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    la propria vocazione

    oggi

    Christoph Theobald

    vocazione oggi
    Siamo invitati a cambiare lo sguardo, non solamente sulla Chiesa nella società attuale, ma anche su noi stessi. Invece di fermarci sullo «spettacolo» esteriore che ci offre la Chiesa, accettiamo di essere toccati dai molteplici percorsi di coloro che, in un modo o nell'altro, ci attorniano nelle nostre comunità, ai margini o altrove; lasciamoci impressionare da ciò che ogni individuo vive con gioia o con sofferenza sul proprio cammino e rendiamoci interiormente presenti a tutti coloro che, di giorno in giorno, si lasciano condurre da Dio...
    Questo semplicissimo atto di contemplazione non può restare senza effetto: interpella ciascuno di noi sul proprio itinerario. E se, per esistere oggi, questa Chiesa non potesse fare a meno del mio itinerario unico e insostituibile e della mia disponibilità a lasciare lo Spirito lavorare dentro di me? In segreto posso provare una certa sofferenza di fronte al gioco di ruoli ecclesiali che mi sembra così inadatto alla nostra epoca e, in ogni caso, senza attrattiva per me. Ma ho già parlato a qualcuno di questa sofferenza? Sicuramente è condivisa da altri. E se fossi più consapevole di ciò che Dio ha «disposto», sin dall'epoca neotestamentaria, nella sua Chiesa e delle figure variabili che questa «disposizione» ha assunto nel corso della storia, non sarei certamente portato a fare maggior affidamento sulle mie intuizioni e sulla mia creatività?
    È ovvio: le riflessioni dei nostri primi tre capitoli resterebbero lettera morta se non conducessero il lettore a chiedersi concretamente ciò che Dio gli dona, in maniera unica, e come questo dono contribuisca a edificare la Chiesa; in breve, se non arrivasse a porsi in modo preciso la questione della propria «vocazione». Questo quarto capitolo vorrebbe proporgli un metodo semplice per aiutarlo su questo cammino.
    Ricordiamo tuttavia, prima di proseguire, che molte indicazioni gli sono già state date nei capitoli precedenti. Ognuno di essi, infatti, terminava con qualche consiglio e con una domanda precisa: come ascoltare meglio? Come rendersi meglio conto che delle persone mi hanno già aiutato molto nella mia ricerca, al punto da essermi «identificato» con esse? Come approfittare della storia per relativizzare ciò che agita oggi la Chiesa, e comprendere meglio i mutamenti che sta vivendo e così alleggerire un po' le mie sofferenze al riguardo?
    Rileggendo più attentamente l'insieme dei capitoli, si potrà notare che la nostra meditazione si basa su una specie di treppiedi: il mio itinerario assolutamente unico e ancora incompleto (1) – da mettere in relazione con le grandi figure bibliche di vocazione, da Abramo fino a Gesù e i suoi discepoli, presentate nel primo capitolo (2) – e da iscrivere nella storia della Chiesa, con i suoi modi di dare corpo allo stile di vita di Cristo e dei suoi discepoli nelle società dove i cristiani vivono, e di discernere ciò che è opportuno qui e ora (3). Si presenta così davanti a noi un insieme di riferimenti da prendere sul serio o delle «voci» da ascoltare quando intraprendiamo concretamente la nostra ricerca. Nella linea di ciò che è stato proposto nel secondo capitolo, ricordiamo che in ogni momento può essere utile chiedere «consiglio» a una persona in cui si ha fiducia.
    In un primo tempo, vorremmo aiutare il lettore a individuare con più precisione quel che accade in lui. In un secondo tempo, esamineremo con esso una serie di «scelte spirituali» che inevitabilmente gli si presentano quando si mette alla ricerca della sua strada. Infine, presenteremo le tappe di un «cammino modello» di discernimento, metodo da seguire senza rigidità e da applicare alla sua situazione assolutamente singolare.


    CIÒ CHE ACCADE IN ME

    Per osservare ciò che avviene effettivamente nella propria vita, è opportuno cominciare volgendo lo sguardo verso la propria interiorità. Nessuna via verso la scoperta della propria vocazione senza questo primo passo!
    Sono infatti a un punto preciso della mia storia di cui vorrei prendere coscienza. Faccio fatica a distinguere ciò che riguarda la mia psicologia e ciò che vi si gioca da un punto di vista propriamente «spirituale»; vorrei tuttavia vederci più chiaro. In quale direzione mi conducono i moti interiori che mi abitano e secondo quale criterio valutare il loro orientamento? E se imparassi a pregare e ad ascoltare, ad ascoltare la voce di Dio e quella degli altri? Tante piccole decisioni da prendere, dalle quali, in buona parte, dipenderà il seguito del mio cammino.

    La situazione iniziale

    A che punto sto con me stesso, con gli altri, con Dio? Per prenderne coscienza due condizioni elementari sono già state evocate nei capitoli precedenti: creare uno spazio di solitudine o di silenzio e «sedersi» una buona volta – o forse sarà camminando solo – per rileggere la propria storia, ciò che è accaduto negli ultimi tempi, negli ultimi anni... Davanti al mio sguardo interiore, passo in rassegna le mie relazioni, i luoghi frequentati o abitati, le mie attività e impegni, gli avvenimenti importanti e così via. Niente di particolarmente profondo! Ma un semplice lavoro della memoria, dove una cosa ne suggerisce un'altra, fino a formare una «trama» che indica il punto in cui mi trovo, oggi, con la mia storia.
    Coloro che hanno preso l'abitudine di fare questo piccolo esercizio in modo regolare dicono di averne tratto gran profitto. Ma si può esserne refrattari, averne paura e temere che non accada nulla. Devo dirmelo una volta per tutte: non si tratta di martellarmi la testa e ancor meno di rimuginare il passato, di impantanarmi di nuovo..., ma di identificare concretamente come Dio si rende presente nella mia vita, ciò che lui ha già fatto in me e come lui continua il suo lavoro discreto e così infinitamente rispettoso. In breve, l'obiettivo è stupirsi, lasciarsi sorprendere, anche se la giornata è stata faticosa o se il momento che sto vivendo mi sembra complicato. Ma questo non è possibile se non accetto di essere presente a me stesso, almeno per un po' di tempo, e di mettermi alla presenza di colui che fa sentire dentro di me il suo «tu puoi...» e che mi chiama per nome. Spetta a ciascuno trovare il proprio ritmo per isolarsi e adattare alle proprie condizioni di vita questo «mettersi alla presenza», per identificare in modo più preciso le strade di Dio in lui.
    Ricordando allora altri momenti felici di presenza a sé e di presenza più concreta di Dio nella sua vita, il lettore sentirà forse affiorare in lui il desiderio di andare più lontano, di mettere maggior verità nella sua vita, di lasciarsi guidare più liberamente dalla bussola interiore di cui si è trattato nel secondo capitolo e di accordare maggior consistenza a Dio nella sua vita. Quando questo desiderio si presenta, e si presenta a diverse riprese al punto da cominciare a iscriversi in tutte le piccole decisioni quotidiane, allora la questione dell'orientamento che voglio dare alla mia vita può porsi in condizioni favorevoli.

    Psicologia e spiritualità

    A questo punto, è indispensabile un chiarimento. Interrogarsi su ciò che accade dentro di sé può orientarci verso la psicologia. Diciamolo chiaramente: il nostro approccio non è psicologico, ma riguarda il campo spirituale. Di fatto, questa distinzione pone più difficoltà che soluzioni: come stabilirla o discernerla concretamente, dato che l'aspetto spirituale e quello psicologico sono intrecciati l'uno con l'altro? I primi due capitoli in cui abbiamo ripetutamente parlato delle nostre relazioni parentali l'hanno mostrato: il cammino spirituale si costituisce con riferimento a delle figure bibliche e a partire da una riflessione antropologica.
    In un primo tempo e un po' rapidamente, diciamo che l'aspetto spirituale consiste nel far intervenire Dio, o piuttosto la nostra relazione con lui; tutto ciò che abbiamo detto sull'esperienza della chiamata è legato a quest'ordine. Ma dobbiamo aggiungere immediatamente che questa «relazione» particolare ha necessariamente un versante psicologico; altrimenti, non sarebbe la nostra, la mia. Innestandosi, almeno ín un primo tempo, sulla relazione con i nostri genitori e utilizzando il linguaggio parentale, il nostro rapporto con «Dio» o con l'immagine che ce ne facciamo esercita una funzione precisa sulla nostra economia psicologica: severità e collera, ma anche benevolenza e lassismo possono farci crescere o mantenerci nell'immaturità; processo in larga parte inconscio, tanto più che la distinzione tra l'autorità parentale, qualunque essa sia, e l'autorità divina non si è ancora operata.
    All'interno di questi processi complessi, l'aspetto spirituale si manifesta nella capacità di prendere le distanze e in una maggiore libertà personale. Una presa di coscienza più netta, sul piano psicologico, rispetto a ciò che accade in noi e nelle nostre relazioni costitutive o altre, è accompagnata, in effetti, da una trasformazione della nostra relazione con Dio. Scopriamo più chiaramente che noi, «creati a immagine e somiglianza di Dio» (Gen 1,26-27), non abbiamo più diritto di farci una sua immagine, né d'altronde di un nostro simile o del resto della creazione (Dt 4,15-18). Ci lasciamo introdurre sempre più in una relazione «disinteressata» con lui e con gli altri, scoprendo forse così il senso della lode; ma non anticipiamo.
    Compresa in questo modo, questa libertà «spirituale» produrrà delle conseguenze sull'assetto più positivo dell'uno o dell'altro aspetto della nostra psiche, addirittura degli effetti di guarigione; ma a condizione che la relazione con Dio conservi la sua finalità gratuita e disinteressata e non sia semplicemente strumentalizzata allo scopo di ottenere un maggior benessere psicologico.
    In questo momento possono manifestarsi dei sintomi inquietanti: inibizioni, paure e angosce insormontabili che impediscono il sorgere del desiderio di vivere; illusioni di ogni specie o turbamenti ancor più inquietanti, che isolano la persona dal reale, ecc. È possibile allora che il consiglio di un accompagnatore «spirituale» non basti più e che diventi indispensabile un accompagnamento più avveduto di ordine psicologico. Il vero accompagnatore saprà individuare queste situazioni di grande sconforto e aiutare la persona a fare il passo di incontrare un terapeuta. Il ripetersi dei sintomi e l'inefficacia di un accompagnamento spirituale sono i segni evidenti che invitano ad agire in questa direzione.
    Queste situazioni difficili tuttavia non devono farci dimenticare quelle, più consuete, in cui il sorgere di una libertà interiore, pur minima che sia, conduce qualcuno a progredire e a scoprire progressivamente che i limiti del suo temperamento sono il rovescio della parte migliore che porta in se stesso il suo «carisma» o i suoi «talenti».

