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    Vocazione umana,

    vocazione cristiana

    Christoph Theobald

     

    Senza dimenticare la trama dei racconti biblici, rifletteremo su una prima distinzione che fu ripristinata dal concilio Vaticano II: la distinzione tra la vocazione cristiana e la nostra vocazione umana. La prima è inaugurata dalla conversione a Cristo Gesù e dal battesimo, ma è sulla seconda che s'innesta ogni chiamata a diventare cristiano.
    Ricordare questa distinzione è indispensabile in un contesto in cui l'esperienza di «vocazione» è troppo spesso ridotta ad alcune figure ecclesiali precise: il prete, la religiosa e il religioso. Ci stupiamo della loro «rarefazione» in occidente, invece di renderci conto che le esortazioni a una più grande generosità in tale ambito non servono a nulla. Perché troppe comunità e troppi credenti non sanno più cosa può essere un'esperienza di vocazione: in realtà non sanno più collegare la loro fede cristiana a una chiamata, e ancor meno comprendere questa fede come un modo di vivere il loro «mestiere di uomo». C'è un legame di causa/effetto tra la difficoltà di mettere la propria vocazione cristiana al centro dell'avventura umana, e al suo servizio, e la difficoltà di considerare la propria vita relazionale, professionale ecc., a partire dalla propria fede. Solo colui al quale la vocazione cristiana ha dato il senso dell'umano, della sua gravità spesso drammatica e della sua bellezza, della sua diversità infinita e del suo carattere singolare per ognuno può far comprendere a ogni altra persona il valore incomparabile della sua esistenza, quali che siano le sue appartenenze, le sue condizioni o scelte di vita. Quest'attenzione, questo pensiero effettivo per l'altro può occupare un posto sempre più centrale nella sua vita e forse permettergli un giorno di sentire una chiamata particolare. Ma come potrà avvenire ciò se questa esperienza fondamentale non è più garantita? Se la passione cristiana per l'opera di Dio in ogni essere umano non è già stata suscitata, ciò è semplicemente impossibile.
    La «vocazione» riguarda, in effetti, il tutto dell'esistenza umana e ogni essere umano. Bisogna dunque poterne dire qualcosa che sia udibile oggi da tutti, senza utilizzare a ogni costo il linguaggio biblico o ecclesiale. Cercherò, in un primo tempo, di dire l'esperienza fondamentale di ogni vita umana che trova il suo senso e il suo orientamento in un «ascolto» di ciò che è originario e spesso profondamente nascosto nel più intimo di ogni esistenza. Per suscitare il proprio ascolto interiore, ciascuno di noi ha bisogno di altri che sanno ascoltare e suscitare. Questi «traghettatori» possono essere i genitori, o delle persone più anziane, o qualsiasi altra persona con cui identificarsi, perché l'ammirazione per un terzo farà nascere in sé il desiderio di diventare «come lui»; ciò non significa identico a lui, ma «come lui», alla ricerca del proprio cammino; torneremo su questo in un secondo tempo. Questa struttura fondamentalmente relazionale di ogni vocazione umana ci consentirà allora di accogliere, proprio in questo luogo di apertura, Cristo Gesù come «traghettatore» unico: chiamando chi vuole, offre a chi lo segue o lo imita di andare fino in fondo al proprio cammino; una finalità che la Bibbia riconosce nella chiamata di ciascuno a essere a immagine e somiglianza di colui di cui è vietato fare un'immagine (Gen 1,26; Dt 4,16-18). Preciseremo questo nel terzo tempo della nostra riflessione a proposito della specificità della vocazione cristiana.

    LA VOCAZIONE UMANA: UNA DINAMICA SINGOLARE E UNIVERSALE

    Il linguaggio della «vocazione umana» è certamente sorprendente per molti. Eppure gioca un ruolo importante nei testi del concilio Vaticano II, in particolare nella costituzione pastorale Gaudium et spes che, nella sua prima sezione, tratta lungamente della Chiesa in rapporto alla «vocazione umana»; un tema che troviamo anche negli scritti di alcuni filosofi. Martin Heidegger, per esempio, utilizza la terminologia della «vocazione» quando riflette sulla coscienza umana e valorizza precisamente la metafora della «voce». La coscienza si colloca nel luogo stesso in cui qualcuno si sottrae dalla forma inautentica di esistenza del «si» impersonale: «si» sente, «si» dice, «si» fa, ecc.; tutti conosciamo quel modo di collocarci nella vita che consiste nell'adottare l'opinione comune. La coscienza invece emerge quando comincio a farmi la mia idea, il mio giudizio, e a comportarmi in modo responsabile, coerentemente con quel che penso e dico. Secondo Heidegger, l'emergenzadi questo «sé» è simile a una chiamata sentita. Vediamo il passo centrale del § 56 della sua prima grande opera, Essere e tempo:

    Che cosa dice la coscienza nel suo chiamare il richiamato? A rigor di termini, nulla! La chiamata non afferma nulla, non dà alcuna informazione su eventi mondani, non ha nulla da dire. Men che meno si propone di suscitare nel se-stesso richiamato «un colloquio con se-stesso». Al se-stesso richiamato non è detto nulla; esso è semplicemente convocato a se stesso, cioè al suo più proprio poter-essere.

    Questo bel testo potrà guidarci per un attimo, anche se ne scopriremo i limiti. Ci fa capire che la chiamata non riguarda innanzitutto l'uno o l'altro aspetto della nostra esistenza nel mondo, per quanto importante possa essere, ma raggiunge il tutto della nostra vita. Ora, questa vita non è «nulla» di ciò che abitualmente occupa le nostre conversazioni interiori. Se prestiamo attenzione alla chiamata allo stesso modo con cui percepiamo quell'avvenimento, sentimento, immagine, intuizione o pensiero «che ci passa per la testa», non sentiamo effettivamente «nulla». Se invece ci apriamo alla totalità della nostra vita, benché ci sfugga, allora sentiamo la chiamata che ci convoca verso noi stessi. Abbiamo intuito ciò quando abbiamo parlato del «nome»: «Samuele, Samuele!», «Eccomi!». «Introducendo» Dio nel luogo della coscienza, l'apostolo Paolo parla della stessa esperienza; ricordiamo ciò che dice di Abramo: «Egli è nostro padre davanti a colui nel quale credette, il Dio che dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che non esistono» (Rm 4,17). È questa l'esperienza che Heidegger traduce a modo suo parlando della convocazione di qualcuno al suo «più proprio poter-essere». Dobbiamo dunque comprendere meglio i due aspetti intimamente collegati di ogni «vocazione umana»: essa riguarda il tutto di una vita, tra il suo misterioso inizio e la sua non meno misteriosa fine, e consiste nel dare questa vita a qualcuno in proprio.

