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    «Parla, Signore,

    il tuo servo ti ascolta»

    Christophe Theobald

    eli-samuele
    La storia della chiamata del giovane Samuele, che dà il titolo a questo primo capitolo, può essere letta come prototipo di ogni esperienza di vocazione. È in questo modo che vi propongo di leggerla fermandoci particolarmente sul misterioso evento che accade quando Samuele si mette all'ascolto della «voce» di Dio. Forti di questa prima esperienza, potremo andare incontro ad altri personaggi dell'Antico e del Nuovo Testamento, che hanno fatto ugualmente l'esperienza di una chiamata. Dovremo darci l'opportunità di leggere queste «storie di una volta», regalarci tempo e un po' di calma se vogliamo che uno spazio d'accoglienza si crei o affiori in noi. Rifletteremo dunque, cammin facendo, anche su ciò che accade oggi in noi quando leggiamo questi racconti, e termineremo con qualche indicazione pratica sull'esperienza di ascolto.


    SAMUELE E IL SACERDOTE ELI

    La vocazione di Samuele (1Sam 3,1-4,1) ci è narrata nel racconto della sua infanzia posto all'inizio del primo libro che porta lo stesso nome. Ricordiamo brevemente i momenti essenziali di questa storia, costruita su una serie di contrasti tra i personaggi, innanzitutto in seno alla famiglia di Samuele, poi in quella del sacerdote Eli.
    Anna, una delle due mogli di Elkana, è sterile e umiliata dalla sua rivale Peninnà, pur essendo la preferita di Elkana. Salita con lui al tempio di Silo, come tutti gli anni, fa un voto al Signore alla presenza del sacerdote Eli: offrire a Dio suo figlio se è disposto ad accordargliene uno. Rientrata a Rama, suo marito si unisce a lei e Anna partorisce un figlio che chiama Samuele, «perché - diceva - al Signore l'ho richiesto» (1,20). Dopo averlo svezzato, lo porta a Silo e lo fa entrare nella casa di Dio per consacrarlo al suo servizio; lo presenta al sacerdote Eli e si mette a pregare, come al tempo del suo voto, ma questa volta a voce alta dicendo questo cantico: «Il mio cuore esulta nel Signore [...]. La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita. Il Signore fa morire e fa vivere, rende povero e arricchisce, abbassa ed esalta» (2,1-10). Il tema centrale di questo canto – la manifestazione dell'incomparabile santità di Dio che rovescia i progetti troppo umani di riuscita – ci è noto fin dal primo libro della Bibbia; qui riceve un'espressione particolarmente giusta e caratterizza ancora molte altre scene bibliche fino a trovare il suo compimento nel Cantico di Maria (Lc 1,46-55).
    Abbiamo già incontrato il sacerdote Eli (1Sam 1,9-17.25-27); la seconda parte del racconto è interamente consacrata a lui e ai suoi figli, «degli uomini perversi» che utilizzano il loro servizio al tempio per fare pressione sui fedeli, arricchirsi illegalmente e condurre una vita dissoluta. Il narratore stabilisce qui un doppio contrasto: tra «il giovane Samuele che cresce davanti al Signore e davanti agli uomini» (2,21.26) e i due figli di Eli. Questi «non ascoltano la voce del padre» (2,25), mentre Samuele tra poco l'ascolterà. Un uomo di Dio si presenta allora per accusare il sacerdote e annunciargli ciò che accadrà:

    Perché hai avuto più riguardo per i tuoi figli che per me, dice il Signore, e vi siete pasciuti con le primizie di ogni offerta d'Israele, mio popolo? [.. .] Vedrai un tuo nemico nella mia dimora, mentre non ci sarà più un anziano nella tua casa (2,29.32).

    Un terzo contrasto si profila all'orizzonte: tra Eli e il suo «rivale», nel quale il lettore in anticipo riconosce il giovane Samuele.

    Il giovane Samuele serviva il Signore alla presenza di Eli. La parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti. E quel giorno avvenne che Eli stava dormendo al suo posto, i suoi occhi cominciavano a indebolirsi e non riusciva più a vedere. La lampada di Dio non era ancora spenta e Samuele dormiva nel tempio del Signore, dove si trovava l'arca di Dio.
    Allora il Signore chiamò: «Samuele!» ed egli rispose: «Eccomi!», poi corse da Eli e gli disse: «Mi hai chiamato, eccomi!». Egli rispose: «Non ti ho chiamato, torna a dormire!». Tornò e si mise a dormire. Ma il Signore chiamò di nuovo: «Samuele!»; Samuele si alzò e corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!». Ma quello rispose di nuovo: «Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire!».
    In realtà Samuele fino ad allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata rivelata la parola del Signore.
    Il Signore tornò a chiamare: «Samuele!» per la terza volta; questi si alzò nuovamente e corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!» Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovane. Eli disse a Samuele:
    «Vattene a dormire e, se ti chiamerà, dirai: "Parla, perché il tuo servo ti ascolta"». Samuele andò a dormire al suo posto.
    Venne il Signore, stette accanto a lui e lo chiamò come le altre volte: «Samuele, Samuele!». Samuele rispose subito: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta». Allora il Signore disse a Samuele: «Ecco, io sto per fare in Israele una cosa che risuonerà negli orecchi di chiunque l'udrà. In quel giorno compirò contro Eli quanto ho pronunciato contro la sua casa, da cima a fondo. Gli ho annunciato che io faccio giustizia della casa di lui per sempre, perché sapeva che i suoi figli disonoravano Dio e non li ha ammoniti. Per questo io giuro contro la casa di Eli: non sarà mai espiata la colpa della casa di Eli, né con i sacrifici né con le offerte!».
    Samuele dormì fino al mattino, poi aprì i battenti della casa del Signore. Samuele però temeva di manifestare la visione a Eli. Eli chiamò Samuele e gli disse: «Samuele, figlio mio». Rispose: «Eccomi». Disse: «Che discorso ti ha fatto? Non tenermi nascosto nulla. Così Dio faccia a te e anche peggio, se mi nasconderai una sola parola di quanto ti ha detto». Allora Samuele gli svelò tutto e non tenne nascosto nulla. E disse: «È il Signore! Faccia ciò che a lui pare bene».
    Samuele crebbe e il Signore fu con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole. Perciò tutto Israele, da Dan fino a Bersabea, seppe che Samuele era stato costituito profeta del Signore. Il Signore continuò ad apparire a Silo, perché il Signore si rivelava a Samuele a Silo con la sua parola. La parola di Samuele giunse a tutto Israele.

