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    Vivere il tempo

    Enzo Bianchi

    Ho pensato a fondo e in modo organico sul tema del tempo nella vita religiosa, ma forse non sono ancora abbastanza anziano per poter offrire un frutto maturo e compiuto, comunque propongo questo contributo per quello che è: un semplice abbozzo su un argomento carente di contributi specifici.

    Il tempo secondo le Scritture

    Pur partendo dalla Scrittura, non intendo proporre una meditazione sul tempo nella Bibbia né entrare nella discussione ancora aperta tra chi, come Oscar Cullmann, sostiene che la concezione del tempo nelle Scritture è lineare in opposizione al tempo ciclico, e chi afferma, secondo l'intuizione di Mircea Eliade, che esiste un tempo profano - il tempo dell'esistenza umana nella sua problematica fattualità - e un tempo sacro, il tempo in cui Dio si rivela nella storia dando senso al tempo.
    Mi sembra invece importante ed essenziale mettere in evidenza come, nella Bibbia, sia l'alleanza che definisce il tempo di Israele: un tempo esistenziale misurato sulla parola-evento, il davar del Signore, e sull'obbedienza del popolo di Dio. Il tempo nelle Scritture è sempre un tempo storico, legato alla storicità radicale dell'uomo, alla sua struttura di essere che decide il suo destino tra vita e morte, tra benedizione e maledizione. È nel tempo che l'uomo obbedisce o disobbedisce a Dio, decidendo la propria vita sulla terra, la sua relazione con gli uomini e con le cose, optando per lo shalom o per la violenza mortifera: infatti, come ricorda costantemente la Scrittura, nel tempo stanno davanti all'uomo le due vie (cf. Dt 11,26-28; 30,15-20 in cui si deve notare l'insistenza sull'oggi della scelta; poi Sal 1; Ger 21,8; Sir 15,16-17). Per questo la storia è orientata a un télos - fine e meta - svelato dagli interventi di Dio, dall'azione di Dio, ed è storia di salvezza. Nella storia Dio si manifesta e incontra l'uomo, sicché la storia nei suoi conflitti, nei suoi progressi e nelle sue regressioni è epifania di Dio. È storia di salvezza non nel senso di una successione di interventi di Dio in una storia umana di per sé insignificante, ma nel senso che Dio chiama continuamente l'uomo a camminare verso la luce, verso una meta che è il Regno, e gli dà i mezzi per farlo nell'attesa dello shalom, dono di Dio e coronamento della fedeltà degli uomini. Per questo motivo sia i profeti della conversione sia i redattori deuteronomistici leggono la storia come una sequela di eventi passati da ricordare: eventi che aiutano a spiegare il presente e a cogliere nell'oggi (hajjom - hajjom hazzè, espressione che ricorre più di settanta volte nel Deuteronomio) la perenne attualità del Dio che ha concluso l'alleanza (cf. Dt 8,18-19; 10,15; 26,16-18; 29,9 ss.), a farsi oggi obbedienti alla Parola che è vicina (cf. Dt 30,8.1 I-14), a intravedere il futuro come aperto o chiuso, come futuro di vita o di morte in base all'obbedienza o alla disobbedienza del credente (cf. Dt 30,15 ss.).
    È questa concezione del tempo che verrà prolungata nel Nuovo Testamento: venuta la "pienezza del tempo" (Gal 4,4), Dio manda suo Figlio, nato da donna, e la sua vita, la sua passione, la sua morte, la sua resurrezione appaiono eventi storici, unici, collocati in un tempo preciso, e inaugurano gli ultimi tempi, quelli in cui noi viviamo nell'attesa della sua gloriosa venuta, attesa del Regno e del rinnovamento del cosmo intero. Questi ultimi tempi in cui l'evangelo è annunciato sono tempi di salvezza in cui riconoscere il tempo della visita di Dio, tempi di conversione, di ritorno a Dio nell'adesione al Figlio, Gesù il Messia.