    Le correnti e come mantenere la rotta

    Arriva dunque il momento in cui la libertà che caratterizza l'aspetto spirituale si manifesta attraverso una maggiore attenzione a ciò che accade in lui e ai moti o alle «correnti» che lo spingono ad andare avanti o provocano delle resistenze: esistono delle «correnti» interiori che ci aiutano a raggiungere più in fretta il nostro obiettivo e altre, invece, che ce ne allontanano. La metafora delle «correnti» può aiutarci a comprendere il tipo di guida che siamo invitati a seguire: gli avvenimenti, tempeste o venti favorevoli, influenzano certamente il nostro percorso; ma, se non tutto, molto dipende dal nostro modo di riceverli e di individuare l'effetto che producono sul nostro temperamento. Per orientarci bene, dobbiamo allora congiungere un duplice punto di vista: lo sguardo sull'obiettivo da raggiungere - l'orizzonte del porto - e il riconoscimento del punto in cui mi trovo.
    Se guardo in primo luogo l'obiettivo previsto, identifico rapidamente dei dinamismi interiori che mi conducono verso una maggiore presenza a me stesso e a una maggiore presenza agli altri; sono delle correnti che si trovano in ciò che ho percepito del disegno stesso di Dio. Ma sperimento anche di essere animato da forze di dispersione o di morte, moti oscuri che mi allontanano da me stesso e dagli altri, da timori che mi inibiscono e mi isolano, persino da tenebre che mi nascondono l'obiettivo stesso. Identificare questi dinamismi o forze contrarie e riconoscere nella quotidianità le loro alternanze richiedono una certa perspicacia circa l'obiettivo previsto e al contempo un'attenzione al clima affettivo nel quale sto progredendo. I dinamismi positivi si riconoscono grazie al vigore e al coraggio che producono, alla gioia, alla pace e alla consolazione che suscitano, mentre i dinamismi negativi si manifestano nella mancanza di fiducia e nell'atmosfera deprimente che creano; generano cattivo umore, tristezza e ci lasciano nella desolazione.
    Ma da bravo «geografo del terreno interiore», non mi limito a guardare l'obiettivo; devo anche individuare, in maniera precisa, il punto in cui mi trovo. Può accadere infatti che in tale circostanza il mio sentire interiore si colori di senso di colpa e di rimorso o, al contrario, di un'attitudine alla sonnolenza e al torpore, addirittura all'anestesia. Questo stato molto specifico esige che ci si ridesti e si proceda a un'identificazione un po' più precisa. Un sentimento di rimorso, ad esempio, è un segnale, niente di più, niente di meno. Ho forse reagito male e causato un torto a un altro e a me stesso? Il rimorso mi porta allora a chiedere perdono e a entrare così un po' di più nell'immensa misericordia di Dio. Ma forse il mio sentimento di colpa è semplicemente ingiustificato e legato al temperamento scrupoloso che comincio a conoscere.
    A volte, invece, il mio sentire interiore si colora di melanconia, di tristezza e di desolazione; non ho più il gusto di andare avanti. E tuttavia, sono ben sveglio e rivolto verso il mio obiettivo, che non ho perduto di vista. Semplicemente, i dinamismi interiori fino a ieri presenti non mi sostengono più; e si sono alzati anche dei venti contrari... queste contrarietà o questo vuoto ci invitano ad attivare in noi la fede. La fede diventa in un certo senso più profonda nel solco dei nostri sentimenti; insensibilmente diventiamo più liberi rispetto ai sentimenti e impariamo persino ad accogliere le energie interiori e le forze contrarie come doni che ci aiutano a progredire nella fede, ad approfittarne senza tuttavia troppo soffermarci.
    Questa navigazione interiore sembra complessa per chi non ci si è ancora avventurato. Ma una volta messa in mare l'imbarcazione, la bussola interiore si mette rapidamente in moto permettendoci di sapere che ci sono delle correnti dalle quali la mia libertà, sempre limitata, può trarre profitto e di valutare esattamente il traguardo, senza dimenticare di localizzare bene il punto in cui mi trovo. Progressivamente, la libertà personale si rafforza e, con essa, la fede. Attraverso queste successive identificazioni, e spesso appena consapevoli, una specie di «passività» si installa nel più profondo della nostra interiorità: gli avvenimenti possono prodursi e le correnti dispiegarsi senza disorientare la bussola, poiché la fede e la libertà sono riconosciute sempre di più come frutti dell'opera dello Spirito in noi. La nozione «volontà di Dio», angosciante e ossessionante per alcuni e così astratta per altri, comincia a prendere allora un significato più rassicurante e concreto: Dio desidera soltanto che le sue creature trovino, ognuna, la propria capacità di orientarsi nella vita e trovino così la pace.
    Diamoci alcuni istanti per gioire del suo disegno meditando alcune frasi tratte da un testo sui sogni, di un ebreo contemporaneo di Gesù di Nazaret, Filone di Alessandria:

    Tutti gli amici di Dio - scrive Filone - si applicano a sottrarsi al turbine degli impegni, continuamente disorientati dall'agitazione delle onde, per approdare in porti calmi e sicuri. Non vedi, com'è detto di Abramo il saggio, che egli «sta in piedi alla presenza del Signore» (Gen 18,22)? Infatti, quando per l'intelligenza diventa normale poter stare in piedi senza più oscillare come su una bilancia, se non quando si trova alla presenza di Dio, guardando ed essendo guardata? Perché allora il suo equilibrio proviene da due cose: dal fatto che guarda l'Incomparabile e di conseguenza non è attratta in senso contrario dalle realtà simili a essa, e dal fatto che è guardata, poiché l'anima che il Maestro ha giudicato degna del suo sguardo, l'ha eletta, per la sua sola eccellenza, lui stesso (De somniis 1,1 (Les Oeuvres de Philon d'Alexandrie,19), Cerf, Paris 1962, 226-227).

    Imparare a pregare e ad ascoltare

    Questo testo sorprendente e il nostro entrare più deciso nella vita interiore suscitano forse in noi il desiderio di pregare. Non ne abbiamo ancora trattato in maniera esplicita, anche se abbiamo esaminato, sin dai primi capitoli, l'esperienza di ascolto e di sguardo interiore e invitato il lettore a cambiare prospettiva, quando considera la situazione della Chiesa nella società attuale e la propria esistenza. È nel più profondo della nostra interiorità, là dove ciascuno di noi sperimenta di essere un dono per se stesso e autorizzato a orientare la sua vita, che nasce il gusto di rivolgersi a Dio.
    Ma di nuovo un sentimento di smarrimento può afferrarci: come rivolgerci direttamente a Dio? Anche i racconti evangelici e Paolo conoscono questo interrogativo. L'apostolo ne parla nella Lettera ai Romani: «Non sappiamo infatti come pregare» (Rm 8,26); e Luca mette sulla bocca dei discepoli la richiesta: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). Ma secondo il Vangelo di Matteo, è Gesù stesso a invitarli alla semplicità, addirittura alla moderazione: «Pregando, non sprecate parole come i pagani: essi credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno prima ancora che gliele chiediate» (Mt 6,7-8).
    Questo breve passo ci indica infatti l'essenziale: il cambiamento di prospettiva che implica la preghiera o l'inversione dello sguardo. Colui che si mette a pregare è invitato a diventare «colui che guarda essendo guardato» (Filone), a esporsi allo sguardo del Padre «che vede nel secreto» (Mt 6,4.6.18), ad aprirsi a questo sguardo – «evangelico», come abbiamo detto più volte – di una bontà radicale e sempre nuova. Rileviamo tre aspetti o fasi del piccolo tirocinio della preghiera che si può intraprendere a partire da questo punto essenziale.