    Non ho che una sola vita

    Isaia, Geremia e Paolo, come abbiamo già visto, fanno risalire la loro «vocazione» fino al grembo materno; un modo per dire che quel che vivono «oggi» fa parte di una coerenza globale, anzi di un orientamento di tutta la loro esistenza che nello stesso tempo sfugge loro. Ma è possibile considerare il tutto della propria vita come un'unità che si sviluppa tra la nascita e la morte? A pensarci bene, anche se ciò non succede spesso, la nostra memoria ci trasmette di preferenza dei «frammenti», dei «brandelli» di vicende o di «episodi» di cui non percepiamo subito il filo che li unisce. Del resto, non è forse più facile
    vivere la propria vita giorno per giorno dimenticando che essa forma un tutto? E assumere così un atteggiamento che Pascal qualificherebbe di «divertimento», senza tuttavia escludere la volontà di rispondere al meglio alle attese e agli appelli dell'ambiente. Ma in ogni esistenza ci sono dei momenti decisivi: un passaggio, più o meno critico, da una a un'altra fase della vita, il sorgere di un imprevisto che trasformerà radicalmente il corso di una vita, un incontro decisivo o una separazione dolorosa, la prova dell'angoscia o una gioia inattesa, ecc., tutte esperienze che possono aprire improvvisamente il nostro sguardo sulla totalità della nostra vita, metterci di fronte alla prospettiva inevitabile della morte e rinviarci al «miracolo» della nostra nascita.
    Quando qualcuno esce allora da una certa apatia e comincia a stupirsi della propria esistenza e di quella altrui, la nascita e la morte diventano necessariamente per lui dei fatti universali e ineluttabili; ma questi fatti, ricevuti e interpretati nelle tradizioni spirituali dell'umanità in modo così diverso, coesistono e s'interpellano reciprocamente nel nostro mondo come mai è accaduto nel passato. L'oriente tenderebbe piuttosto a minimizzare i «limiti» della nascita e della morte, puntando su un lungo lavoro di purificazione di dimensioni cosmiche che li supera, che può essere già cominciato in una vita precedente e può proseguire in un'altra vita, persino in parecchie altre vite. L'occidente, segnato dalla cultura biblica, insisterà invece sulla morte come rottura definitiva.
    La Lettera agli Ebrei esprime il fondamento di questa esperienza umana in modo assai succinto precisando: «per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta (hapax)» (9,27)! Di conseguenza il nostro problema, indubbiamente proprio della cultura occidentale, è di attribuire alla fine della vita un potere che essa non ha e di «essere soggetti, per timore della morte, a schiavitù per tutta la vita» (2,15). Questo potere che la morte pare arrogarsi è in realtà menzognero, dice la Bibbia, perché ci induce a pensare che la vita sarebbe, da un certo punto di vista, un regalo avvelenato e non manterrebbe la sua promessa. Idea terribile perché cade su un terreno fragile, nel quale s'infiltra impercettibilmente, rinforzando la nostra difficoltà a dare semplicemente credito a ciò che abbiamo ricevuto. Cristo non cancella la morte ma, come dice la Lettera agli Ebrei, con la sua stessa morte la riduce all'impotenza, liberando così coloro che ne erano schiavi (2,14-16). Avendo perso il potere menzognero, la morte può allora ritrovare la nascita per diventare, con essa, messaggero, o piuttosto la messaggera che dice silenziosamente a ciascuno di noi: non hai che una sola vita!
    Questo «messaggio» che, improvvisamente, fa della nostra vita un tutto, e un tutto assolutamente unico e insostituibile, è difficile daascoltare in una sfera culturale che, per principio, relativizza i limiti della nascita e della morte e trasforma la vita in «provvisorio», preceduto e seguito da altri «provvisori»... poco importa che si faccia uso o no del linguaggio della «reincarnazione». Ma se si ascolta realmente questo «messaggio silenzioso», quel che accadrà in seguito dipenderà dalla maniera di intenderlo.
    Noi occidentali rischiamo di drammatizzarlo: non hai che una sola vita può, infatti, essere inteso come un invito a lottare contro la morte come se si trattasse di un «nemico», dell'«ultimo nemico», dice san Paolo (1Cor 15,25-27). Questa lotta cerca di spostare sempre più i limiti imposti dalla vita. Certo, la vita è breve; occorre dunque affrettarsi per ottenere ciò che si desidera non solamente sfruttando tutti i mezzi disponibili, bensì inventandone altri per raggiungere questo scopo sempre più efficacemente, cioè più rapidamente. E in questo modo che gli europei hanno inteso «la chiamata» a trasformare questo mondo: la loro «vocazione» umana si è mutata in «professione» o «mestiere»; una mutazione profonda di mentalità iscritta nella lingua tedesca grazie alla prossimità linguistica dei due termini: Berufung (vocazione) e Beruf (mestiere).
    Eppure c'è un altro modo di comprendere non hai che una sola vita: non rappresentare più la morte come «la grande falce» che verrà a «falciare» la nostra esistenza, o come un ladro che verrà a «rubarci» la nostra vita, tutte rappresentazioni che provocano necessariamente i nostri meccanismi di difesa. Ma, alla maniera di san Francesco, ad esempio, potremmo desiderare di lasciarci sorprendere da nostra sorella, la morte. Ciò è possibile solo se le situazioni di «apertura» evocate prima – quei crocevia o quei passaggi decisivi, a volte difficili da vivere, ma che aprono il nostro sguardo interiore improvvisamente e furtivamente sull'intera nostra esistenza – ci hanno progressivamente «familiarizzati» alla prospettiva che la nostra vita è l'unico esemplare di cui disponiamo; allora sapremo forse riconciliarci con questa prospettiva ineluttabile, ma soprattutto intendere, nell'approssimarsi della morte, una buona notizia. Questo messaggio silenzioso sembra allora trasformare la morte in «non-avvenimento»; sant'Ireneo aveva già detto a proposito dei cristiani viventi durante l'ultimo millenario (Ap 20,1-6) che «si esercitano all'incorruttibilità», aggiungendo che «l'uomo vivendo da giusto sulla terra, si dimenticherà di morire». Questa voce senza parole certamente non annulla la morte, ma le toglie il suo «pungiglione» (Os 13,14; 1Cor 15,55), rinviando colui che l'ascolta all'unico miracolo che è la sua nascita, quella di un essere unico, e così alla nascita di tutti gli altri esseri umani.
    L'esperienza della «vocazione umana», così descritta, non invalida l'importanza della «professione» (Beruf), delle competenze richieste e del lavoro reso possibile. Al contrario, relazioni, legami sociali, lavori e scambio di beni, attività ricreative e artistiche assumono tutta la loro consistenza. Tutto ciò, e ancora ben altri aspetti della vita umana, è come incorporato o animato interiormente dalla «voce» che, venendo dall'orizzonte della fine, conduce dolcemente la persona verso il principio e le promesse che cela, mettendola così di fronte al tutto dell'esistenza, la sua, e quella del mondo, che le sfugge nello stesso tempo.
    Tre elementi o versanti di questa esperienza umana devono ora essere esplicitati.