    Con la venuta di Gesù ha inizio un kairós, un tempo particolare che qualifica tutto il resto del tempo. Gesù, inaugurando il suo ministero, annuncia che il tempo è compiuto (Mc 1,I5), che l'ora della piena realizzazione è iniziata, che occorre convertirsi e credere all'evangelo (cf. Mc 1,15; Mt 4,17); di conseguenza occorre utilizzare il tempo: il tempo della grazia è realtà in Gesù Cristo! Passione, morte e resurrezione di Gesù non sono un semplice evento del passato: sono la realtà del presente, sicché l'oggi concreto è immerso nella luce della salvezza.
    Questo è il tempo favorevole, il giorno della salvezza (cf. 2Cor 6,2), il tempo dell'accoglienza della fede, il tempo di vivere secondo la fede. Il primo atteggiamento del cristiano è dunque quello di cogliere l'oggi di Dio nel proprio oggi, facendo obbedienza alla Parola che oggi risuona. "Oggi, se udite la voce del Signore, non indurite i vostri cuori" (Sal 95,7-8; Eb 3,7): questo oggi dura (cf. Eb 3,13), è l'oggi di Dio nell'oggi della nostra vita vissuta, è l'oggi che Dio fissa di nuovo per noi (cf. Eb 4,7).
    Il nostro atteggiamento di cristiani nei confronti del tempo assume allora dei connotati precisi: si tratta di saper giudicare il tempo, gettando la maschera ipocrita di chi sa giudicare l'aspetto della terra e del cielo ma non il proprio tempo (cf. Lc 12,56), di discernere i segni del tempo (cf. Mt 16,3) per giungere a cogliere il tempo della visita di Dio (cf. Lc 19,44).
    Significativamente Luca mette in bocca a Gesù tre oggi che risuonano ancora per noi: "Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete udito nelle vostre orecchie" (Lc 4,2 i), "Oggi la salvezza è entrata in questa casa" (Lc 19,9), "Oggi sarai con me in paradiso" (Lc 23,43). Per Luca c'è quindi un oggi del compimento delle Scritture. Per ogni cristiano c'è un oggi nel quale deve ascoltare l'evangelo e l'evento di cui la Parola ci rende partecipi; c'è un oggi che si ripete nella storia tutte le volte che un cristiano è di fronte alla parola di Dio: ogni giorno la parola di Dio si compie, sta a noi ascoltarla, accoglierla. La seconda dimensione dell'oggi è l'oggi dell'incontro di noi peccatori con Cristo. Luca sa che la conversione non avviene una volta per tutte, ma che c'è sempre un oggi in cui Cristo può dirci: "Oggi la salvezza entra di nuovo in casa tua" (cf. Lc 19,9). E infine c'è l'oggi di comunione per chi muore con Cristo, l'oggi della promessa di Cristo per una comunione nel Regno.
    La vita del cristiano appare allora come un oggi davanti a Dio, l'oggi nel quale egli può ascoltare la Parola e accogliere la salvezza, l'oggi della conversione continua nella vita quotidiana, l'oggi dell'accoglienza della grazia. Il cristiano vive il tempo così: è sempre oggi, è sempre il tempo favorevole (cf. 2Cor 6,2), è sempre il tempo lasciato da Dio per il pentimento, la conversione (cf. 2Pt 3,9; Ap 2,21). Di conseguenza il cristiano ha verso i giorni un atteggiamento opposto a quello di quanti "si lasciano vivere" perché non operano discernimento sul tempo e lo considerano tempo alienato, votato al nulla.
    Il credente sa che i suoi tempi sono nelle mani di Dio:

