ha portato a pienezza la rivelazione del volto di Dio come amore generoso e creativo, ma ci ha trasmesso questo stesso amore con tutta la sua vita; se ci viene chiesto quale sia il Dio in cui crediamo, possiamo rispondere semplicemente: guarda Gesù; Gesù è la traduzione del mistero di Dio in lingua e gesti umani. Chi comprende questa lingua e questi gesti entra nella conoscenza del mistero stesso di Dio. Insomma: la molteplicità delle parole che costituiscono la Bibbia trova il suo inveramento in quella parola definitiva che è Gesù stesso; la lunga e complessa storia della Bibbia ha la sua sintesi autentica nella vita, morte e resurrezione di Gesù:

    «[1]In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio (…) [14]E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria» (Gv 1, 1.14).

    Possiamo allora concludere: l’iniziazione alla Bibbia ha il suo compimento nell’iniziazione alla relazione con Gesù, nella forma del discepolato. Culmine di questa esperienza è quello che Paolo scriveva ai Galati:

    «[20] (…) non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20)

    Nell’annuncio della parola la cosa fondamentale è cogliere il rapporto stretto tra la Parola che viene annunciata e la vita concreta dei giovani. Quanto più numerosi e vari e profondi sono i legami che vengono stabiliti tra la parola e gli avvenimenti concreti della vita, tanto più salda diventerà l’adesione alla parola stessa. Se quello che crediamo non ha ripercussioni sul nostro modo concreto di vivere, oppure se il collegamento è solo esterno e superficiale, inevitabilmente la fede sarà percepita come un ornamento della vita; se invece si coglierà un legame strutturale tra ciò che si crede e ciò che si vive, allora diventerà difficile abbandonare la fede, anche nei momenti di prova e di crisi. Risulta importante allora individuare il collegamento tra le categorie bibliche menzionate e l’esperienza dei giovani. L’annuncio della creazione, ad esempio, si lega con la chiamata a dire di sì alla propria vita; l’esistenza, infatti, appare non come il prodotto di un caso anonimo, ma come il “sì” che Dio ha detto alla nostra vita; e i giovani, che fanno così fatica a dire un sì senza riserve, cordiale all’esistenza, possono trovare proprio nell’annuncio della creazione una motivazione profonda e salda che li riconcili col loro vissuto.

    Similmente la categoria biblica di vocazione dice che c’è un senso nella mia vita; che questo senso non esiste come una qualità scritta nel DNA, ma è piuttosto un senso che sono chiamato a costruire ogni giorno ponendomi sinceramente davanti a Dio con quello che sono: doti e limiti, esperienze e possibilità. Vale la pena insistere su questo punto. La “vocazione” non va intesa come un programma che Dio avrebbe steso per me e che starebbe fissato in un libro misterioso scritto con inchiostro indelebile. Questa immaginazione, che spesse volte nutriamo o alimentiamo, non è corretta; essa fa immaginare che un’esistenza di fede riuscita consista nell’esecuzione precisa di quel programma prestabilito da Dio e che debbo cercare d’indovinare a partire da segni incerti della mia vita. Dobbiamo piuttosto pensare alla vocazione come a una scelta personale, creativa, ma compiuta “davanti a Dio” cercando sinceramente una sintonia con Lui. Se la decisione che prendo in una certa situazione nasce da un’attenzione corretta alla realtà, da una consapevolezza precisa di quello che io sono, da una scala di valori che corrisponde a quelli rivelatimi nel Vangelo, entro l’orizzonte di vita e di speranza che mi è stato offerto dalla parola di Dio... allora posso dire che la mia scelta non esprime solo i miei interessi o le mie preferenze, ma risponde a quello che Dio mi sta chiedendo attraverso le circostanze della vita e attraverso la manifestazione di sé. Cogliere l’esistenza come vocazione significa valorizzare la sua sintonia col contesto cosmico e storico in cui vivo, alla presenza del mistero dell’Essere che ha assunto la figura del volto umano di Gesù.

    Riflessioni simili andrebbero fatte su tutte le altre categorie della rivelazione biblica. È un compito che vi invito a continuare.

    (...) celebrata nell’Eucaristia

    17. Accanto all’annuncio della Parola deve stare l’Eucaristia. Un punto fermo della Pastorale giovanile dovrà essere quello di condurre i giovani ad amare l’Eucaristia. Il motivo è evidente. Nell’Eucaristia è presente tutto il tesoro della vita cristiana. L’Eucaristia è il testamento di Gesù: quello che Gesù possedeva e che ha lasciato in eredità ai discepoli, alla Chiesa. Non una ricchezza materiale – e tuttavia qualcosa capace di far crescere un’esistenza umana gioiosa e libera; non un lascito culturale – eppure qualcosa capace di fondare l’edificazione di culture umanamente ricche. Nell’Eucaristia Gesù ci ha lasciato, nel segno “di un pane spezzato da mangiare e di un calice di vino versato da bere”, tutto se stesso: il suo amore, la riconciliazione e la comunione con Dio, la comunione fraterna. Tutto si trova condensato nel segno di quel “pane spezzato” e di quel “vino versato”. “Nel pane e nel vino” ci è data la vita concreta che Gesù ha speso per noi e per tutti gli uomini amando, soffrendo, morendo sulla croce. Dal punto di vista cristiano questo è il principio d’interpretazione di tutta la Scrittura, questa è la sorgente della Chiesa, il suo codice genetico, il nutrimento continuo, il principio di trasformazione permanente. Gli altri Sacramenti hanno qui la loro origine e ricevono da qui la loro forma.