    Chiamati a poter essere

    Il primo elemento è precisamente ciò che provoca in sé l'esperienza di ascolto di una «voce». La citazione di Martin Heidegger che sottolinea il risultato di questo ascolto – l'accesso al più proprio poter-essere del «soggetto» – ci mette sulla giusta via. Secondo le Scritture, «Dio» è l'origine di questa «voce». Egli è evocato proprio nel momento in cui l'uomo ne scopre il carattere esorbitante o eccessivo: nel momento stesso in cui sente la «voce» che abita in lui e nella quale prende coscienza del male che deve affrontare in tutte le sue forme (disgrazia, malattia, diffidenza o malevolenza), sente quella «voce» proclamargli un «beato», una «bene-dizione» che gli permette di stare in piedi, lui che si trova in quel momento sul precipizio del nulla. Essa «chiama all'esistenza le cose che non esistono». Insisto su quest'alterità interiore all'essere umano che rischia di passare inosservata nella filosofia della coscienza di Essere e tempo.
    Questo «vangelo» originario o questo proto-vangelo non può essere udito che in situazioni precise, qualificate in precedenza quali «situazioni di apertura»; in circostanze dunque che, quasi all'improvviso, «aprono» una persona alla totalità della sua esistenza, confrontandola con la morte nelle sue diverse modalità, come abbiamo appena detto. Sottolineiamo il fatto che si tratta veramente di un'esperienza di «vocazione» umana quando il «tu puoi...» è inteso in forma di benevolenza radicale, e poco importa se questa bontà assoluta viene o no riferita a Dio da colui che la sta vivendo.
    Il secondo elemento di questa esperienza è l'accesso simultaneo della persona all'unicità della sua esistenza. Nessuno può sentire al posto di un altro la «voce» silenziosa della promessa inscritta in ogni vita, la cui conseguenza appunto è una solitudine inalienabile. Ma l'unicità dell'esistenza si fonda su delle basi completamente diverse; l'abbiamo già intravisto quando abbiamo parlato della morte e della nascita: la singolarità è fondata sulla dismisura o l'eccesso che si manifesta nell'inafferrabilità della vita nella sua totalità; «l'uomo sorpassa infinitamente l'uomo», diceva Pascal. Questa dimensione di superamento o di dismisura sfida ogni legge che vorrebbe sottometterla a delimitazioni o determinazioni precise, così come ogni paragone tra esistenze che presumerebbe già un'unità di misura. Essa introduce un «in-comparabile»; approssimazione negativa che sola si rivela veramente all'altezza del mistero dell'unicità.
    Si delinea qui un'avventura spirituale, disseminata di tranelli, sulla quale torneremo tra poco: il cammino che va dal «si» impersonale verso il «sé» (Heidegger) o dal paragone con gli altri verso l'assenso pacifico alla propria unicità in-comparabile; è stimandosi, stimando se stessi, che si può rispettare l'altro, anzi amarlo. Ciò non significa che la legge e il paragone non siano necessari, al contrario; oltre alla loro funzione sociale, sono dei punti di orientamento sul cammino verso la singolarità. In questo senso restano inevitabili, anche se possono impedire al singolo di prendere questo cammino. Poiché – ancora una volta – nessuno può affrontare al posto di un altro ciò che nella sua vita è smisurato; la paura può bloccare qualcuno sulla semplice ricerca di conformità o provocarlo a trasformare il paragone o il necessario gioco di emulazione con l'altro in lotta mortale. Ma una persona può anche passare, in tale situazione di apertura, dalla paura alla «fede» e sentire la «voce» della bontà radicale, il proto-vangelo, risuonare dentro di sé e farle scoprire all'improvviso che ciò che nella sua esistenza è smisurato si rivela veramente, qui e ora, a sua misura unica.
    Questo secondo elemento di ogni vocazione umana, l'accesso alla propria unicità, raggiunge qui il primo: l'esperienza dell'ascolto. E se si acconsente, con le Scritture, a «introdurre» il vocabolo «Dio» nello spazio stesso di questa esperienza, allora Dio non può apparire che come l'in-comparabile, l'unico che si manifesta appunto nel momento in cui qualcuno ascolta nel suo foro interno questa chiamata: «tu puoi essere unico».
    Il terzo e ultimo elemento di ogni vocazione umana è la decisione da essa resa possibile e che essa implica. Bisogna introdurre qui ancora alcune distinzioni per cogliere bene la specificità di tale decisione e la sua dimensione d'incarnazione. Nel corso di una vita le decisioni da prendere sono di ogni specie. Possiamo decidere per questa o per quella cosa; decidere di obbedire a tale ingiunzione o infrangerla, sempre supponendo un minimo di consapevolezza nei confronti dei propri legami affettivi e delle proprie fragilità che limitano in modo singolare la libertà delle nostre decisioni; possiamo fare dei progetti a termine più o meno lungo e decidere i mezzi da scegliere in vista della loro realizzazione, a condizione di aver almeno in parte valutato le possibilità di cui si dispone, ecc.
    La de-cisione, addirittura la «recisione» che provoca la chiamata a esercitare il proprio «mestiere d'uomo», entra in gioco in tutti gli aspetti della nostra vita; ma la decisione di cui si tratta qui si colloca a un altro livello: essa coinvolge il tutto della nostra esistenza. Consegnata in proprio a ciascuno, la vita può essere messa in gioco, precisamente nella sua unicità, per l'altro; è il significato del bel termine «im-pegno»: l'azione di mettere in pegno. Possiamo anche parlare di questa decisione in termini di «generosità» o di «generatività» perché la chiamata a mettere in gioco la propria vita riecheggia innanzitutto e soprattutto là dove si manifesta la sua caratteristica più elementare, ossia il fatto di non esistere se non essendo trasmessa: è in questo senso che la vita è veramente donata a ciascuno in proprio. Nessun altro testo come il primo libro della Bibbia, la Genesi, o il. Libro delle generazioni (secondo la terminologia ebraica) sa meglio raccontare questa posta in gioco «vitale» di ogni vocazione umana. Possiamo anche parlarne in termini di «dono», come fa abbondantemente il Nuovo Testamento.
    Questa decisione di impegnare la propria unica esistenza per l'altro non è mai acquisita in modo definitivo. Esiste solamente sotto forma di obiettivo da realizzare continuamente in quelle scelte precise di cui si è già trattato: quelle che derivano dal rispetto della legge e consistono nel rinunciare a ogni violenza nei confronti dell'altro; quelle che riguardano la nostra capacità di trasformare noi stessi, di influire sulla società e il nostro ambiente con i nostri progetti; quelle che ci impegnano nei confronti di questa o quella persona e che suscitano la nostra fedeltà.
    Questi tre elementi o versanti della nostra vocazione umana che abbiamo individuato si possono riepilogare nella formula apparentemente semplice: «Tu puoi... essere unico... e mettere in gioco la tua unica esistenza per l'altro in tutte le tue scelte». Essa non rinvia ciascuno solamente alla sua libertà più originale (tu puoi); essa fa apparire il limite inafferrabile della vita non in modo negativo, ma per ricondurre chi ne prende coscienza verso la promessa nascosta nel miracolo della sua nascita (essere unico). Essa indica l'esigenza di lasciare delle dimore troppo ristrette non per lasciarle, ma per andare fino in fondo a ciò che l'eccesso della vita promette (mettere in gioco la propria esistenza per l'altro). La storia di Abramo l'ha mostrato: «Il Signore disse ad Abramo: "Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò [...]. Possa tu essere una benedizione"» (Gen 12,1-2).
    Si sarà capito che la vocazione umana è un cammino disseminato di tranelli. Lasciarci ricordare, giorno per giorno, che la vita formaun tutto misterioso non va per nulla da sé. Ancora meno facile è eludere le forze della morte che ci minacciano e che rischiano di coprire, in ogni momento, la «voce» tenue del «tu puoi»; ed è francamente difficile percepire, nelle molteplici scelte più o meno complesse che facciamo quotidianamente, la chiamata a rispondere della nostra vocazione umana. Si tratta allora di una proposta eroica, addirittura utopica?
    Vedremo che la sua realizzazione, sempre secondo la misura incomparabile di ciascuno, rimane in gran parte tributaria delle nostre relazioni e di quei «traghettatori» capaci di suscitare in noi il punto di partenza di tutto: l'ascolto. È di queste relazioni che ora dobbiamo parlare.

    FIGURE DI IDENTIFICAZIONE

    In effetti, quando ci capita di guardare indietro per fare memoria del cammino di vita già percorso, prendiamo coscienza del «debito» che abbiamo nei confronti delle persone che ci hanno messo sulla strada. Ma si tratta veramente di un debito? Questi «traghettatori» ci hanno piuttosto concesso di andare avanti facendo appello alle nostre proprie risorse; ci hanno anche sciolto dal sentimento di «debito» scomparendo per continuare il loro personale cammino. Esistono dunque delle condizioni per poter superare gli ostacoli sul cammino d'accesso alla propria vocazione: quelle che dipendono dalle persone di identificazione e quelle che riguardano il nostro modo di metterci in rapporto con esse.