    1. Pregare vuol dire prima di tutto apprendere – e riapprendere continuamente – che l'ascolto precede la parola. Il silenzio riceve allora un valore nuovo. Non interrompe soltanto i miei discorsi; non mi rimanda più all'assenza angosciante di un faccia a faccia. Mi avvolge ed entra in comunicazione con me, carico di un «sì» silenzioso... «poiché tutte le promesse di Dio sono "sì" in Gesù Cristo» (2Cor 1,20). Come si è mostrato fin dal primo capitolo, questo silenzioso «sì» mi consente finalmente di ascoltare le «voci» di coloro che mi circondano e di distinguere la «voce» propria di Dio: il «sì» rivolto a me, che mi chiama per nome e mi fa dire «eccomi». A questo punto posso osare delle parole semplici e sussurrare: «Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano» (Lc 11,2-3).

    2. I discepoli hanno appreso queste parole dalla bocca stessa di Gesù dopo averlo visto pregare (Lc 11,1). Una seconda fase consiste proprio nel guadarlo, lui, e nel guardarlo pregare; prospettiva nuova preparata forse dal fatto che un giorno una comunità, una folla o una persona in preghiera silenziosa mi ha profondamente toccato. Lo sguardo su Gesù che prega può affinarsi se mettiamo in luce, nei racconti evangelici, l'importanza decisiva del suo ritirarsi nel deserto, sulla montagna, nel giardino, ecc. e se ci interroghiamo sulla sua vita interiore. Il passaggio decisivo di ogni preghiera cristiana avviene infatti quando l'orante entra nella preghiera stessa di Gesù o meglio scopre che è già in questa preghiera, che in essa il suo posto è unico, perché Cristo non ha cessato, durante la sua vita terrena, e non cessa mai, di intercedere per tutti gli uomini. Rendersi conto che prega per noi e per me vuol dire imparare a spossessarsi della propria preghiera, dandole nello stesso tempo una forma nuova, senza dubbio più semplice e più «abbandonata in lui».

    3. Per quanto riguarda la forma di questa preghiera – ultima fase – essa si basa su due fondamenti. La consapevolezza che noi esistiamo nella preghiera di Gesù e, senza dubbio, in quella di tanti altri ci fa accedere alla preghiera liturgica e alla nostra responsabilità di fare esistere altri all'interno della nostra preghiera. I salmi e i cantici dell'Antico e del Nuovo Testamento e molte altre preghiere sono come la traccia di una comunità universale di preghiera, la cui ospitalità ci è offerta quando vi entriamo dentro ripetendo quelle parole e facendole nostre. Ma nello stesso tempo – l'altro fondamento – questa preghiera collettiva ci accoglie per rimandarci di nuovo alla nostra preghiera personale, del tutto insostituibile. La preghiera personale si inserisce nei silenzi liturgici e si prolunga nella vita quotidiana, dove prende, più o meno consciamente, il respiro fondamentale della nostra esistenza: in modo inarticolato, si manifesta nei miei lamenti e nelle mie gioie quotidiane, si esprime quando chiedo a Dio il necessario e rendo grazie per quel che ricevo giorno dopo giorno, culmina nella lode disinteressata per colui che continua a dare se stesso all'umanità...
    Non essendo lo scopo di questo libro il proporre una vera e propria scuola di preghiera, queste brevi indicazioni dovrebbero bastare per andare avanti sul cammino di una più grande interiorità.

    La forza delle piccole decisioni

    Ciò che è soprattutto da sperimentare, grazie ai consigli che abbiamo appena dato, è la forza racchiusa nelle piccolissime decisioni. Prendere coscienza del punto preciso in cui mi trovo nella mia storia richiede infatti alcune scelte elementari. La prima è prendere un tempo di «ritiro» e, forse, prenderlo regolarmente, ovviamente secondo il proprio ritmo; sin dal primo capitolo, questa decisione si è rivelata fondatrice.
    Questa scelta infatti influirà, più o meno sensibilmente, sul ritmo della mia esistenza. Forse lo stress è la «malattia» psicosomatica più diffusa che oggi ci minaccia tutti: quando gli altri e la società ci impongono sempre più imperativamente il loro ritmo di respiro, abbiamo l'impressione di non vivere più realmente. Un tempo di ritiro consente di rompere questo ritmo, che non è più un ritmo, e di riapprendere a ordinare, giorno per giorno e con calma, il percorso degli altri e il mio. Rileggere la propria agenda ed esaminare i giorni e le settimane a venire sono un mezzo semplice per dare spazio in sé a una cadenza più adeguata della propria esistenza.
    Un tempo di ritiro e uno di rilettura del proprio ritmo di vita sono spesso seguiti da altre piccole scelte nei diversi ambiti della nostra esistenza. Ogni volta si tratta di scegliere tra una molteplicità di sollecitazioni in tensione tra di loro: avviare e intrattenere delle relazioni e apprezzare la propria solitudine inalienabile, impegnarsi nel proprio lavoro e godersi il riposo e il tempo libero, acquistare dei beni e sbarazzarsene affinché una certa frugalità e l'esperienza di privazione ci mantengano aperti agli altri e a Dio. Colui che affronta queste tensioni e la sfera di decisioni che le accompagnano proverà senza dubbio il bisogno di dialogare sulle loro conseguenze e di chiedere eventualmente consiglio a qualcuno con più esperienza di lui; anche questa è una piccola scelta che ne prepara altre.
    Ogni decisione, anche minima, avrà un effetto strutturante e provocherà energie per andare più lontano: è pilotando che s'impara a pilotare... È solamente esercitandoci, sul terreno della vita quotidiana, a identificare i movimenti che ci conducono verso il nostro obiettivo o ce ne fanno deviare, a percepire nel profondo delle nostre piccole decisioni la presenza tenue dello Spirito, che libera progressivamente la nostra capacità di scelta, che potremo affrontare agevolmente i grandi crocevia della vita.


    LE «SCELTE» DA FARE

    Queste grandi scelte, quando sono considerate a partire dalle loro conseguenze fondamentali, sono facilmente riconducibili a due o tre opzioni che occorre avere ben presenti, se non ci si vuole perdere nella complessità della propria vita. In effetti, quando sono esaminate dal versante delle loro realizzazioni concrete, le alternative si moltiplicano. In ciò che segue, cercherò di rispettare questi due aspetti.

    Cercare anzitutto il regno e la giustizia di Dio

    La prima scelta consiste nell'inscrivere nella propria vita una priorità assoluta. Le Scritture lo esprimono in molti modi. Senza dubbio, il discorso di Gesù sulla montagna ne offre la forma più compiuta, distinguendo chiaramente un «anzitutto» e «tutto il resto»:

    Non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? [...] Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta (Mt 6,25-34).

    Diversi aspetti di questa scelta fondamentale meritano una spiegazione.

    1. La priorità assoluta della ricerca del «Regno e della sua giustizia» non è per nulla evidente. Nella vita corrente, facciamo sicuramente molte scelte, anche molto importanti, come il matrimonio, la nascita di un figlio, la scelta del celibato, un cambiamento professionale e così via, ma senza rapportarle necessariamente all'unico fine che è la venuta del regno di Dio. Mettiamo in gioco molteplici criteri affettivi ed etici per sostenere queste decisioni o giustificare quelle che non abbiamo ancora preso, ma spontaneamente non le consideriamo a partire dalla ricerca dell'unico necessario. Come se convocassimo Dio a venire nel luogo in cui già ci troviamo, a diventare in qualche modo un «mezzo» per vivere meglio quel che abbiamo deciso senza di lui, mentre Gesù di Nazaret preferisce il Regno a tutto il resto: «sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà».

    2. Che figura può prendere questa priorità assoluta? Se abbiamo letto con attenzione i primi capitoli, avremo notato che la Scrittura e la tradizione ci propongono diversi modi di affrontare questa scelta fondamentale. Abbiamo visto, ad esempio, in che modo l'apostolo Paolo riflette sul legame tra la vocazione cristiana e la nostra «condizione» umana, e come «sospende» tutto ciò che nella nostra vita è puramente fattuale o dell'ordine del destino (il suo «come se non») per liberare l'unica chiamata che afferra tutta la nostra esistenza. Abbiamo anche visto in che modo la tradizione francescana introduce qui «l'uso povero» dei beni terreni e la tradizione ignaziana «l'indifferenza» che consiste nel «disattivare» o sospendere tutte le nostre preferenze per poter «usare di tutte le cose, nella misura in cui esse aiutano la persona a raggiungere il proprio fine».
    In modo veramente realista, il Discorso della montagna ci pone qui di fronte alle cose elementari della «vita», tutto ciò che ci preoccupa e inquieta: il nostro corpo, il cibo quotidiano, il vestito e il tempo o la presenza inesorabile della morte. Ci invita infatti a spostare la nostra preoccupazione fondamentale per riferirla alla venuta stessa di Dio in questo mondo; spostamento difficile che Gesù chiama «povertà di cuore o in spirito». Questa attitudine suppone l'inversione dello sguardo di cui si è trattato quando abbiamo scoperto la fede di Abramo in un «Dio che provvederà» (Gen 22,6-8); inversione ripresa da Gesù nel suo insegnamento sulla preghiera, quando invita i suoi discepoli a mettersi davanti allo sguardo del Padre che «vede nel segreto» (Mt 6,4.6.18) e che «sa di quali cose abbiamo bisogno» (Mt 6,8). Il passo del Discorso sulla «preoccupazione» ci fa entrare in questo spossessamento, proponendoci semplicemente di contemplare la vita e la storia:

    Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? [...] Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede (Mt 6,26.28-30)?