    Ho detto: Tu sei il mio Dio,
    i miei tempi sono nella tua mano (Sal 31,15b-16a).

    È l'atteggiamento fondamentale: i nostri giorni, infatti, non ci appartengono, non sono di nostra proprietà. I tempi sono di Dio e per questo nei salmi l'orante chiede a Dio: "Fammi conoscere, Signore, la mia fine, qual è la misura dei miei giorni" (Sal 39,5) e invoca: "Insegnaci a contare i nostri giorni, e i nostri cuori discerneranno la sapienza" (Sal 90,12). La sapienza del credente consiste nel saper contare i propri giorni, nel vivere sempre l'oggi di Dio nel proprio oggi.
    Il credente vuole dunque avere un rapporto con il tempo, vuole essere istruito da Dio riguardo ai giorni che ha da vivere,vuole che il tempo vissuto davanti a Dio sia fonte del proprio discernimento e della propria sapienza. Il cristiano deve "vegliare e pregare in ogni tempo" (Lc 21,36), impegnato in una lotta antiidolatrica in cui il tempo alienato è l'idolo che cerca di dominare e rendere schiavo l'uomo. Secondo l'apostolo Paolo il cristiano deve cercare di usare il tempo a disposizione per operare il bene (cf. Gai 6,10), deve approfittare del tempo (cf. Col 4,5), e soprattutto deve salvare, redimere, liberare, riscattare il tempo (exagorázesthai tòn kairón) quale uomo sapiente (cf. Ef 5,16).
    Tutto questo perché il tempo del cristiano è tempo di lotta, di prova, di sofferenza: la thlîpsis neotestamentaria (cf. Mc 4,17; 13,19.24; Gv 16,33; At 14,22; ecc.). Anche dopo la vittoria di Cristo, dopo la sua resurrezione e la trasmissione delle sue energie di Risorto al cristiano, resta ancora operante l'influenza del "dio di questo mondo" (2Cor 4,4), sicché il tempo del cristiano è tempo di esilio, tempo del pellegrinaggio (chrónos tês paroikías: 1Pt 1,17), in attesa della realtà escatologica in cui Dio sarà "tutto in tutti" (1 Cor 15,28). A volte per i cristiani "i giorni sono cattivi" (Ef 5,16), esistono "momenti difficili" (2Tm 3,1),
    ma per questo occorre essere desti e vigilanti nella preghiera e sapere che la vita .cristiana è una guerra, una lotta rivolta non contro gli uomini, ma contro le dominanti di questo mondo (cf. Ef 6,12).
    Infine il cristiano sa che il tempo è aperto all'eternità, alla vita eterna, a un tempo riempito solo da Dio: questa è la meta di tutti i tempi, in cui "Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre" (Eb 13,8; cf. Ap 1,17). Il télos delle nostre vite è la vita eterna e quindi i nostri giorni sono attesa di questo incontro con il Dio che viene.
    Su questo argomento non ho timore di apparire duro e forte: oggi infatti non si ha più il coraggio di parlare di vita eterna e si preferisce atteggiarsi a moderni, parlando solo di attualità. Ma questo è tempo di esilio e di lotta: solo la vita eterna è la nostra speranza, anche se l'ideologia oggi dominante è fatta per l'immediatezza alienata e ci impedisce di guardare in alto. Proprio quando vogliamo dare una speranza ai poveri, finiamo per dar loro solo una speranza per l'immediato. Ma dobbiamo essere sinceri: se non c'è una liberazione per la vita eterna, allora siamo tutti dei miserabili, perché la liberazione vera è solo liberazione dalla morte (cf. 1Cor 15,19)! Le altre liberazioni sono garanzie, segni, anticipazioni, piccole liberazioni umane: l'ultima schiavitù che resta, e da cui occorre essere liberati, è la schiavitù della morte (cf. 1Cor 15,26).

