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    I monaci comprendono il mondo e le cose "altrimenti"
    e siccome le comprendono "altrimenti" vivono "altrimenti".

     

    Una vita profetica?

    Enzo Bianchi


    Nel linguaggio relativo alla vita religiosa sono presenti ambiguità che richiedono una breve chiarificazione.
    Si parla infatti di "vita consacrata" per poter mettere sotto lo stesso ombrello religiosi e istituti secolari, ma io non credo che ci si possa appropriare del termine "consacrazione" che appartiene di diritto a tutti i cristiani in quanto consacrati, unti, o meglio, santificati attraverso il battesimo (si veda anche LG 44). Ogni vita cristiana è vita consacrata ed è proprio in questa prospettiva che bisogna comprendere nella teologia occidentale il carattere battesimale e crismale [1].
    Sappiamo bene che l'espressione appare in Eusebio di Cesarea quando cerca di definire i due modi di vita stabiliti dalla legge della chiesa: "il primo modo che trascende la natura ... che tralascia il comportamento ordinario umano e che per un eccesso di amore celeste si dedica al solo servizio di Dio" [2] riguarda "quelli che si sono consacrati a Dio" (hierómenoi), ma non a caso questa distinzione, che diventerà divisione tra i due generi o tre generi di cristiani, nasce con la cristianità e oggi non può più essere giustificata di fronte alla coscienza che unica è la vocazione alla santità nella chiesa di Cristo.
    Certamente anche altri termini (per esempio "vita religiosa") restano ambigui, ma dovremmo chiederci se è proprio necessario mettere sotto un unico termine realtà che la grande tradizione della chiesa ha sentito diverse... Quanto al termine "profetico" applicato al religioso, o alla dizione "vita profetica" riferita alla vita religiosa, occorre far emergere alcune difficoltà inerenti alla sua utilizzazione. Il lessico attinente alla sfera del "profetico" è applicato con grande enfasi alla vita religiosa, ma se poi si cerca di cogliere che cosa veramente significhi questo vocabolario nella coscienza di quelli che lo usano, si rimane normalmente molto delusi... Basta leggere le voci "Valeur prophétique" nel Dictionnaire de Spiritualité, "Profetismo della vita religiosa" nel DIP o altri articoli dedicati a questo tema per rendersi conto della verbosità diffusa e imprecisa che svela un uso pretestuoso, quando non ambiguo o addirittura distorto, del termine [3].
    In verità nel Nuovo Testamento si attesta che la chiesa è costruzione fondata su apostoli e profeti (cf. Ef 2,20), che Dio ha istituito nella chiesa "in primo luogo (prôton) gli apostoli, in secondo luogo (deúteron) i profeti ..." (1Cor 12,28) e che l'apostolo chiede ai cristiani di aspirare al dono della profezia (cf. 1Cor 14,39), peraltro ben presente nelle prime comunità cristiane (cf. At 11,27; 13,1; 15,32; 21,9; ecc.). E anche vero che Gesù, in Mt 23,34, promette di inviare nuovi profeti, ma è altrettanto vero che all'inizio del m secolo, come osserva Hans Urs von Balthasar, "in seguito all'abuso montanista della profezia, cade sulla presenza profetica nella chiesa una brinata i cui effetti sono ancora oggi presenti e non riparati".
    Con l'emergenza della chiesa imperiale avviene anche la nascita del monachesimo, e così nella chiesa appare "per un eccesso d'amore di Dio", per un "massimalismo", come scrive Eusebio di Cesarea [4], una vita altra, diversa, differente, diffusa nelle città e nel deserto; una forma vitae in cui si intravedono i tratti degli antichi profeti, soprattutto Elia e i suoi discepoli, e poi il nuovo Elia, Giovanni il Battista... Quei primi monaci sono ritenuti seguaci, eredi, imitatori del profetismo biblico: il monachesimo - chiamato bíos prophetikós - diventa il luogo privilegiato della sopravvivenza del carisma profetico [5].
    In effetti, quando i cristiani si installano nell'impero costantiniano e rischiano di perdere il senso della trascendenza del disegno di Dio su di loro e sul mondo, quando si affievolisce l'attesa della fine del mondo e della venuta del Signore, appaiono i monaci con una forma vitae che è rottura con la mondanità, contestazione dell'affievolimento della fede e dell'omologazione dell'esistenza ai non cristiani, senza più la testimonianza del martirio, memoria dell'unico necessario opportune et importune (cf. 2Tm 4,2)...
    Non ex officio, ma e Spiritu alcuni cristiani sono chiamati a una vita che, mediante una scelta radicale, diventa sgombra da molteplici impedimenti in vista della creazione di una comunità diversa, di un futuro diverso. Certo, i pericoli di questa emergenza erano e sono evidenti. Per la chiesa e per la società erano necessarie:
    profezia, non vaticinazione, né utopia
    xeniteía, non evasione o voyeurismo
    rottura con il conformismo, non clandestinità o incognito
    alternativa di vita, non settarismo
    contestazione, non rivolta e uscita dalla comunione.
    Vita monastica come vita profetica, dunque, ma a patto che non ci si arroghi questa qualità senza essere in realtà portatori di profezia. Chi è, infatti, il profeta? Dalla Scrittura e dalla grande Tradizione il profeta appare come un portaparola di Dio. Non è colui che predice il futuro con un'ars divinatoria, ma chi legge l'azione di Dio anche nel futuro; non colui che contesta l'istituzione al solo fine di contestare, ma chi discerne e denuncia l'infedeltà e il peccato; non colui che ha parole sue, ma chi ha solo una parola sorgiva, ispirata da Dio di cui - quasi schiacciato - si fa eco. Soprattutto egli fa sentire la presenza di Dio non solo con la parola, ma con tutta la sua vita, con il suo stile, con il suo linguaggio e il suo silenzio [6]. Guglielmo di Saint-Thierry nella Lettera d'oro chiama la vita monastica "vita a tempore prophetarum praemonstrata et in Johanne Baptista instaurata et innata" [7]. Ma questa definizione non può essere catturata per sempre: va verificata di volta in volta in una forma vitae concreta vissuta nella storia.
    Si ricordi infine che non tutti i religiosi sono profeti alla stessa maniera e con la stessa intensità (sicuramente questi doni di discernimento e di profezia dovrebbero essere almeno di chi presiede!), ma nella comunità dovrebbe essere presente un orientamento profetico fondamentale, dovrebbe essere voluto e assicurato uno spazio, un terreno che faccia germinare e nutra il dono della profezia.