    Il verbo «chiamare» (posto in corsivo nel testo) scandisce questo racconto, composto con grande stile, e dà un significato proprio all'insieme del percorso. Teniamo presenti tre aspetti. Innanzitutto il «malinteso», nel senso forte del termine di un «male intendere», che è il movente principale dell'intrigo. A tre riprese, Samuele confonde la voce del Signore con quella di Eli, voce paterna di colui che indica il ragazzo, a due riprese, come «suo figlio». Ed è solamente al terzo risveglio che il sacerdote comprende improvvisamente che è Dio a chiamare il ragazzo; allora gli trasmette le parole che gli permetteranno di rispondere al Signore. Entrambi qui superano il malinteso: la differenza tra la voce paterna e la voce di Dio è stabilita, senza che Samuele rinunci ad ascoltare quella di suo «padre». Al contrario, l'indomani, con la stessa sollecitudine, quando Eli lo chiama di nuovo, risponde «eccomi». Progressivamente, prende coraggio e si presenta davanti a lui in verità, senza nascondergli nulla di ciò che ha visto e udito; in realtà, sono ancora Eli e il suo modo di chiamare Samuele che autorizzano quest'ultimo a fare il passaggio definitivo dal timore alla libertà.
    Il narratore registra questa evoluzione: se già ha rilevato che «il giovane Samuele cresceva davanti al Signore» (2,21) e che «cresceva in statura e in bellezza davanti al Signore e anche davanti agli uomini» (2,26), nota in quest'ultimo episodio - nel cuore del malinteso -che «Samuele non aveva ancora conosciuto il Signore e che la parola del Signore non gli era ancora stata rivelata» (3,7). Ma dopo aver riferito che Samuele ha finalmente udito la voce di Dio e condiviso con Eli ciò che ha udito, aggiunge: «Samuele crebbe. Il Signore fu con lui e non lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole» (3,19). Da ragazzo che ascolta, Samuele è diventato uomo che parla; ciò che il narratore traduce poi in termini più tecnici: «Tutto Israele [...] seppe che Samuele era stato costituito profeta del Signore» (3,20).
    Eli evidentemente gioca un ruolo decisivo nell'esito positivo di questa iniziazione all'esperienza dell'ascolto di Dio, insieme ai suoi effetti di maturazione umana. È il secondo aspetto che dobbiamo chiarire, interessandoci ora alla persona del sacerdote e alle implicazioni collettive e istituzionali del racconto. Se si osserva con attenzione la messa in scena del racconto, riportata nella lunga introduzione (3,1-3), si è colpiti dal contrasto tra Eli e Samuele. «La parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti»; reminiscenza della decadenza spirituale della casa di Eli, condannato precedentemente dall'uomo di Dio (2,27-36). Il sacerdote è descritto molto vecchio (2,22) e non vedente (3,2); divenuto quasi inattivo, «sta dormendo al suo posto», mentre Samuele «serve il Signore», anche se adesso dorme nel «luogo santo», «dove si trova l'arca di Dio». La lampada di Dio che splende solo di notte «non è ancora spenta»: simbolo, come nel seguito del libro, del popolo d'Israele e del suo re, e della minaccia che pesa su di loro se Dio si ritira (cf. 2Sam 21,17). Qualunque sia questa dimensione simbolica, la rivalità tra Eli e Samuele è già percepibile in questa introduzione.
    Il sacerdote certamente è accusato due volte, nell'oracolo dell'uomo di Dio e nella parola del Signore rivolta a Samuele: «Perché hai avuto più riguardo per i tuoi figli che per me?», gli chiede il primo (2,29); «Sapeva che i suoi figli disonoravano Dio e non li ha ammoniti» (3,13), constata la Parola divina. Ma il racconto mostra nello stesso tempo che, riguardo a Samuele, Eli gioca un ruolo «parentale» fino in fondo: è lui che discerne la chiamata di Dio e dice al ragazzo di rivolgersi a Dio; è ancora lui che chiama Samuele e lo provoca a parlare in verità; è lui alla fine che si mostra capace d'intendere dalla bocca del suo «rivale» la parola che lo giudica: «È il Signore! Faccia ciò che a lui pare bene» (3,18).
    L'intrigo della casa di Eli è, di fatto, quello di una crisi istituzionale e della questione riguardante la trasmissione del sacerdozio da padre in figlio: deve prodursi un passaggio, che annuncia altri passaggi dolorosi, come quello dalla casa di Saul alla casa di Davide, narrato nel Secondo libro di Samuele. Il fallimento umano sicuramente ne è la causa, ma una misteriosa continuità s'instaura quando colui che deve ritirarsi permette al «rivale» di crescere.
    Se si risale fin all'inizio del racconto - ciò che si può fare quando si è cresciuti e si è andati avanti con gli anni, sia detto per inciso! - ci si accorge che la chiamata che viene dall'alto e il suo ascolto sono preparati da lungo tempo. Nel racconto di Geremia, questi sente Dio che gli dice: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta» (Ger 1,5; cf. anche Is 49,1). Fermiamoci su quest'ultimo aspetto del racconto perché è questo che prepara Samuele ad ascoltare la chiamata.
    In effetti, potremmo accontentarci di affermare che Samuele è il frutto di un miracolo che lo predestina a essere ciò che diventerà. L'umanità di Anna gioca un ruolo essenziale nella vocazione del figlio. La preferita di Elkana non si lascia rinchiudere né nella sua sterilità né nella rivalità con Penninà e si rifiuta di essere considerata da Eli come «una donna perversa» (1Sam 1,16), simile ai suoi figli, che il narratore qualificherà come «uomini perversi che non riconoscevano il Signore» (2,12). Anna «prega in cuor suo» (1,13), sfogandosi davanti a Dio in modo smisurato a causa delle sue preoccupazioni e del suo dolore. Chiedendogli un figlio, pur staccandosi da quello che riceverà da lui, Anna manifesta l'origine della vera fecondità. Subito, affida dunque il piccolo Samuele a Eli che, a sua volta, lo renderà a Dio. Anche se questo ruolo di «traghettatore» giocato da Eli è indispensabile, la capacità di Samuele di servire e ascoltare il Signore ha un'altra origine; essa presuppone delle risorse interiori che vengono da più lontano.
    Questi tre aspetti, il superamento di un «malinteso», il ruolo di un «traghettatore» e la predisposizione «fin dal grembo materno», formano i tre elementi essenziali di ogni vocazione. Prima di approfondirli e completarli, mettiamoci innanzitutto all'ascolto della «voce» di Dio che riprende e unifica tutti questi aspetti.


    ASCOLTARE UNA «VOCE» E OBBEDIRE

    Che cosa accade quando si ascolta effettivamente la «voce» di Dio? Per capire questo evento misterioso, è necessaria una duplice distinzione: non confondere ciò che qualcuno dice con la sua voce (1), e non confondere la sua voce con la voce di Dio (2). Forti di queste precisazioni, potremo chiederci allora come riconoscere una «voce» quale voce di Dio (3). La questione certamente non è semplice. Avanziamo passo dopo passo.

    1. Un primo passo consiste nel capire che, secondo la tradizione biblica, ascoltare Dio che parla e credere in lui sono una sola e medesima cosa: il «credere» è identicamente un «ascoltare» e l'«ascoltare» un «credere». Nessuno l'ha capito meglio dell'apostolo Paolo che, in una celebre formula, fa «risalire» l'atto di fede all'ascolto (akoè),l'ascolto nei confronti di chi parla, e l'ascolto di chi parla nei confronti di colui che lo ha autorizzato a prendere la parola:

    Come invocheranno colui [il Signore] nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? [...] Dunque, la fede viene dall'ascolto (Rm 10,14-17).

    Per rendere maggiormente comprensibile il credere e l'ascoltare, Paolo parla anche dell'«obbedienza (hyp-akoé) della fede» (Rm 1,5; 16,26). Dobbiamo riconoscere innanzitutto che questo termine di cui abbiamo dimenticato l'etimologia (akoé = ascolto) rischia di indurci in errore. Troppo spesso confondiamo «obbedienza» con «sottomissione»; l'ho indicato fin dall'introduzione. L'obbedienza non è un atto di subordinazione o di soggezione. Basandosi sulla misteriosa capacità fisica e spirituale di ogni essere umano di prestare orecchio e di fare credito a un altro (secondo l'etimologia della parola «credere»), l'obbedienza consiste effettivamente nell'ascoltare l'altro che si rivolge a me e nel rispondergli liberamente. La storia di Samuele e di Eli ci ha già fatto scoprire che ciò non avviene senza tentennamenti. Ammettiamo anche che la nostra prima reazione sia di interessarci a ciò che abbiamo udito e di capire l'obbedienza della fede come adesione al contenuto del messaggio che ci è stato trasmesso tramite il suo intermediario. Anche qui, rischiamo di passare accanto all'essenziale. «Credere» principalmente non è udire «qualcosa» di specifico, fosse anche il contenuto della fede e aderirvi; senza evidentemente escludere ciò, chi crede riconosce innanzitutto «qualcuno», nel momento stesso in cui lo sente parlare. Insomma, alla base dell'«obbedienza della fede» si trova un'esperienza umana di semplice identificazione: quando per esempio rispondiamo al telefono, che cosa ci permette di riconoscere chi ci chiama? Senza dubbio è meno il messaggio udito che la «voce» di chi parla. Allo stesso modo la fede ha come organo principale l'orecchio e, all'opposto, il vero ascolto, quello che Paolo chiama obbedienza della fede, è un modo di riconoscere colui che il credente sente parlare e fargli credito.

