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    Maria di Nazaret: l'utopia dell'umano secondo la bibbia



    Carmine Di Sante

    (NPG 1994-05-6)


    Quanto più la tradizione cattolica è ricca di riferimenti mariologici, tanto più la testualità biblica è scarna ed essenziale. Se si fa, infatti, eccezione di Luca (l'autore che, insieme con Matteo, apre il vangelo con i cosiddetti racconti dell'infanzia) e di Giovanni (l'autore teologo per eccellenza, insieme con Paolo), non sono molti i brani neotestamentari consacrati a delineare la figura di colei che è la madre di Gesù e - a partire dal dogma del Concilio di Efeso del 431 - la madre stessa «di Dio» (Teotòkos).
    Ma anche se scarna ed essenziale - o forse proprio per questo - la testualità biblica disegna un'immagine suggestiva della «ragazza» di Nazaret che mai, come oggi, appare efficace e attuale quando, nel tempo della crisi, si è tutti chiamati a ripensare l'umano. Ed è all'umano alla sua idealità, alla sua pienezza, alla sua realizzazione secondo verità ed autenticità che fa pensare la ragazza ebrea vissuta, circa duemila anni fa, a Nazaret: non come simbolo o come mito (proiezione dei desideri della cristianità sui suoi tratti personali), ma come soggettività femminile che, nella sua irriducibile singolarità, ha realizzato pienamente la sua umanità «secondo Dio». Contrariamente alla modernità che, opponendo Dio all'uomo, ha pensato la realizzazione umana slegata dal divino o contro il divino, la bibbia li presenta in un rapporto peculiare che, oltre l'opposizione e oltre l'identificazione, è il rapporto di alleanza. Non è senza significato che, nel profetismo, il rapporto tra l'uomo e Dio viene pensato sull'analogia del rapporto tra l'uomo e la donna: rapporto d'amore dove l'uno fa - ed è chiamato a fare - la felicità dell'altro.
    Maria di Nazaret, per la bibbia, è la donna che realizza in sé l'utopia dell'umano: dell'umano secondo Dio che è il vero umano.
    Di questa «utopia» delineeremo i tratti principali alla luce del racconto dell'annunciazione di Luca nel primo capitolo del suo scritto.

    LA GRAZIA

    «Nel sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. Entrando da lei disse: "Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te"» (Lc 1, 26-28).
    L'angelo - mediazione del volere divino - annuncia a Maria di Nazaret di essere «piena di grazia», kecharitomène, nella lingua originale: cioè la «gratificata», la «graziata», colei che è «tutta grazia», «avvolta nella grazia», dentro l'orizzonte della «grazia».
    Cos'è questa «grazia» che, per il messaggero divino, è il tratto primario (è infatti con questa parola che l'angelo le si rivolge fin dall'inizio) e costitutivo della ragazza di Nazareth?
    Nella lingua italiana il termine grazia rimanda a ciò che è «ben fatto» e, quindi, è bello, armonico, attraente. Parlare, ad esempio, di una persona «graziosa» o di un quadro «grazioso», è parlare della bellezza delle loro forme e della loro apparenza - nel senso di apparire, mostrarsi, farsi vedere - dove ogni parte ed elemento sono finiti e rifiniti in figure compiute e «per-fette».
    Ma per la bibbia la «grazia» rimanda ad un contesto semantico totalmente altro: non la grazia come bellezza ma la grazia come benevolenza, che non inerisce alla «forma» del soggetto ma alla sua volontà come volontà di bene, come bene-volenza; ma soprattutto non la grazia come tratto di cui il soggetto è portatore e sul quale attestarsi come «io» («io sono bello») o rivendicare il «mio» (la «mia» bellezza), ma la grazia come extra, come qualcosa che non proviene dall'io anche se è per l'io; la grazia come dono con cui il soggetto non ha né può avere un rapporto di produzione ma solo di fruizione: la grazia come gratuità che esclude la «comprensione» e che invoca accoglienza e recezione. Per questo, nella bibbia, solo Dio è grazia: perché solo Dio è benevolenza, volontà di bene che crea il mondo non per esprimere la sua perfezione (come fa l'artista con il suo quadro o il poeta con il suo scritto) ma per donarlo all'uomo gratuitamente.
    Il testo biblico per eccellenza dove Dio si rivela come il Dio della grazia - o bontà - è il racconto esodico che lo presenta come colui che «osserva la miseria del suo popolo in Egitto», «ode il suo grido», «conosce le sue sofferenze», «scende per liberarlo dalla mano dell'Egitto» e «farlo entrare verso un paese bello e spazioso» (cf Es 3, 78). Ed è alla luce di questa esperienza originaria del «chinarsi» di Dio gratuitamente sulla propria estraneità ed oppressione che Israele, successivamente, giunge alla comprensione e ricomprensione della stessa creazione: non più come epifania della potenza di Dio, bensì come evento della sua bontà, della sua grazia e della sua gratuità.
    È questa - la bontà come grazia e come gratuità - l'originario che, per l'autore biblico, è dentro le cose e che, altra dalle cose, si offre all'uomo in ogni istante.
    Quando l'angelo si rivolge alla ragazza di Nazaret salutandola come «piena di grazia», le annuncia questa grazia come benevolenza e come bontà. Maria è «piena di grazia» perché si scopre e si vive entro l'orizzonte della bontà: entro il mondo come benedizione dove ogni cosa, al di là della sua dimensione utilitaristica (il bene come fruizione) ed estetica (il bene come bellezza) è avvolta in una dimensione altra (il bene come bontà) che, dentro le cose ma irriducibile ad esse, le fa essere. Maria è «piena di grazia» - e con lei ogni uomo e ogni donna di cui ella è la figura esemplare - perché nel mondo che i suoi occhi contemplano, ogni cosa (dai dolci tramonti della sua Nazaret, ai suggestivi paesaggi della sua Galilea, alle voci chiassose dei bambini che riempiono le piccole strade del suo villaggio) le parla e le porta la Presenza di Dio come benevolenza.
    «Il Signore è con te», le aggiunge l'angelo dopo averla salutata come «piena di grazia». Nella bibbia «signore» è la traduzione del tetragramma (le celebri quattro lettere - YHWH - con cui Dio si rivela a Mosè) ed esso non si riferisce all'essere di Dio in sé bensì al suo essere per l'uomo.
    Di Dio, infatti, possiamo sapere sempre solo questo: che egli è con l'uomo e per l'uomo, sempre al suo fianco, compagnia dei suoi giorni e delle sue notti, e che mai abbandona anche se abbandonata.
    Maria è «piena di grazia» perché alla presenza di questa Presenza e in sua compagnia.
    E alla luce di questa Presenza e di questa Compagnia, la sua esistenza si trasfigura in grazia, non solo nel senso biblico della benevolenza, ma anche in quello greco della bellezza, divenendo, per questo, non solo la «tutta santa» ma anche la «tutta bella».