    La scoperta interiore del valore inestimabile di tutta l'esistenza umana sotto lo sguardo di Dio e l'accesso a questo «più» (Mt 6,2530) nel cuore di ogni vita suscitano in effetti la fiducia che in ultima istanza tutto, le nostre risorse di vita e gli avvenimenti imprevedibili che affrontiamo individualmente e collettivamente, concorre al nostro bene, e che tutto ciò di cui abbiamo realmente bisogno ci è dato in aggiunta.

    3. Il lettore avrà percepito l'estrema semplicità di questa scelta ma anche le grandi difficoltà che l'accompagnano; il rimprovero di Gesù rivolto alla «gente di poca fede» le fa presagire. Le preoccupazioni e le inquietudini che assillano la nostra esistenza quotidiana rischiano infatti di occultare il «più» nel cuore di ogni vita e alla fine di renderlo quasi inaccessibile. Inoltre la «povertà spirituale» non può essere il risultato di uno sforzo o di un lavoro ma si realizza nella nostra esistenza se volontariamente ci disponiamo ad accoglierla. Sarebbe infatti contraddittorio produrre attivamente ciò che è dell'ordine della «passività» o «ricettività».
    Il male, che spontaneamente identifichiamo con la disgrazia che ci sorprende o con l'ostilità tra esseri umani, nasconde infatti ciò che ci distoglie, ancor più insidiosamente, dall'apertura interiore, che è la vera porta del regno di Dio. Finora non si è mai trattato di «peccato», ma a diverse riprese abbiamo tenuto conto della nostra tendenza a lasciar inaridire la nostra sorgente di vita. Infatti, ciò che chiamiamo «peccato» non può essere ridotto alla trasgressione di una legge; come manifesta la parabola del buon samaritano (L,c 10,33), è ancora di più un'insensibilità nei confronti dell'altro - la mancanza di viscere, dicono le Scritture - indicata da questa terminologia così poco udibile oggi. In ultima istanza, il peccato è una specie di anestesia che va sempre di pari passo con l'oblio progressivo delle grandi sfide della nostra esistenza.
    Così, colui che scopre improvvisamente, e a posteriori, che in tale situazione precisa ha dato prova di «durezza di cuore», sarà ancora più toccato dalla bontà radicale e sempre nuova di Dio, che assumerà per lui un volto di misericordia. La sua attitudine di povertà interiore si colorerà allora di un colore nuovo che la parola «umiltà» (humus = terra) designa perfettamente.

    4. Dobbiamo ancora ricordare un ultimo aspetto: cercare di inscrivere nella propria esistenza una priorità spirituale è un passo universale. Esprimerlo in termini di ricerca del Regno e di accoglienza di ciò che accade non è, di fatto, che un modo particolare di parlare della vocazione umana: chiunque può accedere ed essere chiamato a questa vocazione in modo assolutamente unico. Ora -come ho pure sottolineato nel secondo capitolo - non possiamo entrare in un processo progressivo di umanizzazione e trovare la nostra identità senza esserne autorizzati da figure di identificazione. Nella relazione con Cristo e con gli altri cristiani, la priorità data al Regno e alla sua giustizia e la povertà spirituale corrispondente assumono una forma specifica che tiene conto con realismo delle nostre difficoltà a mantenerci interiormente alla porta del Regno e del male che, sotto tutte le sue forme, ci assale. Il primato della bontà assoluta di Dio - Dio quale vangelo dell'uomo - vi è infatti custodito ed è continuamente soggetto a essere riscoperto. Nell'esperienza del perdono di Dio e di coloro che lo seguono, la vocazione tròva la sua forma ultima, quella di una bontà senza misura.
    Fare questa scelta primordiale nella nostra esistenza lascia già intravvedere il secondo «crocevia» che stiamo ora per avvicinare e attraversare.

    Diventare discepolo di Cristo - diventare apostolo del «grande apostolo della nostra fede»

    Quando è vissuta all'interno della tradizione cristiana, l'opzione fondamentale offre infatti nuove biforcazioni. Diventare cristiano significa mettersi alla scuola di Cristo per tutti gli aspetti della propria vita e imparare da lui come cercarvi anzitutto il Regno e ricevere in aggiunta tutto il resto. Fin dal secondo capitolo abbiamo tenuto conto dei due linguaggi neotestamentari per descrivere questa relazione tra Gesù e coloro che fanno riferimento a lui, il linguaggio dell'«imitazione» e quello della «sequela». Entrambi hanno come obiettivo la conoscenza di Cristo e la trasformazione del credente che tale conoscenza inaugura. Questa iniziazione o questo apprendistato può assumere forme diverse; la teoria paolina dei carismi rende conto di questa diversità, addirittura della singolarità assoluta di ogni figura concreta, unicità che ci consente di parlare di vocazione. Ritornerò su questo punto. Una decisione tuttavia deve essere menzionata sin d'ora: è impossibile conoscere Cristo e imparare da lui, senza leggere le Scritture. Il concilio Vaticano II ha citato il celebre adagio di san Girolamo per ricordare questa scelta costitutiva del discepolo: «Ignorare le Scritture è ignorare Cristo» (Dei Verbum 25). Nel caso di una conversione a Cristo e del catecumenato, questa iniziazione culmina nel battesimo, vera e propria immersione nella morte e risurrezione di Cristo per vivere integralmente della sua vita.
    Questa forma di vita con Cristo rimane il piedistallo di tutte le altre decisioni. Il discepolo non smette mai di imparare, da lui e con lui, dalle circostanze della sua vita come entrare sempre di più nella povertà spirituale. La biforcazione principale allora è questa: il discepolo può fare un nuovo passo e ascoltare la chiamata a entrare in un'esistenza «apostolica» alla sequela di Cristo Gesù, che la Lettera agli Ebrei designa quale «grande apostolo della nostra fede». Nel terzo capitolo abbiamo già riflettuto sulla figura di colui che annuncia il vangelo di Dio e che può farlo soltanto perché «inviato»; quello che annuncia, infatti, lo supera radicalmente. Qui mi limito dunque a indicare alcuni criteri che consentono di intendere questa chiamata apostolica, o di discernerla quando si ha il compito di riconoscerla per altri. Si possono infatti distinguere dei criteri fondamentali, dei criteri pastorali o criteri di «giudizio» e dei criteri più specifici.

    1. I criteri fondamentali sono quattro:
    – il primo mette l'esistenza apostolica come base della vita evangelica di discepolo di Cristo: colui che si presenta è appassionato del vangelo? Desidera viverlo, restando fino in fondo attento al legame intimo tra le proprie parole e i propri atti? Notiamo subito che occorre una sensibilità spirituale abbastanza affinata per percepire questa qualità evangelica, soprattutto quando ci si trova di fronte a persone in piena attività professionale e poco abituate a parlare della loro esistenza quotidiana;
    – un secondo criterio consiste nel desiderio di andare più lontano e di generare altri al vangelo o di rendere il vangelo desiderabile;
    – questo desiderio è legato a una capacità di ascolto, capacità di intendere una chiamata interiore e di metterla in relazione con una chiamata ecclesiale, o inversamente di confrontare la chiamata ecclesiale con la verità del proprio desiderio;
    – un ultimo criterio infine riguarda la generosità della persona interessata; ma si riferisce più particolarmente al suo realismo o, meglio, alla sua umiltà di fronte alla propria generosità o alla mancanza di generosità. L'apostolo Pietro, con la sua foga ma anche con i suoi voltafaccia o le sue conversioni successive, può servire qui quale figura di identificazione.