    2. La fede-che-ascolta - scriverlo in questo modo può ricordarci l'unità del credere e dell'ascoltare che abbiamo appena evocato - presuppone - secondo passo da fare - qualcuno che parla. Che dire di questo e della sua «voce»? Introduciamo qui una distinzione decisiva, che ci conduce nel cuore della difficoltà di cui vogliamo trattare. Udire qualcuno parlare è necessariamente udire un altro essere umano. È udire qualcuno che si trova accanto a me e si pone alla giusta distanza, in modo da raggiungermi con la sua voce. La sua parola deve avere una certa qualità per farmi drizzare le orecchie e trasformarmi in credente; per il momento diciamo che deve avere un valore umano, se vuole raggiungermi nel più profondo di me stesso. Si può pensare a una situazione estrema, a un lutto, a un momento di sconforto o di scelta decisiva e si capisce quale genere di parole si rivelano credibili ai nostri occhi, quando esse ci raggiungono nel cuore delle nostre esistenze. Ma l'esperienza ci insegna anche che quando ci capita di dire a qualcuno una parola che lo raggiunge in profondità, non sappiamo esattamente come ciò avviene; l'altro percepisce bene che questa parola «viene da lontano», che non è nostra proprietà. Spesso, il nostro semplice modo di parlare è come confessare che non possiamo portare da soli il peso di tale parola umana, soprattutto perché non siamo mai al posto dell'altro e non abbiamo alcuna garanzia di ciò che può o non può intendere, di ciò che per lui è buono oppure no nel momento in cui lo si dice. Questa esperienza ci rimanda a colui che ci autorizza a prendere la parola. Diventare credente è udire e riconoscere, in quella parola umana pronunciata da se stessi o da un altro, la «voce» stessa di Dio.
    Non mancheranno le domande da porsi riguardo a questo misterioso «personaggio» che «parla» così. Chi è questo Dio che «parla» autorizzando l'essere umano a dire una parola radicalmente umana, capace di raggiungere la coscienza dell'altro, e a pronunciarla senza poterlo fare in nome proprio? Cerchiamo di formulare i nostri interrogativi.
    Spesso supponiamo l'esistenza di Dio o abbiamo dei dubbi a suo riguardo e restiamo a questo livello senza riuscire a credere che questo Dio parli. Capita anche, al contrario, che una comprensione troppo immediata, addirittura fondamentalista, della parola di Dio impedisca a qualcuno di credere nella sua esistenza. La discussione è allora riportata sulla questione più teologica dell'esistenza o della non-esistenza di Dio. Le nostre Scritture, pur sapendo che ogni essere umano comprende cosa significa la parola «Dio» e che siamo tutti disponibili al suo mistero (cf. At 17,22-31), insistono sul legame indissolubile tra Dio e la sua parola (cf. Gv 1,1-2): il nostro Dio è un Dio che parla, ed è perché parla che può tacere, e viceversa; la Bibbia attesta questo fatto dalla prima all'ultima pagina. Bisogna dunque ammettere prima di tutto che possiamo credere all'esistenza di Dio solamente perché l'abbiamo effettivamente udito rivolgerci la parola.
    Appare allora una nuova questione più radicale. In che modo capire delle formule come «Dio parla» o «sento la sua voce»? «Parla» come parla un essere umano? Posso sentire la «sua voce» come sento una voce umana? È meglio, a questo punto, ammettere che non sappiamo bene cosa significano le espressioni «parola di Dio» o «voce di Dio», piuttosto che continuare a utilizzarle in maniera distratta. Risponderemo nel capitolo seguente a questa domanda decisiva; per ora accontentiamoci di averla ben posta e di fare un passo oltre.

    3. In attesa di poter dire cosa significa «Dio parla o fa risuonare la sua voce», possiamo, in effetti, individuare come riconoscere che una «voce» udita sia la «voce di Dio».
    In tutti i racconti di vocazione che leggeremo, come quello che abbiamo appena esaminato, il «nome» di colui che è chiamato appare in primo luogo: «Samuele, Samuele» (1Sam 3,10), «Abramo» (Gen 22,1), «Mosè, Mosè» (Es 3,4), «Saulo, Saulo» (At 9,4; 22,7; 26,14) ecc. Sono i genitori ad attribuire un nome al figlio, iscrivendolo così in una discendenza e riconoscendo nello stesso tempo la sua unicità, che è in gioco ogni volta che lo si chiama per nome. Il nostro nome ci conferisce un'esistenza sociale e insieme mostra che il mistero di ciascuno di noi non si lascia mai ridurre a essa. Attribuire un nome a qualcuno o chiamarlo per nome presuppone dunque nei suoi riguardi un atto di spossessamento o, perlomeno, un limite rispetto alla sua misteriosa singolarità. Ma sappiamo anche che possiamo utilizzare il nome altrui per esercitare un potere su di lui. Mi ricorderò sempre di quando un mio professore – ero forse al secondo anno di liceo – ha voluto far cessare un conflitto facendo cambiare posto agli alunni; incontrando un netto rifiuto, si è allora rivolto a me usando, al posto del consueto «lei», il «tu» e chiamandomi per nome. Stupito, disorientato, ho «obbedito»; mortificato, di colpo, ho capito quale potenza, nefasta o positiva, può esercitare il fatto d'essere chiamati per nome. La forza di colui che chiama si concentra anche nel timbro della sua voce: può essere seduttrice, minacciosa, manipolatrice ecc., ma può essere anche liberatoria.
    Questa semplice esperienza fa capire che la denominazione supera infinitamente l'esperienza umana dello scegliere un nome per qualcuno o del designarlo per nome: il nome è l'elemento della lingua più vicino al mistero singolare di ciascuna delle nostre vite. Abbiamo notato che, al momento dei tre primi appelli, Samuele non ha udito il suo nome? Per tre volte il narratore riporta che il Signore chiama Samuele, il quale risponde «eccomi» e va subito da Eli. E solamente alla quarta volta il racconto precisa: «Venne il Signore, stette accanto a lui [sottolineando così che è a portata di voce]. Lo chiamò come le altre volte: Samuele, Samuele!». Le prime tre volte,
    Samuele non si è sentito chiamare per nome; Eli ha sicuramente preso l'abitudine di chiamare il giovane da quando è arrivato al tempio per essere al suo servizio. Samuele risponde prima di tutto mosso dall'abitudine di servire Eli.
    Avviene spesso così con l'ascolto: sentiamo gli altri senza ascoltarli realmente. Fino a quando una parola – il nostro nome – ci convoca a raggiungere il nostro mistero, quello che ci costituisce come essere unico e che, ciò nonostante, ci supera infinitamente. Allora possiamo dire in verità «Eccomi». Questa convocazione è il segno evidente che consente di riconoscere la «voce» di Dio. Oppure, detto in un altro modo: il vangelo (eu-aggelion), questa notizia (-aggelion) di radicale bontà (eu-), si avvera assolutamente ogni volta che qualcuno lo sente realmente per il fatto di essere chiamato per nome. Questo vangelo risuona per la prima volta nel racconto della creazione (Gen 1-2,3) che, fin dal primo giorno, fa percepire la bontà radicale: «Dio vide che la luce era cosa buona [...]. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona». Ma questa bontà deve raggiungere ogni essere umano. È ciò che si realizza nell'Apocalisse quando ogni vincitore riceve, con la manna nascosta, una pietra bianca e, inciso su questa pietra, «un nome nuovo che nessuno conosce all'infuori di chi lo riceve» (Ap 2,17).

    4. Come accedere a questo ascolto sempre imprevedibile? Solo il racconto può mostrarcelo, perché il racconto può parlare in maniera concreta degli avvenimenti più decisivi della nostra vita. Il lettore percepisce questa forza eccezionale in atto nella storia di Samuele.
    A seguito della Genesi, infatti, questo racconto mostra contemporaneamente l'ambiguità che attraversa ogni «generazione» umana e la vittoria della bontà divina su questa ambivalenza. Nei rapporti tra Elkana e Anna, tra essi e il loro figlio, come nei rapporti tra Eli, i suoi figli e Samuele, si tratta appunto di «avventura parentale»; nel caso di Anna e Elkana è il distacco rispetto al loro primogenito: «Non verrò, finché il bambino non sia svezzato e io possa condurlo a vedere il volto del Signore» (1Sam 1,22); nella genealogia sacerdotale di Eli è l'inversione nefasta dei ruoli: «Tu hai avuto più riguardo per i tuoi figli che per il Signore» (2,29). Tuttavia la lieta sorpresa si realizza: è grazie a Eli che accade ciò che è stato reso possibile da Anna ed Elkana, il compimento della parola di Dio (1,23). Nessun passaggio da una generazione all'altra è possibile senza la traversata di un «malinteso»; di un felice «malinteso», potremmo aggiungere, perché provoca qui Samuele – e ciascuno di noi – ad accedere in se stesso all'ascolto insostituibile sul quale si fonda la propria singolarità. Ecco l'evento imprevedibile, eppure atteso, che solamente il racconto rende plausibile.
    Nelle società antiche, basate anzitutto sulla successione continua delle generazioni, questo evento della chiamata introduce un'interruzione liberatrice, che rende colui che sente la chiamata contemporaneo di Dio e presente a se stesso; nelle nostre società, gelose della singolarità di ogni individuo e alle prese con interruzioni e ricomposizioni generazionali, abbiamo bisogno di «traghettatori» come Eli per accedere a quello stesso tipo di ascolto interiore. A volte è all'improvviso che possiamo incontrare queste donne e questi uomini; a volte è nel corso di una relazione esistente da molto tempo che qualcuno gioca questo ruolo: grazie a una parola di cui spesso lui stesso non misura il peso, il «traghettatore» conduce altrui verso la propria esistenza, passandogli una chiave che gli consente di aprire la propria porta interiore, di sentire forse la voce di Dio e di balbettare una risposta. Allora la relazione tra loro non sarà più la stessa di prima: diventerà simmetrica e sarà caratterizzata da una grande libertà, perché ciascuno avrà lo stesso coraggio di dire ciò che è vero e di sentirlo dire dalla bocca dell'altro, anche da uno più giovane; poiché questa verità è semplicemente la «conoscenza di Dio» (1Sam 2,12; 3,7) o l'obbedienza: «È il Signore! Faccia ciò che a lui pare bene» (1Sam 3,18).