    LA «Rl-CONOSCENZA»

    Recandosi dalla parente Elisabetta, che l'accoglie proclamandola «beata» per aver creduto «nell'adempimento delle parole del Signore», Maria risponde con il noto inno del «magnificat»:

    «Allora Maria disse:
    L'anima mia magnifica il Signore
    e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
    perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
    D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
    Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente
    e santo è il suo nome:
    i generazione in generazione la sua misericordia
    si stende su quelli che lo temono...» (Lc 1, 48-50).

    Non è importante - in questo contesto - fare l'esegesi di questo bellissimo testo dove si condensa il meglio della spiritualità ebraica come spiritualità della benedizione, del «dire bene di Dio» per i suoi «beni» sottesi dal suo Bene come Benevolenza, cioè come bontà e come gratuità.
    Quello che qui è importante rilevare è che, per Luca, Maria di Nazaret ha vissuto così profondamente l'autocoscienza della grazia - l'autocoscienza dove tutto viene colto come radicale gratuità dell'amore di Dio - da diventare anche la figura dell'umano riconoscente.
    È infatti proprio la ri-conoscenza, nel duplice significato di «nuova conoscenza» e di «gratitudine», il secondo tratto costitutivo dell'umano biblico. Se tutto è «grazia», dal raggio di sole, al canto dell'usignuolo, all'acqua del ruscello, al filo d'erba, al sorriso del bambino, l'umano pienamente riuscito è quello di chi, come la donna di Nazaret, vive nella consapevolezza di questa «gratuità», pronunciando, in ogni istante, il «magnificat».
    Nel celebre discorso della montagna, Gesù si rivolge alle folle con questo invito: «Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che vestirete; la vita, forse, non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?... Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?» (Mt 6, 25-30).
    Se tutti gli esseri viventi - non solo gli uomini ma anche gli uccelli del cielo e i gigli dei campi - sono beneficiari della grazia divina, per la bibbia la differenza tra i primi e i secondi non è da individuare nell'ordine della razionalità, come ha stabilito la grecità per la quale l'uomo è «animale razionale», ma nell'ordine della riconoscenza, l'ordine dove la conoscenza è conoscenza della grazia che si transustanzia in azione di grazie.
    Anche di questa riconoscenza la donna di Nazaret resta, con il suo «magnificat», la figura alta e esemplare.