    I traghettatori

    La figura dei «traghettatori» ci fa pensare a quelle immagini remote di uomini che attendono, con le loro barche, sull'argine del fiume, il viaggiatore per fargli «attraversare» la riva. Che bella metafora per dire il nostro entrare nella «vita»!
    Per caratterizzare questi personaggi pensiamo spontaneamente ai genitori e ai loro «sostituti», a tutte le persone che accompagnano i primi passi del bambino, che, uscito dal grembo materno, non può muoversi da solo nel suo ambiente, e deve passare attraverso una fase di «educazione» e di «formazione». È in questo spazio di iniziazione, di istruzione e di apprendimento che una «traversata» fondatrice e un'«uscita» definitiva sono vissute grazie alla relazione tra la bambina o il bambino e coloro che continuano a «generarli» accompagnandoli in questa avventura. Relativamente indeterminato, l'essere umano «nascendo» deve, di fatto, identificarsi con queste persone per crescere, non per inabissarvisi – lo speriamo – ma per strutturarsi progressivamente. C'è da augurarsi che le persone che incontrerà sul suo cammino gli permettano di scoprire in esse e grazie a esse l'esaltante e difficile compito di dare lui stesso «forma» alla propria vita; una forma unica, abbiamo detto, proprio in condizioni in cui il tutto della vita per principio sfugge.
    Questa «formazione» umana non finisce con l'adolescenza o con il passaggio all'età adulta, perché le frontiere tra i periodi della vita umana sono diventate più permeabili e più mobili che nel passato. Nella misura in cui oggi la formazione è continua, il bisogno di riferirsi a dei «traghettatori», a tale compagno di strada o tale collaboratore, si manifesta maggiormente in tutti gli stadi dell'esistenza. Chi non si ricorda d'aver sentito una parola decisiva detta da un altro o d'aver visto nel suo sguardo benevolo la possibilità di fare lui stesso il passo che conta? La prima caratteristica di queste molteplici figure è proprio il «tu puoi» che fanno sentire all'altro, qui e ora, comunicandogli, spesso all'improvviso, quasi un'energia segreta di vita senza sostituirsi a lui.
    Notiamo che questo complesso processo di identificazione e di autorizzazione è, in gran parte, inconscio. Infatti, le immagini delle persone di identificazione riproducono «schemi» parentali, sociali ed ecclesiali, forme di vita tipiche di un determinato ambiente o mode sottoposte a continue fluttuazioni, persino pregiudizi d'ogni specie; insomma dei patterns che come moduli prefabbricati sorreggono l'individuo e rischiano nello stesso tempo di imprigionarlo. Si potrebbe pensare che la forte strutturazione degli stati di vita nella società e nella Chiesa precedente la rivoluzione liberale abbia coartato l'invenzione, da parte del singolo, della propria singolarità e che il pluralismo attuale pressoché indefinito degli stili di vita la favorisca. Non è affatto sicuro, poiché nuovi poteri, spesso meno visibili, occupano lo spazio così decisivo della formazione umana, rischiando sempre di trasformarla in ammaestramento da animali. Una situazione incontestabilmente più caotica delle forme di vita può suscitare delle forze di resistenza interne e spingere a inventare percorsi originali; essa può produrre anche una specie di anestesia e un'incapacità a posizionarsi e impegnarsi, e persino provocare forme di violenza. La cosiddetta fatica di essere se stesso è indubbiamente l'effetto di questa situazione inedita, dove l'esistenza di ciascuno è sempre più lasciata alla sua creatività più o meno viva. È possibile anche che queste condizioni difficili favoriscano delle malattie, poiché la distanza fra lo stress e la somatizzazione del malessere è impercettibile. Il «traghettatore» deve allora mutarsi in «medico», si tratti di qualcuno la cui presenza è benefica o dello specialista della salute, consapevole della qualità relazionale del suo mestiere.
    Per quanto rilevante sia la complessità di questo processo d'identificazione, siamo in definitiva ricondotti alla consistenza o all'autenticità delle figure di traghettatori o di persone attorno a noi che sanno stimolarci. Ciò che fa da modello è la loro coerenza, ossia il loro modo di abitare interiormente le loro parole e i loro atti, la loro capacità a lasciare all'altro il suo posto insostituibile, la relazione più o meno pacifica che hanno con i loro limiti e con il limite ultimo della loro esistenza. In breve, è la loro «presenza» – la loro presenza di ascolto – che può suscitare in colui che le incontra il desiderio di diventare come loro, di entrare precisamente nella ricerca attiva della propria strada a partire dall'ascolto tutto interiore del «tu puoi» che i traghettatori hanno potuto far risuonare solo dall'esterno.

    Identificazione e libertà personale

    Descrivere in questo modo la prima condizione di accesso alla nostra vocazione umana significa anche prendere coscienza che ciascuno di noi è erede di circostanze più o meno favorevoli, più o meno difficili, e in ogni caso mai ideali. Esse possono essere francamente negative e intralciare in modo grave il processo d'identificazione; ma possono anche funzionare come alibi e permettere a qualcuno di lamentarsi indefinitamente e di sottrarsi alle sue responsabilità. Ascoltiamo qui Ezechiele che ci interdice di ripetere: «I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati» (Ez 18,1-4 par.). Infatti, nulla è garantito, né il successo né il fallimento dell'accesso alla nostra vocazione o al nostro «mestiere» d'uomo. Per ogni generazione, a ogni nascita, l'intera avventura umana ricomincia in maniera unica. Tanto vale affermare il carattere propriamente miracoloso di un «successo» che d'altronde, spesso, non si percepisce che a posteriori.
    Questa presa di coscienza antropologica tuttavia non deve impedirci di riflettere sul modo di entrare in rapporto con le persone con cui identificarci che ci stanno attorno e sulle condizioni che favoriranno l'accesso alla nostra vocazione umana.
    La prima condizione è indubbiamente l'accettazione di alcune rotture. Uscire di casa e incontrare gli altri fanno prendere coscienza dei modelli che ci hanno marcato e consentono di abbandonarli. Un giovane ha inizialmente intrapreso gli studi che genitori, conoscenti o semplicemente una necessità gli hanno suggerito, prima di scoprire, a volte attraverso difficoltà o fallimenti, la propria strada. Un altro s'impegna fino in fondo in una determinata carriera e scopre dopo quindici o venti anni che deve cambiare rotta, sentendo sempre più chiaramente che una parte di se stesso non vive più, che la sua energia vitale si sta spegnendo e che è sul punto di ammalarsi. Abbandonare allora le sponde conosciute implica l'accettazione di una nuova vulnerabilità, spesso con una precarietà materiale e psicologica tanto più faticosa per il fatto che legami, a volte costitutivi, sono messi in gioco o spezzati. È chiaro che non si tratta qui di lasciare per lasciare o di rompere per rompere, bensì della necessità vitale di andare avanti e di seguire il desiderio che una misteriosa bussola interiore fa scoprire. L'energia vitale, quando si manifesta di nuovo e forse in modo inatteso, è il segno di una libertà personale che sta realizzandosi.
    Un'altra condizione è lo sviluppo di un senso che sa distinguere tra il definitivo e il provvisorio. È il laboratorio della vita che lo insegna, e d'altronde lo fa più o meno presto. Quando si supera una tappa della propria vita o si attraversa una crisi, la propria esperienza che comincia a prendere consistenza fa mutare lo sguardo su coloro che ci hanno generato e ci accompagnano sul nostro cammino. Col passar del tempo, questo o quell'aspetto della personalità di un congiunto passa in secondo piano e ciascuno di noi diventa invece più sensibile allo sforzo personale che conduce per dare maggiore coerenza alla sua vita; ci lasciamo stupire dall'ospitalità di una determinata persona che trovavamo troppo incentrata su se stessa; diventiamo più indulgenti di fronte a coloro che sono angosciati davanti ai limiti dell'esistenza e sappiamo scorgere i. primi segni di pace che affiorano in loro. Insomma, andare avanti nell'esistenza fa mutare la nostra percezione degli altri, in particolare di chi ci sta più vicino, e fa progressivamente emergere gli obiettivi più decisivi, persino definitivi, della vita che portano dentro di loro.
    Questo cambiamento dello sguardo sui nostri «traghettatori» è legato a una terza condizione di accesso alla nostra vocazione umana: la capacità di chiedere «consiglio». È tutta un'arte saper trarre profitto dall'esperienza dell'altro e dalla sua saggezza, senza perdere la propria libertà, ma permettendo all'altro di suscitarla e di attivarla. La distinzione tra «consiglio» e «precetto» è antica. Essa attesta semplicemente che esiste una differenza tra le acquisizioni elementari che riguàrdano la legge e il cammino del tutto singolare che ciascuno deve poter trovare, a volte in situazioni di conflitto che nessuno può risolvere al suo posto.
    Chiedere consiglio significa accettare lo sguardo più o meno distanziato che l'altro ha su di me e sulla mia situazione e, così facendo, riconoscere che il tutto della mia esistenza mi sfugge. Mettere un «traghettatore» nella posizione di consigliarmi richiederà di saper discernere in ciò che dice quel che effettivamente riguarda me e continuare a sentire il «tu puoi...» e l'esigenza alla quale non posso sottrarmi.
    Alcuni chiedono spesso consiglio e moltiplicano i loro consiglieri, talvolta per proteggersi dalla solitudine inevitabile che comporta ogni decisione o per trovare chi pensa come loro; altri si sentono tanto nel giusto da non avere mai bisogno di ascoltare gli altri. La vera pratica del chiedere consiglio si colloca precisamente in quel luogo fragile dove la nostra libertà non cessa di emergere dal cuore delle nostre relazioni più costitutive: essa è un potente rivelatore dello stato di queste relazioni d'identificazione e della ricerca sempre personale di un itinerario singolare; ci consente di stabilire delle differenze tra i nostri «traghettatori». Non tutti sanno dare consigli e alcuni ne danno senza che nessuno li chieda loro; lo capiamo istintivamente. Ma quando si stabilisce una vera e propria relazione di consiglio, in cui ciascuno è rinviato alla propria unicità incomparabile, affiora una misteriosa sapienza che supera i due interlocutori.

