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    Maria nell'itinerario educativo-pastorale



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1993-04-46)


    Nel fervore del rinnovamento suscitato dal Concilio e nel clima di intensa soggettivizzazione che respiriamo, molti credenti hanno messo in crisi non pochi elementi, tradizionali nella spiritualità cristiana.
    Le "devozione mariana" è stato uno di quelli sui quali si sono concentrati, con maggiore acribia, i colpi innovativi.
    Nelle comunità ecclesiali (e, di riflesso, in quelle salesiane) ci si è spesso scontrati tra i sostenitori ad oltranza di quello che avevamo ereditato dalla tradizione, e i difensori di un silenzio non meno perentorio. I primi ripetevano le cose di sempre, con foga battagliera, come se nulla fosse capitato. I secondi cancellavano con un colpo di spugna un lungo vissuto ecclesiale, con la scusa delle innegabili intemperanze.
    Nel cammino della "spiritualità giovanile salesiana" abbiamo tentato, con attenzione crescente, di immaginare un'alternativa, per ricollocare la figura e la funzione di Maria nel centro della nostra vita spirituale.
    In queste pagine racconto la storia della nostra ricerca, tentando una sua interpretazione nelle logiche che l'hanno ispirata.
    La riflessione si muove in tre momenti:
    - indico, prima di tutto, l'atteggiamento di fondo che può giustificare tutta l'operazione,
    - ricordo poi una specie di prospettiva di sintesi,
    - suggerisco infine una proposta concreta.

    LA LOGICA DELL'INCARNAZIONE COME PUNTO DI RIFERIMENTO

    In questi anni il riferimento all'Incarnazione ha costituito la prospettiva fondamentale da cui ci siamo abituati a considerare i problemi e i progetti.
    Lo stesso riferimento ci è servito per ricomprendere la figura e la funzione di Maria nella nostra esperienza spirituale. A partire dalla prospettiva dell'Incarnazione, abbiamo imparato a rivisitare i "contenuti" teologici elaborati nella riflessione ecclesiale del dopoconcilio, guardando soprattutto all'orizzonte in cui possono essere compresi e riformulati.

    La logica dell'Incarnazione

    Tra le tante indicazioni evocate dal richiamo all'Incarnazione, ne ricordo solo due.

    Il Dio invisibile ha un volto
    La prima indicazione ricorda il senso globale del richiamo all'Incarnazione: il Dio, ineffabile e invisibile, si è fatto "volto" e "parola" nell'umanità di Gesù di Nazareth.
    Questa è l'esperienza fondamentale fatta dai discepoli di Gesù, come testimonia propria la polemica aspra con i farisei e i dottori della legge. Essi pretendevano di conoscere Dio a partire dalla rivelazione contenuta nella Legge; e da questa prospettiva giudicavano l'atteggiamento e le parole di Gesù. Hanno potuto così condannarlo come bestemmiatore e profanatore della sacralità del Tempio.
    Gesù invece insiste su un capovolgimento radicale di prospettiva. Lui è il "volto" e la "parola" del Dio, ineffabile e invisibile. A partire dalla sua prassi possiamo "riconoscere" e "interpretare" Dio.
    In Gesù di Nazareth Dio si è fatto "vicino" ad ogni uomo e alla nostra storia. L'umanità di Gesù e in lui di ogni uomo è sacramento di Dio.

    Il mistero è più grande delle sue espressioni
    La seconda indicazione propone una conseguenza spontanea della prima.
    Il mistero di Dio si rende presente e si rivela nell'umanità di ogni uomo, sulla grazia della solidarietà in umanità con Gesù. Questa umanità è però sempre più povera del mistero che si porta dentro. Non lo può esprimere mai in modo perfetto ed esauriente. La rivelazione del mistero nella parola umana in cui si dice, è sempre un po' anche il suo nascondimento.
    Le conseguenze sono importanti per valutare le espressioni concrete e storiche della Rivelazione di Dio. Si richiede sempre la fede interpretante di ogni persona: la disponibilità ad accogliere qualcosa che non può mai risultare tanto "evidente" da assicurare un accesso diretto e immediato a Dio.

