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    Vita consacrata e vita laicale

    L'intreccio di due vocazioni

    Armido Rizzi



    «Non si può né si deve dire l'ultima parola prima della penultima. Noi viviamo nelle penultime cose e crediamo nelle ultime». È una delle espressioni più famose della teologia cristiana del Novecento: sia per la penna – e il cuore – da cui è uscita, sia per la novità dell'intuizione contenuta. Si tratta di una lettera scritta da Dietrich Bonhoeffer, giovane teologo luterano, dal lager dove era stato portato dai nazisti e dove, qualche mese dopo, verrà impiccato. La sua testimonianza di fede militante e poi crocifissa ha fecondato come poche altre le Chiese cristiane nella seconda metà del secolo (nel 2005 è stato celebrato il sessantesimo anniversario del suo martirio, nel 2006 il centenario della nascita). Ma accanto alla testimonianza, l'innovazione teologica, di cui la formula – a prima vista sibillina – delle Cose ultime e delle penultime è una singolare concentrazione. Ed è questa che, più direttamente, qui ci interessa.
    Non è difficile immaginare quali siano le cose ultime (si chiamavano allora, con termine latino, i novissimi; più tardi si preferirà, con parola mutuata dal greco, le realtà escatologiche). Esse sono quelle che stanno oltre la siepe della morte: il giudizio divino e la radicale alternativa che esso dischiude, ossia la salvezza (paradiso) o la perdizione (inferno). E la vita umana sulla terra è il passare attraverso gioie e sofferenze del mondo tenendo fisso lo sguardo verso il cielo a cui puntare (e gli inferi a cui sfuggire), così da resistere al fascino-tentazione delle prime e da rassegnarsi alle seconde («in questa valle di lacrime»).
    Questa teologia della vita terrena riconosceva la propria realizzazione e manifestazione piena nella vita consacrata, dove i consigli evangelici sigillati dai rispettivi voti significavano appunto il massimo distacco dalle realtà presenti per appartenere interamente a Dio (vacare a mundovacare Deo [1]: vuoti del mondo – vuoti per Dio); perciò essa costituiva lo stato di perfezione della vita cristiana. Quanto ai laici, essi dovevano, per così dire, sporcarsi le mani con le realtà della terra: con la sessualità, con l'uso della ricchezza e col rischio della proprie scelte; ma il loro cuore doveva restarne pulito: l'uso non doveva diventare godimento (secondo una celebre distinzione di sant'Agostino [2]), perché le realtà terrene erano semplici mezzi in ordine all'unico fine della salvezza ultraterrena. Al punto che anche la teologia e spiritualità luterana, che pure aveva rifiutato da secoli la vita consacrata, si muoveva su altra strada ma nella stessa direzione.
    Ed ecco la rivoluzione teologica avviata da Bonhoeffer con quella sua frase: «Non dire l'ultima parola prima della penultima». Il penultimo viene prima dell'ultimo, come il mezzo viene prima del fine; ma il cambiamento semantico indica che le cose terrene non sono soltanto mezzi, vivono già dentro l'orizzonte del fine: sono il fine intermedio; non sono certo il fine ultimo, ma portano già in sé la luce di questo, non sono soltanto cronologicamente anteriori al fine ultimo né soltanto sue figure (i beni terreni come figura dei beni celesti) ma abbozzi e promesse della sua perfetta bontà.
    Che senso ha allora la vita consacrata in quanto rinuncia ai beni terreni? Ecco: questa rinuncia non può più essere intesa come il privilegio di un'anticipazione dei beni celesti, ma come il segno e l'avvertimento che essi restano altri rispetto ai beni terreni: non più semplici mezzi, ma pur sempre fini intermedi; offerti al nostro impegno e alla nostra fruizione ma pur sempre penultimi. La vita consacrata è allora un segno dentro la Chiesa come la Chiesa è il segno dentro il mondo; un segno per i laici cristiani come la Chiesa è un segno per i laici uomini e donne "di buona volontà".