    La vita religiosa come profezia, oggi

    È certo che la qualità profetica appartiene a tutta la chiesa, a tutti i membri del corpo di Cristo sacerdote, profeta e re, ma è pur vero che tra tutti i battezzati alcuni appaiono - per forza, intensità ed eloquenza - profeti con tratti specifici, con un messaggio proprio alla chiesa del loro tempo... Se la vita religiosa è vita profetica è proprio perché appartiene al popolo di Dio, sta nella chiesa e per il suo radicalismo può essere più adatta a far germinare la profezia e a esprimerla. I religiosi (non ci stancheremo mai di affermarlo) traducono nella loro vita la sequela di Cristo e per questo abbandonano casa, famiglia, campi, a causa dell'evangelo... L'unico necessario è la ricerca del regno di Dio (cf. Mt 6,33), l'unica loro regola è l'evangelo e nient'altro (cf. PC 2,2), nulla preferiscono all'amore di Cristo (cf. RB 4,21)... In questa loro rinuncia radicale fatta con tutta la loro persona - corpo e spirito -, in quest'impegno totalizzante per l'attesa della venuta del Signore e del suo regno, in questo rischio di tutta l'esistenza, i religiosi acquistano una conoscenza (gnosis), o meglio, una eggnosis (la "sovraconoscenza" di cui parla spesso Paolo) che in altre condizioni non è data in dono dal Signore né trova terreno propizio. Proprio in questa condizione di libertà, da riguadagnarsi ogni giorno a prezzo della rinuncia alla mondanità, i religiosi possono annunciare alla chiesa e al mondo messaggi alternativi.
    Diventati soggetti allo Spirito santo grazie alla lotta ascetica ("versa il sangue e otterrai lo Spirito", dice un apoftegma di abba Longino), dallo Spirito santo sono mossi fino a diventare pneumatofori, portatori dello Spirito perché affidati allo Spirito, portatori della Parola perché affidati alla parola di Dio.
    D'altronde la vita religiosa, se vissuta autenticamente, è in se stessa affermazione profetica che esige una dimensione altra e supplementare dell'esistenza umana: più il riferimento alla fede è forte e intenso, più la vita religiosa appare una sfida lanciata a una cultura nichilista e ancora materialista che non consente all'uomo una dimensione che lo trascenda... La vita dei religiosi - in cui la memoria Dei è continuamente fatta emergere in mezzo alle diverse occupazioni e ai molti lavori - e il tempo delle loro giornate, che i ritmi della preghiera liturgica e personale rendono inabitato da una quotidiana memoria sabatica, profetizzano che Dio è presente e regna su chi lo lascia regnare su di sé.
    Infatti le varie forme di vita religiosa, soprattutto al loro nascere, hanno esercitato un compito di denuncia di una situazione, hanno cercato di essere memoria dell'ispirazione originaria della chiesa ("forma primitivae ecclesiae"), sono state una spinta verso nuove forme di presenza tra gli uomini e nella storia. Non è un caso che le differenti forme di vita religiosa (non di ogni singolo istituto!) siano nate normalmente in un tempo di crisi della chiesa e che i fondatori abbiano sempre avuto una conoscenza spirituale della storia in cui vivevano, un discernimento chiaro dei segni dei tempi.