    RACCONTI DI CHIAMATA, FIGURE DI ASCOLTO

    Presentare la storia di Samuele come prototipo dei «racconti di vocazione» può sorprendere; manca infatti a questa storia un elemento essenziale: l'invio da parte di Dio. Ma questo aspetto, già presente nella chiamata di Abramo, è accentuato e precisato nelle figure di Mosè, di Elia e dei profeti, prima di trovare nel Nuovo Testamento una forma molto specifica. Questi racconti ci permetteranno dunque di completare il nostro percorso. Continuiamo la nostra lettura meditativa dei testi biblici, animati dalla stessa ricerca: entrare sempre di più in un'esperienza di ascolto della «voce» di Dio.

    «Perché hai ascoltato la mia voce»

    Colui che l'apostolo chiama «padre di tutti i credenti» (Rm 4,11), Abramo, è la prima figura di ascolto nelle nostre Scritture; precisiamo che la figura di Abramo è inseparabile da quella di Sara, sua moglie. Fin dall'inizio del racconto, Abramo sente il Signore comandargli di lasciare il suo paese e lui obbedisce. Anche se non si può dubitare dell'autenticità del suo ascolto poiché è seguito da una decisione, il racconto della sua vita ci dice che non è acquisito una voltaper sempre. Dobbiamo attendere la fine della vicenda che narra la sua prova e quella del suo figlio unico, per sentire due volte il grido divino: «Abramo, Abramo!» (Gen 22,1.11) e la sua risposta «Eccomi!». Come se fosse necessario attraversare una serie di prove e quest'ultima prova per arrivare al vero e proprio «ascolto della voce di Dio» e a una radicale presenza a se stesso. Prendendo in qualche modo il posto della «voce», l'angelo del Signore (angelos = inviato) lo annuncia ad Abramo, confermandogli la promessa già sentita, «perché hai ascoltato la mia voce» (22,18).
    Abram ha in effetti udito una promessa, fin «dal suo luogo di partenza»: «Il Signore disse ad Abram: "Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre verso la terra che io ti indicherò"» (12,1). Questo invio introduce una nuova dimensione nella legge fondamentale che è data con la creazione dell'uomo e della donna: lasciare padre e madre per unirsi a sua moglie (2,24). La missione è legata a questo «per» che qui è la promessa di una terra: «Farò di te una grande nazione e ti benedirò [...]. Possa tu essere una benedizione»; missione d'essere manifestazione della bontà divina, che può essere compiuta solamente se l'altro, addirittura tutte le famiglie della terra benedicono a loro volta il «benedetto di Dio»: «Benedirò coloro che ti benediranno, e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra»; libertà di coloro che Abramo incontrerà, ma anche e innanzitutto chiamata rivolta ad Abramo per essere effettivamente benedizione per altri.
    Abram, che parte immediatamente «come gli aveva ordinato il Signore», non sa cosa vuol dire «essere una benedizione», cosa sarà la terra promessa che Dio indicherà, e che sarà necessario lasciare per ritrovarla; lo scoprirà col passare degli anni. E poiché il compimento della promessa di diventare padre passa attraverso una discendenza, dovrà conoscere con Sarài la prova della sterilità prima di ridere della fecondità, e dell'esperienza della paternità e della maternità; nel frattempo, Dio donerà loro dei nuovi nomi: si chiameranno quindi Abramo e Sara. «Tra» il paese che hanno lasciato e quello che Dio indicherà, dovranno aprire la loro tenda (Gen 18,115) e imparare ad ascoltare in verità; fino all'ultima prova per Abramo, la prova detta del «sacrificio di suo figlio, Isacco».
    Nella sua estrema radicalità, questa prova fa pensare alla chiamata di Samuele: come Samuele, Abramo sente per la prima volta Dio che lo chiama per nome e lo convoca a essere presente, presente a lui, Dio, e presente a se stesso, Abramo. Per quanto riguarda la posta in gioco della prova, il rapporto tra padre e figlio, Abramo si metterebbe piuttosto al posto di Eli. Quando lui e Isacco si avviano, tutti e due insieme, il figlio parla a suo padre: «disse: "Padre mio!" e
    Abramo rispose: "Eccomi, figlio mio"»; reciproco riscontro della loro differenza e presenza dell'uno all'altro che consente al padre di rispondere alla domanda del figlio: «"Dov'è l'agnello per l'olocausto?". Abramo rispose: "Dio stesso si provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio!". Proseguirono tutti e due insieme» (22,6-8).
    Non risparmiare suo figlio, non preferirlo a Dio (22,12.16), invece di «avere più riguardo per suo figlio che per il Signore» come fece Eli (1Sam, 2,29), è possibile per colui che, nell'intonazione della «voce» di Dio, ha udito una benedizione: la bontà che provvederà... qualsiasi cosa avvenga. Il «padre di tutti i credenti» sarà in grado di far sentire, attraverso la propria voce, questo «Dio provvederà...» a suo figlio e al lettore? Nessun segno è dato né all'uno né all'altro, se non l'indicazione di un cammino verso un monte, località dove il lettore che siamo noi, lasciando la propria terra, potrà recarsi di persona: «Abramo chiamò quel luogo "Il Signore vede"; perciò oggi si dice: "Sul monte il Signore si fa vedere"» (Gen 22,14).

    Mosè, Elia e altri racconti di vocazione

    Nuove letture ci permetteranno di arricchire la nostra apertura all'ascolto della «voce» di Dio in noi, mettendo i nostri passi sulle orme di coloro che continuano ad abitare i racconti dell'Antico e del Nuovo Testamento.

    1. L'Esodo, come l'inizio del libro di Samuele, ci offre un racconto d'infanzia che si conclude con un'esperienza di vocazione, la chiamata di Mosè e il suo invio in missione (Es 2,23-4,17). Adesso siamo in grado di individuare gli elementi essenziali di un tale evento: un cammino che conduce al monte di Dio (3,1), la chiamata per nome: «Mosè, Mosè!» e la risposta: «Eccomi!» (3,4). Il contesto tuttavia è ben diverso da quello dei racconti finora esaminati. Tutto comincia con qualcosa d'insolito, che fa irruzione nel lavoro quotidiano di Mosè: «Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava» (3,2-3) e fu incuriosito. Una visione precede dunque l'esperienza dell'ascolto. Unito alla voce che si presenta: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo», lo strano simbolo della presenza paradossale di Dio conduce Mosè a compiere dei gesti di rispetto davanti alla sua alterità assoluta: si toglie i sandali dai piedi, si copre il volto, perché ha paura di guardare Dio (3,5-6).
    Ora, Dio aveva già ascoltato gli israeliti gemere e gridare dal profondo della schiavitù: «Dio vide la condizione degli israeliti, Dio se ne diede pensiero» (2,23-25). Mosè aveva visto i lavori forzati dei suoi fratelli. Avendo voluto liberarli di testa propria con la violenza, aveva dovuto fuggire (2,11-15). Aveva realmente ascoltato i suoi fratelli? Adesso Dio, che vede e ascolta, reitera la sua promessa fatta ai padri e invia Mosè per far uscire dall'Egitto gli israeliti (3,7-9).
    Incomincia allora un dibattito tra Mosè e Dio, che potrebbe avvenire anche in noi, lettori di questo testo. Il tema è l'identità o il «nome» di colui che invia, la capacità di coloro ai quali il chiamato è inviato di credere e ascoltare la sua voce, e infine le capacità dello stesso inviato: «Io non sono un buon parlatore [...] sono impacciato di bocca e di lingua» (4,10). Ogni volta Dio entra nella mente del suo interlocutore esitante e lo conduce più lontano. Inizia presentandosi: «"Io sono colui che sarò!". Dio disse: "Dirai agli israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi"» (3,14). Che presentazione! In questo misterioso «ritirarsi», Dio si presenta nella sua singolarità assoluta, interdicendo ogni dominio su di lui. Anzi, chiama quelli ai quali si rivolge ad affidarsi all'avvenire che promette loro! Accorda a Mosè la possibilità di legittimarsi davanti al popolo avido di segni e lo rassicura sulle sue capacità: «Chi ha dato una bocca all'uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? Ora va'! "Io sono" con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire» (4,11-12). Di fronte all'ostinazione di Mosè, incomincia ad adirarsi e lo rimanda al suo buon senso: «Non vi è forse tuo fratello Aronne, il levita? Io so che lui sa parlare bene. Anzi, sta venendoti incontro. Ti vedrà e gioirà in cuor suo. Tu gli parlerai e porrai le parole sulla sua bocca e "io sono" con la tua e la sua bocca e vi insegnerò quello che dovrete fare» (4,14-15).
    Meditando su questo testo, il lettore può interrogarsi sul proprio ascolto: qual è la sua capacità di lasciarsi sorprendere dall'insolito, che, nella sua vita quotidiana, apre come una breccia in lui e gli consente di ascoltare colui che lo chiama per nome? Può anche fare un passo in più e chiedersi se ascolta coloro che, intorno a lui, gemono nella schiavitù e soprattutto se ascolta Dio che vede e ascolta la loro miseria... in loro, chiamati «i suoi fratelli» (2,11). Leggendo così il testo, il lettore entra inevitabilmente in un dibattito interiore, dove si mescolano ogni genere di apprensioni. Che ne è della consistenza di ciò che egli sente interiormente? Perché interessarsi a un tale o a un tal altro gruppo di persone, se non si è neanche certi che vogliano uscire dalla loro miseria? E, infine, si è davvero capaci di andare fino in fondo alla propria intuizione generosa di un giorno? Il dibattito interiore è necessario; occorre rendersi conto che è già iniziato e individuare le resistenze che opponiamo alle nostre «intuizioni» più profonde e più promettenti.