    Qualche conseguenza

    Se la parola di Dio e gli eventi fondamentali della nostra fede sono sempre "detti" dentro modelli culturali (quelli dell'umanità storica dell'uomo in cui sono espressi), non possiamo cercare né formulazioni assolute (come se fossero esenti dagli irrinunciabili condizionamenti culturali), né formulazioni immodificabili (come se una espressione culturale fosse l'unica adatta per esprimere il mistero).
    Su questa consapevolezza si fonda la qualità della nostra fede, che è sempre immersione consapevole in un mistero insondabile, e l'urgenza del dono della Chiesa, per confortare e consolidare una esperienze tanto impegnativa quanto rischiosa.
    Sul piano pastorale le conseguenze operative sono molte e immediate.
    Ne ricordo due.

    Fare memoria
    È importante, prima di tutto, imparare a "fare memoria" per poter progettare in modo maturo. Sembra strano: per guardare al futuro, dobbiamo radicarci nel passato. Ma non ci sono alternative per credenti che riconoscono nell'umanità storica di Gesù di Nazareth e di ogni uomo il luogo concreto in cui la Parola di Dio si è fatta parola per la nostra vita.
    Non possiamo allontanarci dal nostro passato, solo perché possediamo una sensibilità antropologica e teologica "differente". Non solo non abbiamo il diritto di giudicare con saccente presunzione i nostri fratelli che hanno vissuto la stessa intensa passione in modelli differenti dai nostri. Al contrario, dobbiamo imparare a misurarci disponibilmente con essi, per poter vivere oggi la stessa esperienza fondante.

    La coscienza ermeneutica
    "Facciamo memoria" però in una intensa "coscienza ermeneutica": non per ripetere e riprodurre, ma per saper ricostruire. La consapevolezza del profondo intreccio esistente tra "cultura" e "evento", chiede il discernimento e l'invenzione. Chiede cioè di ritrovare in ogni espressione della fede i modelli culturali che sono stati utilizzati un certo periodo storico per "dare umana carne" ad un mistero che altrimenti sarebbe restato "ineffabile". E chiede la capacità di riesprimere questo evento per la nostra vita all'interno di eventuali nuovi modelli culturali.
    In situazione di pluralismo come è quella che stiamo vivendo, questa operazione non ha solo un movimento diacronico (dal passato all'oggi); ne esige anche uno sincronico (in rapporto ai differenti contesti).
    Certamente, si tratta di interventi di estrema delicatezza pastorale. Proprio il richiamo all'Incarnazione ricorda che il rapporto tra visibile e mistero non è solo estrinseco: non è quello che lega la persona al vestito che indossa. Siamo veramente in presenza di una reale "incarnazione", come ricorda DV 13: "Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlar dell'uomo, come già il Verbo dell'Eterno Padre, avendo assunto la debolezza dell'umana natura, si fece simile all'uomo". Per questo, l'unico soggetto autorizzato è la comunità ecclesiale, animata, nell'unità verso la verità, dai suoi Pastori.

    IL RICHIAMO A MARIA NELLA SPIRITUALITÀ

    Ho suggerito un modo con cui affrontare lo spinoso problema del rapporto tra fede e cultura. Con questo modello procedurale possiamo rivisitare il ricordo di Maria.