    La vita religiosa, nell'intenzione dei fondatori, è sempre vita segnata da una differenza che le viene dall'evangelo, è una vita umana, umanissima, un'opera d'arte antropologica, ma altra, differente, tesa a mostrare che l'impossibile è possibile, che l'utopico, il senza luogo (u-tópos) trova per la forza dello Spirito santo un luogo di incarnazione in una comunità, per quanto è possibile a uomini e donne che fanno voto non già di non mancare all'evangelo, ma di non cessare mai di conformarsi a Cristo nella sua sequela. Il religioso, grazie alla sua assiduità con il Signore, al suo essere non distratto (amérimnos), non diviso (aperíspastos), dovrebbe rappresentare una denuncia di ogni sufficienza delle realtà presenti, una proclamazione di speranza, una narrazione dell'attesa dei cieli nuovi e della terra nuova, dovrebbe essere una vita tesa alla Parusia, libera da paure e perciò senza compromessi, salda nell'adesione "come se vedesse la realtà invisibile" (Eb , 27) .
    La critica profetica non si indirizza solo contro la mondanità, il mondo popolato dagli idoli molteplici e falsi, ma si esercita anche nei confronti delle istituzioni della chiesa e verso tutto ciò che è mezzo, strumento provvisorio (sacramento compreso!) e rischia di diventare un "assoluto"! Tutto dev'essere ordinato alla realtà della vita en Christe3, alla realtà del "Cristo in noi"... Sì, "Cristo in noi speranza della gloria!" (Col 1,27). La vita cristiana non deve ridursi a un insieme di strutture ecclesiastiche, di regole giuridiche, di pratiche cultuali perché queste, pur necessarie, hanno ragione di esistere se riescono a promuovere la comunione, la koinonía, se sono un servizio alla comunione con Dio, tra i cristiani, con gli uomini tutti, fratelli nostri e figli di Adamo.
    Vita profetica: non si tratta solo di parlare, ma di vivere in modo che la persona, le comunità religiose, siano presenze profeticamente eloquenti... E attenzione a non ridurre la profezia a un servizio, a una diaconia che risponda ai bisogni emergenti nella società, come oggi si tende a fare sotto la spinta dell'enfatizzazione delle esperienze del volontariato e dell'organizzazione della carità [8], arrivando a battezzare con il termine di profeti dei lodevoli filantropi!
    La dimensione profetica presuppone una viva attesa escatologica da parte della vita religiosa, un guardare al futuro non come prolungamento del passato, ma come tempo dell' Adventus, cioè tempo del nuovo che arriva, del Regno che viene. Come ammoniva Bloch, occorre "distinguere il futuro dall'avvento": non ogni futuro infatti è concepito e vissuto come realtà che "viene incontro", e solo con un futuro pensato come Adventus si spezza l'attuale coscienza anticristiana del tempo come infinità nota, diluita evoluzionisticamente, mancante di attesa.
    C'è un testo di Bernardo di Clairvaux che per me è il più chiaro ed eloquente sulla vita profetica dei religiosi:
    Fratelli miei, è un modo di profetizzare eccellentissimo quello al quale vi siete dedicati (con la vostra vita). In che cosa consiste questo modo di profetizzare? Come dice l'apostolo: non vedere ciò che è visibile ma l'invisibile, questo è sicuramente profetizzare. Camminare nello Spirito, vivere di sola fede, cercare le cose dell'alto, tendere verso ciò che sta davanti è profetizzare in modo ancora parziale, ma tuttavia grande. È così che un tempo i profeti desideravano con forza di vedere il giorno del Signore, e vedendolo si rallegravano in esso [9].
    Infine va detto che nella dimensione profetica c'è sempre un'esigenza di creatività perché il ministero profetico sgorga sempre da Colui che "crea e fa nuove tutte le cose" (cf. Ap 2 1,5) ed è dunque costretto a relativizzare tutte le cose e a rapportarle al regno di Dio veniente. Proprio per questo i fondatori nella vita religiosa sono stati anche creativi e hanno spesso sofferto i drammi dell'incomprensione e della persecuzione [10].