    2. Questi primi criteri di ordine spirituale devono esser combinati con altri che riguardano il buon senso della persona o la sua capacità di giudizio; criteri indispensabili quando si tratta di affidare a qualcuno un compito o un ministero apostolico; mi limito a indicarne quattro, semplicemente per far comprendere questa necessità di discernimento in situazioni più particolarmente marcate da tensioni od opposizioni:
    – l'attitudine a distinguere tra la vita evangelica di qualcuno e la sua sensibilità particolare. Nella Chiesa esistono gruppi, comunità, stili e orientamenti di ogni genere, a volte anche contraddittori. Chi non è capace di percepire la vita evangelica di una persona o di un gruppo di cui non condivide la sensibilità non può ricevere un ministero nella Chiesa;
    – l'attitudine a parlare dicendo «io» e «noi», a coinvolgersi e parlare in nome proprio, avendo nello stesso tempo il senso del bene comune, della comunità e della Chiesa universale;
    – la preoccupazione per l'«ultima pecora». Spesso per accompagnare una persona in difficoltà l'apostolo deve riesaminare le sue priorità e rispondere a un'urgenza evangelica che scombina i suoi progetti o le sue strategie. Chi non è capace di lasciare novantanove pecore per una sola non può essere chiamato a esercitare un ministero nella Chiesa;
    – la capacità di controllare e convertire i propri umori e la propria affettività. La vita apostolica, in effetti, è esposta a molti rischi e molte difficoltà particolari, anche se procura gioie indicibili. Una certa libertà nei confronti dei propri sentimenti di gioia e di tristezza è dunque necessaria. Chi non sa individuare ciò che lo spinge o lo frena e si lascia trasportare dal disfattismo o da un falso entusiasmo, persino nei suoi scambi con gli altri, non può essere chiamato a esercitare un ministero nella Chiesa.
    Un ultimo insieme di criteri più specifici riguarda la corrispondenza tra un compito determinato e preciso e il dono o carisma ricevuto dalla persona chiamata a compierlo:
    – ci sono coloro che hanno sempre una visione globale delle cose e che sanno organizzare;
    – coloro che hanno la capacità di portare pace e riconciliazione; – coloro che hanno il dono della relazione e della discrezione;
    – coloro che trovano sempre la parola opportuna e sanno consolare gli altri;
    – coloro che sono bravi pedagoghi;
    – coloro che hanno ricevuto l'intelligenza della fede;
    – coloro che sanno dare un buon consiglio quando c'è una decisione da prendere;
    – coloro che hanno la capacità di trovare delle soluzioni o delle alternative e che sanno sempre innovare;
    – coloro che hanno il senso dell'umorismo e sanno creare un ambiente più libero e più sereno, e così via.
    Sarebbe bene che colui che vuole ascoltare sempre meglio la chiamata che gli è rivolta o che, nel nome di una comunità cristiana, ha il compito di riconoscerla negli altri, potesse familiarizzarsi con tutti questi criteri, non per applicarli alla lettera, ma per affinare la sua capacità di ascolto e di discernimento.
    Inoltre l'apostolo deve restare discepolo e diventarlo continuamente di nuovo. Pietro ha dovuto impararlo a proprie spese quando, dopo la professione di fede a Cesarea, volendo sbarrare la strada a Cristo in cammino verso Gerusalemme dove l'attendeva la crocifissione, si è visto rimettere al suo posto di discepolo: «Va' dietro a me, Satana!» (Mc 8,33). Ma, inversamente, il discepolo di Cristo che cresce alla sua scuola non può non provare, a un dato momento, il desiderio di seguirlo in un'esistenza apostolica e di rendere il vangelo desiderabile. Questa chiamata apostolica può realizzarsi in qualunque forma d'esistenza (ritornerò su questo punto); può diventare anche la priorità assoluta di una vita e l'espressione non soltanto della sequela di Cristo, ma anche della scelta fondamentale della ricerca del regno di Dio. Essa assume allora la forma sacramentale del ministero apostolico, secondo le diverse figure storiche istituite dalla Chiesa.

    Alla ricerca di figure concrete

    Con questi criteri e le loro diverse applicazioni ci collochiamo sul versante delle realizzazioni concrete della vocazione umana e cristiana. Ormai le alternative si moltiplicano. Un tempo erano classificate secondo la gerarchia degli stati di vita, oggi si organizzano secondo una «logica» umana, che segue la costruzione progressiva dell'identità personale con le sue incognite, le sue crisi e i suoi consolidamenti. Seguiamo ora il percorso di una vita, tenendo sempre presenti le opzioni fondamentali: la ricerca del Regno alla sequela di Cristo e l'impegno apostolico.

    La vita professionale

    La prima scelta concreta di un giovane, scelta di una certa importanza, riguarda la sua futura vita professionale e la formazione che gli consente di accedervi. Il lavoro, in effetti, è un modo privilegiato di vivere il proprio «mestiere d'uomo». Ma molte donne e uomini prendono questa via solo per necessità e, come si suole anche dire, per «guadagnare da vivere», senza potervi dispiegare la propria creatività. E la situazione economica, anche nei nostri paesi sviluppati, rende sempre più difficile l'accesso alle proprie risorse umane, senza dimenticare che il sistema scolastico è inadeguato a diverse situazioni personali del tutto particolari.
    Succede tuttavia che qualcuno pensi alla scelta di un mestiere o a un cambiamento professionale, non per sola necessità – pur restando importante il motivo di guadagnare dei soldi – ma da un punto di vista vocazionale. Questo vale soprattutto per le professioni educative, mediche, sociali e culturali. I talenti o il carisma della persona vi giocano un ruolo più importante. E se si tratta di una personalità complessa, dotata di settori diversi d'interesse, la scelta si rivela più difficile e lascia spesso dei terreni incolti, che possono rivelarsi un ulteriore e fecondo campo di lavoro.
    Da un punto di vista spirituale, un lavoro che non è vissuto come semplice obbligo ma che, al contrario, è assunto in una prospettiva vocazionale rischia di diventare invadente e di privare impercettibilmente la persona della propria libertà interiore. Ma può essere anche l'espressione concreta della ricerca del Regno ed essere vissuto alla scuola di Cristo, ossia essere orientato verso una prospettiva apostolica.

    Vivere nel provvisorio e fare delle scelte irrevocabili

    Questa distinzione tra opzioni provvisorie e scelte irrevocabili appare molto presto nella nostra esistenza e sí profila già quando si pone la questione della professione. Certo oggi tutte le scelte professionali sono diventate relativamente temporanee; un bilancio delle competenze, fatto in un determinato momento del percorso, conduce spesso verso un nuovo orientamento. Ma per certi mestieri altamente specializzati la formazione è lunga; l'esperienza acquisita può giocare peraltro un ruolo decisivo; a volte si creano dei legami di fedeltà di ogni specie che sostengono la prima scelta, anche se questa inizialmente non si presentava come irrevocabile.
    Più una scelta tocca l'ambito relazionale, e più ciò che di per sé è provvisorio si orienta verso il «definitivo». I nostri legami umani, quali essi siano, implicano infatti questa fedeltà, a volte implicano persino un impegno o una messa in gioco della nostra vita, e la cosa può costare. Come abbiamo visto nel secondo capitolo, la sconcertante scoperta che abbiamo una sola vita implica che possiamo fare delle scelte irrevocabili che impegnano tutta la nostra esistenza e che ne diventano l'espressione per eccellenza. Da quel momento, queste scelte costituiscono il perno interiore di una vita, in qualche modo la sua colonna vertebrale, attorno alla quale tutto il resto prende forma e si organizza. E poiché ogni scelta ne esclude altre possibili, queste scelte attribuiscono tutto il loro valore alla decisione presa, riemergono ulteriormente sotto altre forme, in attesa di essere integrate nella personalità di qualcuno.
    Fare una scelta irrevocabile richiede oggi un vero e proprio lavoro spirituale. In effetti, le nostre società postmoderne hanno tendenza a rendere provvisorie tutte le nostre opzioni, e a suggerirci che possiamo continuamente rimettere a zero il nostro contatore. Occorre tuttavia ricordare che il mantenimento delle scelte irrevocabili per tutta l'esistenza e l'impostazione progressiva di un orientamento sono la condizione sine qua non di una vera e propria maturazione. L'unità interiore di una persona non è percettibile immediatamente, ma si nota se la si frequenta più regolarmente; l'impressione che proviamo quando incontriamo una persona matura è indubbiamente legata alle sue scelte, che, essendo definitive, hanno potuto modellare la sua personalità e creare una sorta di stabilità mobile, paradossalmente capace di integrare la novità e di adattarsi a ciò che accade. Evidentemente non sono da escludere delle esperienze di fallimento e a volte si rendono necessari nuovi orientamenti. Ma, rilette da qualcuno che continua a tenere conto del «definitivo», queste esperienze possono iscriversi, spesso dopo un doloroso lavoro su di sé, nella trama della sua vita; ritornerò su questo punto.

    Il matrimonio - il celibato scelto/non scelto e assunto - l'entrata in una comunità