    È fuori dubbio, quindi, che la pastorale abbia proprio nell’Eucaristia il suo punto di forza. Ma questo non significa che l’Eucaristia sia “tutto” e che la Pastorale giovanile debba avere l’Eucaristia come sua unica attenzione. I giovani sentono oggi la necessità di essere adeguatamente iniziati a celebrare l’Eucaristia in modo attivo e pieno. Vale la pena, allora, aiutarli a cogliere le dimensioni dell’Eucaristia intrecciate con la loro stessa esistenza. Provo a richiamare alcuni legami.

     

    Un intreccio a doppio filo

    18. Andare a Messa è la risposta ad un invito. Non si tratta di “decidere se andare a Messa o no”, ma di “rispondere alla convocazione di Dio”. L’ottica è notevolmente diversa: può sembrare che la prospettiva diminuisca la libertà della persona perché non mette al primo posto la decisione del soggetto, in realtà in questo modo la vita viene collocata su una base più vera: quella della relazione con Dio che precede i miei pensieri e le mie decisioni. Le conseguenze non sono da poco: se c’è una convocazione di Dio per me, vuol dire che la mia vita è preziosa, ha valore addirittura davanti al Creatore, al Mistero infinito dell’Essere. Ma non solo: sono convocato insieme con gli altri e questo significa che solo insieme con gli altri posso comprendere davvero me stesso e la mia vocazione.

    La Convocazione eucaristica è l’unica assemblea umana che inizia con la confessione dei propri peccati. Non c’è, in questo fatto, una chiara provocazione? Non è difficile sentire o leggere di accuse violente lanciate dagli uni verso gli altri; ma raramente incontriamo qualcuno che riconosce con sincerità e umiltà di essere lui peccatore, di avere lui sbagliato. L’Eucaristia insegna che riconoscere i propri errori non è segno di debolezza o di falsa umiltà; è piuttosto la condizione indispensabile per entrare in relazione con gli altri e poter costruire un’esistenza nuova. E fin che saremo sulla terra, avremo sempre bisogno di questo “uscire dal proprio peccato”.

    La “liturgia della parola” proclama che c’è una parola di Dio per me. Infinita è la distanza che separa il Mistero dell’Essere dalla mia povera vita; tanto grande che potrebbe apparire illusione il sogno di una parola di Dio rivolta proprio a me. E invece è proprio questo che è avvenuto. La Parola è uscita dal silenzio per farmi uscire dalla solitudine e aprire la mia esistenza al rapporto con Dio e con gli altri. Dobbiamo superare una visione puramente “didattica” della “liturgia della parola” e farla invece percepire come un momento di grazia, che può essere vissuto solo con stupore infinito.

    Il pane e il vino che vengono portati all’altare sono dono di Dio ma sono anche frutto della fatica dell’uomo. L’Eucaristia è dono immeritato di Cristo che ha dato la sua vita per noi; eppure, perché possa essere realizzata, essa richiede l’impegno e la collaborazione dell’uomo. All’altare, infatti, possiamo portare solo quei frammenti di vita che abbiamo ricevuto in dono dal Signore ma che noi abbiamo trasformato con l’impegno della nostra intelligenza e della nostra libertà.

    La grande preghiera eucaristica fa memoria di Gesù in obbedienza al suo comando:

    «fate questo in memoria di me» (1 Cor 11, 24).

    Proprio per la Parola efficace di Gesù “quel pane spezzato e quel vino versato” sono la vita di Cristo donata per noi e per tutti. Vale la pena ripeterlo: l’Eucaristia si fa con un pezzo di pane che è anche frutto della fatica dell’uomo; ma nell’Eucaristia quel pane, quella fatica umana diventa il corpo di Cristo donato “per noi”. Non è proprio questo il senso della vita cristiana, anzi il senso della storia umana e del cosmo intero? Già l’esistenza di ogni uomo è in se stessa un’opera di trasfigurazione, ma il culmine di questa trasfigurazione è quello che è avvenuto nella vita e nella morte di Gesù quando tutto il suo essere è diventato obbedienza a Dio e, nello stesso tempo, dono di sé al mondo. Non c’è trasfigurazione del mondo più profonda di quella che è avvenuta nella Pasqua di Gesù. Ebbene, nell’Eucaristia la trasfigurazione che Cristo ha operato nella sua vita ci viene donata perché anche la nostra vita, al seguito di Lui, si compia nella via dell’obbedienza e dell’amore. Quello che avviene nell’Eucaristia non è altra cosa da quello che ogni uomo è chiamato a realizzare.

    «[16]Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3, 16)

    Questo è davvero tutto. È consolante riconoscere che nel gesto sacramentale dell’Eucaristia c’è quello che tutti noi, con fatica, cerchiamo di costruire ogni giorno, e che l’Eucaristia è intrecciata a doppio filo con la nostra esistenza quotidiana, con la fatica d’imparare ad amare, con la gioia della fedeltà e l’amarezza del peccato. Si tratta di condividere con i giovani la fatica di entrare nella ricchezza del mistero eucaristico. Bisognerà quindi essere flessibili, pazienti e attivare tutti quei percorsi che possono aiutarci a cogliere l’intreccio fra l’Eucaristia e la vita. Naturalmente, bisognerebbe interrogarsi su come possa essere celebrata l’Eucaristia, perché il nostro stile celebrativo non diventi la causa della disaffezione di tanti, in particolare dei giovani.