    Indicazioni di spiritualità

    La prima e più importante indicazione è già contenuta nella conclusione teologica appena accennata: la vita consacrata non può essere intesa né esclusivamente né principalmente come via di salvezza e santificazione personale ma va concepita e vissuta come vocazione ecclesiale, che deve dunque intrecciarsi e integrarsi con la vocazione laicale. Le possibilità di questa integrazione sono molte, e non possono certo essere definite ed elencate in partenza; qui, come e più che in altri campi dell'esistenza cristiana, è la creatività dello Spirito dentro il crogiolo dell'esperienza a fungere da principio e da criterio. Basti perciò qualche esemplificazione.
    Una modalità di intreccio è quella che si verifica all'interno di una stessa esistenza: quando l'individuo consacrato è pure dedito in prima persona alla promozione di quei beni terreni che definiscono la vita laica (cristiana e non). Si pensi a tutto il fiorire delle opere di solidarietà e di pace, di accoglienza e di condivisione, di promozione culturale e educativa, che ha come attori principali donne e uomini liberamente vincolatisi alla sequela di Gesù nella pratica dei consigli evangelici. In un certo senso questa figura di vita consacrata su cui si salda l'impegno apostolico appartiene a una lunga tradizione, apertasi già nel Medio Evo con gli ordini mendicanti. Ma la novità è quella segnalata nella traccia teologica: la convinzione che ogni pane donato, ogni riconciliazione favorita, ogni vita orientata a una maggiore autenticità umana non è – o non è soltanto né necessariamente, né principalmente – un mezzo per portare alla conversione cristiana, ma è un penultimo, un fine in sé che già partecipa nella brevità del tempo allo splendore della gloria divina.
    Una seconda modalità è la vita consacrata come luogo in cui il laico può trovare un ascolto paziente, un magistero sapiente, un accompagnamento alla preghiera; in una parola, quelle forme di presenza di cui la vita cristiana ha bisogno, soprattutto in tempi in cui disorientamento del pensiero e febbrilità dell'azione rischiano di consumarne rapidamente la volontà di maturazione e di militanza.
    Ho parlato di «luogo» e il termine può essere inteso metaforicamente, cioè ogni incontro da cui si possa trarre luce e forza e consolazione; ma è giusto e bello intenderlo anche letteralmente, come quelle case religiose, in particolare contemplative, dove il colloquio con un maestro (al maschile o al femminile) di discernimento spirituale e la pratica di una liturgia corale appassionata e insieme composta aiuti a ritrovare quella pace interiore che è la condizione di ogni autenticità e fecondità spirituali.
    Infine, la vita consacrata è per eccellenza il luogo dove si innalza a Dio, come quotidiano offertorio, tutto ciò che nel mondo viene vissuto: ogni desiderio e attesa, ogni delusione e rassegnazione, ogni speranza e disperazione, ogni riuscita e scacco, ogni fruizione e privazione. Tutto questo vissuto è come un materiale che attende di essere trasformato in preghiera: in domanda e in ringraziamento, in lamentazione e in lode; attende che il grido del patire diventi invocazione, che il giubilo del godere diventi canto, che la ribellione contro l'ingiustizia o contro la calamità diventi richiesta di intervento al Dio della giustizia e dello shalom (la pienezza armonica del mondo). La vita consacrata è chiamata a questa consecratio mundi nel gesto simbolico delle mani alzate, così come la vita laicale lo è nel gesto efficace delle mani operose. Qui l'integrazione tra le due raggiunge la sua forma più segreta e più segretamente potente. I cui frutti, maturati nel penultimo, vedremo interamente soltanto nel dispiegamento dell'ultimo.

    NOTE

    1 Il motto, che ha avuto un'ampia fortuna nella tradizione monastica e ascetica, risale a Origene, Omelie sull'Esodo 12,2, secondo la versione latina di Rufino: «omissis omnibus Deo uacemus».
    2 «Godere di una cosa è aderire ad essa con amore, mossi dalla cosa stessa. Viceversa il servirsi di una cosa è riferire ciò che si usa al conseguimento di ciò che si ama, supposto che lo si debba amare. Per cui, un uso illecito è da chiamarsi abuso o uso abusivo... se in questa vita mortale, dove siamo pellegrini lontano dal Signore, vogliamo tornare alla patria dove potremo essere beati, dobbiamo servirci del mondo presente, non volerne la fruizione. Attraverso le cose create comprese con l'intelletto cercheremo di scoprire gli attributi invisibili di Dio o, in altre parole, per mezzo di cose corporee e temporali attingeremo le cose eterne e spirituali» (La dottrina cristiana 1,4,4). Si veda anche La città di Dio 9,8,13.

    (Armido Rizzi - Carmine Di Sante, La Bibbia e il suo oggi. Dono e compito, San Paolo 2021, pp. 145-149)


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