    Il tempo nella vita religiosa

    La percezione del tempo non è uniforme nelle differenti situazioni umane, perché il modo di percepire il tempo è culturale: di conseguenza ci sono modi "voraci" di percepire e usare il tempo, modi - come abbiamo già detto - alienati e idolatrici.
    Indubbiamente nella vita religiosa il rapporto con il tempo è quello proprio di ogni cristiano, perché il religioso è un cristiano, un semplice cristiano che sa vedere nel proprio battesimo la morte con Cristo e nella vita cristiana una vita nuova. Colui che è "in Cristo è una creatura nuova", dice l'Apostolo (2Cor 5,17), e quindi è una persona che va verso la morte fisica attendendo la fine dell'esilio e l'incontro con colui che ha tanto amato, il Signore della gloria. È il desiderio espresso da Paolo ai cristiani di Filippi: "essere sciolto dal corpo per essere con Cristo" (Fil 1,23). I nostri giorni restano i giorni dell'esilio, i giorni della lontananza da Cristo, della separazione dall'oggetto dell'amore.
    Ritengo tuttavia che ci siano alcune specificazioni da fare sulla percezione del tempo all'interno della vita religiosa. Infatti il religioso, la religiosa che pronuncia i voti, dice un amen definitivo alla vocazione, mette all'origine della propria vita una decisione o, meglio, dà un assenso definitivo alla chiamata del Signore: da quel momento la sua vita sarà vissuta a partire dai voti fatti e quella professione sovrasta, domina la vita tutta, fino alla morte.
    Non si vive alla giornata ma in un tempo deciso, irreversibilmente deciso: il religioso promette di impegnare tutto il suo futuro, la totalità dei suoi giorni per realizzare e diventare ciò che ha promesso una volta per tutte. E una verità che oggi può dar fastidio all'interno della vita religiosa, ma va accettata, se non vogliamo svuotare di senso i gesti che compiamo.
    Il religioso rinuncia a essere "l'uomo di un momento" (próskairos: Mt 13,21; Mc 4,17) perché ha messo radici in se stesso e di fronte alla prova o alla contraddizione non resta scandalizzato e scosso. I suoi giorni sono giorni già decisi, ed egli non attende nuove partenze, non sogna occasioni improvvise, ma sente davanti a sé un tempo di maturazione, di crescita, un tempo di edificazione, di progresso umano e spirituale che mai può contraddire la professione emessa. Il religioso ha lasciato tutto - casa, campi, famiglia (cf. Mt 19,27-29; Mc 10,28-30; Lc 18,28-30) - e per sempre. Con il celibato ha rinunciato alla coniugabilità e alla posterità nel tempo, con la povertà ha accettato la quotidianità del tempo del povero, sapendo che tutte le cose sono ormai relative di fronte alla venuta del Signore, con l'obbedienza ha rinunciato a disporre del suo futuro e quindi è collocato interamente nel presente.
    Purtroppo oggi nella vita religiosa si dimentica sovente questa verità sul tempo, questa specificità della percezione del tempo e quindi c'è un depauperamento della concezione della perseveranza e della fedeltà: si finisce così per rischiare di vivere, anche all'interno della vita religiosa, il tempo alienato, mondano, il tempo dell'"esperienza", del "tutto e subito", il tempo "a breve termine", il tempo del "vivere alla giornata", con un dilettantismo che crea l'uomo e la donna instabile, "l'uomo di un momento" della parabola evangelica (cf. Mt 13,21; Mc 4,17).
    Invece il religioso deve ricordarsi che, con la professione, ha stretto alleanza con Dio e con i fratelli e quindi il tempo che vive è in alleanza con il Testimone fedele, Gesù Cristo, l'Amen eterno (cf. Ap 3,14), colui che ci ha chiamati avvertendoci che chi, messa mano all'aratro, si volge indietro per seppellire il padre o per salutare i genitori, non è degno di lui (cf. Lc 9,62). La vita del religioso è guerra, è la buona battaglia della fede in cui cerca di raggiungere la vita eterna alla quale è stato chiamato e per la quale ha fatto la bella professione di fede davanti a molti testimoni, combattendo contro la tentazione, fuggendo le tentazioni, tendendo al frutto dello Spirito (cf. 1 Tm 6,11-12).