     

    Il mistero della Chiesa e il ministero ordinato

    19. La difficoltà più grande nella trasmissione della fede cristiana ai giovani sta nel far percepire il mistero della Chiesa e la presenza essenziale in essa del ministero ordinato. Non che i giovani non capiscano o non apprezzino il valore della comunità. Nonostante l’individualismo dominante, e forse anche per questo, il desiderio di comunità è diffuso e vivo. L’uomo non è fatto per l’isolamento e quando percepisce di trovarsi in un ambiente amico si sente a suo agio, riesce a uscire da se stesso e comprende quanto sia straordinaria l’esperienza di comunicare con gli altri. Sotto questo aspetto, l’esperienza ecclesiale può essere attraente.

    Ma la Chiesa ha una sua struttura gerarchica nella quale il giovane fatica ad inserirsi. Può non farci caso per un po’, ma prima o poi gli toccherà fare i conti col prete, col vescovo, col Papa, con l’autorità gerarchica e allora sarà una crisi. Siamo abituati alla democrazia e in democrazia le autorità sono designate dalla base; nella Chiesa, no. Siamo abituati al primato della competenza e chi ha maggiore competenza possiede autorevolezza; ma nella Chiesa non è sempre così. Nella Chiesa l’autorità è gestita da persone che possiamo sperare abbiano competenza e godano del consenso della gente, ma che svolgono il loro servizio non per questi motivi, ma perché hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine. Perché i giovani sentano la Chiesa come la loro casa è necessario far percepire che essa è dono prima che struttura. Se la Chiesa fosse un’istituzione creata dagli uomini, sarebbe giusto che gli uomini determinassero le regole di funzionamento dell’istituzione e designassero chi deve dirigerla. Se la Chiesa fosse uno strumento per gestire il bisogno religioso della gente, sarebbe naturale che a dirigerla fossero coloro che si sono procurati una competenza particolare.

    In realtà la Chiesa è la “compagnia” che Gesù ha raccolto attorno a sé; essa continua a vivere delle parole e dell’amore che provengono da Gesù e che essa, riceve. Qualsiasi aspetto consideriamo della Chiesa dovremo sempre ricordare che la sua identità nasce dal suo rapporto con Gesù. È questo rapporto che dev’essere garantito. Oggi, all’inizio del terzo millennio, la Chiesa può vivere solo se riesce a toccare ancora la carne di Cristo, ad attingere ancora alla sua umanità. Il ministero ordinato esiste per questo. Gesù ha raccolto i Dodici attorno a sé; poi li ha mandati a predicare il Vangelo e chi credeva al Vangelo aderiva alla loro comunità che poco alla volta si è estesa su tutta la terra. Il legame tra le nuove comunità e gli apostoli e, attraverso gli Apostoli, con Gesù è garantito dall’annuncio dello stesso Vangelo, dalla Celebrazione degli stessi sacramenti, ma anche dalla presidenza di persone che hanno ricevuto, come gli apostoli, il mandato di predicare, di celebrare, di presiedere. Mandato che i primi Apostoli hanno ricevuto da Gesù, e che gli altri hanno ricevuto dagli Apostoli; la differenza è evidente ma in tutti i modi si tratta di stabilire un legame visibile, verificabile tra Gesù, la sorgente della vita e noi, i beneficiari della vita. L’imposizione delle mani è l’atto attraverso cui questa continuità viene realizzata. Accettare il ministero significa accettare che la Chiesa di oggi e di sempre tenga vivo il legame con la suo origine.

    Naturalmente questo richiede in coloro che hanno ricevuto l’imposizione delle mani un’umiltà grande. Essi non sono a capo della comunità cristiana perché sono migliori degli altri, ma appunto perché hanno ricevuto un mandato. Proprio perché la loro autorità è grande, essa è sopportabile solo se essi non ne fa un motivo di superiorità:

    «[9]Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini (…)[13] come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi» (1 Cor 4, 9.13).

    Solo se è vissuta in questo modo l’autorità apostolica può essere riconosciuta e accettata gioiosamente. L’umiltà, in questo caso, non è solo una virtù umana, ma è il segno della corretta comprensione della propria identità e del proprio servizio.

     

    I protagonisti della Pastorale Giovanile

     

    La comunità cristiana

    20. Il primo e fondamentale soggetto della Pastorale giovanile è, naturalmente, la comunità cristiana nel suo complesso. È nella comunità infatti, che oggi è possibile incontrare la carne di Cristo. Se il cristianesimo fosse una stupenda idea, per conoscerlo e crederlo basterebbe che chiunque esponesse quell’idea dimostrandone la verità e la credibilità. Se il cristianesimo fosse solo un complesso di valori etici da praticare, basterebbe che questi valori fossero insegnati e mostrati con l’esempio. Ma siccome il cristianesimo è incontro personale con Dio attraverso l’uomo Gesù Cristo, l’unico modo per sperimentare questo incontro è il rapporto fisico, materiale, concreto, con la carne di Cristo, cioè con la sua umanità. Questo incontro avviene come ogni incontro veramente umano, attraverso la parola, il gesto, la relazione interpersonale. Ora, il senso della comunità cristiana – cioè della Chiesa – è proprio questo: rendere presente una parola che è oggi vera parola del Signore risorto; compiere dei gesti che sono, oggi, veri gesti di Gesù; permettere un’esperienza che è, oggi, vera esperienza di incontro con Gesù. Vale per la Chiesa la parola precisa di Gesù:

    «[21] (…) Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20, 21).