    LA RESPONSABILITÀ: L'«ECCOMI»

    Ma la grazia che è dentro le cose e che Maria di Nazaret canta nel suo «magnificat», è una «grazia» che, secondo la pagina biblica, sia anticotestamentaria che neotestamentaria, si dà nella modalità del comandamento. Infatti il bene che è dentro le cose del mondo e che, oltre la funzionalità e oltre la esteticità, ne istituisce lo statuto di dono, è il Bene benevolenza che non si offre come oggetto da contemplare bensì come volere che si rivolge al volere dell'uomo chiedendogli obbedienza.
    Pochi termini come quest'ultimo sono fonte di ambiguità e di equivoci, al punto che, nella modernità, è finito per coincidere con la stessa negazione dell'umano, sinonimo di infantilismo, di immaturità e di alienazione.
    Ma per la bibbia l'obbedienza a Dio, lungi dal negare l'umano, è la vera condizione che lo instaura. «Obbedienza», dalla radice ob-audire, vuol dire ascolto: ma ascolto responsabile nel senso etimologico del termine di responsoriale, di soggetto che risponde positivamente dicendo «sì» pur avendo la possibilità di dire «no».
    Se il Dio che comanda è il Dio della «grazia», ciò che egli comanda è questa stessa «grazia» e la risposta che essa chiede all'uomo è di acconsentirvi. L'uomo obbediente non è colui che, sostituendo al suo volere quello di Dio, si aliena perdendosi nell'inautenticità, ma colui che, assumendo al posto del suo volere il volere divino, nasce alla nuova identità di soggetto capace di amare gratuitamente.
    Per la narrazione lucana, Maria, la donna di Nazaret è figura esemplare soprattutto di questo tratto dell'umano: l'umano come bontà e come gratuità. Il quadro dell'annunciazione che si apre, infatti, con il saluto dell'angelo: «Ti saluto o piena di grazia», si conclude con la semplice ed efficace risposta della vergine: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto. E l'angelo partì da lei» (Lc 1, 38).
    Maria è l'«eccomi» di fronte a Dio: colei che si definisce non in rapporto al suo io, al nominativo, ma in rapporto al suo Dio, all'accusativo; è «la serva del Signore»: colei la cui identità non è di volere il suo volere ma quello del Dio della benevolenza e della grazia.
    Il «servo», fenomenologicamente, è colui che, nel suo agire, non realizza (nel senso di rendere «concreto» e «reale») il suo progetto ma il progetto del padrone; colui la cui identità è quella del soggetto responsabile, nel senso radicale di colui che risponde non dei suoi progetti, ma di quelli del suo signore.
    Le sue forme di «responsabilità» sono attraversate da una differenza irriducibile che è di estrema rilevanza sottolineare.
    La responsabilità di fronte al proprio progetto - ad esempio di portare a termine un corso di laurea, di mettere su famiglia o di avere un figlio, ecc.- si esercita di fronte al proprio io; qui la responsabilità più che «risposta», come vuole l'etimo del termine «responsabilità», è scelta intelligente dei mezzi che traducono il progetto in realtà; ed è soprattutto coerenza tra la decisione presa e la sua esecuzione.
    Ma immaginiamo che un giorno, nel realizzare il suo progetto, l'io si trovi percosso da una voce - quella, per la bibbia, del «povero», dell'«orfano» e della «vedova» - che, come il malcapitato della parabola lucana del «buon samaritano», gli chiede aiuto. È di fronte a questa voce che, per la bibbia, l'io nasce alla vera responsabilità: non la responsabilità all'interno della propria progettualità, ma quella che, mettendo in discussione quest'ultima, la pone a servizio dell'alterità dell'altro, chinandosi sul suo bisogno gratuitamente, come fa Dio, e andandogli incontro a mani piene, colmandolo di «pane» e di «vino», sempre come, ogni giorno, fa Dio con la «ricreazione» della creazione.
    Per la bibbia l'umano veramente umano è nella responsabilità: nel «dire sì» alla grazia di Dio, al suo amore gratuito, alla sua benevolenza e alla sua bontà; un «dirgli di sì» che è riprodurre nei confronti dell'alterità dell'altro questo stesso amore di gratuità.
    Per la bibbia il progetto di amore di Dio - amore di gratuità - passa attraverso il volere dell'uomo, allo stesso modo, ad esempio, che la musica di Bach o di Beethoven, esige, per farsi realtà, l'obbedienza al maestro da parte degli orchestrali.
    È questa la ragione per la quale la responsabilità - il dire sì a Dio divenendo il suo «eccomi» e il suo «servo» - è il terzo tratto costitutivo dell'uomo biblico, in cui si riassumono anche i due precedenti. È attraverso questo «sì» e questo «eccomi» che, per la bibbia, il mondo si trasfigura in creazione e che la grazia di Dio che dona il mondo per amore, si fa, ogni mattina, storia e realtà attraverso la corresponsabilità umana (o alleanza, in termini biblici).