    La figura di Maria nella tradizione pastorale

    Possiamo chiederci: le figure di Maria, vissute nella tradizione pastorale, a quali modelli culturali erano debitrici?
    È facile costatare fino a che punto il modo cui è stata compresa e vissuta la figura di Maria è legato a quell'intreccio di fede e cultura in cui veniva espressa, in parole umane, la risposta al bisogno fondamentale di "riconoscere" Dio.
    Quando di Dio si mette in risalto soprattutto la sua alterità irraggiungibile e la sua numinosità, Maria è presentata come "intermediaria" tra la povertà dell'uomo e la grandezza di Dio. Anche la sua potenza taumaturgica è vista da questa prospettiva. Proprio perché la sua voce può raggiungere il trono di Dio e viene accolta positivamente, ella è capace di piegare la mano di Dio verso le dure esperienze della nostra quotidiana esistenza.
    Se invece prevale una visione etica dell'esistenza cristiana, Maria rappresenta soprattutto il modello più riuscito delle virtù del cristiano.
    Nei tempi in cui è molto accentuato lo scollamento tra la riflessione teologica e la vita vissuta, la pietà popolare affida a Maria il compito, urgente, di restituire a Dio un volto più concreto e accessibile. Maria diventa così quasi una divinità potente, di cui però si può parlare e con cui si può trattare.
    Quando nell'esperienza cristiana predomina una visione teologica che contrappone in modo duro l'ambito del profano a quello del sacro, Maria viene progressivamente sottratta ad ogni condizionamento di umanità e collocata fuori da ogni richiamo storico e geografico. Ne risulta una figura molto lontana dalla nostra vita quotidiana e dai problemi che l'attraversano. Al contrario, quando il duro confronto con l'esperienza di tutti i giorni prevale sui riferimenti religiosi, a Maria si attribuiscono i progetti e i desideri che sogniamo per noi. A seconda dei modelli teologici dominanti, diventa troppo vicina o troppo lontana per risultare veramente significativa per la nostra esistenza.

    Dalla prospettiva dell'Incarnazione

    Colui che prende sul serio l'evento dell'Incarnazione e lo pone al centro della sua esperienza di fede, sa riconoscere i limiti e i condizionamenti delle parole umane in cui viene detto il mistero santo di Dio.
    Ma non propone solo questo.
    Esso sollecita a riscoprire contributi preziosi anche sul versante propositivo.

    Un volto al mistero di Dio
    Il primo contributo sembra quello più evidente.
    Va riaffermato con forza: esso fonda ed esige il lavoro successivo.
    Abbiamo bisogno di "parole umane" per dare volto e parola al Dio della nostra vita e della nostra salvezza.
    In Gesù di Nazareth il silenzio del mistero è stato infranto: il Dio lontano è diventato colui che ha posto la sua casa tra le nostre.
    Come far risuonare la sua parola, nelle pieghe della storia di tutti i giorni?
    Nel nostro volto e nella nostra parola Dio si fa ancora volto e parola, per sollecitare, accogliere, salvare. Le nostre storie realizzano la vicinanza di Dio con una intensità diversa. Abbiamo persino la possibilità di spegnere la sua parola. Dio si fa vicino nella misura in cui "assomigliamo" a Gesù di Nazareth: nella misura cioè in cui la nostra umanità si realizza in pienezza e verità, così come è l'umanità piena e definitiva di Gesù.
    Maria in modo speciale è colei che ci rende Dio più vicino, perché nella sua umanità brillano più intensamente i segni dell'umanità piena di Gesù.
    Nella sua vita il volto e la parola di Dio risuonano più alti, provocanti e convincenti. Grazie a lei ci sentiamo tutti un po' di più immersi nell'amore di Dio, lo sentiamo un po' di più Padre nostro.
    Abbiamo perciò bisogno di Maria per sentirci ancora figli di Dio: per vedere l'invisibile e per comprendere l'ineffabile.

    Una risposta "donata" alle nostre inquietudini
    Questa affermazione è importante: riempie di gioia e chiama alla responsabilità.
    Purtroppo molti problemi restano.
    Ho ricordato che diamo volto e parola a Dio nella misura in cui assomigliamo all'umanità piena e definitiva di Gesù di Nazareth.
    Il nostro tempo è attraversato da profonde incertezze proprio a questo riguardo. Sono tante le risposte che incontriamo, da sentirci "orfani" per eccedenza di possibilità.
    Tre questioni inquietano colui che vuole progettarsi in autenticità, da uomo e da credente e, di conseguenza, colui che vuole giocare la sua passione per la vita degli altri:
    - la domanda sull'uomo: chi è l'uomo nella sua "verità" (compreso cioè nel mistero santo di Dio), per poter restituire ad ogni uomo, attraverso il nostro impegno educativo, l'autenticità della sua esperienza umana, nel nome di Dio;
    - la domanda su Dio, per comprendere il senso, esigente e salvifico, della sua presenza e del suo progetto sulla storia personale e collettiva;
    - la domanda sulla novità di vita che investe la nostra esistenza quotidiana, se ci lasciamo afferrare dall'amore di Dio e lo poniamo a fondamento della nostra esistenza.
    Maria, "volto" e "parola" di Dio, propone, nella sua vita concreta, una risposta a questi interrogativi. Essa è "dono" per noi: ci ricostruisce in autenticità, rivelandoci il nostro volto più vero. In qualche modo, interpreta quello che Gesù di Nazareth è in modo pieno e definitivo, quasi con un pizzico di concretezza in più, perché la avvertiamo più vicina a noi per quello che ha vissuto, sofferto, realizzato.