    Vita religiosa e orizzonte escatologico

    Per essere autenticamente profetica la vita religiosa deve riappropriarsi dell'orizzonte escatologico, ormai quasi assente non solo nello spazio ecclesiale, ma anche nello spazio proprio dei religiosi.
    Johann Baptist Metz, già nel 1977 nel suo libretto Zeit der Orden? [11], ammoniva i religiosi riguardo alla sequela, dichiarando l'impossibilità di praticare questa senza l'attesa escatologica: infatti la parola autoritativa di Gesù: "Seguimi" è inseparabile dalla nostra parola che invoca: "Vieni, Signore Gesù!". Alla sequela radicale di Cristo deve corrispondere un'attesa radicale del Signore che viene. Ma è qui che noi ci chiediamo: dov'è questa coscienza escatologica nella vita religiosa? Non festeggia anche la vita religiosa (intendo: non solo liturgicamente, ma anche esistenzialmente) più il Natale a Betlemme che la Parusia, l'amen definitivo di Dio a tutta l'umanità, a tutta la creazione?
    La vita religiosa dovrebbe essere orientata alla fine del mondo non come scacco di questa creazione, ma come novità, trasfigurazione voluta da Dio con un verdetto estrinseco rispetto alla storia e alla nostra vita! Non si tratta di vivere una dicotomia tra éschaton e storia, ma una dialettica sì! Tutti noi sappiamo che se c'è oggi una ricerca sul tempo, questa è condotta da non credenti che cercano di formulare la tesi che il tempo ha una fine che lo rende significativo, non vuoto, non infinito... Ma è triste che credenti e religiosi non abbiano nulla da dire su questo argomento! Eppure la vita religiosa dovrebbe essere esperta del tempo, per una conoscenza che le viene dall'attesa, dalla vigilanza quotidiana e permanente, e dovrebbe sapere che il tempo ha una fine e che può veramente avvenire che la venuta del Messia glorioso nella storia irrompa nella nostra vita (cf. I Ts 4,15-18) [12]. È un caso che la celebrazione dell'Avvento sia nata contemporaneamente alla vita religiosa nel iv secolo?
    La vita religiosa deve dunque ripetere e tenere davanti a sé, come un Adventus efficace per oggi nella vita, l'orizzonte escatologico, e in base a questa speranza plasmare la propria vita e quindi dare un messaggio alla chiesa e al mondo...
    "E tempo che ci sia tempo" scrive Paul Celan in una poesia. Sì, è tempo che ci sia tempo, soprattutto in una vita religiosa che corre come il mondo, che denuncia di non avere tempo mostrando quale sia uno dei suoi idoli, che vede il tempo mondanamente come evoluzione, che vede la propria vita segnata dall'atemporalità, la storia come aeternum continuum omogeneo privo di sorprese, un infinito già noto, un'eternità vuota. Il concilio Vaticano II dichiara la qualità escatologica della vita religiosa (LG 44), ma vede questa qualità soprattutto nella professione dei consigli evangelici all'interno del "popolo di Dio che non ha qui città permanente ma va in cerca della futura", il che è certamente vero, ma, a mio giudizio, insufficiente. Non basta delegare alla professione dei tre voti la dimensione escatologica perché prima di essi, che appartengono soprattutto al soggetto che emette professione, l'escatologia è una dimensione plasmante la forma vitae... Sì, vivere la dimensione escatologica significa pensare altrimenti le costruzioni che si abitano, vivere un rapporto rinnovato con le stesse strutture della vita religiosa, ripensare l'autorità e i ministeri in modo diverso, leggere i sacramenti e la liturgia come strumenti necessari ma sempre provvisori, in vista del télos della vita cristiana che è l'agape, la carità, l'unica dimensione che rimane nel Regno veniente (cf. 1 Cor 13,13).
    Mettere l'escatologia al cuore della propria fede significa vivere in tensione verso un compimento che non è ancora avvenuto. Significa vivere di speranza, non camminare alla luce della visione (cf. 2 Cor 5,7), significa riguadagnare la consapevolezza della provvisorietà, dell'incompletezza di ogni comunità, di ogni testimonianza; e questo anche nel momento della piena fioritura, destinata prima o poi a lasciare il posto alla decadenza.
    Proprio l'orizzonte escatologico potrebbe spingere i religiosi a una continua rifondazione del loro ministero, spingerli a confrontare l'ispirazione originaria (detta con parole ambigue "carisma del fondatore") non solo con le nuove situazioni e i segni dei tempi e dei luoghi, ma anche con lo spirito delle nuove generazioni anch'esse munite, come la prima generazione, dell'unctio magistra assicurata dallo Spirito che chiama alla sequela Christi! Anche di fronte alla crescente ecclesificazione della fede cristiana che avviene da un secolo in qua, i religiosi amanti della chiesa, al cuore della chiesa, potrebbero dire una parola che, senza contestazioni pretestuose, richiami la signoria eterna di Cristo e la provvisorietà delle letture o degli assetti ecclesiali-ecclesiastici...
    Perché gli uomini chiedano ai religiosi: "Sentinella, a che punto è la notte?" (Is 21,1 i), occorre che vedano in loro dei "vigilanti", quelli che hanno una parola da dire da parte di Dio, altrimenti si rivolgeranno ad altri...
    Ancora Johann Baptist Metz ha ammonito:
    Non c'è nella cosiddetta coscienza moderna ... un tipo particolare di mancanza di attesa, di apatia che induce quotidianamente a un adattamento rispetto al "corso delle cose", a una mancanza di resistenza rispetto al "corso del mondo", a una passività? È l'idea di un'infinità evolutiva del tempo [13].
    Sì, i religiosi dovrebbero interrogarsi se sono ancora capaci di resistenza al "corso del mondo" quando questo corso è emergenza della mondanità e chiedersi se il futuro per loro non è, come per molti, un futuro vuoto per il quale non hanno né forza né voglia di invocare: "Vieni, Signore Gesù", "Maranà tha" (Ap 22,20).
    Ancora una domanda, che mi pongo sovente in questi tempi in cui c'è da parte di molte componenti della chiesa una ricerca ossessiva della propria identità: si può giungere a delineare una propria e autentica identità senza trovarla in Cristo e senza che sia ispirata dalle realtà escatologiche? In un tempo vissuto nella schizofrenia tra le due venute del Signore ormai ben distanziate, c'è solo spazio per un tempo pensato come "nostro", un frattempo destinato a essere segnato dal saeculum, cioè dalla secolarizzazione [14]. L'oggi dell'uomo occidentale è contrassegnato dal vivere altrove, dall'appartenenza a elementi frammentari, dall'affermazione di un diritto di permuta come se si disponesse di una serie di vite, dal vivere la propria situazione come esperienza... Se i religiosi partecipano a queste exousíe, a queste dominanti, come possono cercare la propria identità e trovarla in un rinnovato radicalismo evangelico?