    BENEDETTO IL FRUTTO DEL SENO TUO GESÙ

    Nella linea ermeneutica privilegiata fino adesso, Maria, per il testo lucano, è la figura esemplare dell'umano secondo Dio: in quanto «piena di grazia», i suoi teneri lineamenti di donna ci dicono che anche ognuno di noi è «pieno di grazia»; in quanto voce che innalza il suo «magnificat» a Dio, il suo canto che da due millenni riempie le volte delle chiese cristiane, ci dice che anche ognuno di noi (ri)trova la sua identità solo nella riconoscenza; in quanto, infine, «l'eccomi» di fronte a Dio, i suoi lineamenti di «serva» ci dicono che solo nella rinuncia alla progettualità l'io, transustanziandosi in responsabilità, nasce all'altezza dell'umano come umano non per sé ma per l'altro: all'umano come bontà, come santità, come separazione dal proprio io e come disinteresse.
    Ma prima che figura dell'umano secondo Dio, Maria è soggettività femminile unica e irripetibile in sé che, proprio nella sua unicità e nella sua irripetibilità, è «piena di grazia», «riconoscente» e «responsabile»; e se, nella tradizione cristiana, essa è figura dell'umano ideale, in tanto questo è possibile in quanto, soggettivamente e realmente, ella ha vissuto ed incarnato fino in fondo i tratti costitutivi dell'umano biblico. In quanto soggettività singolare, la singolarità di Maria è legata al mistero che l'angelo le svela dopo averla salutata come «piena di grazia»: «L'angelo le disse: Non temere Maria, perché hai trovato grazie presso Dio. Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell'altissimo...» (Lc 2, 29-32). E alla domanda successiva di come tutto questo sia possibile, l'angelo continua: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'altissimo. Colui che nascerà da te sarà dunque santo e chiamato figlio di Dio» (Lc 2, 35).
    Più che la «registrazione» di un dialogo realmente accaduto, queste parole sono la rilettura teologica, alla luce della morte e della risurrezione di Gesù, della grandezza di Maria, così come è stata compresa dalla chiesa delle origini. Per questa, l'unicità di Maria non va colta nella sua maternità in quanto tale, ma nel suo radicale abbandono all'amore paradossale di un Dio che, come il Dio di Abramo che chiede a quest'ultimo di sacrificargli il figlio, sembra ogni volta smentire il suo amore.
    Madre di un figlio che le nasce in grembo «senza conoscere» uomo; che vive per circa trenta anni nel silenzio e nell'anonimato di Nazaret; che l'abbandona gli ultimi anni per annunciare sulle vie della Palestina l'imminenza del regno di Dio; che durante la sua attività pubblica non mostra particolare attenzione per la famiglia d'origine («chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?... Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre»: Mt 12, 48 ss); che molti ritengono «fuori di sé» (Mc 3, 21) e «posseduto da uno spirito immondo» (Mc 3, 30); che altri pensano sia un esaltato che pretende di essere come Dio; che viene condannato a morte come sobillatore e come «bestemmiatore» (cf Mt 26, 65); che muore tra due malfattori, abbandonato da tutti, ad eccezione di alcune donne che, da lontano, assistono alla sua agonia in croce; e che, a tre giorni dalla sua morte ignominiosa, alcune donne dicono di averlo visto risorto, costituito, per questo, figlio di Dio e signore dal quale si genera lo spirito capace di rigenerare la faccia della terra: nonostante madre di un figlio come questo - «scandalo», come vuole Paolo, per gli ebrei e «pazzia» per i pagani (l Cor 1, 23) -, madre che mai ha dubitato dell'amore di Dio e della sua grazia.
    È per questa sua fede - fede come abbandono incondizionato all'amore di Dio nonostante e contro ogni apparenza - che Maria è la «piena di grazia»: non solo perché, come ogni uomo e come ogni donna, è stata oggetto della grazia di Dio ma perché, a differenza di ogni altro uomo e di ogni altra donna, attraverso il suo «eccomi», nella storia ha generato il messia che, nella sua morte e nella sua risurrezione, ha ridischiuso il nuovo principio (il principio perdono che invece di rispondere al male con il male - suprema, impensabile e irraggiungibile nuova grazia e bontà - l'assume lui stesso) in forza del quale il soggetto umano, da violento torna alla possibilità di soggetto riconoscente e responsabile; il mondo, da alienato a mondo di creazione come benedizione; e l'umano, da ambiguo o disumano, a pienezza di umano secondo Dio, cioè utopia.
    Maria «la piena di grazia» è soprattutto tale perché, in quanto madre del messia crocifisso, ha rigenerato nella storia il principio della grazia.
    Per questo «tutte le generazioni» la chiamano e la chiameranno, per sempre, «beata».


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