    Come Gesù è rivelazione autentica del Padre per cui chi vede e ascolta Gesù vede e ascolta il Padre, così, in senso vero, chi ascolta l’inviato di Gesù ascolta davvero Gesù; e chi entra in relazione con lui entra in relazione con Gesù stesso. L’apostolo non vale solo per le parole che dice perché dice parole belle e vere; vale perché è un mandato e quindi nelle sue parole si fanno attuali le parole di colui che manda, cioè di Gesù stesso. Non contano solo le parole dell’apostolo, ma conta anche l’apostolo stesso che pronuncia quelle parole in quanto mandato. Per questo l’apostolo deve agire da apostolo e quindi predicare il Vangelo, non i suoi interessi, celebrare il mistero di Cristo e non le sue esigenze, presiedere in nome di Cristo e non in modo arbitrario e autonomo.

    La comunità cristiana è il luogo concreto in cui diventa possibile oggi ascoltare la Parola che Gesù risorto rivolge a noi, essere toccati dalla mano di Gesù che guarisce la nostra carne. I Sacramenti perciò non sono rappresentazioni mentali della grazia ma azioni concrete di Gesù che sana, perdona, eleva. Nella Chiesa viene annunciato il Vangelo; è Cristo che parla, non c’è dubbio; ma questo evento diventa esperienza di grazia solo se c’è una comunità che crede a Cristo che parla e accoglie quella Parola con fede e docilità. Nella Chiesa viene amministrato il Battesimo: è Cristo che battezza, non c’è dubbio. Ma il Rito del battesimo diventa vera esperienza di Gesù se la comunità lo riceve con fede, e lo attua nella novità della vita. Nella Chiesa vale l’affermazione:

    «[40] quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).

    Dunque Gesù è realmente presente nel fratello povero; ma questa presenza diventa evento reale quando il povero è trattato come Gesù, con quel rispetto e quell’amore che sono dovuti al Signore. È la comunità cristiana che, con la sua stessa esistenza, può permettere ai giovani d’incontrare Gesù Cristo. Vale davvero il prologo della prima lettera di Giovanni:

    «[1]Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita [2](poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), [3]quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo».

    Insisto: se si trattasse di comunicare un “modo di pensare il mondo”, basterebbe una esposizione chiara e convincente; ma se si tratta di fare incontrare una persona bisogna porre i giovani a contatto con la carne di quella persona e questo è possibile solo attraverso parole, gesti, persone, istituzioni concrete. Ho forse cambiato argomento? Sto forse parlando di cose diverse dalla Pastorale giovanile? Niente affatto! Sto pensando esattamente ai giovani di oggi e a come annunciare loro la fede cristiana; e proprio per raggiungere questo obiettivo sono necessarie comunità cristiane che sentano come loro unico compito quello di far brillare in modo sempre più trasparente la presenza di Cristo.

    Ripenso al quadro ideale della comunità apostolica secondo Luca:

    «[42]Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (…) [32]La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola (…) ogni cosa era fra loro comune. [33]Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore (…) [34]Nessuno infatti tra loro era bisognoso (…). (At 2, 42; 4, 32.33.34)

    Rendere testimonianza della resurrezione del Signore significa annunciare questa stessa resurrezione con parole vere; ma significa anche accompagnare queste parole con gesti che scaturiscano proprio dall’energia del Signore risorto, dalla forza della sua Parola e del suo Spirito.

     

    Una comunità chiamata a rinnovarsi

    21. Di fronte a questo discorso possono nascere due obiezioni: la prima è che le nostre comunità sono ben lontane dal far vedere la presenza di Gesù; la seconda è che se, per far credere in Gesù, vogliamo far passare attraverso la comunità, non facciamo che rendere le cose più difficili. Se è già difficile annunciare Gesù come “unico salvatore del mondo”, invitare i giovani ad accettare la mediazione della Chiesa è impresa addirittura titanica. Le obiezioni sono fondate e richiedono una risposta.

    Non c’è dubbio che le comunità cristiane concrete presentano difetti e insufficienze e che questi difetti rendono meno credibile la loro testimonianza al Vangelo. Questo è il motivo per cui le nostre comunità debbono mettersi seriamente sulla strada della conversione: “Ecclesia sempre reformanda” era l’adagio ripetuto al tempo del concilio di Trento; e Papa Giovanni aveva dato al Concilio Vaticano II l’impegno di operare un “aggiornamento” la Chiesa ha sempre bisogno di essere riformata, purificata, rinnovata. Non si tratta solo, e nemmeno prima di tutto, di cambiamenti dell’istituzione, ma di quella conversione che tende seriamente alla santità. È la santità che manifesta la presenza di Cristo ed è la santità il primo dovere della Chiesa: Cristo l’ha santificata col dono del suo sangue e la Chiesa deve rispondere al dono del Signore vivendolo. E tuttavia non siamo costretti ad aspettare il tempo in cui tutti i membri della comunità cristiana saranno visibili come santi. Se prima di annunciare il Vangelo dovessimo aspettare che le comunità fossero così trasparenti alla grazia da far vedere la presenza di Gesù, potremmo rinunciare in partenza. Fin d’ora la comunità cristiana concreta è luogo della presenza del Signore. Anzitutto perché i gesti sacramentali che compie li compie in obbedienza a Gesù:

    «Fate questo in memoria di me» (1 Cor 11, 24.25).

    è il comando originario al quale la Chiesa ha obbedito attraverso i secoli. E il Vangelo che viene proclamato nelle nostre assemblee è davvero il vangelo di Cristo; non quindi una creazione umana ma qualcosa di ricevuto e trasmesso da lui:

    «[3]Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto» (1 Cor 15, 3).