    Per una fecondità

    L'accesso al mestiere d'uomo, così come l'abbiamo definito, si colloca dunque all'interno di questo gioco complesso tra persone di identificazione e colui che si rapporta a esse, trovando progressivamente in queste relazioni, e tramite esse, la propria libertà di dare forma alla sua esistenza. Su questo cammino, la soglia decisiva è la fecondità che offre nello stesso tempo il criterio ultimo di ogni vocazione umana. Se, come abbiamo mostrato in precedenza, la chiamata a divenire umano risuona là dove la vita manifesta più chiaramente che essa non esiste se non essendo trasmessa, capiamo che la fecondità è il segno di una chiamata effettivamente ascoltata. Questa fecondità non è solamente «generazionale» nel senso della procreazione biologica e umana; può essere anche «fondazionale». In quest'accezione più ampia, essa si mostra in ogni fondazione, opera o istituzione in cui l'uomo e la donna iscrivono nella storia qualcosa della loro vita, addirittura il tutto della loro esistenza, lasciando ad altri il compito di prenderne la successione. Il tempo interviene qui sotto forma di legame: quel che è stato messo al mondo sfugge inesorabilmente a coloro che l'hanno generato e nello stesso tempo li lega tramite un vincolo di fedeltà a sé e alla sua «opera», aprendo in questo modo lo sguardo sulla successione delle generazioni e su ciò che di «definitivo» essa comporta nel profondo di ciò che accade.
    Le energie fondamentali della nostra esistenza sono attivate e formate da questo paradossale accedere alla nostra identità nella trasmissione della vita: l'istinto sessuale e il bisogno di contare e di godere, la brama di accumulare beni di ogni specie, il desiderio di riconoscimento e la volontà di potenza ecc. La legge che regola la loro manifestazione nel rispetto degli altri tende a stabilire e a mantenere un equilibrio fragile tra, da un lato, il loro controllo in favore di un ordine sociale, che può condurre all'atonia e all'assenza di ogni creatività, e, dall'altro lato, la loro esplosione, che comporta degli effetti patologici altrettanto gravi sul piano individuale e sociale. L'educazione ha come scopo quello di stabilire questo equilibrio sempre precario e di formare nei soggetti la capacità di guida. L'educazione si fonda su delle «forme» o «stati di vita» più o meno stabili, a disposizione di una determinata società per ordinare le nostre energie fondamentali alla trasmissione della vita, in tutti i sensi del termine.
    Ora sappiamo bene che, da sempre, tensioni non trascurabili - e quanto dolorose! - si manifestano nel punto preciso in cui la componente sociale dei nostri itinerari e la componente personale, l'economia libidinale di ogni individuo come si suole anche dire, si toccano da vicino. Attribuendo un valore vocazionale a certi stati di vita -al celibato per il Regno, alla vita clericale e alla vita religiosa - e regolando nello stesso tempo la forma di vita del matrimonio, il cristianesimo si è collocato su questa frontiera. Ha investito la trasmissione della vita come luogo per eccellenza della vocazione umana, allargando il suo senso generazionale ad altri tipi di fecondità. Ha così messo a disposizione degli individui forme di vita assunte da figure di identificazione e le ha configurate nella sua legislazione. Ha offerto a tutti delle motivazioni forti ed energie evangeliche per esercitare un'azione sulla loro umanità libidinale e spirituale. Ha prodotto dei sistemi pedagogici che hanno saputo orientare la cultura umanista ereditata dagli antichi verso la formazione progressiva di un'umanità capace di collocarsi più liberamente nella sua avventura a un tempo singolare e collettiva.
    L'indebolirsi del cristianesimo nelle nostre società occidentali (per delle ragioni che non è possibile trattare in questo libro) mette in qualche modo a nudo il compito di ogni essere umano di accedere alla sua vocazione unica e permette soprattutto di distinguere i diversi strati del nostro essere che vi sono coinvolti. Li abbiamo percorsi, andando dal più segreto al più visibile. La biforcazione fondamentale si colloca nel punto in cui l'esistenza può presentarsi a me come un tutto che mi è donato in proprio, senza che io possa mettere la mano su di lui; al di fuori di questo sguardo in avanti, verso l'orizzonte della mia morte e, indietro, verso la mia nascita, il linguaggio della «vocazione» perde il suo senso. È solamente in questo «spazio» globale, precario e vulnerabile, che i diversi versanti dell'e-sperienza umana, designata dal termine «vocazione», possono articolarsi; li abbiamo ricapitolati nella formula: «Tu puoi... essere unico... e mettere in gioco la tua unica esistenza per l'altro in tutte le tue scelte». L'accesso all'ascolto di questo «tu puoi...» si dischiude all'interno del gioco di relazione di identificazione che abbiamo appena descritto; gioco di relazione che accompagna il processo di formazione del bambino fino alla soglia dove potrà lui stesso dare forma alla sua esistenza, scoprendo sempre di più la sua vocazione originaria a partire dalla fecondità delle sue scelte. Questo itinerario verso una maggiore fecondità è contrassegnato, infine, da «forme» o «stati di vita» più o meno stabili. Forse il loro indebolimento e il loro moltiplicarsi nelle nostre società europee aggiungono una nuova difficoltà alla ricerca di ciascuno della propria vocazione umana. Scegliendo un partner o rompendo il legame con lui, restando celibe per scelta o indotto dalle circostanze ecc., il singolo non può più accontentarsi di entrare semplicemente in uno «stato» già esistente come un «prefabbricato», dandogli semplicemente vita, ma deve in qualche modo reinventarlo sul momento. Ciò spiega in parte il carattere doloroso di innumerevoli situazioni che conosciamo.
    Il vangelo di cui si è già trattato s'innesta in questo complicato itinerario di accesso alla nostra umanità e lo «ride-finisce» o lo «riorienta»; ma notiamo anche che lo sguardo che abbiamo gettato sulla vocazione umana è già orientato da questa buona notizia. Quando il «tu puoi...» assume effettivamente la tonalità del vangelo di Dio e si pone la questione della credibilità del traghettatore che, qui e ora, lo fa risuonare, Gesù il Cristo può prendere consistenza per qualcuno. Questi passa allora dalla «vocazione umana» alla forma molto specifica che questa acquisisce nella «vocazione cristiana».

    IMITARE CRISTO - SEGUIRE CRISTO

    Ritroviamo a questo punto preciso ciò che è stato detto sulla chiamata udita da Gesù di Nazaret e da Paolo di Tarso, ma in un quadro antropologico più ampio, quello di ogni vocazione umana. Infatti ormai ci collochiamo all'interno di un gioco relazionale tra delle persone di identificazione da un lato, e chi fa a esse riferimento dall'altro; gioco relazionale appunto di cui abbiamo trattato. Il Nuovo Testamento, per descrivere la relazione tra Cristo e coloro che a lui fanno riferimento, utilizza due linguaggi diversi: il linguaggio dell'«imitazione» e quello della «sequela». Se li collochiamo nell'insieme delle Scritture, questi due modi di parlare «ridefiniscono» e concretizzano l'orientamento fondamentale della Bibbia, che è di «formare» l'uomo a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27). Vedremo, per terminare, che il concilio Vaticano II si fonda su questa ridefinizione per presentare la vocazione cristiana come chiamata al servizio della vocazione umana.

    L'apostolo Paolo e i vangeli

    Mentre i vangeli, in particolare i sinottici, si fondano sulla relazione tra il maestro Gesù e i suoi discepoli, descritta in termini di «sequela» (akolouthein), le lettere di Paolo utilizzano il linguaggio dell'«imitazione» (mimesis), proprio della cultura greca dell'educazione. Di colpo aprono la relazione unica con la persona di Cristo ad altri referenti e costituiscono così un cerchio più ampio di persone con cui identificarsi: l'apostolo o le comunità che ha fondato. Su questo punto, il corpus paolino è più vicino dei vangeli alle nostre preoccupazioni; cominciamo dunque da questo.