    Il tempo di una "fondazione"

    Detto questo sulla percezione del tempo nella vita religiosa a livello personale, non si può ignorare il passare del tempo a livello comunitario, dalla fondazione in poi: c'è un ciclo di vita anche per le comunità, le fraternità, le congregazioni, e il non riconoscerlo comporta gravissime conseguenze per i singoli membri come per la testimonianza evangelica della comunità stessa.
    Dopo la ricerca solitaria di un uomo o di una donna, giunge il momento in cui questa intuizione di sequela Christi trova forma in un piccolo gruppo - una banda, una brigata - che comincia a vivere una nuova forma vitae, in cui a poco a poco emerge il fondatore, la fondatrice, cioè chi, sapendo quello che vive in se stesso, offre agli altri la possibilità di costituirsi in rapporto a un centro di riferimento. Ciò che gli altri avvertono in modo confuso, il fondatore lo sente in modo urgente e riesce a esprimerlo: nasce così una fraternità in cui la carità provvede a tutto, lo slancio è forte, la forma di vita è nuova - a volte sospetta - ma anche capace di attrazione.
    A poco a poco giungono altri e nella dinamica comunitaria emerge il bisogno di un punto di riferimento comune: la regola di vita. È questo il momento decisivo: il fondatore, redigendo la regola, le cede il posto centrale, e la vita comunitaria può così organizzarsi con maggiore stabilità anche se a volte - specie se il fondatore permane a lungo - è possibile che tra regola e fondatore nascano tensioni: se infatti il fondatore è anche l'estensore della regola, non se ne sente imprigionato poiché ne è l'architetto. È il tempo dell'espansione della fraternità, un tempo di estrema fecondità: la chiesa guarda ad essa con benevolenza e l'approva, l'ambito dal quale nascono le vocazioni si dilata, così come l'estensione della presenza della fraternità. L'organizzazione interna segue questa evoluzione e normalmente si assiste a un cinquantennio in cui la fraternità ottiene all'interno della chiesa e della vita religiosa una sua collocazione specifica e precisa.
    Ma viene il tempo della stabilizzazione e l'apogeo è superato. Il numero delle vocazioni comincia a rallentare e le domande di impiantazione sorpassano le capacità di offerta da parte della fraternità. All'inizio i membri del nuovo gruppo, anche se poco numerosi, accettavano tutto ciò che si presentava e l'audacia era straordinaria; ora ci si sforza di operare "un vaglio giudizioso": i membri sono già occupati in molte attività che non possono trascurare, mentre in alcuni settori della fraternità comincia a emergere una preoccupazione del passato, una scontentezza del presente, un'incertezza verso l'avvenire, tutti elementi che rallentano la vitalità del gruppo. A questo punto le alternative sono solo due: o ci si avvia inesorabilmente verso il declino, oppure si ha una rifondazione della comunità, possibile però solo con uno slancio nuovo dovuto a una radicalizzazione evangelica della vocazione.
    La coscienza chiara di queste linee di sviluppo e di decadenza non deve suscitare alcuna angoscia: di eterno c'è solo Cristo e nella vita religiosa occorre imparare l'ars moriendi e accettare il declino, magari fino all'estinzione; tuttavia resta sempre possibile un ritorno alle fonti, una rianimazione della vita spirituale, un adattamento non mondano, un autentico aggiornamento evangelico capace di discernere l'oggi di Dio per la congregazione, di consentire in pienezza la sequela di Cristo e di garantire una presenza eloquente nella compagnia degli uomini. In questo ognuno ha le proprie responsabilità e molto dipende dalle fonti cui si attinge per una maggiore gnosi, una maggiore conoscenza del Signore, la quale sola permette una sequela audace, totale, radicale, analoga a quella degli esordi e addirittura in grado, a volte, di superare lo slancio iniziale.