    Una vita profetica perché paradossale

    Se è vero che ci sono degli stati permanenti nella vita ecclesiale (come il ministero presbiterale), occorre pur riconoscere che non c'è uno stato permanente del profeta... Il religioso è dunque profeta nella misura in cui dice una parola da parte di Dio con la
    Il paradosso evangelico o gesuano non è solo un espediente per dare alla parola una qualità performativa, una capacità di attrarre l'attenzione, ma è sempre un'esigenza di radicalità, di decisione totale e irrevocabile... Questo, lo si voglia o no, costituisce una rottura, un urto con l'ambiente circostante mondano; può portare addirittura chi compie questa rottura a una marginalità rispetto al mondo, ma lo porta anche a una dialettica capace di inoculare messaggi nell'ambiente rispetto al quale vive una condizione di differenza. Guai a chi si arrende alla cultura dominante: significherebbe sancire l'appiattimento, l'omologazione, l'irrilevanza della propria vita!
    Parole e atteggiamenti di Gesù hanno saputo causare quest'urto con il suo ambiente ("Venne tra i suoi, ma i suoi non l'hanno accolto": Gv 1,1 i) e proprio per questa paradossalità narrata e spiegata a tutti, Gesù ha scandalizzato gli abitanti di Nazaret, ha provocato un giudizio di pazzia su di sé da parte dei suoi familiari (Mc 3,21 e 6,2-4), ha dovuto denunciare nell'intervento di Pietro la grande tentazione di ogni cristiano che vorrebbe stornare la croce, rimuovere lo scandalo (Mc 8,33)...
    Ora, se il religioso nella sequela si conforma a Cristo cercando di seguirlo sempre, ovunque vada, nella dolcezza del suo insegnamento come nella durezza ignominiosa della croce (Mc 8,34; Eb 12,2; 13,13), è normale che abbia una vita con tratti evangelici che appariranno paradossali agli altri. Come può la vita religiosa nutrirsi di immagini sovente arroganti quali "vita perfetta", "vita angelica", "vita apostolica", "vita profetica", "vita di perfetta carità", "vita nuziale con Cristo" 15..., se poi non incarna nella vita concreta queste sue definizioni? Il segno è segno di niente, millanta credito se non è espressione di una realtà.
    No! O si costruisce la propria vita alla luce dell'invisibile trascendente oppure si costruisce il proprio destino nella sottomissione alle realtà della terra intese mondanamente senza trascendenza, senza sbocco nella vita eterna. Si può infatti profetizzare nel nome di Gesù senza essere stati da lui né chiamati, né conosciuti, né sostenuti (cf. Mt 7,22), ma "in quel giorno" si apparirà come operatori di iniquità (Mt 7,23).

    Urgenze profetiche, oggi

    Vorrei ora delineare alcune esigenze che mi paiono necessarie oggi per una vita religiosa che dia spazio alla profezia. Si tratta di urgenze profetiche che riguardano tutta la chiesa, ma in particolar modo i religiosi, più adatti, per il radicalismo della loro vita, a esprimerle e a renderle leggibili ed eloquenti:
    1) una vita di conversione
    2) testimoni del Dio vero e vivente
    3) il primato della fede
    4) la logica della croce.

    1. Una vita di conversione
    Pensiamo a due grandi testimoni del radicalismo evangelico: Francesco e Chiara. Quando si va all'inizio della loro vocazione, quel che appare evidente è la volontà di fare una vita di conversione (Chiara), di penitenza (Francesco). Quel che vogliono Francesco e Chiara è la conversatio, una vita da convertiti, cioè la vita di chi si è rivolto a Dio, di chi ritorna a lui. Il linguaggio di Francesco e di Chiara, differente ma complementare, sente il bisogno di leggere innanzitutto la vocazione non in termini di missione, bensì di cambiamento di vita, di conversione.
    Le diverse riletture della conversione: il bacio al lebbroso, l'incontro con il crocifisso di San Damiano, l'incontro con l'e-vangelo... mostrano l'esigenza della conversione. Francesco è eloquente perché ha narrato, mostrato, spiegato la conversione facendosene esegesi vivente.
    I voti, o meglio, la logica evangelica abbracciata dai religiosi deve plasmare e dare forma al religioso visibilmente: quelle tre libido - la libido amandi, la libido possidendi, la libido dominandi, non solo buone in sé ma necessarie all'edificazione di ogni persona - devono essere purificate e convertite in castità, in povertà, in sottomissione reciproca e obbedienza e mai essere un assoluto, un fine che aliena e che offende la comunità degli uomini e la koinonía dei fratelli cristiani. Come Cristo ha lottato nel deserto contro queste tentazioni (cf. Mt 4,5-11i e Lc 4,1-13), così devono fare anche tutti i cristiani tra i quali stanno i religiosi. Se c'è lotta allora c'è conversione!
    Dobbiamo porci la domanda: le nostre vite religiose narrano la conversione oggi? Fanno vedere che percorriamo un'altra strada? Questa è la domanda preliminare: gli uomini vedono in noi un cambiamento di vita? Se vedono che noi viviamo come loro, perseguendo gli stessi traguardi mondani, e che siamo incapaci di mostrare una vita "altra", perché dovrebbero convertirsi?