    2. Per approfondire la questione iniziale – che ne è della consistenza di ciò che egli sente interiormente? – possiamo passare da Mosè al profeta Elia, come fa il Nuovo Testamento (Mc 9,4 par.).
    Elia ha già esercitato il suo ministero con successo nella lotta accanita contro i profeti di Baal, divinità di fertilità e di fecondità, garantita, a tale titolo, dal potere reale; ha già beneficiato dell'ospitalità della vedova di Sarepta che gli ha consentito di sopravvivere durante la carestia (1Re 17,18). Inseguito da Gezabele, la moglie del re Acab, se ne va nel deserto e si lascia cogliere dalle forze della morte: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri» (19,4-5). Risvegliato due volte da un angelo, nutrito con una focaccia cotta sul fuoco e dissetato con un po' d'acqua, riesce a camminare per quaranta giorni e quaranta notti, rifacendo così il cammino di Mosè e degli israeliti fino alla montagna di Dio. Riappaiono alcuni temi già individuati nei precedenti racconti: il cammino verso la montagna, lo scambio con Dio, l'invio; la caverna sulla montagna dell'Oreb ricorda quella in cui Mosè ha fatto la sua esperienza di Dio, dopo aver distrutto il vitello d'oro adorato dal popolo (Es 33,21-23).
    Notare queste ripetizioni vuol dire comprendere che mettiamo sempre i nostri passi sulle orme di chi ci ha preceduto, soprattutto quando si tratta di esperienze così fondamentali e interiori come l'ascolto della voce di Dio; ma significa nello stesso tempo che ogni esperienza è nuova: se Elia riprende un vecchio cammino, sembra saperne il perché. È, infatti, ciò che evoca il Signore quando lo chiama e lo interroga proprio sul luogo in cui si trova: «Che cosa fai qui, Elia?». Elia risponde rammentando la propria storia e il timore che la fede in Dio potrebbe svanire con lui in Israele. È allora invitato a «uscire» e «a fermarsi sul monte alla presenza del Signore»: come Abramo e Mosè, e nel cuore stesso della crisi che attraversa, è chiamato a esporsi senza protezione a Dio e a rendersi vulnerabile rispetto a ciò che accade. Tuttavia l'esperienza che gli è dato di fare è diversa da quella di Mosè, esperienza diversa che, osiamo dire, «corregge» o spiazza quella del grande legislatore, suo predecessore:

    Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l'udì [alla maniera di Mosè], Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna (1Re 19,11-13).

    Elia sente quindi, per la seconda volta, la domanda che Dio gli aveva rivolto, ora attribuita a una «voce»; come risuonasse «nel sussurro di una brezza leggera». Allora Dio dice a Elia di ritornare al punto di partenza del suo cammino e gli affida la missione di ungere un nuovo re su Aram e un altro su Israele, con la promessa di poter ungere un discepolo, Eliseo, che occuperà il suo posto. Il profeta deve dunque continuare la sua battaglia; nulla sembra essere apparentemente cambiato e, nonostante ciò, tutto è nuovo perché ormai è condotto dalla voce sentita che ha penetrato in qualche modo «il suo zelo per il Signore» (19,10.14). Che importanza ha questa voce, ci siamo chiesti. Riconosciamo che si riduce quasi a un nulla; ma il suo effetto è proporzionalmente più potente: essendosi trovato sull'orlo della morte, Elia continua di fatto il suo ministero sicuramente in modo completamente diverso.

    3. Chi vorrà continuare a fare delle scoperte con i racconti profetici di vocazione, ed esercitarsi così all'ascolto, potrà esaminare ancora tre brevi passi di Isaia, Ezechiele e Geremia.
    Iniziamo con il racconto della vocazione di Isaia al c. 6 del libro che porta lo stesso nome. Come la storia di Samuele, quella di Isaia si svolge nel tempio. Ma qui il santuario è il luogo della manifestazione affascinante e terrificante di Dio; come nei brani che citeremo, l'elemento della visione, legato all'immaginario dell'epoca, gioca un ruolo importante. La visione mette in scena un contrasto insostenibile tra la santità di Dio e l'esperienza di essere perduto o di provare una divisione in se stesso, in solidarietà con tutto un popolo: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono, e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti» (Is 6,5). Interviene allora la purificazione della bocca, che è il segno della nostra capacità di parlare in verità; essa apre nello stesso tempo le orecchie, poiché queste due «aperture», la nostra capacità di ascoltare e di parlare, vanno sempre di pari passo: «Poi udii la voce del Signore che diceva: "Chi manderò e chi andrà per noi?". E io risposi: "Eccomi, manda me!"» (6,6-8). Riconosciamo alcuni elementi di dialogo già incontrati in precedenza. Ma rivolgendosi al profeta sotto forma di domanda, la «voce» rispetta la sua libertà, quella di un uomo al quale sono state aperte le orecchie e la bocca e che può dire ormai in tutta libertà la sua volontà d'essere mandato verso coloro con cui è solidale. Più nessuna esitazione, quindi, riguardo alla sua capacità di andare fino in fondo al suo desiderio generoso, anche se nessuna illusione è consentita rispetto alla resistenza di coloro verso i quali è mandato.
    La vocazione di Ezechiele (Ez 1-3), più sviluppata di quella d'Isaia, presenta le stesse caratteristiche. Una visione del trono celeste apre il racconto; è solo una «somiglianza» della gloria di Dio che si manifesta così, indirettamente, grazie all'apertura dei cieli. Segue l'esperienza dell'ascolto; ma prima ancora di dare il contenuto del messaggio, il testo espone le condizioni di quel misterioso ascolto. Ascoltare la voce è possibile solamente grazie allo Spirito che fa alzare in piedi il profeta davanti a Dio e gli apre le orecchie: «[La voce] mi disse: "Figlio dell'uomo, alzati, ti voglio parlare". A queste parole, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava» (2,1-2). Il messaggio stesso anticipa di nuovo le resistenze dei figli d'Israele, «che si sono rivoltati contro di me», dice la voce, «essi e i loro padri fino a oggi [...] figli testardi e dal cuore indurito» (2,3-4); la loro libertà - «ascoltino o non ascoltino» (2,5) - è messa però ben più in risalto che in Isaia. E se Isaia ha beneficiato di una purificazione della bocca per parlare, Ezechiele è invitato ad «aprire la bocca e mangiare ciò che gli è dato», un rotolo sul quale sono scritti «lamenti, pianti e guai» (2,8-3,2); come se dovesse provare lui stesso la situazione di coloro verso i quali è mandato.
    L'ultimo brano che proponiamo al lettore è il racconto della vocazione di Geremia (Ger 1,4-19). L'elemento «biografico» qui è particolarmente importante, così come il coinvolgimento del profeta nel suo ministero. Senza indugio la parola di Dio fa risalire il «momento» della vocazione di Geremia prima del suo concepimento e della sua nascita; abbiamo già citato questo passaggio (1,4-5) che l'apostolo Paolo farà suo. Come Mosè, il profeta entra in una specie di dibattito interiore tra ciò che prova come già facente parte della sua esistenza e le resistenze del buon senso: «Risposi: "Ahimè, Signore Dio! Ecco io non so parlare, perché sono giovane"». (1,6). Ma Dio non si lascia per nulla impressionare ed esige semplicemente obbedienza: «Non avere paura di fronte a loro, perché io sono con te per liberarti» (1,8). Tuttavia più tardi Geremia confesserà: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso» (20,7). Ancora una volta, è la bocca del profeta a essere toccata (cf. Is 6,6-7); il Signore mette le sue parole nella sua bocca e gli comunica la propria «autorità sopra le nazioni e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare» (Ger 1,9-19; cf. 31,28). Il messaggio è poi concretizzato in una serie di visioni simboliche.