    Con mentalità di itinerario
    In questi ultimi anni, nel cammino di cui sto raccontando la storia, si è inserita la sensibilità nuova dell'"itinerario". Nella sua logica abbiamo incominciato a pensare e a progettare.
    Itinerario evoca tutto quello che il termine "progetto" si porta dentro. Ma aggiunge, quasi come coagulante, la dinamicità della vita.
    La meta è pensata come progressione, organica e articolata di mete intermedie che si portano dentro già la meta globale, in modo germinale. Gli interventi sono esperienze vissute, capaci di far procedere il cammino con la forza propositiva riconosciuta al fare esperienza.
    La sottolineatura non è di poco peso. Chi pensa al metodo con una logica di prevalente strumentalità, s'accorge di avere a disposizione un bagaglio di "cose", più o meno ampio; e le utilizza, selezionando quelle che hanno dato buoni risultati o cercando, nel fondo del cassetto, qualche risorsa inedita per dare una virata improvvisa al ritmo.
    Nell'itinerario prevale invece la soggettività dei giovani, guidata e incanalata dalla presenza, accorta e amorevole, dell'educatore. Le risorse sono comprese in reciproco collegamento e sono valutate pertinenti nella misura in cui riescono a scatenare esperienze nuove. Adulti e giovani, assieme, camminano verso una meta, facendo esperienza di quanto è stato consolidato e, nella tensione e nel contatto con chi l'ha già raggiunto, di quello verso cui si è in cammino.
    Per chi pensa e progetta con mentalità da itinerario le tre questioni ricordate sopra risultano ancora più inquietanti. Non possiamo infatti metterci in cammino verso una meta confusa e incerta. Come ho già ricordato, in una situazione di pluralismo come è la nostra, è veramente la "meta" fondamentale del cammino a porre problemi: sono tante e differenti le risposte che si incontrano, che riesce difficile schierarsi su una di esse, come se fosse l'unica o, almeno, la migliore.
    Una conclusione sembra decisiva. La cosa urgente e centrale non è la progettazione di un itinerario verso Maria: ci troveremmo alla scoperto sul versante che conta di più: quello della maturazione in umanità e in novità di vita. Dobbiamo invece costruire un itinerario verso la vita e la sua pienezza "con Maria": alla scuola della sua esperienza di vita possiamo trovare indicazioni preziose per elaborare risposte significative alle domande di fondo di ogni itinerario educativo e pastorale.

    IL DONO CHE È MARIA

    Ho tracciato così un criterio con cui operare: restituire a Maria il suo dono di essere "volto" e "parola" di Dio per noi, rivelandoci chi è Dio per noi e chi siamo noi nel progetto di Dio. In questo, Maria si pone vicinissima al dono del Figlio suo per la nostra vita.
    Convinti di questo, nel nostro cammino verso un progetto di "spiritualità giovanile salesiana", ci siamo messi a leggere il Vangelo, alla ricerca delle pagine in cui si parla di Maria, per scoprire concretamente il dono che è Maria.
    L'abbiamo letto a partire dai nostri problemi e per trovare una "risposta" rassicurante ad essi.