    2. Testimoni del Dio vero e vivente
    È invalso l'uso del termine "postmoderno" per individuare l'oggi: al di là della pertinenza della definizione, è indubbio che in questi ultimissimi anni si registrano mutamenti di tendenza, appaiono novità esistenziali: emerge sempre più il frammentario, il molteplice, il complesso, il diverso...
    Certamente siamo di fronte a una nuova stagione della percezione del divino. Ci avevano appena annunciato la morte di Dio quando abbiamo trovato molte ragioni per proclamarlo vivente più che mai... "Dio ritorna!", si è detto nel gergo dei mass media... La revanche de Dieu è il titolo di un recente libro di Gilles Kepel. Si è anche pensato che ormai il problema non è tanto più credere in Dio, quanto credere nell'uomo dopo gli immensi crimini di questo secolo in occidente, in oriente, nel terzo mondo...
    E invece? E invece è tornata la religione, non Dio! Se ieri il problema era "Cristo sì, chiesa no!", oggi si può dire: "Religione sì, Dio, Cristo no!". La religione che è tornata è una religione dionisiaca, panica, una religione "placebo" che assicura un appagamento eludendo la fatica e la sofferenza, una religiosità intesa come mistico incanto dell'anima, come presunzione psicologica, estetica di innocenza... È morto Marx, ma vive Nietzsche (mito sì, Cristo-Dio no!)... Ecco, di fronte a questo orizzonte, l'urgenza della profezia: testimoniare, con un eccesso oggi forse necessario, la presenza del Dio personale e vivente; inventare un linguaggio paradossale, che mostri un chiaro discernimento tra gli dèi politeistico-estetici accattivanti e il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo. Non un Dio di tutti nel senso che si adatta a tutti, ma un Dio vivente per il quale non c'è solo "riferimento etico", ma amore... Si tratta qui di conversione nel senso di mettere Cristo, immagine di Dio, al centro di tutto e di amarlo! I religiosi devono essere testimoni di un Dio al quale sappiano parlare e non di un Dio del quale soltanto parlino, un Dio che essi conoscano e frequentino assiduamente, senza distrazioni, come se vedessero l'invisibile.
    Ripeto: come se vedessero l'invisibile... Gli occhi di una fede intensa e matura ci permettono di vedere al di là dei limiti del nostro intelletto e dei nostri sensi, ci permettono di vedere le realtà invisibili che sono eterne (cf. 2Cor 4,18), la realtà che spiega tutte le cose: Dio. La vita religiosa, che era definita dai padri (Pseudo-Macario) come un ministero di percezione nella veglia, nell'attesa di Colui che viene e nella celebrazione della speranza, deve testimoniare una Presenza e un presente abitato da Dio...
    Chi canta con arte e convinzione per questa generazione le parole del salmo: "Il tuo amore, o Signore, vale più della vita!" (Sai 63,4)? Chi mostra oggi di essere intento all'arte del discernimento della divina presenza se i religiosi non lo fanno? La vita eterna è conoscere Dio solo, il Padre (Gv 17,3). La forma di una religiosità che appaia per tutti adeguata, buona, proponibile, che non porti nessuna krísis, che non abbia nessun orizzonte escatologico può essere scelta nel grande supermercato religioso occidentale perché non richiede conversione, non porta segni di massimalismo di amore, è perfettamente omologata alla nostra cultura e alla nostra esistenza... Ma non sarà mai fede cristiana. A volte si ha l'impressione che essere cristiani e, mi si permetta, essere religiosi, appaia una variante minima e trascurabile, un vezzo piuttosto che un segno chiaro e netto che significhi un urto contro la mentalità mondana dominante... Oggi non si ama vedere né distinzioni, né diversità, e se si sapesse che il termine santi nel Nuovo Testamento significa "distinti", separati dalla mondanità per Dio, non lo si userebbe più! Non si è neanche più capaci di una "pratica cordiale dell'alterità" (Stanislas Breton) e dell'assunzione della singolarità cristiana!