    Questa obbedienza essenziale custodita, nonostante tutto, attraverso i secoli fa sì che nella comunità cristiana attuale Gesù sia presente e lo si possa incontrare. Naturalmente sarebbe sciocco, anzi empio considerare queste parole come una giustificazione dello statu quo e non prendere sul serio l’esigenza di rinnovamento. Occorre continuamente verificare lo stile della vita comunitaria: bisogna che nella comunità cristiana si costruiscano rapporti di conoscenza e di amore fraterno autentico, che ci si senta responsabili gli uni per gli altri perché solo questo rende credibile la nostra testimonianza:

    «[35]Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35).

    Fa parte di questa dimensione l’amore per i deboli che sono un autentico tesoro per la comunità, “le membra più necessarie, scriveva san Paolo (cfr. 1 Cor 12, 22–23), sono il segno di una presenza da riconoscere e rispettare”.

    Il senso di quanto abbiamo affermato si può riassumere così: primo soggetto della Pastorale giovanile è la comunità cristiana. Essa, incontrando concretamente il Signore nell’annuncio della parola, nella Celebrazione liturgica, nell’esperienza dell’amore fraterno, col suo stesso Stile di vita proclama la sua fede nel Signore risorto, manifesta gli effetti concreti di questa presenza nell’esistenza quotidiana dei credenti e quindi invita tutti a entrare in questa medesima esperienza, fonte di libertà e di gioia.

     

    Le figure ministeriali

    22. All’interno della comunità cristiana hanno un posto particolare sacerdoti, diaconi e religiosi. Anzitutto i sacerdoti perché, a motivo dell’Ordinazione, costituiscono il legame concreto col vescovo e quindi con tutta la Chiesa. Il loro annuncio acquista una forza particolare dal Sacramento ricevuto. Lo stesso va detto per la presidenza dell’Eucaristia: è senz’altro un ministero da compiere con arte e competenza, ma soprattutto è un servizio da esercitare per “mandato” del Signore.

    Un’altra figura ministeriale significativa è il diacono, semplice servo della comunità cristiana. Figura strana, quella del diacono, perché non ha grandi “poteri” propri da esercitare; ma proprio per questo figura preziosissima per far capire che il Ministero nella chiesa è davvero “ministero”, non potere. Il diacono fa quello di cui c’è bisogno, quello di cui la Chiesa ha bisogno per poter annunciare bene il Vangelo e Celebrare bene la liturgia; tutto questo il diacono lo fa senza pretese, senza ricerca di onori, senza desiderio di primeggiare senza speranze di carriera, nemmeno ecclesiastica. Vale anzitutto per lui l’affermazione del Vangelo:

    «Siamo servi ordinari; abbiamo fatto semplicemente il nostro dovere» (Lc 17, 10);

    ben contenti proprio di questo: di poter fare un servizio al Signore. Attraverso la presenza dei diaconi il giovane più incontrare il senso del servizio nella Chiesa e riuscirà a superare alcune di quelle obiezioni che vengono spesso ripetute contro lo “strapotere” della Gerarchia nella chiesa.

    Infine è decisiva la presenza dei religiosi e delle religiose e non solo per quello che fanno, ma soprattutto perché sono il segno che un’esistenza consacrata a Cristo è un’esistenza “bella, buona e beata”. Tutti i discorsi che possiamo fare sul Vangelo s’infrangono miseramente contro la realtà se non siamo in grado di far vedere un’esistenza cristiana realizzata in pienezza. L’esistenza religiosa è l’immagine stessa della consacrazione a Cristo. Per la persona consacrata Cristo è tutto e solo questo spiega la sua rinuncia al possesso (voto di povertà), all’autonomia decisionale (voto di obbedienza), al matrimonio (voto di castità). I religiosi e le religiose devono mostrare nei fatti che queste scelte sono per loro sorgente di libertà più grande, di gioia più profonda, di amore più generoso. Non c’è altro modo per controbattere l’opinione stolta ma diffusa secondo cui la consacrazione religiosa significa perdita di libertà e ingresso in una sfera di oppressione nella quale la dignità del singolo è

    calpestata. La letizia di san Francesco che, avendo rinunciato a tutto era in realtà signore di tutto, deve diventare una testimonianza evidente al mondo. I religiosi sono testimoni di libertà, di gioia, di amore, cioè di quelle dimensioni di vita che i giovani cercano e che la consacrazione a Cristo promette e assicura.