    Le età nella vita religiosa

    Vorrei ora tentare una riflessione sulle età nella vita religiosa che dividerei schematicamente in tre tappe: dal noviziato alla maturità, la stagione della crisi e l'anzianità.

    1. Dal noviziato alla maturità
    Non possiamo dimenticare che nella donna la dimensione della temporalità è più sentita rispetto all'uomo, maggiormente portato da parte sua a percepire la dimensione della spazialità. La donna, a motivo della struttura generante da cui è costituita, percepisce con più forza la dinamica vita-morte e dunque la dinamica temporale che le è imprescindibilmente legata; il suo stesso corpo, con le mestruazioni, glielo ricorda nella carne. E siccome il tempo vissuto non è che l'estensione della propria relazionalità sul passato, sul presente e sul futuro, allora nella percezione della temporalità c'è una dimensione affettiva che nella donna è sempre più accentuata rispetto a quella dell'uomo.
    Tutto questo è ancor più evidente nei primi anni della vita religiosa, periodo in cui il rapporto del religioso con il tempo va misurato sulla sua vita precedente e sul suo avvenire. Occorre dirlo subito: per la vita religiosa è indispensabile una rottura, un distacco, una vera e propria rinuncia al passato per cominciare con libertà una nuova vita. Se Dio dichiara che per costituire una famiglia "l'uomo lascerà suo padre e sua madre" (Gen 2,24), questo comando è altrettanto vero - direi addirittura più perentorio, pensando alle parole di Gesù così radicali nell'esigere l'abbandono di genitori, fratelli, campi (cf. Lc 14,25-26; Mt 10,37) - per chi fa vita religiosa.
    In certe congregazioni, soprattutto in questi ultimi decenni, si è fatta un'opzione di per sé buona in vista di un'osservanza del quarto comandamento (un maggiore contatto con la famiglia, l'assistenza dei genitori vecchi o malati...), ma in questo atteggiamento c'è qualcosa di semplicistico e di ingenuo che pesa e peserà sulla vita del religioso. Se infatti non c'è rottura con il passato e la famiglia, si alimenta nel religioso un attaccamento, una nostalgia che è fonte di insicurezza e segno di una ricerca di saldezza non nell'oggi, non nella fraternità, ma nel passato: si è allora incapaci di dare senso alla propria vita, personale e comunitaria, e si cerca in se stessi, nella propria iniziativa, nel proprio protagonismo, un punto di riferimento.
    Questo avviene soprattutto per chi ha vissuto una contestazione o una carenza della figura paterna: sovente allora si proietta sull'ambiente della fraternità la propria frustrazione vissuta con il padre. Non è un caso che anche nell'evangelo la chiamata a non guardare indietro, cioè ad abbandonare il proprio passato, sia in relazione al divieto di seppellire il padre (cf. Lc 9,59-62): il chiamato deve scoprire un'altra paternità, quella del Padre che è nei cieli, altrimenti cerca in se stesso la propria giustificazione con continue proiezioni di sé, con progressive chiusure, con l'incapacità di relazionarsi con l'alterità.
    Ma c'è anche un rapporto con il futuro che a volte per il giovane religioso si traduce in angoscia, nel tentativo di impossessarsi del futuro, nella ricerca continua di una novità di luogo o di servizio: allora il religioso vive in un luogo, ma è convinto che altrove vivrebbe meglio, e più avanti nella vita sarà tentato di accaparrarsi la fraternità per i propri bisogni e per sopprimere così la propria insicurezza. Un tale religioso è tentato dalla concorrenza a livello fraterno, dall'invidia e dalla gelosia: resta infantile, immaturo. Sovente ciò si verifica in coloro che hanno vissuto un rifiuto o una carenza della figura materna, che non hanno conosciuto un fondamento vitale organico.
    Si comprende così la necessità di accogliere l'invito di Gesù a non preoccuparsi per il domani, ad accettare ogni giorno con la sua pena, a fidarci di Dio che ha un cuore materno per noi e ci dispensa ogni giorno il necessario per vivere (cf. Mt 6,25-34). Ecco allora la necessità di un rapporto con il passato e con il futuro che sia contraddistinto dalla libertà; ecco l'essenzialità della rinuncia richiesta da Gesù: si tratta di vivere liberi, senza fardelli. Il presente lo si può vivere solo se si accetta se stessi, se ci si percepisce come creature generate, in piena obbedienza alla propria storia, alla propria vita, al proprio corpo. Il presente lo si vive nell'azione di grazie resa al Dio che ci ha creati e che ci sostiene ogni giorno, al Padre cui chiediamo: "Dacci oggi il nostro pane quotidiano".
    Il religioso dice con Antonio nel deserto: "Oggi io inizio!" [1], oggi ricomincio da capo, oggi obbedisco, ascolto la voce del Signore (cf. Sal 95,7), oggi realizzo i voti che ho fatto! Libero dal passato, libero dal futuro, il religioso vive l'oggi di Dio in cui questi può anche capovolgere le leggi biologiche delle età della vita; Dio infatti può dirgli, come a Geremia: "Non dire: Sono giovane, ma va' dove io ti mando" (Ger 1,7); può dirgli, come al salmista: "Sarà rinnovata come aquila la tua giovinezza" (Sal 103,5); e nelle fraternità può succedere di toccare con mano che "spesso è al più giovane che il Signore rivela ciò che è meglio" (RB 3,3).
    Vivere l'oggi di Dio nel nostro oggi è questione di celibato, di povertà, di obbedienza, perciò il rapporto con la temporalità è importantissimo e decisivo nella vita religiosa. Occorre giorno dopo giorno imparare a convertirsi sempre al Signore, accettare che la vita non sia un incessante progresso verso cime sempre più alte di virtù e di ascesi, ma un lento apprendistato ad assumere le proprie debolezze, i propri fallimenti e le proprie cadute per conoscere la misericordia di Dio, la sua forza nelle nostre debolezze (cf. 2Cor 12,9-10), e per imparare che, se è vero che la professione è dietro alle spalle, purtuttavia il sì va detto e ridetto nella vita di ogni giorno. Si cresce all'età di Cristo (così il testo greco di Ef 4,13) per grazia e non per sola volontà.