    4. Non possiamo lasciare questi ultimi racconti senza insistere sul carattere drammatico che conferiscono all'esperienza dell'ascolto, che si riflette sullo stato fisico di coloro che ne fanno esperienza. Pur consentendovi liberamente, il profeta non può non riconoscere che un evento imprevedibile si è prodotto in lui e malgrado lui: «io me ne andai triste e con l'animo sconvolto, mentre la mano del Signore pesava su di me», confessa Ezechiele (Ez 3,14; cf. Is 8,11; Ger 15,17), che racconta di essere rimasto, dopo la sua chiamata, a terra sette giorni «stordito, in mezzo ai deportati» (Ez 3,15). Daniele, che non abbiamo ancora incontrato, narra: «Il mio colorito si fece smorto emi vennero meno le forze. Udii il suono delle sue parole [dell'uomo vestito di lino], ma appena udito il suono delle sue parole, caddi stordito con la faccia a terra» (Dn 10,8-9), come se il contrasto tra la voce divina e la rivolta dei figli d'Israele fosse diventato insopportabile per il profeta e producesse in lui un «dolore senza fine e una piaga incurabile» (Ger 15,18).

    Paolo, apostolo di Gesù Cristo

    È ancora Geremia a condurci verso la nuova alleanza (Ger 31,27-34} e ad aiutarci a riconoscere in che misura Paolo comprende la propria chiamata in quella matrice che sono le chiamate profetiche. Nella sua Lettera ai Galati, Paolo racconta ciò che gli è accaduto, molto succintamente, ma con dei termini carichi di senso; vuole mostrare alle comunità turbate e minacciate che il vangelo non è dell'uomo e non è da un uomo che gli è stato trasmesso, ma «per rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1,11-12). Esiste modo migliore di dare peso a tale affermazione se non quella di mettere in gioco la propria esistenza?

    Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo; perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia (Gal 1,13-17).

    Paolo testimonia qui la svolta improvvisa («subito») e radicale che scinde in due la sua storia, e attribuisce direttamente a Dio la cesura. Eppure è il medesimo uomo che vive «prima» e «dopo» poiché riconosce ora, come Geremia, che Dio l'ha scelto fin dal seno di sua madre; come se scoprisse nello stesso tempo la profonda coerenza della chiamata con ciò che, misteriosamente, egli è da sempre. Non riconosce a diverse riprese che, «conquistato» da Cristo, il suo temperamento di uomo accanito che lo imprigiona nella fiducia in se stesso (Fil 3,6.12-14; cf. anche 1Cor 15,9-10) non scompare, ma si trasforma?
    Ma quale evento è esattamente accaduto? Senza dubbio si tratta di un'evoluzione complessa sulla quale l'apostolo resta molto discreto. Senza descriverlo, Paolo indica chiaramente un evento gratuito di «rivelazione» del tutto interiore: Dio che rivela in lui suo Figlio perché lo annunci in mezzo alle genti (Gal 1,15-16). Ha incontrato Cristo? Sì, «in negativo» potremmo dire, poiché, perseguitando la Chiesa di Dio, Paolo si è scontrato con la pretesa dei cristiani di vivere del Messia crocifisso. Ma solo la chiamata riesce a risolvere il suo dramma interiore e a metterlo in coerenza con ciò a cui era destinato da sempre: la grazia che viene dal Figlio di Dio lo salva dal proprio zelo mortifero e lo trasforma in apostolo libero, al servizio del vangelo della grazia che è per ogni uomo. Tutta l'esperienza missionaria successiva di Paolo, compresa la sua riflessione teologica, «si riversa» su questo momento decisivo della sua «vocazione» pur preparato fin dall'inizio della sua esistenza, e arricchito in qualche modo in seguito. Questo è possibile perché tutto è scaturito dall'evento che l'apostolo ricapitola nella sua Lettera ai Filippesi con il termine di «conoscenza interiore di Gesù Cristo» (Fil 3,7-11).
    I tre racconti della vocazione di Paolo negli Atti degli apostoli, redatti da Luca, amplificano questo evento in tutt'altro modo. Il lettore potrà meditarli e gustarli; vi troverà numerosi elementi già identificati nei racconti del primo Testamento, in particolare la voce divina che chiama il persecutore per nome: «Saulo, Saulo», e la domanda tramite la quale questi cerca di identificare la voce: «Chi sei, o Signore?» (At 9,4-10 par.). Potrà ritornare in seguito sulle lettere di Paolo, per ammirare la sobrietà così segnata di verità umana che caratterizza il suo racconto.
    Questa sobria verità umana si manifesta ancora di più quando l'apostolo risale al di qua della propria esistenza, dalla figura del profeta Geremia fino ad Abramo, il «padre di tutti i credenti» (Rm 4,11) che abbiamo già evocato. Paolo ha insegnato, ricordiamocelo, che la fede e l'ascolto obbediente sono un'unica e medesima cosa (1,5; 16,26). Quando ritrova questa fede in Abramo, si meraviglia del fatto che essa preceda il segno della circoncisione e il dono della legge tramite Mosè. Il patriarca è dunque padre di tutti i credenti incirconcisi e padre dei circoncisi (4,10-12). Si colloca al di qua della divisione tra ebrei e pagani ed è la figura di una vocazione universale, semplicemente «umana», potremmo dire con il Vaticano II. Ciò emerge anche da questa formula, la cui profondità è abissale, e sulla quale ritorneremo nel capitolo seguente: «È padre di tutti noi, davanti al Dio nel quale credette, che dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che non esistono» (4,17). 
    Ciò nonostante questa universalità celebrata da Paolo non è astratta; essa rinvia al dramma della separazione tra il popolo ebreo e le genti. La chiamata ricevuta da Paolo di annunciare il vangelo in mezzo ai pagani (Gal 1,16) non conduce quindi l'apostolo a sciogliere il legame di solidarietà con il suo popolo; al contrario, la rivelazione di Cristo in lui lo immerge in un modo nuovo di affrontare questo legame di cui parla come ne parlerebbe Geremia:

     

    Dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono israeliti e hanno l'adozione dei figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne, egli è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen (Rm 9,1-5).