    La coscienza della presenza di Dio

    Per scoprire cosa dona Maria alla nostra ricerca di spiritualità, abbiamo meditato prima di tutto il Magnificat.
    Questo canto, con cui molti cristiani hanno pregato con gioia e passione, è una grande preghiera ecclesiale di riconoscimento e di ringraziamento. Luca la pone sulla bocca di Maria, perché era certo, sulla base delle fonti di cui disponeva, che esprimeva bene l'esperienza di Maria. Il Magnificat è perciò il canto di Maria, la testimonianza della sua esistenza credente. Modello di ogni preghiera cristiana, in Maria è "vero" in modo privilegiato.
    Leggiamo assieme qualche passaggio:

    "Grande è il Signore: lo voglio lodare.
    Dio è mio salvatore: sono piena di gioia.
    Ha guardato a me, alla sua povera serva:
    tutti, d'ora in poi, mi diranno beata.
    Dio è potente:
    ha fatto in me cose grandi [...].
    Ha dato prova della sua potenza,
    ha distrutto i superbi e i loro progetti.
    Ha rovesciato dal trono i potenti,
    ha rialzato da terra gli oppressi.
    Ha colmato i poveri di beni,
    ha rimandato i ricchi a mani vuote" (Lc 1, 46-55).

    Nel Magnificat Maria celebra la novità insperata: Dio si è fatto vicino, solidale con il suo popolo. È il Dio fedele: colui che fa alleanza con gli uomini e resta fedele al suo patto.
    Maria vive di questa certezza. Riconosce Dio presente nella storia degli uomini. E lo confessa, con gioia trepidante, presente nella sua vita, in modo personale e intimissimo. Il suo Dio le è vicino, la riempie di sé, la trasforma e la salva.
    È bello sentire nel canto di Maria la coscienza di quanto Dio ha fatto per lei: lo proclama, ne gode e ne è fiera. Quando dice a sé e agli altri chi lei è nel progetto di Dio, grida forte questa certezza. Il Dio potente ha fatto in lei cose grandi. Può ormai accogliersi con il coraggio del riconoscimento. Può vivere con gioia anche la sua povertà, perché Dio riempie tutta la sua vita.
    Per questo, lei che si dichiara piccola, povera, umile serva, è davvero grande: tanto grande che tutti parleranno di lei.

    Una presenza che resta mistero grande

    Lo svelamento del mistero di Dio non è mai pieno. Non può essere "posseduto", come conosciamo e possediamo gli avvenimenti della nostra vita quotidiana.
    Di fronte ai segni della "presenza di Dio" Maria resta colei che decide nella trepidazione della fede. Essa contempla il mistero di Dio solo nella fede. Per questo, l'accetta e lo proclama sempre con un po' di incertezza.
    Rileggiamo ancora qualche pagina del Vangelo.
    "L'angelo andò da una fanciulla che era fidanzata con un certo Giuseppe, discendente dal re Davide. La fanciulla si chiamava Maria. L'angelo entrò in casa e le disse: Ti saluto, Maria! Il Signore è con te: egli ti ha colmata di grazia. Maria fu molto impressionata da queste parole e si domandava che significato avesse tale saluto" (Lc 1, 29).
    Anche l'oracolo di Simeone scatena il suo stupore e la sua meraviglia. Leggiamo ancora il Vangelo: "Simeone prese il bambino tra le braccia e ringraziò Dio così:

    O Signore, ora che hai mantenuto la tua promessa
    lascia che io, tuo servo, me ne vada in pace.
    Con questi miei occhi io ho visto il Salvatore
    che tu hai preparato e offerto a tutti i popoli.
    Egli è la luce che ti farà conoscere a tutto il mondo
    e darà gloria al tuo popolo, Israele.
    Il padre e la madre di Gesù rimasero meravigliati per le cose che Simeone aveva detto al bambino (Lc 2, 28-33).

    Anche la risposta di Gesù al tempio lascia Maria molto smarrita. "Anche i suoi genitori, appena lo videro, rimasero stupiti, e sua madre gli disse: Figlio mio, perché ti sei comportato così con noi? Vedi, tuo padre e io ti abbiamo cercato e siamo stati molto preoccupati per causa tua. Egli rispose loro: Perché cercarmi tanto? Non sapevate che io devo essere nella casa del Padre mio? Ma essi non capirono il significato di quelle parole" (Lc 2, 41-50).
    Ho citato tre episodi. L'impianto è sempre lo stesso.
    Maria è posta davanti ad avvenimenti sorprendenti e misteriosi. Con toni e gesti diversi, è chiamata a decisioni coraggiose, che non possono certamente dipendere dalle sole logiche umane, quelle, per intenderci, che regolano la nostra vita quotidiana. Maria resta incerta e confusa. A prima vista, stenta a capire. Poi si tuffa nel mistero, alla ricerca di eventi che vanno oltre quello che la sapienza umana è in grado di decifrare. Nella sua fede vive il presente dalla prospettiva dell'invisibile: "possiede già le cose che spera e conosce già le cose che non vede" (Eb 11, 1).
    Questa lettura dal profondo sollecita Maria a pronunciare sempre una decisione piena, anche se sofferta. Accoglie il progetto di Dio su lei e riconosce la missione del Figlio suo. Dice la sua fede nel mistero di Dio.
    Maria è la grande credente. Impegnata a vivere di fede, ci rivela il ritmo incerto e rischioso che caratterizza ogni espressione matura della fede cristiana.