    1. La prima traccia del linguaggio dell'imitazione si trova nel primo scritto cristiano (l'anno 51) che è la Prima lettera di Paolo ai cristiani di Tessalonica. In uno stile poco dottrinale, questa lettera racconta in effetti, nella sua prima parte (1Ts 1-3), ciò che è avvenuto tra Paolo e i suoi collaboratori, Silvano e Timoteo, da un lato, e la Chiesa dei tessalonicesi, dall'altro:

    Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi [...] davanti a Dio e Padre nostro – scrive Paolo. Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione: ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene. E voi ci avete imitato, noi e il Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedonia e dell'Acaia. Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne. Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio (1Ts 1,2-9).

    In questo passo all'inizio della lettera si percepisce bene il processo di propagazione del vangelo per contagio: il vangelo di Dio non esiste indipendentemente da colui che lo annuncia e che diventa allora «immagine», la cui «imitazione» rende concreta la recezione della Parola, fino a che i recettori diventino essi stessi «modelli» per altri e. così via di seguito. È sorprendente poi che Paolo rifletta sul radicamento antropologico di questo processo, mostrandone nello stesso tempo la sua forza più intima, ossia la coerenza di colui che annuncia il vangelo:

    Il nostro invito alla fede non nasce da menzogna, né da disoneste intenzioni e neppure da inganno; ma, come Dio ci ha trovato degni di affidarci il vangelo, così noi lo annunciamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. [...] Siamo stati amorevoli in mezzo a voi, come una madre che ha cura dei propri figli. Così, affezionati a voi, avremmo desiderato trasmettervi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari. [...] Sapete pure che, come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, vi abbiamo incoraggiato e scongiurato (1Ts 2,3-12).

    L'imitazione all'interno del processo dell'evangelizzazione «funziona» dunque come il generare parentale di cui si è parlato prima, anche se si tratta qui di un «generare» infinitamente più radicale, che consiste nel creare una fraternità (1Ts 1,3-4) che supera tutte le frontiere tra generazioni. Per questo Paolo risale poi, a partire dall'esperienza dell'imitazione e della propria fecondità, all'origine, ossia alla «scelta» o alla «vocazione» di Dio (1Ts 1,4: ek-logé) che si manifesta in questo processo:

    Proprio per questo anche noi rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che vi abbiamo fatto udire, l'avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente [alethos = in verità], come parola di Dio, che opera in voi credenti. Voi infatti, fratelli, siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Cristo Gesù che sono in Giudea (1Ts 2,13-14).

    In un senso molto concreto, il vangelo si presenta nel processo di annuncio e di imitazione come parola umana. Ma la sua fecondità rivela nello stesso tempo ciò che è «in verità»: la parola di Dio o chiamata che manifesta la sua origine divina, appunto perché già all'opera nel «cuore» di chi l'accoglie, che viene guidato da essa verso un'ultima coerenza con se stesso. Questo risalire all'origine sempre attuale del vangelo passa nello stesso tempo attraverso un «ritorno» all'inizio del processo d'imitazione: Paolo, che aveva cominciato il suo discorso dicendo ai tessalonicesi che hanno imitato lui, Silvano e Timoteo, «come il Signore» (1Ts 1,6), conclude parlando della loro imitazione delle Chiese di Dio in Giudea (1Ts 2,14).

    2. Si è già trattato del linguaggio della «sequela di Cristo», con riferimento al racconto di Elia e di Eliseo. Per quanto riguarda il discorso dell'«imitazione», questo modo di parlare evidenzia soprattutto la rottura nei riguardi del processo di generazione familiare. Eliseo può abbracciare suo padre e sua madre prima di seguire Elia, mentre Gesù non concede nessuna tregua a chi vuole seguirlo: «Nessuno che mette mano all'aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio» (Lc 9,61-62 par.). Tra le condizioni di accesso alla nostra vocazione umana avevamo già considerato l'accettazione di alcune rotture, il che, a dire il vero, era già presente nella creazione dell'uomo e della donna: lasciare padre e madre per unirsi alla moglie (Gen 2,24).
    I quattro vangeli ci propongono due figure diverse di chiamata iniziale alla sequela. Nei tre sinottici, Marco, Matteo e Luca, è Gesù stesso ad averne l'iniziativa:

    Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratelli di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, mentre anch'essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui (Mc 1,1-20 par.).

    L'iniziativa di Gesù è la prima manifestazione della sua autorità. Gesù si coinvolge in modo molto radicale nella chiamata «creatrice» che chiede a coloro che l'ascoltano quasi di firmare un assegno in bianco. Il testo ovviamente non ci fa sentire la voce di chi rende possibile questa nuova relazione come una specie di evidenza primaria sulla quale tutto il resto può fondarsi. Noi lettori percepiamo solamente l'effetto di questo incontro: i quattro lasciano il loro strumento di lavoro, il padre e i suoi garzoni, per seguire Gesù che assume qui una posizione quasi parentale. Certo, la fraternità permane -Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni sono fratelli di sangue - ma è inserita in un nuovo gioco relazionale; e il mestiere di «pescatore» continua, ciononostante, a fornire la sua energia umana, ma si trasforma e diventa missione di «pescatore di uomini». La rottura è senza ambiguità: bisogna partire.
    Nel quarto vangelo, invece, l'iniziativa è posta sui primi discepoli o, meglio, su Giovanni Battista:

    Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbi - che, tradotto, significa maestro -, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio (Gv 1,35-39).

    Il Vangelo di Giovanni riempie a modo suo il «vuoto» lasciato dal racconto della chiamata nei sinottici: lo sguardo su «Gesù che passava» e l'interpretazione del Battista - «Ecco l'agnello» - sono sufficienti per «sedurre» due dei suoi stessi discepoli (uno dei due è Andrea, fratello di Simone), che cambiano quindi maestro e seguono Gesù. Lui non fa altro che interpellarli sul loro desiderio: «Che cosa cercate?». La loro risposta porta al contempo sul maestro stesso e sul suo segreto: «Dove dimori?». «Luogo» d'abitazione dell'itinerante, certo, ma soprattutto «dimora» di cui, grazie al prologo del vangelo, il lettore (forse il primo dei cinque discepoli rimasto anonimo nel testo) conosce già tutte le dimensioni: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (1,14).
    Questi due primi «cambi di maestro», se posso dire così, sono seguiti da altri incontri e chiamate dove la fraternità di sangue, tra Andrea e Simone (Gv 1,40-42), e uno stesso luogo di origine, Betsàida (1,43-51), continuano a giocare un ruolo. Filippo, il quarto del gruppo (con «l'anonimo», Andrea e Simone, chiamato Cefa), è chiamato come nei sinottici - «Seguimi!» - ma, oltre al fatto di venire dalla città di Andrea e Pietro, conduce lui stesso un quinto, Natanaele, che scoprirà con stupore di essere già conosciuto da Gesù in verità «prima» ancora di essere chiamato da Filippo.
    In questi brevi episodi le rotture sono reali: i primi discepoli lasciano il Battista; e, prima di apprendere con Nicodemo che dovrà «nascere di nuovo» o «dall'alto» (Gv 3,1-9), il «lettore» («l'anonimo»?) avrà già scoperto, sempre nel prologo del vangelo, che «i figli di Dio non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (1,12-13). Pur spingendo i discepoli verso questo «generare» diverso dei figli di Dio, il Gesù del Quarto vangelo punta in primo luogo sul loro desiderio e sull'espressione di questo desiderio nell'incognita degli incontri.
    Il momento iniziale della «chiamata» (da cogliere in tutta la complessità dei sinottici e di Giovanni appena descritta) è seguito da un lungo cammino in compagnia e alla scuola del maestro, cammino che sotto molti aspetti è simile a un percorso d'iniziazione. La sua forma concreta è l'itineranza con Gesù, che implica la capacità di diventare vulnerabile nei confronti dell'altro e di fronte agli avvenimenti che subentrano all'improvviso; le condizioni sono una certa sobrietà e la semplicità nelle relazioni. Questo stile di vita che caratterizza il discepolo è possibile solamente grazie a coloro che aprono le loro case e offrono ai passanti la loro ospitalità; è l'altro polo «sociale» della scuola di Gesù che, come mostrano gli Atti e le lettere di Paolo, diventerà sempre più importante nelle prime comunità cristiane. Senza queste «case di vangelo», l'itineranza rischierebbe di restare priva del suo inserimento nella società e resterebbe senza effetto duraturo. Un passo del Vangelo di Marco lo fa comprendere chiaramente:

    Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli ripose: «In verità io vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà» (10,28-30).