    Gesù e i suoi discepoli

    Ma chi è questo Cristo o Messia, che costituisce Paolo apostolo rivelandosi a lui e in lui? Certamente, secondo la carne, proviene dal popolo di Israele. Tuttavia Paolo non vuole più conoscerlo secondo la carne (2Cor 5,16) poiché si è lasciato totalmente identificare in lui nella sua passione e risurrezione, che riassumono da sole tutta la sua esistenza messianica. Ora i vangeli fanno marcia indietro e s'interessano all'itinerario carnale di Cristo Gesù; taluni risalgono fino alla sua origine. Matteo e Luca ci offrono, ciascuno, un racconto d'infanzia e Luca racconta gli inizi della vita di Gesù lasciando trasparire, sullo sfondo, la storia di Samuele che ritroviamo così, inaspettatamente, alla fine del nostro percorso biblico. Se è il solo dunque a puntare il proiettore sulla genesi della «vocazione» di Gesù, tutti e quattro gli evangelisti fanno vedere il Nazareno chiamare lui stesso i suoi discepoli alla sua sequela; incroceremo qui, ancora una volta, la figura di Elia e di Eliseo. Ma cominciamo a leggere il racconto dell'infanzia secondo Luca facendo attenzione alle rievocazioni della storia di Samuele.
    1. Una prima osservazione ci mette sulla via; si tratta della formula: «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia (charis) di Dio era su di lui» (Lc 2,40); formula che precede il suo primo pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme e che ricorre appunto dopo questo episodio in forma ampliata: «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia (charis) davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52; cf. 1Sam 2,26). Il piccolo Giovanni Battista aveva già beneficiato di un analogo riepilogo – «cresceva e si fortificava nello Spirito» (Lc 1,80) – ma senza la menzione della pienezza della sapienza. Gesù,, un nuovo Samuele? In un certo senso sì, anche se la differenza si rivelerà radicale.
    Come nel racconto d'infanzia di Samuele, il narratore ci riconduce, infatti, da ciò che sa dell'esito della vicenda di Gesù verso la misteriosa origine della sua vita, prima ancora che fosse formata nel grembo materno; nel racconto, tutto il seguito è già predisposto. Maria non è sterile come Anna - lo è Elisabetta - ma è vergine e senza un desiderio di procreare che sarebbe segretamente alterato da una rivalità umiliante: «Lo Spirito Santo scenderà su di te», sente dire Maria dall'angelo come risposta al suo turbamento; «perciò colui che nascerà sarà chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Il suo canto dunque non riprende l'opposizione tra la sterile che partorisce sette volte e la madre feconda che s'inaridisce. Ma il tema centrale del suo Magnificat è lo stesso di quello del cantico di Anna: la manifestazione delle incomparabili santità e potenza di Dio che rovesciano i progetti di riuscita troppo umani (Lc 1,46-56).
    Nella scena del tempio durante il pellegrinaggio per la festa di Pasqua che abbiamo già evocato, ricorre un nuovo parallelo tra questo racconto che narra la prima esperienza di «vocazione» di Gesù e il racconto di Samuele. Se si ha ancora in mente lo sconcertante malinteso tra il sacerdote Eli e Samuele, grazie al quale alla fine si stabilisce la differenza tra la voce parentale e la voce di Dio, senza che Samuele rinunci ad ascoltare quella di suo «padre», non si può che essere meravigliati da ciò che accade qui tra Gesù, Maria e Giuseppe.
    Dopo tre giorni (!) di ricerca, i genitori ritrovano questo ragazzo di dodici anni nel tempio, «seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava»; e già ora, è lui che risponde, suscitando lo stupore di quelli che lo ascoltano e che ammirano l'intelligenza delle sue risposte. L'iniziazione all'ascolto della parola di Dio avviene normalmente e senza trasgredire le abitudini: ascoltare i maestri, interrogarli, rispondere personalmente con intelligenza e, infine, sedersi in mezzo a loro. Ora, ritrovandolo così, Maria gli ricorda la relazione parentale; e designa Giuseppe quale padre, come se avesse dimenticato quel che aveva udito al momento dell'Annunciazione: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Egli disse loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,48-49). Il malinteso è senza ambiguità per il lettore, ma è già superato per Gesù che, grazie ai suoi genitori, ha imparato ad ascoltare la voce parentale e ritornerà con loro a Nazaret, stando loro sottomesso; ma d'ora in avanti, distingue lo stare «con i suoi genitori» e «con il Padre mio», la voce dei genitori e ciò che il Padre gli insegna grazie alla Scrittura, poiché è questa che, nello scambio con i maestri, si trova nel mezzo. E se, alla terza chiamata, il sacerdote Eli «comprese che il Signore chiamava il giovane» (1Sam 3,8), i genitori di Gesù «non compresero ciò che aveva detto loro» (Lc 2,50).
    Ma Gesù deve ancora sentire la voce stessa del Padre. Ciò avviene in un secondo episodio sul bordo del Giordano, dopo il battesimo del popolo e il suo stesso battesimo, quando aveva circa trent'anni (Lc 3,23). In un certo senso, qui non succede nulla di straordinario: «Gesù stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato"» (3,22). Luca riporta il v, 7 del salmo 2 che qui fa udire grazie alla voce dal cielo. Ciò non ha nulla di sorprendente poiché Gesù sta pregando; ma, questa volta, ode il salmo dalla bocca del Padre che si rivolge a lui in modo del tutto singolare: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato». Il narratore può allora, prendendo una scorciatoia sconcertante, enunciare la sua genealogia alla rovescia, risalendo fino all'origine della creazione: «figlio di Adamo, figlio di Dio» (3,38).
    Il terzo episodio avviene nel deserto e descrive la lotta interiore di Gesù, che ricapitola in lui ed esaurisce tutte le prove attraversate dal popolo d'Israele (Lc 4,1-2.13). La posta in gioco per lui è una e unica: comprendere in modo giusto ciò che ha udito dalle Scritture e tramite la «voce che viene dal cielo», ripresa, nella tentazione, dal diavolo: «Se tu sei Figlio di Dio» (4,2.9). Gesù vince questa tentazione mantenendosi in un rapporto giusto con la lettera del testo biblico. Sì, anche il diavolo può citare la Scrittura! Ma se Gesù vi fa riferimento, è a partire da un'attitudine radicalmente filiale rispetto a suo Padre di cui ha udito la voce: «Non di solo pane vivrà l'uomo [...]. Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto [...]. Non metterai alla prova il Signore tuo Dio» (4,4.8.12).
    Avendo così attraversato la lotta spirituale, iscritta nelle Scritture, avendo pure superato la lotta fondandosi sull'interpretazione delle Scritture, Gesù può allora «svolgerle», aprendone il rotolo, nella sinagoga di Nazaret. Ed è qui infine, nel quarto episodio, che il profeta Isaia gli rivela la sua missione: «Lo Spirito del Signore è su di me», legge nel rotolo, comprendendo che si tratta di lui stesso; «per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio [...], a proclamare l'anno di grazia del Signore» (Lc 4,17-19). E il narratore continua: «Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all'inserviente e sedette [come a dodici anni]. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissati su di lui. Allora cominciò a dire a loro: "Oggi [come nel salmo 2] si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato"» (4,20-21).
    Sorprendente composizione di questi quattro episodi che, insieme, formano quel che potremmo chiamare il «racconto della vocazione di Gesù»! Tutto proviene dall'alto e tutto sorge nello stesso tempo dalla storia del suo popolo. Le relazioni parentali sono essenziali per formare all'ascolto della voce del Padre, così come la Scrittura, nella quale, in altro modo, risuona già quella stessa voce. Questo libro appare progressivamente: è là senza essere nominato, quando Gesù si trova seduto nel tempio in mezzo ai dottori; gli fornisce il salmo 2 per la sua preghiera al bordo del Giordano, quando, subitamente, sente uno dei suoi versetti come se fosse indirizzato direttamente a lui da una voce venuta dal cielo; diventa la posta in gioco di una lotta spirituale quando, nel deserto, deve interpretarlo in modo giusto a partire da ciò che ha udito dalla bocca stessa di suo Padre; lo svolge infine lui stesso, nella sinagoga di Nazaret, collocandosi così nella sua missione davanti a coloro che lo stanno ascoltando. Nel cuore del malinteso, potremmo dire necessario, generato dalle voci che Gesù sente, una distinzione deve prodursi affinché la voce di suo Padre possa essere ascoltata; distinzione che diventa prova quando il diavolo imita l'intonazione stessa di Dio. Si potrebbe pensare che la pienezza della sapienza in Gesù (Lc 2,40.52) giunge al termine di questa prova di confusione e di tentazione. Ma fin dall'inizio, lo Spirito Santo sceso dall'alto su Maria è all'origine della sua esistenza; ed è questo stesso Spirito che scende su di lui quando sente la voce del Padre. È la forza dello Spirito che abita in lui quando esce dalla prova; è lui l'unzione all'origine del suo mandato messianico. Il carattere drammatico di questa traversata di una trentina d'anni non è occultato, ma al lettore è offerto «qualcosa»: come una tranquilla percezione della coerenza interna della «vocazione» di Gesù.
    Il lettore, infatti, è immediatamente coinvolto in questo racconto, dove Maria sente l'angelo dirle a proposito di Gesù: «Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell'Altissimo» (Lc 1,32.35). Non basta che Gesù senta di persona il Padre chiamarlo così; occorre che sia chiamato anche da altri. Ciò accadrà nella predicazione apostolica degli Atti degli apostoli. A tale osservazione si può dunque aggiungere un'ultima parola: la missione messianica di Cristo non può proseguire e compiersi se non trova e non suscita dei «passaggi di testimone» [1] nella storia.