    La fede: "leggere dentro"

    In presenza di un mistero che supera la capacità di comprensione sapiente, Maria si immerge nella fede e ritorna, con attenzione penetrante, sugli avvenimenti. Legge dentro le vicende della sua vita quotidiana, alla ricerca del mistero di cui sono cariche. Mostra così una condizione fondamentale per imparare a vivere di fede: il ritornare sugli avvenimenti con calma e capacità di penetrazione, per arrivare alla soglia profonda delle cose, dove si staglia il mistero di Dio.
    Lo ricorda esplicitamente il Vangelo, dopo ogni avvenimento grande di cui Maria è protagonista.
    Essa riflette sul messaggio dell'angelo (Lc 1, 29).
    Conserva i ricordi e li rimedita nel proprio cuore: "Maria, da parte sua, custodiva gelosamente il ricordo di tutti questi fatti e li meditava dentro di sé" (Lc 2, 19.51).
    La decisione di fede è un salto coraggioso nel mistero che ci sovrasta. Non sopporta i lunghi tentennamenti né cerca i calcoli accorti dei bilanci previsionali.
    Questa stessa decisione va però progressivamente riconquistata e posseduta, per tornare ogni giorno fresca e giovane. Per questo la prima avventura viene rimeditata continuamente, ripresa e rivissuta in una tensione che porta maggiormente alle soglie del mistero. Maria non ripensa a quello che ha vissuto per capirlo meglio. Lo rilegge per sprofondarsi di più nell'abisso di Dio che chiama nel silenzio e nell'imprevedibile.
    Questo modo di fare l'ha appreso nella grande scuola di fede e di vita del suo popolo. Pregare con i salmi, contemplare le Scritture, è proprio questo: riandare al passato, per penetrarlo fino a quelle profondità nascoste dove gli avvenimenti brillano della mano di Dio. E così la vita quotidiana diventa preghiera: una preghiera lunga e pervasiva che riporta all'esperienza il ricordo delle cose meravigliose di cui Dio l'ha colmata.

    La fedeltà fino alla croce

    Difficoltà e incertezze non provocano la sospensione della propria decisione o il ritiro della propria disponibilità. La sua fedeltà corre oltre i fatti; supera i gesti e le parole.
    È tessuta di presenza, di disponibilità piena, di silenzio accogliente e premuroso.
    Maria riconosce la superiorità esigente della fede sulla maternità nella carne. Per questo, accoglie con pace la parola, dura per il cuore di ogni madre, del figlio "in missione". Ce lo ricordo il Vangelo in una pagina "strana". "Mentre Gesù parlava così, una donna alzò la voce in mezzo alla folla e gli disse: Beata la donna che ti ha generato e allattato. Ma Gesù rispose: Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica" (Lc 11, 27-28).
    Ai piedi della croce Maria offre la sua fedeltà al progetto di Dio nel silenzio. "Gesù vide sua madre e accanto a lei il discepolo preferito. Allora disse a sua madre: Donna, ecco tuo figlio. Poi disse al discepolo: Ecco tua madre. E da quel momento il discepolo la prese a casa sua" (Gv 19, 26-27).
    Nel grande silenzio della croce, Maria consegna il figlio suo alla morte violenta per la vita di tutti gli uomini e accetta di essere strappata al figlio che ha generato, per diventare la madre di tutti. Ci vuole un coraggio sorprendente ad accettare una sostituzione così ingiusta: noi, gente che non conosce, al posto del figlio che lei aveva generato nella carne.
    Solo la fedeltà alla missione, che condivide con Gesù, spinge Maria ad un gesto tanto radicale.
    Maria è la donna della fedeltà fino alla morte.