    Per le ragioni già indicate, la tradizione cristiana dà un peso particolare alle scelte irrevocabili: esse sono più particolarmente collegate all'esistenza di Gesù di Nazaret. Se la Lettera agli Ebrei insiste sul fatto che «per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta» (Eb 9,12), è per sottolineare che Cristo ha fatto dono della sua vita in nostro favore «una volta per sempre» (Eb 9,12; ecc.). L'apostolo Paolo, come abbiamo visto, è molto sensibile a ciò che è puramente fattuale nella nostra «condizione»: la vocazione consiste precisamente nell'abolire ciò che è dell'ordine del destino e nel liberare la chiamata e la scelta di vita, che consiste nell'impegnare liberamente tutta la propria esistenza.
    Questo vale in primo luogo per il matrimonio che appare come un'istituzione legata piuttosto al destino, e che, in ogni caso, è stata tale fino ai tempi moderni. Ora la tradizione biblica libera la libertà di scelta dell'essere umano che riguarda non soltanto la scelta di un partner, bensì, e più fondamentalmente ancora, lo stato di vita in due; scelta che deve allora essere compresa e realizzata in un rapporto fraterno con altre persone che vivono la propria umanità e la loro fede in un altro stato di vita. In nessun'altra esperienza che nella coppia emerge in modo così forte la singolarità assoluta di questa vocazione, poiché essa suppone una specie di rivelazione reciproca dell'unicità di ognuno dei due partner, dell'uomo e della donna, in unaspecie di corrispondenza unica tra la chiamata interiore di ciascuno e il suo gioioso riconoscimento da parte dell'altro.
    Il carattere irrevocabile di questa scelta che mette in gioco la totalità di due esistenze può essere fondato teologicamente sull'impegno radicale di Dio nei confronti della sua creazione, quale è rivelato nel suo vangelo annunciato da Cristo. In ogni caso e prima di ogni giustificazione teologica, tale opzione definitiva dimostra da sé che conduce quell'uomo e quella donna verso la loro piena maturità, quando il loro matrimonio si apre alla trasmissione della vita e li trasforma in padre e madre, portando così a compimento, nel tempo, la loro vocazione. Sottolineiamo soprattutto che questa apertura alla vita può essere compresa come espressione di una vocazione «apostolica». È infatti impossibile vivere senza avere fiducia nella vita e senza credere che ne valga la pena. Ma, essendo intrasmissibile, questa fede, sempre assolutamente singolare, deve essere resa possibile dai genitori o dai loro sostituti, come abbiamo rilevato nel secondo capitolo. Nella misura in cui compiono questo incarico ispirandosi al vangelo, esercitano un vero e proprio ministero d'iniziazione alla vita; ministero che può dilatarsi ulteriormente, quando i figli se ne sono andati di casa, e trovare allora un'espressione ecclesiale più circostanziata e - perché no? - sacramentale. Delle coppie danno esempi felici di lunga vita condivisa a partire da una scelta iniziale vissuta in un certo senso come un assegno in bianco, e in una grande disponibilità spirituale. Ci insegnano che questo tipo di maturazione umana attraversa sicuramente delle prove, ma giunge poi a un irraggiamento sorprendente.
    Il celibato dal canto suo non gode un gran credito nelle nostre società contemporanee ed è spesso «assunto» senza essere scelto. Non facciamoci delle illusioni tuttavia: esistono molti matrimoni che sono stati contrattati senza che gli interessati abbiamo veramente scelto questo stato di vita. Per questo dobbiamo ricordare a proposito del celibato ciò che è stato detto del matrimonio: esso può essere liberato da ciò che appare come espressione di un destino, ma a condizione che la persona entri in un lavoro spirituale del tutto specifico. Mi sia concesso di aggiungere tra parentesi che l'omosessualità, oggi più visibile di un tempo nelle nostre società, non può più essere considerata come un destino; per questa situazione umana vale esattamente ciò che l'apostolo Paolo ha detto di ogni condizione: colui che, con Cristo, entra nella «concentrazione» del tempo della sua vita prodotta dalla sua chiamata è liberato da ciò che lo rinchiude nella sua condizione; questa trova allora la sua vera consistenza umana.
    È il paragone con ciò che sarebbe stato possibile o auspicabile, rinforzato spesso dalle rappresentazioni di una vita ideale, diffuse dall'opinione pubblica, che rende così difficile la ratifica personale di ciò che progressivamente diventa evidente. Quando il celibe sceglie effettivamente ciò che sino ad allora gli sembrava un giogo, diventa capace di grandi amicizie e può scoprire una fecondità sconosciuta promessa alla sua esistenza.
    Ciò accade più particolarmente quando qualcuno sceglie il celibato definitivo a causa di una più grande disponibilità per il Regno (Mt 19,12). Esiste infatti un legame indiscutibile tra il celibato scelto e la disponibilità della persona; ma anche qui nulla è automatico. Ogni celibato può trasformarsi in una forma più o meno sottile di egoismo e di chiusura su di sé o diventare pretesto di un'idolatria del lavoro. Come per il matrimonio, la maturazione umana in questo stato di vita segue la sua progressione e ha bisogno di altrettanta vigilanza, poiché soltanto delle relazioni concrete e impegnative con altri la rendono possibile. Per quanto riguarda il Regno che motiva questa scelta definitiva, non può essere confuso con una causa di mobilitazione o un progetto che suscita le nostre energie soltanto per un determinato tempo. Certo nella scelta preferenziale del Regno può intervenire l'aspetto apostolico, che consiste nell'interessarsi agli altri e a ciò che li fa vivere in ultima istanza la loro fede, qualunque essa sia del resto. Ma, in definitiva, il Regno si identifica con la persona stessa di Cristo al quale il discepolo desidera essere configurato: desiderio del tutto singolare e dunque impossibile da generare tramite una semplice imitazione della sua figura; desiderio reso precisamente singolare da un incontro con colui che si cancella nel momento stesso in cui, chi crede in lui, nasce al desiderio.
    I racconti evangelici e l'esperienza ci insegnano che il celibato scelto a causa del Regno mantiene la promessa associata alla povertà spirituale: «tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33). Questo riguarda più particolarmente le relazioni e le amicizie, la fraternità e la sororalità, la fecondità della maternità e della paternità «spirituale». Ricordiamo a questo proposito il passo unico del Vangelo secondo Marco in cui Gesù dice ai suoi discepoli: «In verità io vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi»; e aggiunge: «insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà» (10,29-30). Il solo posto che resta vuoto in questa bella promessa relazionale è quello del padre, forse per indicare che è definitivamente occupato da colui che Gesù chiamerà, nella sua preghiera al Getsèmani, «Abbà! Padre!» (14,36). Il celibe è infatti chiamato a una solitudine abitata dal mistero del silenzio benefico di Dio; ed è proprio la scelta di questa solitudine teologale che lo rende disponibile a intraprendere delle relazioni di un genere nuovo, delle relazioni che implicano dei veri e propri legami di fedeltà.
    Una terza scelta da mettere sullo stesso livello delle due precedenti è quella dell'entrata in una comunità, simmetricamente opposta a quella del celibato vissuto in modo eremitico. Questa scelta esiste sotto forme molto diverse; la storia della vita religiosa testimonia questa diversità. Chi entra in una comunità particolare si rapporta a una spiritualità specifica, benedettina, francescana, domenicana, carmelitana, ignaziana, ecc. e si lega per la vita a delle compagne o a dei compagni con cui condivide tutti i suoi beni e uno stesso orientamento, sotto l'autorità spirituale di qualcuno che, per un determinato tempo, occupa il posto di Cristo.
    Per quanto riguarda le diverse forme di vita religiosa e comunitaria, la distinzione fatta nel terzo capitolo tra persone itineranti e persone residenti è chiarificatrice. Esistono in effetti delle comunità in cui il legame a un luogo preciso, un determinato monastero, è decisivo e il voto principale è quello della «stabilità di luogo» (stabilitas loci); un certo modo di abitare insieme uno spazio comune e il suo territorio, e di organizzare il tempo, i giorni e le stagioni, in funzione della lode di Dio, sono un'immagine e un preludio della nuova creazione. Esistono anche comunità in cui il modo di gestire il rapporto col tempo e con lo spazio è determinato dall'itineranza apostolica, dove le relazioni con delle compagne o dei compagni non scelti, ma ricevuti come compagni di squadra al servizio dello stesso lavoro, sono strutturanti; l'obiettivo principale di questa forma comunitaria è vivere l'interiorità e la relazione in un ritmo di vita da armonizzare continuamente alle urgenze apostoliche e ricevere il «pane quotidiano» o la «manna» della contemplazione del lavoro di Dio in coloro, uomini e donne, che questi itineranti incontrano sulla loro strada.
    Il principio stesso di una scelta irrevocabile che impegna tutta l'esistenza è intimamente legato allo stato di discepolo di Cristo, che continuamente impara da lui a vivere la propria vita nella «povertà spirituale»; abbiamo fatto notare ciò fin dall'inizio delle nostre riflessioni sul matrimonio, il celibato e la vita comunitaria. Aggiungiamo ora che la scelta di un'esistenza nel celibato in vista di una maggiore disponibilità per il Regno e la vita comunitaria, in particolare itinerante o «apostolica», hanno alcune similitudini con il ministero apostolico nelle sue diverse forme; anche se queste affinità non bastano a rendere il legame tra celibato e ministero esclusivo rispetto ad altre «composizioni».
    Si aggiunge a questa apertura il prolungamento sensibile della durata dell'esistenza nella società contemporanea, in cui le diverse età della vita hanno assunto maggiore consistenza. Delle evoluzioni diventano possibili. In caso di vedovanza, dopo la morte del coniuge o nel caso di un divorzio accettato, dopo una lunga fase di vita che ha conosciuto la sua fecondità, a volte con l'educazione di diversi figli, si presenta una nuova occasione di scelta che pone di nuovo il tema della vocazione personale. Una disponibilità inedita può allora condurre verso un'esistenza «da celibe» sotto diverse forme, può condurre addirittura a un impegno prioritario al servizio della missione apostolica della Chiesa. Non si tratta di negare fallimenti di ogni specie, che possono lasciare dei segni su questi percorsi diventati più complessi di una volta, né di sottovalutare le crisi e gli sforzi di riorientamento necessari. Queste peripezie ci insegnano ad andare oltre un'idea semplicistica della vocazione, intesa come una specie di orientamento definitivo, compiuto e pienamente dato sin dall'inizio dell'esistenza. Man mano che l'essere umano s'impegna con sincerità nella propria vita, la continuità di vita – altro termine per designare la «vocazione» – diventa sempre più misteriosa e gli sfugge, pur restando consegnata, e sempre più, alla sua libera decisione.