    Il camminare insieme a Gesù termina alla fine o si trasforma in modo molto radicale quando il maestro scompare, inghiottito dalla violenza, e porta la chiamata iniziale a compimento. I quattro racconti evangelici possono essere letti in questa prospettiva «iniziatica»: ci raccontano certo l'itinerario di Gesù dall'inizio alla fine, ma riferiscono anche e soprattutto ciò che egli diventa in coloro e per coloro, uomini e donne, di cui incrocia il cammino. Che si tratti dell'episodio della cena nei sinottici (Mc 14,22-55 par.) o della lavanda dei piedi e dei discorsi di commiato nel Vangelo di Giovanni (13,130), questi gesti significano e producono non solamente un'intimità nella relazione – per coloro che incrociano il suo cammino – ma anche un'immanenza. Gesù «passa» in quelli che partecipano alla cena eucaristica: prendete e mangiate, prendete e bevete! Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue. Innestandosi sul gesto della lavanda dei piedi, Giovanni induce lo stesso movimento d'immanenza di Cristo in coloro, uomini e donne, che ha chiamato: lasciarsi lavare i piedi da lui significa «aver parte con lui» (13,8); lui che aveva già detto nel discorso sul pane di vita: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (6,56).
    La vocazione cristiana, in questo misterioso luogo dove arriva a termine e a compimento, raggiunge la vocazione umana nei suoi «possibili» estremi: dare la sua vita è ciò che fa Cristo in questi «gesti» semplici e nel contempo complessi che «interpretano» la sua morte violenta. Questo suppone che abbia sentito lui stesso la «voce» che disarma il potere della morte in lui (1), che «raccolga», qui e ora, la totalità della sua unica esistenza tra l'inizio e la fine (2) e che la metta effettivamente in gioco per la moltitudine (3): questo pane, questo vino è il mio corpo ed è il mio sangue per voi. Sul versante di coloro che mangiano questo pane e bevono questo sangue, i suoi discepoli, si rivela qui un «impossibile», una dimensione smisurata di uscita e superamento di sé, luogo anche di tutte le loro compromissioni, menzogne e violenze: «Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno» (Sal 41,10; Gv 13,18 par.), come riferito nel racconto del tradimento di Giuda. In ogni trasmissione della vita, il dono di sé si presenta nella forma di un «impossibile» passaggio, certo, ma nel momento in cui il Messia lo rende effettivamente possibile, manifesta tutto ciò che, nell'uomo, gli resiste e apre gli occhi dei suoi discepoli sul «miracolo» di un successo. Essi riconoscono le resistenze e il successo quando si lasciano «incorporare» in lui per vivere umilmente di lui ogni giorno.

    ESSERE «FORMATI» A IMMAGINE E SOMIGLIANZA DI DIO

    La finalità della vocazione cristiana che risalta qui è la stessa, che si tratti del linguaggio della «sequela di Cristo» o di quello dell'«imitazione»; entrambi tendono alla «formazione» dell'uomo a immagine e a somiglianza di colui di cui ci è interdetto fare un'immagine (Gen 1,26; Dt 4,16-18). Tutto ciò che precede conduce a quest'ultimo mistero: l'interdizione di rinchiudere Dio nelle nostre rappresentazioni e il divieto di imprigionare l'altro nelle nostre immagini sono inseparabili. Ho rilevato il fatto che l'essere umano «alla nascita» è relativamente indeterminato e destinato a dare lui stesso «forma» alla propria esistenza; è l'inverso positivo di questa doppia interdizione. Per divenire noi stessi, dobbiamo «seguire» coloro che ci hanno generato o «imitarli». L'immagine dell'altro interviene dunque necessariamente nella sua ambiguità fondamentale, con la possibilità di alienare colui che, paragonandosi, s'identifica con essa, o di condurlo oltre verso ciò che l'altro e se stesso hanno di assolutamente incomparabile, inimmaginabile e unico all'interno stesso delle loro relazioni orizzontali e verticali o intergenerazionali. La sequela o l'imitazione prende allora la forma iniziale della chiamata («tu puoi... ») per affrontare progressivamente le sfide fondamentali della propria esistenza.
    Con ogni essere umano che nasce e a ogni nuova generazione, l'avventura della «formazione» di un essere unico si gioca di nuovo. L'espressione narrativa di questa sfida e la presa di coscienza di ciò che potrà strutturarla si preparano tuttavia fin dagli inizi della tradizione biblica ed entrano, con la vicenda storica di Cristo Gesù, in una fase decisiva di cui scopriamo oggi, nel momento di affrontare la pluralità radicale delle tradizioni spirituali dell'umanità, la sfida ultima. Cristo è «l'immagine del Dio invisibile», afferma la Lettera ai Colossesi (1,15); non nel senso che questa immagine annullerebbe l'invisibilità di Dio, ma, al contrario, che essa ci offre «in pienezza» (1,19) il cammino di accesso a ciò che è invisibile in ciascuno di noi. E questo cammino è quello del sangue della croce (Col 1,20), dono di sé che riconcilia gli essere umani, permettendo loro di uscire, a loro volta, dall'«inimicizia» e «di presentarsi santi, immacolati e irreprensibili davanti a Dio» (Gv 1,21-22). Nel Vangelo di Giovanni l'opera di Cristo è finalizzata nello stesso modo. Certo Gesù è l'unico «esegeta» del Dio invisibile: «Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito (monos) che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (1,18). Ma diciamo subito che questa «esegesi», assolutamente unica del Dio invisibile, non servirebbe strettamente a nulla se il Figlio unigenito (monos) restasse solo (monos); è tutta l'ambiguità dell'unicità (monos) che può sia condurre alla sterilità di colui che è solo della sua specie sia, al contrario, manifestare la sua vera significazione nella fecondità di colui che fa dono della sua unica esistenza:

    È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato [risponde il Cristo giovanneo ai greci che vogliono vederlo]. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore rimane solo (monos); se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà (Gv 12,23-26).

    Questo passo riassume in qualche modo tutto ciò che abbiamo sviluppato sulla vocazione cristiana e la sua finalità «formatrice»: questa vocazione porta a manifestare il Dio invisibile – la sua gloria – in un modo radicalmente umano di mettere in gioco la sua unica esistenza per l'altro, maniera unica, propria del Figlio unigenito di Dio e realizzata storicamente da lui, ma precisamente unica in quanto comunicata ad altri che lui.
    È in questo senso che in precedenza abbiamo parlato della vocazione cristiana come di «una forma molto specifica» della vocazione umana. La chiamata a seguire Cristo o a imitarlo porta la nostra vocazione umana a compimento e ne rivela le energie ultime; lo fa ancora di più oggi in una situazione di difficile coabitazione tra le religioni e le scelte spirituali dell'umanità sul medesimo pianeta. Questo contesto provoca in effetti delle violenze innominabili; e richiede non solamente il rispetto dell'alterità di queste tradizioni, ma suscita anche e soprattutto la capacità del discepolo di Cristo di mettere la sua esistenza in gioco per la pacificazione delle relazioni intra- e intergenerazionali, su una terra ricevuta in eredità per tutti e da trasmettere come tale: «Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,5).

    La vocazione cristiana al servizio della vocazione umana

    Questo legame fondamentale tra la vocazione cristiana e la vocazione umana è tale che la chiamata non può non toccare colui che la sente realmente nella sua umanità, intimamente connessa a quella dell'altro. Che si tratti del «vicino», nella famiglia o nella discendenza intergenerazionale, o del «prossimo», è impossibile immaginare l'accesso all'identità di discepolo di Cristo se non ci s'interessa, con tutte le proprie fibre, all'avvenire di coloro che ci sono affidati o che incontriamo all'improvviso sul nostro cammino. Insomma, la vocazione cristiana è costitutivamente asimmetrica rispetto alla vocazione umana; nel nome stesso di Cristo, essa è al servizio di quest'ultima.
    È il concilio Vaticano II, nella costituzione pastorale Gaudium et spes (1965), che ha dato alla nozione di «vocazione umana» il suo valore centrale nel discorso cristiano e che ha definito la vocazione cristiana e il ministero della Chiesa in rapporto a essa:

    Pertanto il santo sinodo, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e affermando la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine di stabilire quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione. La Chiesa non è mossa da alcuna ambizione terrestre; essa mira a questo solo: a continuare, sotto la guida dello Spirito paraclito, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non a essere servito (GS 3, § 2: EV 1/1323; cf. Gv 3,17; 18,37; Mt 20,28; Mc 10,45).