    La vocazione: una passione grande per il Regno di Dio

    La fede di Maria non si ripiega su di sé. Non è una fede per sé. Essa è tutta protesa verso la causa del Figlio suo. Vive della stessa grande passione per il Regno di Dio. La coscienza della misteriosa presenza di Dio nella sua vita, penetrata nel silenzio e testimoniata nella fede, diventa passione perché tutti gli uomini riconoscano chi è Dio e lo sperimentino come il Dio della vita; e così abbiano una vita, piena e abbondante.
    Basta rileggere il Magnificat da questa prospettiva. Giustamente è stato scritto: "Proclamando che il povero e il disprezzato sono costantemente l'oggetto del favore divino, il Magnificat minaccia un ordine sociale fondato sulla violenza e sull'ingiustizia, e fa vacillare molti costumi e diritti acquisiti. Ci invita a giudicare in modo negativo gli avvenimenti che distruggono la vita e i valori umani, perché non sono in armonia con le possibilità che Dio dà agli uomini" (E. Hamel). Davvero il Magnificat è il canto del Regno di Dio che viene nella povertà del Crocifisso risorto: Dio fa sua la causa del povero e così tutti lo possono riconoscere come l'unico Signore e il Salvatore.
    Lo stesso racconto dell'annunciazione è tutto impregnato della logica del Regno di Dio. Il Vangelo ci racconta la vocazione di Maria nel ritmo e nel tono delle grandi vocazioni dell'Antico Testamento (Gdc 6, 12-24; 13, 3-22; Es 3, 1-12; 4, 1-17). Nel modo con cui il testo è costruito, Luca sembra ricordarci che Maria è chiamata da Dio per continuare l'impresa affascinante di liberare il suo popolo.
    Come testimonia il Magnificat, Maria possiede il coraggio fiero e solenne dei grandi profeti, quando difende nel nome di Dio, i diritti dei poveri e degli oppressi.
    Questa stessa passione la esprime anche nelle piccole cose, quelle che solo lo sguardo di donna e di madre sa cogliere. Intraprende un lungo e rischioso viaggio per aiutare la cugina Elisabetta che immaginava bisognosa della sua assistenza ((Lc 1, 39-56). A Cana mostra una passione premurosa e preveniente, sollecitando il figlio a restituire gioia alla festa di nozze (Gv 2, 1-11).

    LA "GRAZIA" DI MARIA PER NOI

    La tradizione pastorale ha spesso riservato a Maria una funzione quasi "sacramentale": come "grazia" per la nostra salvezza (soprattutto nei momenti più difficili dell'esistenza, personale e collettiva).
    La proposta avanzata in questa riflessioni sembra ridurre Maria ad una sola funzione esemplare. Non può essere un modo limitativo rispetto a questa indicazione tradizionale?
    Per rispondere dobbiamo ricomprendere prima di tutto il senso di quella prospettiva sacramentale che è in gioco in questa questione.
    Anche in questo caso, entra in causa la "coscienza ermeneutica".