    23. La prima responsabilità nella formazione cristiana dei giovani compete però genitori e alla famiglia. Mettere al mondo un figlio è fare un atto di speranza; è affermare che la vita, nonostante i pesi che comporta, nonostante le possibili delusioni, nonostante la inevitabile conclusione della morte, vale però la pena di essere vissuta. Per un cristiano procreare un figlio significa affidarlo alla vocazione di Dio, a quel progetto che Dio stesso avrà su di lui; significa credere nella vita come luogo di comunione reale con Dio e quindi come evento nel quale Dio farà servire tutto al bene (cfr. Rm 8, 28); significa rinnovare la speranza nella resurrezione con Cristo, quando Dio sarà tutto in tutti e la nostra debole umanità sarà trasfigurata per essere simile a quella del Signore risorto. Ebbene, i genitori sono chiamati a trasmettere ai figli questa loro speranza. Ce n’è bisogno soprattutto oggi perché per molti il valore dell’esistenza umana ha perso la sua evidenza; si è diffuso, nella nostra cultura, un atteggiamento di scetticismo che, di fronte alle sofferenze, alle malattie, alla vecchiaia, pone in dubbio il valore stesso della vita. Assumendo liberamente e gioiosamente la fatica di far crescere i figli, accettando di accompagnarli di fronte a ogni scelta, amandoli con disinteresse, cercando prima di tutto il loro bene, educandoli alla libertà e alla responsabilità, i genitori manifestano quella fiducia radicale nella vita che giustifica la loro scelta di mettere al mondo dei figli; di più: manifestano la loro fede in Dio e in quel governo sapiente del mondo che la tradizione cristiana definisce col termine stupendo di “Provvidenza”. Ma non basta: la famiglia favorisce l’incontro del giovane con Cristo attraverso il suo stile cristiano di vita. Si pensi alla capacità di mettere in gioco la propria esistenza a partire dal Vangelo, al modo di vivere la domenica come “giorno del Signore” anziché come semplice week­end, al modo di trattare anziani, ammalati, poveri, alla preghiera quotidiana in famiglia, allo stile dei rapporti all’interno della famiglia stessa. Hanno importanza anche i simboli cristiani presenti nella casa così come la percezione del tempo in relazione con l’anno liturgico. È soprattutto la famiglia che può accompagnare i giovani a incontrare Gesù Cristo concretamente, nell’intreccio dell’esistenza quotidiana. Per questo è necessario che i genitori diventino gioiosamente consapevoli della loro identità cristiana e capaci di amare con un cuore libero e attento.

     

    Gli educatori

    24. Un ruolo importante per la formazione dei giovani spetta agli educatori. La presenza di un giovane educatore testimonia la vicinanza della Chiesa alla sensibilità e alla cultura giovanile. L’educatore dei giovani sa intercettare con maggiore facilità i loro linguaggi, sa farsi prossimo al loro stile di vita mantenendo però alta la novità e la bellezza della proposta cristiana. In tal modo esercita il paziente accompagnamento dei giovani nel cammino della loro crescita e soprattutto si prende cura della loro esperienza di fede. Per questo è necessario che l’educatore partecipi in pienezza alla vita della comunità cristiana e da questa sia riconosciuto positivamente e sostenuto con una formazione specifica.

    Un luogo in cui i giovani vivono una parte considerevole della loro vita è la scuola. Propongo a questo proposito solo due riflessioni. Agli insegnanti cristiani viene chiesto di essere insegnanti competenti sia dal punto di vista della materia che insegnano che dal punto di vista didattico. Senza questa competenza ogni altro impegno rischia di diventare equivoco e controproducente. Ma a un insegnante autentico viene chiesto di più: egli deve trasmettere anche l’amore per la vita, il rispetto per la lunga fatica umana che ha edificato attraverso i secoli la nostra civiltà, l’apprezzamento sincero per i giovani che gli sono affidati, per quello che i giovani sono e per quello che possono diventare. I giovani debbono sentire la vicinanza dei loro insegnanti come stimolo nella fatica di diventare adulti e come punto di riferimento davanti alle scelte che sono chiamati a fare.

    Rivolgo la seconda riflessione agli insegnanti di religione. A loro è chiesto di saper mostrare come l’incontro con Cristo, la fede, ha saputo animare la vita delle generazioni umane; come è stato stimolo alla ricerca, all’amore fraterno, alla creatività e insieme alla capacità di collocarsi nel solco grande della tradizione. È importante che i giovani possano riconoscere la dignità culturale del cristianesimo e non siano costretti a vederlo solo come il residuo rozzo di un’esistenza del passato. Questo richiede agli insegnanti di religione un continuo aggiornamento e un ingresso personale sempre più profondo nella ricchezza della tradizione cristiana dalla Bibbia attraverso i Padri fino alla conoscenza della prassi della carità e della storia della santità. Non posso però esimermi dal richiamare gli insegnanti di religione a coltivare uno stretto rapporto con il percorso della Diocesi.

    Infine mi preme ricordare l’importante ruolo ricoperto dall’Università nella nostra città. Piacenza è ormai una città universitaria dove molti giovani costruiscono la loro formazione. Per questa ragione appare importante attivare una forte attenzione pastorale alle realtà universitarie, valorizzando la sensibilità e la prassi pastorale già presenti nella sede piacentina dell’Università Cattolica, promovendone un loro sviluppo e un loro pieno inserimento nella Pastorale diocesana.

     

    La parrocchia e i giovani

    25. Un ultimo campo di riflessione riguarda la parrocchia e l’attività della parrocchia rivolta esplicitamente al mondo giovanile. Naturalmente, e questo va sottolineato con forza, il primo servizio che la parrocchia fa al mondo giovanile è l’annuncio del Vangelo, l’attuazione della salvezza di Cristo nella liturgia, il dono di una comunità nella quale incontrare la presenza viva del Signore. Quale servizio più grande è possibile fare ai giovani che offrire loro un fondamento solido di speranza e favorire per loro l’esperienza di essere cercati, amati, salvati? Tutto il resto rimarrebbe fragile senza questo fondamento. Il vero problema del disagio giovanile, infatti, viene dalla percezione che i giovani hanno del futuro più come minaccia che come promessa. Spesso si sentono posti di fronte alla vita come di fronte a un valore incerto, da valutare secondo i vantaggi o le gratificazioni che di fatto può offrire. Il disagio nasce dal fatto che la società tende a offrire solo oggetti di consumo, non valori per cui valga la pena vivere e morire. La Fede, il Vangelo, permettono di leggere la vita entro un disegno di amore di Dio e danno così la forza di pronunciare di fronte alla vita un “sì” originario, senza condizioni e quindi senza pentimenti. E non c’è dubbio che questo “sì” alla vita detto gioiosamente e gratuitamente diventa una forza immensa per affrontarla e viverla in modo creativo. L’impegno essenziale di ogni parrocchia è quello di promuovere una pastorale ordinaria viva e creativa compiendo con stile straordinario le cose ordinarie.