    2. La crisi
    Gli anni vissuti non sono senza significato per la vita spirituale e, con il passare del tempo, ci si accorge - se si vive bene la temporalità davanti a Dio e non ci si lascia vivere - che Dio agisce in noi attraverso l'esperienza che la vita ci porta e ci consente, anche se una regressione resta sempre possibile.
    Le esperienze sono diverse e a volte anche negative, autentiche contraddizioni alla nostra vita religiosa e cristiana. L'idolatria, anche se sotterranea, resta presente in noi e, soprattutto nella vita religiosa, gli idoli non sono esterni ma interiori, sono quelli che inconsciamente portiamo nel nostro cuore: l'idolatria è come un microbo molto attivo, poco conosciuto ma tale che all'improvviso tenta di vincere la parola di Dio che portiamo in noi come seme (cf. IPt 1,23). Le virtù, la generosità, i desideri di perfezione e di santità, la preghiera stessa possono diventare maniere di fuggire Dio, di non ascoltare oggi la sua voce; anche quello che facciamo per gli altri, il nostro servizio ai poveri o alla chiesa può essere un espediente estraneo al nostro io più profondo, lontano da Dio e dalla vera voce del nostro cuore. Sono rischi frequenti nella vita religiosa e dobbiamo esserne coscienti per vigilare e smascherarli: in ogni caso, presto o tardi, Dio interviene improvvisamente nella nostra vita per abbattere questi idoli e farli a pezzi.
    E allora la crisi, e quando sopraggiunge si va veramente a fondo! Nella vita religiosa in particolare è estremamente difficile restare a mezz'aria o barcamenarsi alla meno peggio. Se pensiamo di poter evitare la crisi e restare sempre in piedi, siamo degli illusi: ci può essere la malattia fisica o quella psichica, la caduta nel peccato e la contraddizione dei voti fatti, i problemi posti dalla vita fraterna o le tensioni provocate dall'ambiente esterno... Ma questa crisi, così dura da affrontare, può anche trasformarsi in una grazia per noi: questa visita di Dio non è mai "bella", assume piuttosto i connotati di una sofferenza e una lacerazione, ma resta sempre un'occasione - magari l'unica - nella quale Dio esige da noi una spoliazione più radicale per poterci rivestire con la sua grazia. Dio vuole che abbandoniamo i nostri idoli, le nostre proiezioni su di lui per incontrarlo quale egli è: fuoco divorante e medico delle nostre ferite.
    La crisi è allora il momento in cui meditazione, adorazione, preghiera, tutto perde il suo significato. Anche il nostro servizio ai poveri e alla chiesa non sembra avere consistenza e la vocazione cristiana ci appare ben poca cosa. Si patisce un fallimento di tutti gli sforzi spirituali e non si ha più la forza nemmeno di abbandonarsi in Dio. In alcuni casi si arriva a dire che Dio è morto e il niente sembra regnare: Dio appare un'illusione, è distante, muto, sordo, cieco... "Signore, perché dormi?" (Sal 44,24). In questi momenti la prima tentazione è quella della fuga, dell'abbandono della vita religiosa. A volte questa tentazione sopraggiunge prima ancora che si abbia la percezione della crisi, come quando ci si immette in un tunnel al seguito di un'altra auto, senza rendersene conto: nel pieno della crisi diventa poi difficile improvvisare una reazione coerente, bisogna invece prepararsi prima, non lasciarsi sorprendere, e anche questo fa parte dell'imparare a "contare i propri giorni".
    In realtà, prima della fuga dalla vita religiosa, c'è la fuga da se stessi, il rifiuto di guardare a se stessi: nel malessere non ancora perfettamente messo a fuoco si pensa innanzitutto ad accusare gli altri, a trovare le colpe fuori da se stessi, nelle strutture, nei fratelli e nelle sorelle... Allora si scopre che la congregazione non è più fedele al carisma originale o che non è più al passo con i tempi, che i fratelli sono privi di carismi e rendono insopportabile la qualità della vita. Pur di non riformare se stessi, si pretende allora di riformare la congregazione, oppure si domanda il cambio di fraternità convinti che in un altro luogo le cose andranno meglio, si invoca il problema dell'inadattabilità al clima, alla realtà ambientale... La propria inquietudine è proiettata in nuove forme di vita, a volte più contemplativa, altre volte più mescolata con i poveri: pur di fuggire da se stessi, si corre verso l'eremo o verso i poveri.
    Un'altra tentazione che sopraggiunge con la crisi è quella di fermarsi, di restare indietro, fossilizzandosi nello stile di vita vissuto fino a quel momento: nel tentativo di nascondere la propria angoscia interiore ci si rifugia in un attaccamento ossessivo ai propri principi, alle norme fissate, alla disciplina adottata, alle pratiche consolidate, ai regolamenti scritti. E un pericolo grande per la vita religiosa: ci si attacca alla propria prassi e ai propri principi e non si avanza più assieme agli altri. Allora si diventa duri, si rimproverano costantemente gli altri, li si condanna come infedeli alla vita religiosa, nella presunzione di essere gli unici fedeli al carisma iniziale: le convinzioni che si hanno diventano più importanti dei fratelli e dell'incontro del proprio oggi con l'oggi di Dio. Ci si arrocca in una posizione di difesa contro tutto ciò che - come i fratelli - potrebbe essere uno strumento di chiamata da parte di Dio; si finisce così per diventare sempre più preoccupati di se stessi e della propria salute e ci si rifiuta di prendere in considerazione gli altri, al punto che, quando si cade realmente ammalati, si desidera di non guarire per poter restare al centro dell'attenzione generale. È un attaccamento angosciato a se stessi in cui non si è più capaci di abbandono né a Dio né a chi Dio ha posto accanto come responsabile e testimone dei voti pronunciati.
    Se la crisi non ha l'esito voluto da Dio, cioè la rigenerazione, allora chi vi è caduto finisce per chiudersi sempre più in se stesso, incapace di accettare i fratelli e le sorelle, impedito ad aprirsi al futuro: non gli resta che lasciare la vita religiosa, spesso tornando significativamente in famiglia, dove c'è sempre una madre da curare, un padre da seppellire...
    Resterebbero molti aspetti da approfondire, ma credo di avere delineato i tratti essenziali e oggi più frequenti della crisi nella vita religiosa. Fondamentale è non dimenticare mai che la crisi, nella sua verità più profonda, è dono di Dio e grazia, pur nella prova: se uno non evade, non fugge ma accetta di essere rigenerato, allora la crisi si trasforma in un nuovo parto, allora il Dio conosciuto per sentito dire, abbattuti gli idoli, appare e nella nostra debolezza mostra la sua forza (cf. Gb 42,2-6).
    Si tratta di crescere attraverso la tentazione: non c'è fede che non sia provata, così come non c'è frutto se l'albero non è potato (cf. Gv 15,2). Si tratta di riconciliarsi con la propria debolezza, di identificarsi nel pubblicano al tempio, di conoscere il proprio passato e affidarlo alla misericordia di Dio. Il Dio che si arriva a conoscere dopo la crisi è allora un Dio Padre e Madre, il Dio misericordioso e fedele.