    La salvezza in una prospettiva sacramentale

    La salvezza si realizza nell'incontro tra Dio e l'uomo. Questo processo salvifico è un atto di gratuita accondiscendenza da parte di Dio e di libertà, responsabilità, decisione personale da parte dell'uomo.
    Il modello teologico tradizionale pensava questo incontro in uno schema molto dualista che partiva dalla distinzione tra mondo sacro e mondo profano. Il mondo sacro è quello di Dio, tutto avvolto nella sua grazia di salvezza. Il mondo profano è il nostro mondo quotidiano, quello che in cui si svolge l'avventura della vita di tutti i giorni.
    Da questa visione nasce un modo molto preciso di comprendere la funzione dei sacramenti in ordine alla salvezza.
    Essi sono infatti pensati come gli interventi diretti e quasi databili di Dio, mediante cui egli sottrae frammenti di profano e li colloca nel sacro. Si fa salvezza perché viene travalicato il confine, sotto la spinta potente del gesto divino. Il mondo, nel suo insieme, resta profano, immerso nel peccato e lontano da Dio. Segmenti di questo mondo sono trasformati radicalmente: diventano realtà nuove, ormai pienamente del mondo sacro, anche se per il momento ancora parcheggiate nel mondo profano.
    La teologia dell'Incarnazione ci ha aiutato a vedere le cose in modo molto diverso.
    La distinzione tra mondo sacro e mondo profano è vera, ma ormai vecchia e definitivamente superata, almeno come dato di fatto in cui siamo costituiti oggettivamente e come possibilità aperta alla responsabilità personale. Il mondo profano è diventato, in qualche modo, la tenda in cui Dio ha preso dimora, per essere il Dio-con-noi, intimo ad ogni uomo più di se stesso. Con questo gesto, gratuito e imprevedibile, l'ha trasformato in mondo sacro, luogo della sua presenza ed evento della sua grazia che salva.
    Nella vita quotidiana Dio è presente come offerta imprevista, come amore silente. La presenza diffusa della grazia dell'autocomunicazione di Dio è una esperienza vissuta ma non detta, percepita ma non formalizzata. Questa sacramentalità diffusa ha bisogno di esprimersi, per consolidarsi e per inverarsi. Quando viene "celebrata", il cristiano ne resta più intensamente posseduto.
    Non possiamo dimenticare, infatti, un dato fondamentale per comprendere in modo cristiano l'azione salvifica di Dio. La salvezza non opera mai in modo magico e automatico, come se fosse sufficiente porre il gesto per ottenere il risultato. Dio la propone misteriosamente ma irrevocabilmente alla libertà e responsabilità personale. Si è nella salvezza solo quando pronunciamo la nostra decisione per il dono di Dio.
    Il processo ha due protagonisti: Dio e l'uomo. Si incontrano in una esplosione di libertà. Tutto il resto (Gesù stesso, la vita quotidiana, la Chiesa e i sacramenti) sono manifestazioni concrete e storiche in cui l'evento di salvezza si fa appello alla decisione personale, invitando ad accogliere il dono contenuto nella manifestazione stessa. Il segno sacramentale non ha una funzione estrinseca; esso "contiene" veramente l'evento di salvezza. Lo contiene e lo comunica però non in modo strumentale, ma come appello ad una decisione personale.
    Nel sacramento il silenzio viene infranto e lo svelamento assicura un più ampio coinvolgimento personale.
    Questo coinvolgimento non è un puro gioco di intenzionalità, come capita nei processi simbolici che costituiscono la trama dei rapporti intersoggettivi. La tradizione cristiana afferma in modo perentorio che nei sacramenti della salvezza Dio è presente ed agisce efficacemente.
    Per questo l'autocoinvolgimento è una esperienza privilegiata dell'autocomunicazione di Dio. L'uomo, reso attento all'appello e alla grazia dell'autocomunicazione divina in essa contenuta, in forza del sacramento che gli è stato offerto, può decidersi più riflessamente per la salvezza di Dio.

    La funzione salvifica di Maria

    Il dono di Maria per la nostra salvezza si colloca sul piano "mediativo": ci rivela chi siamo noi e chi è Dio. Riportandoci alla verità del mistero che siamo e in cui siamo collocati, ci aiuta a percepire l'insondabile ricchezza della presenza di Dio per la nostra vita e ci sollecita ad accoglierlo in autenticità.
    Per questo è un dono di salvezza: è "grazia", che chiama a responsabilità la nostra libertà e sostiene l'incontro con Dio che salva.
    Con lei è facile riprogettare la nostra esistenza. Non è il modello, che serve solo a buttare in crisi, perché giudica impietosamente quello che siamo dalla perfezione, un po' fredda e irraggiungibile, di quello che dovremmo essere. Con lei compagna di viaggio, che mostra il cammino, è dolce la fatica di percorrerlo; lei fa festa con noi dopo ogni passo sofferto, riaccende il nostro sogno di futuro, quando proprio non ce la facciamo più.


    T e r z a
    p a g i n A


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