    L'impegno nella società e nella Chiesa

    Tra le figure concrete della vocazione umana e cristiana, un ultimo crocevia riguarda il nostro impegno nella società e nella Chiesa: dopo essere entrati nella vita professionale, dopo aver accettato quanto di irrevocabile c'è in ogni esistenza e individuato i diversi stati di vita, l'ultima fase di maturazione consiste nell'aprirsi al vivere insieme nella polis, al cosiddetto «politico» nel senso più nobile del termine.
    Questa apertura era ben presente in ciò che abbiamo detto, poiché la vita professionale, il mettere al mondo dei figli o una maggiore disponibilità per il Regno sono altrettanti modi di partecipare alla società. Ma il versante societario della vocazione umana e cristiana si delinea in modo più preciso e diventa un orientamento specifico quando l'impegno al servizio della società, nei settori culturali e sociali o propriamente politici, è scelto in quanto tale.
    Per quanto riguarda l'impegno nella vita della Chiesa, bisogna dissipare subito un malinteso che si presenta quando si considera la comunità cristiana come un terreno sociale e culturale tra tanti altri. Fin dal secondo capitolo, abbiamo insistito sul fatto che la vocazione cristiana e la Chiesa sono al servizio della vocazione umana e della società. L'impegno specifico nella Chiesa prende dunque senso soltanto nella prospettiva di una convocazione dei cristiani per renderli idonei a mettersi personalmente al servizio della polis e a farsi carico delle preoccupazioni e delle gioie di coloro che li circondano nella preghiera e nell'eucaristia della comunità.
    La partecipazione attiva al servizio della società o della Chiesa prende forma di vocazione quando diventa per qualcuno una priorità assoluta e l'espressione non solo della sua ricerca del Regno, ma anche del suo impegno alla sequela di Cristo. A questo punto, il discepolo si trasforma in apostolo: quando il suo impegno è vissuto direttamente in seno alla società, ad esempio nel campo politico, sono la sua motivazione e il suo modo evangelico di viverlo a dare alla sua partecipazione attiva la forma di un apostolato; è il caso a fortiori del discepolo che sente la chiamata a impegnarsi in modo irrevocabile in un ministero apostolico al servizio della missione della Chiesa nel mondo. Alla fine del terzo capitolo abbiamo mostrato che questo tipo d'impegno, vissuto oggi più frequentemente da parte delle donne, esiste effettivamente sotto diverse figure. Alcune persone si accontentano di mettere il loro carisma al servizio di un preciso incarico loro affidato: la catechesi, la preparazione ai sacramenti, il lavoro biblico, i gruppi di sostegno nel lutto, l'attività caritativa... Altre persone scoprono, nell'esercizio di queste attività, che stanno rispondendo a una chiamata apostolica sentita da molto tempo; altre ancora sono attirate dall'immagine del prete, come la vedono vissuta concretamente, e capiscono che risveglia in loro un desiderio che porta a rendersi interamente disponibili per essere ordinati al ministero della Chiesa.
    È innegabile la grande affinità tra la priorità accordata da qualcuno a questo tipo di impegno e il celibato per il Regno. L'abbiamo già notato. Ma il ministero apostolico esiste anche sotto altre forme; pensiamo ai preti sposati della Chiesa ortodossa o delle Chiese cattoliche di rito orientale, ecc. Alcuni ministeri esercitati attualmente da donne, nubili o no, lasciano intravvedere altre possibilità.

    Una geografia complessa – una diversità nuova di vocazioni

    Abbiamo appena constatato la straordinaria ricchezza di opzioni, resa ancora più ampia dal prolungamento della vita e dal regresso della fase propriamente professionale che mettono l'individuo e le comunità davanti a scelte inedite. Questa geografia complessa apre molteplici combinazioni possibili ed è la vera novità del panorama vocazionale rispetto alla struttura relativamente semplice dell'organizzazione che la Chiesa ha conosciuto durante il secondo millennio.
    Per non estendere troppo il termine «vocazione» occorre mantenere il suo primo significato: si tratta di vocazione quando è in gioco la struttura portante di un'esistenza umana e quando l'intento di dare unità alla vita pone la questione della priorità assoluta da cercare e mantenere. È allora necessaria una struttura semplice di scelte spirituali: l'opzione fondamentale che consiste nel determinare la propria esistenza con una priorità spirituale (opzione costitutiva di ogni vocazione umana); la decisione del discepolo di assumere questa priorità evangelica mettendosi alla scuola di Cristo; il desiderio dell'apostolo di rendere questa priorità evangelica desiderabile da tutti. Questa struttura semplice deve essere continuamente coniugata con la ricerca del carisma assolutamente singolare di ciascuno, carisma che per definizione è al servizio di tutti e sempre sottomesso al riconoscimento da parte della comunità ecclesiale. Soltanto questa singolarità radicale rimanda immediatamente il soggetto alla voce di Dio, poiché è da lui che riceve il dono di essere se stesso e di dedicarsi così agli altri, ed è questo dono singolare e unico che ci consente di parlare di «vocazione» e della diversità delle sue forme oggi. Il fattore tempo è assolutamente essenziale in questo modo di comprendere la vocazione e di «scomporla» in scelte spirituali: dal momento che indica la misteriosa continuità di un'esistenza nella sua integralità, essa ci sfugge radicalmente; non l'abbiamo mai a nostra totale disposizione, pur potendo discernerla e metterla in opera man mano che progrediamo nell'esistenza.


    UN ITINERARIO

    Terminiamo dunque questo percorso con alcune indicazioni più concrete, ricollegandoci a quelle già date all'inizio di questo capitolo, per indicare il cammino del nostro accesso a una vita interiore. Possiamo delineare un itinerario tipo di discernimento della propria vocazione, da trattare come una carta geografica e da comprendere dunque come un invito a tracciare il proprio cammino. È possibile suddividere questo cammino o metodo in sei tappe.

    Entrare in un clima di preghiera e di ascolto interiore

    Il cammino inizia là dove l'abbiamo abbozzato nel primo capitolo e ripreso nell'esordio di questo: il lento apprendistato nell'identificare ciò che accade dentro di sé. Ne abbiamo indicato le condizioni a diverse riprese e proposto dei modi concreti su come procedere. Solo una certa abitudine a vivere interiormente consente alla persona di affrontare la questione della propria vocazione, quando essa si pone effettivamente. Deve allora decidere - ed è il primo passo - di entrare esplicitamente in un clima di preghiera e di ascolto interiore per affrontarla nel modo giusto.

    Formulare delle alternative

    La persona in ricerca può avvertire una spinta interiore nei confronti della strada da prendere (l'abbiamo già evocato nei primi tre capitoli). Si dovrà allora incoraggiarla a verificare a posteriori la sua intima convinzione. Ma se nulla appare evidente, dovrà affrontare una certa oscurità. Il solo modo per cominciare a vedere più chiaro consiste nel formulare alcune alternative; le nostre precedenti riflessioni intendevano aiutare questo piccolo lavoro di cui sarà opportuno prendere nota. Molto spesso questo esercizio esige anche una ripresa della propria storia, come abbiamo già suggerito. La sfida è quella di rispettare al contempo la chiarezza delle scelte fondamentali e la complessità e la singolarità del proprio itinerario.
    Dobbiamo riconoscere che questo esercizio è necessario, ma di rado riesce a giungere subito a una conclusione; la persona che ricerca arriva solo progressivamente a individuare con chiarezza i crocevia che si pongono davanti al suo cammino. Bisogna dunque dar tempo al tempo. Il risultato di un lungo cammino interiore si ha quando, in situazioni di urgenza, la persona sperimenta una serenità interiore che le consente di attendere tranquillamente tutto da Dio e di attendere la venuta del «momento propizio» (kairos).

    Chiedere consiglio ad altri

    È in questo spazio di attesa che la relazione con gli altri cambia e la persona in ricerca si mette a chiedere consiglio. Abbiamo già fatto notare che questa richiesta esige molto discernimento. Si deve decidere a chi chiedere consiglio e ciò richiede uno sguardo nuovo sull'insieme delle proprie relazioni. Si deve poi entrare in un'attitudine di libero ascolto, capace di considerare ciò che l'altro consiglia, senza esserne schiavo. Infine, bisogna a volte confrontare diversi consigli e trarne profitto, senza scegliere unicamente ciò che va subito nella direzione delle proprie inclinazioni.
    Dobbiamo di nuovo ammettere che questo esercizio non è sempre facile. Può condurre a riconsiderare il proprio punto di vista, a precisare le alternative, persino a riformularle. In questo periodo, il lavoro interiore continua in modo quasi impercettibile. La flessibilità che il chiedere consiglio esige e produce accresce, nello stesso tempo, l'apertura interiore e la capacità di ascolto: ascolto della voce degli altri, ascolto della «voce» di Dio.