    3. Primato della fede
    Oggi i grandi orizzonti della vita religiosa sono espressi dall'evangelizzazione che si vuole "nuova" e dall'impegno della carità... È inutile dire che queste sono esigenze permanenti per la vita della chiesa e dunque anche della vita religiosa, ma non voglio nascondere i grandi rischi che si corrono se non si mettono accanto a loro anche le esigenze della spiritualità, di una vita nello Spirito santo, di una vita interiore che possono solo scaturire da un primato della fede. Giovanni Paolo II non ha forse ricordato recentemente alla vita religiosa che il vero problema è la spiritualità, vivere nello Spirito santo? È certo che la fede, per sua natura, chiede di essere associata al render conto di essa ("Ho creduto e per questo io parlo!": 2Cor 4,13), ma non si dovrebbe dimenticare che prima di ogni parola agli altri si tratta di obbedire alla Parola, cioè di impegno spirituale che contenga la conversione personale e comunitaria, altrimenti il tutto si esaurisce in un vuoto altruismo... Solo una conversione in atto da parte della vita religiosa può presentarsi agli altri chiedendo un mutamento, un ritorno: religiosi mondani possono soltanto incoraggiare gli uomini a restare quel che sono, impedendo loro di scorgere una salvezza efficace e depotenziando le forze di quell'evangelo che si vuole portare nel mondo.
    La vita religiosa dovrebbe vivere solo di fede, "ex fide vivit" (Rm 1,17), come la chiesa, e mostrare dunque questo primato con il suo massimalismo evangelico ricordando che il risultato dell'evangelizzazione non dipende solo da quanto lei predispone, ma soprattutto dal Signore (cf. 2 Ts 3,1)!
    Evangelizzazione non significa messaggio dichiarato utile dal mondo, né presenza che si impone, né visibilità che offende, né splendore che acceca e umilia, ma annuncio di "Gesù Cristo speranza in noi" (cf. Col 1,27-28) fatto con "parole di grazia" (Lc 4,22) e con una "condotta bella tra gli uomini" (I Pt 2,12).
    Quanto poi all'impegno per la carità, non vorrei che il pensiero maggioritario espresso dagli uomini - "la vita religiosa serve" - incantasse i religiosi, sempre più entusiasti del riconoscimento che viene loro dalla società per i loro servizi e le opere che la società civile stessa non riesce a fornire...
    La tentazione oggi per la vita religiosa potrebbe essere quella di stemperare l'annuncio del Cristo risorto, vivente e veniente, in opere di carità, in battaglie per i diritti dell'uomo, in organizzazioni di solidarietà e filantropia. Servizi, diaconie che non vanno certo dimenticate - perché il religioso sta nella storia, tra i fratelli, e non gli è consentito nessun rapporto da spettatore nei confronti delle fatiche e delle sofferenze che attanagliano gli uomini -, ma non dimenticando mai che proprium, specifico del cristiano è la fede in Cristo, "la fede operante attraverso la carità" (Gal 5,6), ma una fede che è l'opera, l'azione per eccellenza. "Cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?", chiedevano a Gesù, e Gesù ha risposto: "Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha inviato" (Gv 6,28).
    Se i religiosi mettono fiducia nelle loro opere e nel modo di concepire e rendere efficaci i valori, se appiattiscono la loro testimonianza a etica da offrire agli uomini, se riducono l'evangelo alla carità perseguita attraverso il volontariato e la soddisfazione dei bisogni emergenti della società, saranno buoni filantropi ma non profeti di fede! Questo lo ricordo per tutti i religiosi, non solo quelli contrassegnati da una semplice diaconia, ma anche quelli che dicono di non avere diaconie, ma poi contraddicono una fede che è sperare in Cristo e basta!

    4. La parola della croce
    Infine un'ultima esigenza, che tratteggio in modo scarno perché non ne sono degno; se la annuncio è solo perché spero che questa converta anche me che la ascolto: la parola della croce.
    Il nostro Dio, quando oggi è percepito ed esperito da autentici cristiani (si vedano i grandi santi di questo secolo), è un Dio che in Cristo non solo si è fatto uomo, ma ha conosciuto la sofferenza, la morte, l'inferno... Non è più il Dio fiero di onnipotenza, ma è un Dio svuotato, è il Dio della synkatábasis, il Dio che sta seduto alla tavola dei peccatori, non il Dio che sta sul trono della condanna... Sì, la vita religiosa deve abbandonare, nel "palazzo", il piano dove vige il regno dell'harpagmós, del "possesso geloso" (Fil 2,6), per scendere a terra dove c'è il regime della povertà, della spoliazione, della croce... Fuori dal campo... per incontrare Cristo fino a condividerne l'infamia (Eb 13,13), perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma siamo in cerca di una città futura (cf. Eb 13,14). I profeti non stanno nei palazzi dei re, ha detto Gesù (cf. Mt 1,8).
    Questa è la croce che coniuga la massima santità cristiana, l'urto, la contraddizione della "philautía" mondana, con la solidarietà nella compagnia degli uomini, nella speranza che si realizzi la volontà di Dio, quella che vuole tutti gli uomini salvati (cf. Tm 2,4).
    I religiosi non si sono forse definiti come successori dei martiri per eccesso d'amore per il Signore? Ma attenzione, come annotava Ilario di Poitiers:
    c'è all'orizzonte un persecutore insidioso, un nemico che lusinga... Non flagella le nostre schiene ma ci accarezza il ventre, non ci confisca i beni dandoci la vita, ma ci fa ricchi per darci la morte, non ci imprigiona spingendoci verso la libertà, ma ci onora nel palazzo spingendoci alla schiavitù, non ci stringe i fianchi con catene ma vuole il possesso del nostro cuore, non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide l'anima con il denaro, il potere, il successo, i primi posti [16].
    Sì, la croce e la parola della croce, ho lógos ho toû stauroû (1 Cor , i 8), sono quelle che danno vera efficacia alla nostra fede, esse sole sono capaci di rendere profetica la nostra fede come è avvenuto per tutti i profeti dell'antica alleanza e della vita della chiesa.
    All'inizio di ogni vita religiosa c'è sempre una parola del Signore Gesù: "Se vuoi, vieni, seguimi...".