    Ma accanto a questo impegno la parrocchia è chiamata a offrire ai giovani altri momenti di aggregazione e soprattutto cammini seri di formazione che favoriscano sia la maturazione psicologica che la crescita di fede.

     

    Il gruppo

    26. Non c’è bisogno di ricordare l’importanza dell’esperienza di gruppo per la crescita dei giovani; quasi tutti ne abbiamo fatto l’esperienza nella nostra adolescenza. Nel gruppo ci si confronta con persone che hanno problemi simili ai nostri e stanno affrontando le stesse sfide e questo trasmette coraggio; s’impara ad ascoltare gli altri e a compromettere se stessi; ci si sottomette a regole e si comprende la loro importanza; si stemperano le proprie emozioni in un contesto più ampio di vita. Il gruppo può certo comportare dei rischi come quello di cancellare le differenze e di creare una pressione emotiva così grande da produrre conformismo, ma, se ben guidato, può introdurre efficacemente nelle responsabilità della vita adulta. L’esigenza che sembra emergere nel modo più chiaro è quella di offrire ai giovani percorsi di riflessione ed esperienza che li accompagnino sia nella maturazione psicologica che nella maturità di fede. Gli obiettivi da proporsi potrebbero essere diversi e tra loro collegati.

    Mi preme richiamare alcune mete importanti per definire l’identità di un giovane cristiano maturo: il rapporto personale con Gesù, il riconoscimento vitale della paternità di Dio, la docilità ai movimenti dello Spirito; la consapevolezza dell’impegno etico che scaturisce dalla fede. È importante che la Pastorale giovanile offra per alcune di queste mete degli itinerari che facilitino la riflessione, la presa di coscienza personale, l’esperienza. Questi itinerari saranno naturalmente offerti a gruppi di giovani.

    Vorrei solo accennare al significato particolare degli itinerari che si propongano l’introduzione di giovani a un’esperienza di fede e di Chiesa. In questo caso il gruppo non è solo uno strumento educativo, ma un luogo in cui si fa quell’esperienza di Chiesa che si desidera imparare. Per questo il legame con gli altri componenti del gruppo tende a diventare profondo e ad assumere i lineamenti della corresponsabilità, della comunione. Questo avviene quando alla base del gruppo non ci sta solo l’idea di un “contratto” (“Sto insieme con voi per raggiungere alcune mete che mi stanno a cuore’”), ma quella di un vero e proprio “patto” (“Sto insieme con voi perché sento che siete importanti per la mia vita e, a mia volta, mi sento responsabile di voi e del cammino che fate”). In un gruppo di questo genere è importante imparare la gioia di donare, la fiducia nell’altro, la consapevolezza del legame originario che ci unisce [«siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4, 25)], la corresponsabilità nei confronti della comunità cristiana più ampia. La tendenza così diffusa oggi a creare atteggiamenti di lotta, di competizione con l’altro deve venire assorbita da una forza di solidarietà e di comunione più grande.

     

    L’accompagnamento personale

    27. Aggiungo solo che l’importanza del gruppo non toglie l’utilità di un accompagnamento personale; la rende, anzi, ancora più urgente. La persona è soggetto di scelte libere e l’accompagnamento personale può diventare decisivo per aiutare a discernere la volontà di Dio e per affrontare con il coraggio e la fiducia necessaria le diverse situazioni della vita. C’è un lavoro di conoscenza di sé, di purificazione dei propri desideri, di determinazione delle mete della propria vita che non può essere compiuto in gruppo: ciascuno deve imparare a stare davanti a Dio nella sincerità del cuore, deve imparare a discernere i suoi impulsi e a distinguere le motivazioni della proprie scelte. In tutto questo il confronto con una guida è indispensabile per evitare sia il conformismo di gruppo sia l’illusione su di sé. Non posso quindi che ripetere agli educatori, soprattutto ai preti, l’importanza del tempo che essi spendono per ascoltare, interrogare, illuminare i ragazzi. È un lavoro faticoso, in cui si ha l’impressione molte volte di dover ripartire sempre daccapo; ma è un lavoro prezioso, l’unico che può formare delle personalità mature e complete.

     

    L’oratorio, lo sport e la musica

    Una delle opportunità da valorizzare è quella offerta dagli oratori che permettono ai giovani di trovare spazi di aggregazione e di crescita liberi e nello stesso tempo ricchi di proposte e di stimoli. Anche a livello civico poco alla volta ci si sta rendendo conto dell’importanza che queste realtà hanno avuto nella formazione dei giovani. Desidero che gli Oratori presenti in diocesi si colleghino in rete in modo da potersi scambiare esperienze, suggerimenti, collaborazioni; sarebbe davvero deplorevole che la mancanza di forze e di operatori capaci ci costringesse a chiudere o a ridimensionare questa attività.