    3. L'anzianità e la vecchiaia
    Di questo periodo della vita religiosa posso dire qualcosa soprattutto a partire da quanto ho osservato negli anziani, quelli che l'oriente cristiano chiama, con un'espressione estremamente significativa, kalógheroi ("bei vecchi"). E importante comunque riflettere anche su questo momento della vita, perché alla vecchiaia occorre prepararsi, in modo da riuscire a farle obbedienza come alle altre tappe della vita.
    Un primo significato della vecchiaia ci è suggerito dal Salmo 71, in cui il credente, ormai avanti negli anni, chiede a Dio di non abbandonarlo una volta sopraggiunti i capelli bianchi, per consentirgli di annunciare alla generazione più giovane la fedeltà, la misericordia e la potenza di Dio (v. 18). È bello poter esclamare come Giacobbe morente: "Il Dio che è stato il mio pastore da quando esisto fino a oggi, l'angelo che mi ha liberato da ogni male, benedica i più giovani" (Gen 48,15-16). Ma questa è la confessione di fede di chi ha accettato la vecchiaia e si appresta a fare della morte un atto: la morte infatti è un atto, è il nostro sì definitivo a Dio, è il ripetere nell'incontro faccia a faccia il sì del nostro battesimo, il sì della nostra professione. Allora il credente, con l'avanzare degli anni, non si lascia invecchiare né morire, ma continua a vivere il proprio oggi nell'oggi di Dio. L'anziano può fruttificare anche nella sua vecchiaia e "dare un frutto gustoso e verde" (Sal 92,15), anzi "se spera nel Signore riacquista forza, mette ali come aquila, corre senza stancarsi, cammina senza affannarsi, mentre i giovani si stancano e si affaticano, e gli adulti inciampano e cadono" (Is "30-31).
    Nella vita religiosa la vecchiaia è pesante e difficile per chi ha confuso l'operare con la vita di radicale sequela del Signore, per chi ha fatto della propria attività a servizio dei poveri e della chiesa lo scopo della vita, dimenticando che ciò che costituisce la vita cristiana e religiosa è l'obbedienza alla volontà del Signore, mentre tutto il resto sono semplici occasioni per incarnare questa sequela. La vecchiaia è pesante per chi non si è familiarizzato con la solitudine ma si è stordito con l'attività, i rapporti con le persone, magari in nome della condivisione con i poveri. È pesante anche per chi, malato di protagonismo, non riesce ad accettare l'inevitabile dipendenza dagli altri.
    Ma la vecchiaia può anche essere serenità, testimonianza della fedeltà di Dio e della sua misericordia: questa verità va trasmessa alle nuove generazioni perché imparino la sapienza. La vecchiaia è l'ora in cui guardare a tutto il passato per unificarlo davanti a Dio, è l'ora per assumere uno sguardo contemplativo su tutto e su tutti, è l'ora della makrothymía, quella capacità di "sentire in grande", vedere in grande che è propria di Dio. È l'ora di affidare i sensi di colpa e i peccati alla misericordia di Dio, senza rivangare i fallimenti e le cadute; è l'ora di essere vigilanti e in preghiera più che mai per l'arrivo dello Sposo.
    Un tempo i più anziani nella vita religiosa costituivano questo tesoro per la loro comunità; adesso purtroppo rischiano di essere il peso più grande, per due ragioni: perché le comunità si misurano sull'efficienza - ma questo è un criterio mondano e non cristiano! - e perché i più vecchi non accettano la nuova età della loro vita, ma questo è dovuto a mancanza di preparazione, al non aver fatto emergere con chiarezza lo specifico della vita religiosa: nient' altro che con-vivere e con-morire con Cristo!
    La vita religiosa è lunga o, meglio, può apparire tale: una lunga avventura di vita. Ma se si vive l'oggi di Dio, se ogni giorno si ascolta la sua voce senza indurire il cuore, se non ci si ribella contro Dio come a Meriba, se non si tenta Dio dicendo, come a Massa: "Il Signore è in mezzo a noi, sì o no?" (Es 17,7), allora si entra a poco a poco nel riposo di Dio, nella pace serena degli obbedienti che sanno che Dio è Padre e Madre e che completa in noi l'opera iniziata (cf. Fil 1,6), perché egli è l'inizio e la fine, l'alfa e l'omega (cf. Is 44,6; Ap 1,8.17; 21,6; 22,13).
    Credo allora che ogni religioso possa far sua, in pace e verità, questa stupenda preghiera di Efrem il Siro:

    Signore, la mia vita declina di giorno in giorno e invece i miei peccati crescono.
    O Signore, Dio delle anime e dei corpi,
    tu che conosci la mia debolezza e me l'hai fatta conoscere,
    concedimi la tua forza, sostienimi nella mia miseria,

    affonda i miei peccati nella tua misericordia e conservami il tuo amore fino alla fine.
    Così in me, ormai vecchio e senza forza, mostrerai di essere un Dio fedele,
    forte e pieno di misericordia. Amen.

    NOTE

    1 Cf. Vita di Antonio 7,12; 16,3; 18,2; 91,2.

    (Da: Non siamo migliori, Qiqajon 2002, pp. 193-211)


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