    NOTE

    1 Cf paragrafo "Vita consacrata" in Laici senza importanza (saggio del libro Non siamo migliori, pp. 68-72.
    2 Eusebio di Cesarea, Dimostrazione evangelica 1,8.
    3 Cf. J.-M. R. Tillard, s.v. "Valeur prophétique (de la vie consacrée)", in Dictionnaire de spiritualité XVI, Paris 1994, coli. 709-713; J. Galot, s.v. "Profetismo della vita religiosa", in Dizionario degli Istituti di Perfezione VII, Roma 1983, pp. 986-990. Di tutti i libri e gli articoli consultati l'unico che, a mio avviso, merita di essere letto con attenzione è: S. Rendina, "Vita religiosa: segno profetico nel mondo di oggi", in Rassegna di Teologia 34 (1993), pp. 544-557.
    4 Cf. Eusebio di Cesarea, Dimostrazione evangelica 1,8.
    5 E questa l'acuta coscienza monastica, come testimoniano Gerolamo (Lettere 22,9) e dopo di lui soprattutto Ambrogio, Giovanni Crisostomo, Gregorio Magno (Omelie sui vangeli 11,29,6), Pier Damiani, Bernardo, Guglielmo di Saint-Thierry, Arnaldo di Bonneval ecc. Sulle testimonianze patristiche cf. J. Leclercq, La vie parfaîte, Tournai 1948, pp. 57-66.
    6 CL S. Rendina, "Vita religiosa", pp. 546-547.
    7 "Vita prefigurata dal tempo dei profeti e instaurata e rinnovata in Giovanni Battista" (Guglielmo di Saint-Thierry, Lettera d'oro I, 11, a cura di C. Falchini, Bose 1988, p. 41).
    8 Cf s.v. "Profetismo e sociologia", in Dizionario degli Istituti di Perfezione VII, Roma 1983, p. 993: secondo il curatore della voce, S. Burgalassi, oggi la profezia della vita religiosa sarebbe attenzione agli emarginati e orientamento a un chiarimento dei veri ideali umani (sic). Vedi anche P. Vanzan, "Vita religiosa: profezia nella 'polis' dell'uomo", in Via, Verità e Vita 148 (1994), pp. 90-95. In questo ultimo articolo l'impegno nella società e la riserva escatologica vengono messi a confronto e si cerca di renderli collegabili e non dimensioni schizofreniche, ma l'impegno nella società è visto direttamente come politico: su questo non posso essere d'accordo perché la profezia autentica è sempre prepolitica, altrimenti si carica di ambiguità e della logica di contrapposizione e di inimicizia, elementi non possibili a chi ha un ministero di comunione nella chiesa.
    9 Bernardo di Clairvaux, Sermoni diversi 37,6.
    10 Cf. C. Maccise, "La créativité come réponse au Seigneur de l'histoire", in Le lien des contemplatives 110 (1992), pp. 1-16 (conferenza tenuta al Carmelo di Avon nel gennaio 1992).
    11 Tr. it. Tempo di religiosi? Mistica e politica della sequela, Brescia 1978.
    12 Cf. infra, pp. 193-211.
    13 J. B. Metz, Tempo di religiosi?, p. 65.
    14 Cf. B. Besret, Incarnation ou eschatologie?, Paris 1964. Questo testo è indispensabile per comprendere il linguaggio religioso odierno sia quando indica l'impegno nel mondo sia quando designa la profezia escatologica. E non solo per comprenderlo, ma anche per esercitare su di esso un discernimento.vita e con la bocca, la vita religiosa è solo una condizione preliminare che può stimolare la profezia, ma di per sé non la garantisce: ecco perché occorre dire che la vita religiosa è profetica se traduce la paradossalità evangelica...
    15 Cf. E. Bianchi, "Critica alle metafore del celibato", in Servitium 31 (1973), pp. 402-410.
    16 Ilario di Poitiers, Contro l'imperatore Costanzo 5.

    (da: Non siamo migliori. La vita religiosa nella chiesa, tra gli uomini, Qiqajon 2002, pp.  25-44)


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