    Provare la pace interiore

    All'inizio di questo capitolo, abbiamo già lungamente trattato del lavoro interiore e delle «correnti» che ci spingono in avanti o ci contrastano. Il tempo dell'attesa del «momento favorevole» della decisione e della manifestazione del dono (charisma) di Dio è particolarmente indicato per ritornare su questi moti interiori. Il momento decisivo si manifesta sempre attraverso un sentimento di grande pace, anche se poco sensibile e «leggero» (1Re 19,11-13). Una specie di evidenza si rivela in noi; evidenza che può già essere acquisita – lo ripetiamo ancora – nel momento in cui cominciamo un discernimento esplicito, e allora è un'evidenza che basta verificare.
    Ricordiamo che Cristo risorto si fa presente ai suoi facendo sperimentare loro la sua pace e la sua gioia (Gv 20,19-21); scena di manifestazione che viene rivissuta in ogni eucaristia dove «è annunciata la sua morte finché egli venga» (1Cor 11,26) subito prima della comunione al suo corpo e al suo sangue: «Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli: "Vi lascio la pace, vi do la mia pace"». Questa pace – questo sentimento di consolazione – rinvia nel contempo alla voce stessa di Dio che è sentita e al suo modo di farsi riconoscere in ciascuno di noi, attraverso una specie di consonanza con se stessi e con la propria storia, per quanto ci è possibile qui e ora; una consonanza rafforzata in qualche modo dal fatto di trovarsi di fronte a un crocevia. A questo punto è arrivato il momento della decisione.

    Prendere una decisione

    Ma misteriosamente la decisione è già presa; e si tratta solamente di riconoscerla o di ratificarla. Spesso però il nostro temperamento indeciso fatica a superare questa soglia, soprattutto quando le poste in gioco sono importanti. Si deve allora procedere a un lavoro di riconoscimento più esplicito, nel quale gli argomenti in favore o contro una scelta, prima in un senso e poi nell'altro, devono essere soppesati. Alla fine non resta che mettersi nella situazione di chi ha deciso in favore del lato dove s'inclina la bilancia e di chi esamina il suo stato interiore di fronte a ciò che prevede: a questo punto il criterio della pace interiore svolge la funzione di criterio di verifica.
    È dall'esperienza di questa pace, pur leggera che sia (diciamolo di nuovo), che scaturirà una preghiera di ringraziamento, che accoglie la decisione del donatore di ogni bene e nello stesso tempo non la trattiene per sé. Colui che cerca Dio prenderà allora una penna per scrivere ciò che ha deciso: il testo potrà servirgli in seguito come una specie di «stele» o di «testimonianza» (Gs 24,25-28) e ricordargli chele sue piccole decisioni quotidiane hanno preparato quelle grandi, che a loro volta si riveleranno una forza per andare avanti.

    Attendere e ricevere una conferma

    Il processo di ricerca tuttavia non è finito. A questo punto iniziano un tempo nuovo e uno spazio in cui la decisione presa è messa alla prova e attende una conferma. Molto spesso il comunicare la scelta a un altro, fase di passaggio alla parola, e gli esordi di una realizzazione rappresentano già tale verifica. Pensiamo alle reazioni dell'ambiente di fronte a una decisione gradita o, al contrario, di fronte a una decisione difficile da accogliere: l'annuncio di un fidanzamento con qualcuno che non è accettato dai familiari, una separazione che è sollievo per gli uni e tristezza per gli altri, la scelta di una professione che non risponde alle attese familiari, il desiderio di diventare prete... La messa in atto della decisione obbliga spesso a precisare qualche aspetto della scelta o a rivedere qualche modalità; ciascuno può pensare alle sue decisioni più importanti e alle conseguenze che hanno avuto. Per quanto riguarda le vocazioni che prevedono un riconoscimento ecclesiale della comunità cristiana, l'atto di conferma spetta all'autorità competente: il matrimonio cristiano ha bisogno di un testimone ecclesiastico, i voti sono emessi davanti all'autorità spirituale della comunità, chiunque ha ricevuto un ministero è inviato dal vescovo, ecc.
    L'attesa di una conferma crea una sensibilità interiore del tutto specifica e particolarmente affinata: il cercatore di Dio attende un «segno» da parte sua, che alla fine non sarà nient'altro che l'approfondimento di una povertà spirituale, che attende che «tutte queste cose vi saranno date in aggiunta». Possiamo richiamare qui di nuovo la fede di Abramo e la sua ultima messa alla prova con il cosiddetto «sacrificio di suo figlio, Isacco»: la fede è un modo di confidare sulla bontà di Dio che provvederà... qualunque cosa accada. La conferma è lo stesso atteggiamento che accoglie la decisione presa nella forma che la storia ancora incompiuta le darà in seguito.


    PATIRE... SULLA STRADA...

    Precedentemente avevamo proposto al lettore di estendere l'ambito della sua contemplazione e di includervi non solamente gli itinerari biblici e il proprio cammino, ma anche la storia della Chiesa e delle nostre società. L'obiettivo era di non lasciare le nostre sofferenze nei confronti della Chiesa e della società all'esterno del nostro lavoro interiore e di giungere a condividere una vera e propria compassione con tutti coloro che fanno fatica ad accedere alla loro singolarità umana, a scoprire ciò che è donato loro in particolare e a farlo riconoscere dal loro ambiente ecclesiale e sociale. In questo capitolo, quasi interamente orientato verso questioni concrete di discernimento, abbiamo fatto un passo in avànti: si trattava di percepire che, pur essendo «sulla strada» della nostra vita ancora incompiuta, un «oggi» ci è offerto: «oggi» che è già carico di tutta una storia e che apre la promessa di un avvenire, oggi che è affidato alle nostre decisioni, oggi che, in tutto ciò che resta provvisorio, nasconde quel «qualcosa» di definitivo, chiamato «vocazione», e che rimarrà per sempre.

    1. Trovare la propria vocazione oggi, in definitiva, è prendere la misura di questo «oggi» e non aspettare domani per farlo. È semplicemente prendere coscienza che «il punto in cui mi trovo», qualunque sia la mia età, mi offre la possibilità di rileggere il mio cammino e di comprendere meglio le possibilità che vi sono nascoste. E se sono tentato di vedere solamente le vie senza uscita, le occasioni mancate o i fallimenti del passato, l'ascolto del vangelo mi ricorda che solo la mia singolarità – che mi sfugge radicalmente e ne sono consapevole – è «eletta da Dio per la sua sola eccellenza» e che le decisioni già prese e le priorità effettivamente iscritte nella mia esistenza schiudono, quali esse siano del resto, un avvenire che non potrà mai smentire questa bontà e questa elezione originaria. Tuttavia la misura di questo «oggi» è vera soltanto se questa semplice percezione o questo sguardo contemplativo sulla mia vita include anche una visione sempre più approfondita e più vera dell'oggi ecclesiale, della società, delle sue possibilità e dei suoi bisogni, e del posto che io posso occuparvi con i doni che mi sono stati fatti.

    2. Misurare così «l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità» (cf. Ef 3,19; Zc 2,5-9) del nostro «oggi» significa andare fino al punto di riceverlo come sfida di decisione: diventare donna e uomo che decidono, delle persone che non sono sballottate da ogni genere di sollecitazione esteriore o sottomesse a un destino, bensì capaci di appoggiarsi sulle loro decisioni, le più piccole e le grandi, per dare alla loro esistenza un orientamento interiore. A dire il vero, questo orientamento non può essere concluso: accade progressivamente a condizione che le nostre decisioni non si riducano a delle misure provvisorie, seguite da altre scelte ugualmente provvisorie, o non si trasformino in affermazioni volontaristiche che annullano tutto ciò che ha preceduto; una colonna vertebrale interiore si costituisce se, al contrario, le nostre opzioni sono il risultato di una presa in considerazione di tutte le dimensioni del nostro essere e della nostra situazione. La presa di decisione diventa allora altrettanto importante che la decisione stessa e il suo risultato, perché in questo processo spirituale si crea impercettibilmente un'attitudine di apertura, di recettività e di passività nei confronti della vita, situazione che il Discorso della montagna descrive in termini di «povertà spirituale».

    3. La maturità della persona umana che procede così sulla sua strada e vive il suo «oggi» come se fosse l'ultimo è forse il più grande dei misteri dell'esistenza: mentre la morte fisica compie la sua opera in noi – e questa «curva discendente» inizia molto presto –, si produce una maturazione interiore che disegna in qualche modo «una curva inversa». È ciò che suggerisce l'apostolo Paolo attraverso la sua distinzione tra uomo esteriore e uomo interiore:

    Per questo non ci scoraggiamo ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne (2Cor 4,16-18).

    Più avanziamo verso la morte accogliendo la nostra vita, di giorno in giorno, come unico «esemplare» che ci è donato, più la sua misteriosa continuità e quanto essa ha di «definitivo», forgiato dalle nostre decisioni, ci sfuggono e ci rinviano verso Dio nel quale la nostra vera esistenza è per sempre nascosta. La vocazione è questo atto di chiamata che continuamente ci mantiene nella vita.
    Che il lettore non esiti a meditare un poco, per stupirsi davanti a questo mistero umano, per ammirarlo e per lodare Dio «che dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che non esistono» (Rm 4,17).

    (VOCAZIONE?! EDB 2011, pp. 99-127)


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