    Una magna charta, formulata già nel prologo della costituzione. Essa conduce il concilio a esplicitare progressivamente i diversi aspetti di questa vocazione, che si tratti della dignità dell'essere umano, della comunità umana o dell'attività umana nel mondo; ma mentre così facendo proietta la luce che viene dalla persona di Cristo sul mistero dell'uomo, consente soprattutto di capire che, per rispondere alla chiamata, per esercitare il mestiere di uomo e di donna, occorrono delle risorse di energia o di forza spirituale (cf. GS 10, § 2: EV 1/1350) che, in ultima istanza, non possono venire che da Dio. Il testo lo afferma in una formula sorprendente che colloca la vocazione dell'uomo, come abbiamo detto prima, nel suo stesso esistere:

    La ragione più alta della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché creato per amore da Dio, da lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore (GS 19, § 1: EV 1/1373).

    Prendere sul serio la vocazione umana, leggibile in ogni esistenza umana da chi se ne interessa in sincerità, richiede oggi una nuova conversione da parte dei discepoli di Cristo e della Chiesa. L'ho suggerito fin dall'inizio. È solamente sentendo la chiamata a diventare cristiano come invito ad abitare, in modo nuovo, la propria umanità e il mondo degli umani che si scopre realmente l'opera di Dio in ogni essere umano e si comincia a sentire il desiderio di mettersi al suo servizio. Questo «passaggio» non è possibile che tramite delle figure d'identificazione, traghettatori di ogni specie, cristiani di oggi e di ieri e, in ultima istanza, Cristo Gesù stesso, la cui credibilità assoluta, resa decifrabile e visibile nei racconti evangelici, suscita la fiducia di coloro che lo seguono o che l'imitano; la fiducia di poter andare fino in fondo alla loro vocazione umana.

    ASCOLTARE... E IDENTIFICARSI CON QUALCHE FIGURA PER TROVARE LA PROPRIA STRADA

    Se abbiamo invitato il lettore a riflettere sulle condizioni individuali e collettive dell'esperienza di ascolto e sul suo modo di accedere al silenzio interiore, ora desideriamo suggerirgli di guardare attorno a sé e di prendere coscienza delle figure di uomini e di donne che lo circondano e che abitano la sua esistenza interiore. Dobbiamo riconoscere che i nostri sensi sono spesso come anestetizzati: a forza di frequentare le persone che ci sono «vicine», non le vediamo più; e rischiamo di riempire il nostro immaginario con i riflessi di «personaggi pubblici» che incontriamo tutti i giorni sui nostri giornali, nella pubblicità e alla televisione, partecipi, ciascuno a modo suo, del culto delle star e degli eroi che sin dall'antichità incrementa la nostra tendenza ad accontentarci di vivere per procura. Se in un primo tempo abbiamo invitato il lettore a lasciar risuonare in lui, nel silenzio interiore, il concerto delle «voci» umane che lo circondano, comprese quelle che risuonano nelle nostre Scritture, ora lo sollecitiamo a guardare, con occhi nuovi, le persone che l'hanno aiutato e che ancora lo aiutano a tracciare la propria strada.

    1. Questo sguardo, da mantenere nuovo, richiede innanzitutto di riflettere un attimo sui nostri incontri più frequenti: con gli intimi, le persone più lontane che frequentiamo più di rado, con i membri della nostra famiglia, i colleghi di lavoro o coloro che chiamiamo «amici». Tutte relazioni che ci definiscono! Alcune ci lasciano il sapore dell'obbligo, del debito o dell'assenza di libertà; altre, al contrario, ci liberano e procurano piacere e gioia. Chi sono, in questo misterioso fascio di relazioni, le persone che ci fanno veramente vivere nella durata del tempo, permettendoci di avanzare al largo? Quali sono quelle che suscitano il nostro stupore, persino la nostra ammirazione, al punto da identificarci con loro? A chi, tra loro, chiediamo consiglio?
    La pedagogia d'iniziazione, ripristinata dagli ultimi testi catechetici della Chiesa francese, introduce su questo punto la figura dell'«anziano nella fede, fratello in umanità di colui che cerca», sia egli un giovane, un catecumeno o la persona che ricomincia a frequentare una comunità cristiana. Questo «anziano» può essere qualcuno che effettivamente frequentiamo, ma a volte è una persona più lontana, nello spazio e nel tempo: nell'abbondante gamma di «idoli» che affollano i mass media, si trovano dei percorsi singolari di persone la cui coerenza e il cui rapporto con altri lasciano un segno; anche le biografie di santi possono suscitare il nostro desiderio.
    Tutto ciò merita un momento di sosta, un momento di quel silenzio di cui abbiamo parlato, per passare in rassegna tutti questi «personaggi» o persone che ci circondano e procedere a una specie di bilancio, valutando il «peso» dei legami che ci definiscono.

    2. Questo piccolo esercizio ci condurrà forse a individuare le grandi scelte del nostro itinerario, quelle che avvengono quando si passa da una tappa all'altra della nostra vita, quelle che sono legate ad avvenimenti imprevedibili ecc. Rivediamo allora le persone che erano realmente presenti in quei momenti di passaggio, risentiamo la loro «voce» e riattiviamo in qualche modo l'energia di vita che ci hanno comunicato. Nello stesso tempo ci ricordiamo delle rotture alle quali abbiamo consentito, prendiamo coscienza del carattere provvisorio di tale situazione o tale decisione e raccogliamo ciò che è divenuto irreversibile o definitivo, apprezziamo la saggezza di tale o tal altro consiglio ricevuto; in una parola, misuriamo all'interno di tutti questi legami la nostra libertà, quale si è costruita progressivamente.
    In questi momenti di ripensamento e di memoria più viva, capita che ci sia dato di risentire la «voce» di Dio: la voce che chiama ogni essere umano nella totalità ancora incompiuta della sua esistenza; voce che risuona, qui e là, in quell'episodio e grazie a quel preciso incontro, sulla bocca di qualcuno, e che dà al «tu puoi...» che pronuncia la sua ampiezza divina.
    Colui che consente a questa «rilettura» può sentirsi spinto, dal più profondo di se stesso, a raccontare a un dato amico, a un determinato consigliere, con tutta la discrezione richiesta e il pudore necessario, ciò che gli sta accadendo. Forse si sentirà spinto a scrivere una lettera a quella persona incontrata sulla sua strada o a confidare semplicemente a un diario uno stralcio di racconto, oppure a ritornare in compagnia di qualcuno su uno o sull'altro di quei «luoghi» o «crocevia» decisivi del suo itinerario. Forse continuerà semplicemente a ripensare dentro di sé a ciò che ha ricevuto durante la sua «traversata» con un sentimento di profonda gratitudine.

    3. È arrivato allora il momento di rileggere uno degli episodi evangelici o una delle lettere paoline che abbiamo citato. Non più in maniera «esteriore» ma in modo che, per ognuno, il «raccoglimento» della propria esistenza ancora incompiuta possa realizzarsi in verità. È possibile, infatti, che lui, il Cristo, assuma allora i tratti delle figure con cui ci siamo identificati e che, mediante il loro incontro così ripensato, Dio ci appaia come colui che le ha messe sulla nostra strada, facendoci così sentire la sua chiamata e prendendo progressivamente forma nella nostra esistenza. L'amore di Cristo come centro della vocazione cristiana nascerà forse nel cuore di colui che andrà fino in fondo alla sua meditazione segreta. Come esprimere allora questa esperienza ineffabile, se non con un canto condiviso assieme ad altri, canto che evoca la sua rivelazione?
    «Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa» (lPt 1,8).

    (Vocazione?!, EDB 2011 - pp.41-66)


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