    Richiamo anche brevemente l’importanza dell’attività sportiva e della musica. Lo sport è uno dei campi di esperienza e di socializzazione attraverso cui passa oggi una grande parte dei ragazzi e dei giovani; e non è ignoto a nessuno l’influsso che queste esperienze hanno sulla vita e sulle scelte concrete dei giovani. Lo sport, infatti, può davvero essere una “palestra della vita” nella quale si esercitano quelle virtù che diventeranno preziose in tutto il cammino dell’esistenza. Attraverso lo sport si sviluppa una importante conoscenza di sé, un rapporto armonioso col proprio corpo, una capacità di confrontarsi con gli altri. È importante che tutti quanti operano in questo settore a qualunque titolo (sportivi, allenatori, organizzatori) siano consapevoli della loro responsabilità e sappiano esercitare sui giovani un influsso positivo. La Consulta diocesana per lo sport ha iniziato un ottimo lavoro e bisogna che il cammino possa continuare con la collaborazione di tutti.

    Insieme con lo sport bisogna ricordare anche il campo della musica che ha assunto, per i giovani d’oggi, un grande significato. Che la musica abbia un influsso enorme sull’emotività della persona è noto da sempre. Che questo influsso possa essere positivo o negativo, che possa aiutare a vivere o a distaccarsi dalla concretezza della vita, anche questo è chiaro. Ne deriva la necessità di aiutare i giovani a essere protagonisti della loro vita e non solo consumatori di prodotti; che anche di fronte alle proposte del mondo musicale sappiano valutare con correttezza e sappiano profittare della forza che viene dalla musica per crescere nella fortezza che è propria della persona libera.

     

    Le Unità Pastorali

    28. Per un’efficace attuazione della proposta di Pastorale giovanile delineata in questa Lettera risulta necessaria una programmazione a livello di Unità Pastorale o di Vicariato, non solo perché le singole parrocchie non hanno le energie sufficienti ma soprattutto perché le risorse di ognuna siamo poste al servizio di tutti. Non si possono dare prescrizioni rigide; bisognerà fare attenzione alle singole situazioni e trovare la soluzione migliore, ma è importante che nessuna parrocchia – nemmeno la più piccola – sia estranea al circuito della Pastorale giovanile. Si tratta invece di stabilire collegamenti e di creare équipes di educatori che operino su tutto il territorio diocesano.

     

    Conclusione

    29. Al termine di questa riflessione sulla Pastorale giovanile mi preme ritornare alla scelta di fondo che deve guidarci in questi anni e cioè quella del primato della formazione in tutte le sue dimensioni. Come abbiamo ripetuto varie volte la questione della formazione degli educatori è l’urgenza più viva nella nostra situazione. A livello diocesano sono anni che non esiste una proposta completa di formazione degli animatori dei gruppi giovanili. Esiste qualcosa a livello parrocchiale e di Azione Cattolica, ma solo nelle comunità che hanno le energie sufficienti per fare questo tipo di proposte. Tale carenza ha portato a una notevole scarsità di persone che si dedicano ai giovani. È questo, perciò, un impegno prioritario del Programma pastorale.

    Da più parti emerge la proposta di attivare una Scuola di formazione, favorendo anche eventuali progetti pilota nelle Unità Pastorali. Non posso che fare mia con tutto il cuore questa proposta nella convinzione che dalla serietà della formazione dipenderà la serietà di tutta la pastorale. All’Azione Cattolica, che in questo campo ha sempre operato con saggezza e lungimiranza chiedo di farsi protagonista della proposta dei gruppi e dei percorsi formativi a livello delle Unità Pastorali e dei Vicariati.

    Al Signore affido l’impegno di tutti e chiedo che ci dia la passione del Vangelo e l’amore sincero delle persone; che ci conforti nei momenti di stanchezza con l’energia inesauribile che viene da Lui:

    «[28]Non lo sai forse? Non lo hai udito? Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra. Egli non si affatica né si stanca, la sua intelligenza è inscrutabile. [29]Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato. [30]Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; [31]ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi» (Is 40, 28­31).

     

    Sommario

    TENENDO FISSO LO SGUARDO SU GESÙ

    Figlio, perché ci hai fatto così? ­ Perché mi cercavate?

    IL PRIMATO DELLA FORMAZIONE E LA PASTORALE GIOVANILE

    Di generazione in generazione ­ Nodi problematici

    Un silenzioso divorzio ­ Rischiare il gesto del dono

    LA PASTORALE ORDINARIA  E LA PASTORALE GIOVANILE

    La fede come inizio ­ La vita con Dio...

    ... annunciata dalla Parola ­ ... celebrata nell’Eucaristia ­

    Un intreccio a doppio filo ­ Il mistero della Chiesa e il

    ministero ordinato

    I PROTAGONISTI DELLA PASTORALE GIOVANILE.

    La comunità cristiana ­ Una comunità chiamata

    a rinnovarsi ­ Le figure ministeriali ­ Gli educatori

    LA PARROCCHIA E I GIOVANI

    Il gruppo ­ L’accompagnamento personale ­ L’oratorio,

    lo sport e la musica ­ Le Unità Pastorali

    CONCLUSIONE


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2024


    Saper essere
    Competenze trasversali


    L'umano
    nella letteratura


    I sogni dei giovani x
    una Chiesa sinodale


    Strumenti e metodi
    per formare ancora


    Per una
    "buona" politica


    Sport e
    vita cristiana
    rubrica sport


    PROSEGUE DAL 2023


    Assetati d'eterno 
    Nostalgia di Dio e arte


    Abitare la Parola
    Incontrare Gesù


    Dove incontrare
    oggi il Signore


    PG: apprendistato
    alla vita cristiana


    Passeggiate nel
    mondo contemporaneo
     


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    Di felicità, d'amore,
    di morte e altro
    (Dio compreso)
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    rubrica studio


    Storie di volontari
    A cura del SxS


    Voci dal
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    A cura dei giovani MGS

    MGS-interiore


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