    2. Su questo punto, Luca e Matteo incrociano, ancora una volta, il racconto di Elia e di Eliseo (cf. anzitutto Lc 4,24-27). Ora la chiamata di Eliseo tramite il profeta rappresenta un caso di figura molto particolare nell'Antico Testamento: un uomo chiama un altro a seguirlo (1Re 19,19-21); e, dopo un periodo di «camminare insieme» [2] (2Re 2,7-15), lo Spirito dell'uno, elevato in cielo, si posa sull'altro (2Re 2,7-15). È questa «trasmissione» che diventa il modello di ciò che accade tra Gesù e coloro che chiama a seguirlo, ma con un'autorità umana e creatrice che non lascia nessuna dilazione al futuro discepolo, talmente urgente è diventata la venuta del regno. Come Eliseo, i primi discepoli di Gesù sono sorpresi in pieno lavoro: Eliseo stava arando ed essi sono alla pesca (1Re 19,19; Lc 5,1-11; cf. anche Mc 1,16-20 par.). Ma Eliseo può abbracciare suo padre e sua madre prima di seguire Elia, invece Gesù non concede nessuna tregua a colui che vuole seguirlo: «Un altro disse: "Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia". Ma Gesù gli rispose: "Nessuno che mette mano all'aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio"» (Lc 9,61-62 par.). Riguardo alla «trasmissione» dello Spirito, si dovrà attendere l'inizio degli Atti che racconta congiuntamente il modo in cui i discepoli guardano il vero Elia sottratto ai loro occhi (At 1,9; 1Re 2,1-4) e il modo in cui lo Spirito scende su di loro (At 1,8; 2,1-4).
    È in questa relazione misteriosa tra Gesù e i suoi discepoli che si colloca «lo spazio» originario della vocazione cristiana. È in questo «luogo» che l'esperienza di ascolto della «voce», simile a quella che attraversa tutte le Scritture, può essere vissuta oggi. Vi torneremo ampiamente nel capitolo seguente, ma sin d'ora facciamo ritorno su noi stessi, lettori delle Scritture, che abbiamo seguito questo percorso fino a questo punto.


    E NOI...

    Scoprendo insieme i racconti di vocazione nelle Scritture ebraiche e cristiane, abbiamo già ampiamente anticipato il seguito del nostro cammino. Ma prima di proseguire, facciamo posto alle nostre reazioni interiori, magari epidermiche, di fronte a questo impressionante panorama biblico.
    Alcuni forse restano con un interrogativo riguardo alla consistenza delle esperienze riportate da questi racconti, non potendo sciogliere un sospetto latente nei loro confronti: il malinteso, evocato parecchie volte in questi testi, non sarebbe un modo di confessare, suo malgrado, che l'uomo non sente mai parlare che se stesso e il suo simile? Altri, meno critici, diranno semplicemente: «Non è per me»; «Non sono all'altezza di ciò che è raccontato qui». Un certo panico di fronte alla radicalità delle svolte prese da queste «vite» è, in effetti, fin troppo comprensibile. A periodi, il culto dei santi ha potuto essere l'espressione di tale distacco: l'uomo ordinario li venera volentieri a distanza, perché hanno vissuto quel che egli stesso sogna di vivere, senza sentirsi capace di impegnarsi personalmente in tale cammino.
    Dimentichiamo che tutte le figure che popolano il calendario liturgico e l'immaginario cristiano sono state proposte dalla Chiesa solamente perché la loro maniera singolare e coerente di incarnare tale aspetto della vita evangelica aveva irraggiato attorno a loro, al punto da invogliare altri a prestare attenzione alla chiamata che risuonava anche in loro. Che si tratti di sant'Antonio d'Egitto, di san Benedetto, di san Francesco e santa Chiara, di Giovanna d'Arco, di san Vincenzo de' Paoli e di santa Teresa di Lisieux o di tale uomo e di tale donna d'oggi - figure sulle quali torneremo nei capitoli successivi -, lungi dal discostarsi da noi essi possono toglierci dubbi e timori e rappresentare un invito vivente rivolto a ciascuno ad ascoltare la chiamata che nessun altro può sentire al suo posto.
    Vorrei dunque raccomandare che si abbia una «familiarità» con i racconti di vocazione che ho appena commentato. Per iniziare, notiamo che le variazioni si riferiscono a un insieme limitato ma unificato di alcuni elementi vivamente radicati nella nostra esistenza umana. 1) All'inizio c'è la relazione parentale, vista sotto tutte le sue forme, senza nessuna idealizzazione. Dei sostituti sono dunque spesso necessari, e le incognite della storia ce li offrono di sorpresa affinché possiamo diventare noi stessi degli esseri capaci di relazione. 2) Questa formazione schiude quei meravigliosi organi di contatto con l'ambiente e con gli altri che sono i nostri sensi: l'udito, la vista, il tatto, l'olfatto e il gusto. Ma la capacità di ascoltare nella cultura biblica occupa il primo posto; sappiamo che ciò non è privo di significato quando si osserva lo sviluppo di un bimbo nel grembo materno e dopo, quando la luce del mondo l'avrà accolto. 3) Ora sin dall'inizio e sino alla fine, l'avventura umana consiste nell'«uscire» e nel «lasciare»... per una terra che la vita ci mostrerà; anche se resteremo per sempre tributari del ritorno delle stagioni e dei ritmi del giorno e della notte, la cui monotona ripetizione può anestetizzarci ma nello stesso tempo proteggerci e offrirci la grazia di un «oggi» che è sempre un «inizio». 4) La chiamata o la «vocazione» (non dimentichiamo mai che si tratta di un atto) si colloca proprio in questo crocevia dove la necessità di «uscire» e l'«oggi» s'incontrano. E a questo crocevia che la voce di Dio, che risuona da sempre e sin dall'inizio di una vita umana, può essere ascoltata. Ed è l'avventura! Quella che consiste nell'orientarsi in mezzo alle molteplici «voci» umane che disperdono la voce di Dio, tra le quali le grida e i lamenti, talvolta difficili da sentire, di molti essere umani, e quelle che imitano, in modo diabolico, l'intonazione divina tanto da trarre in inganno. Esperienza temibile e benefica nello stesso tempo, poiché si tratta di riconoscere progressivamente, come in una grande e complessa polifonia, i «temi» principali e il loro ordinamento o la loro «cospirazione» segreta. 5) Ma come riconoscerli? I racconti che abbiamo letto ci forniscono un solo criterio: possiamo «uscire» e «lasciare» solamente perché abbiamo ascoltato una promessa di benedizione, quella che risuona sin dall'origine. Possiamo ascoltarla realmente dalla bocca di un altro o di molti altri solamente se risuona nello stesso tempo nel più intimo di noi stessi.
    Questo è l'essenziale col quale invitiamo il lettore a «familiarizzarsi», leggendo... e rileggendo i racconti che gli abbiamo appena proposto. Scoprirà allora da solo che tutti questi racconti lo invitano a fare un secondo passo: imparare ad ascoltare in verità ciò che nessun altro può fare al suo posto. Lui solo può affrontare il dubbio in tutte le sue forme e il panico che può provare davanti alle dimensioni della sua avventura umana; ciò non esclude il fatto di poter chiedere consiglio a un altro, e di appoggiarsi alla sua esperienza, e torneremo su questo. Ma al punto in cui siamo, nulla è possibile se non si accetta di entrare realmente in un'esperienza interiore di ascolto: parla Signore, il tuo servo ascolta!


    ASCOLTARE...

    Nella nostra cultura, caratterizzata da un nichilismo dolce, influenti resistenze si oppongono all'esperienza fondamentale dell'ascolto. Non è solamente il rumore ambientale che crea un problema, ma anche le barriere che siamo tentati di erigere tra di noi per proteggerci, a meno di non lasciarci interamente invadere dal mondo dei suoni, al punto da diventarne dipendenti come da una droga. Che spettacolo la massa di persone che, nelle nostre grandi città, non si muove più se non è accompagnata dal suo iPod per ricevere a intervalli regolari la sua dose di sensazioni musicali! Quando disimpariamo impercettibilmente ad ascoltarci gli uni con gli altri perché non esiste più uno spazio «vuoto» in noi e tra di noi che ci consente questo ascolto, rischiamo alla lunga di diventare muti e di non avere più le parole per dire ad altri e a noi stessi quel che ci anima realmente e costituisce la nostra avventura umana. È questo stato di fatto a essere indicato con il termine «nichilismo dolce».
    Sono ben consapevole di quanto abbia oggi di utopico la semplice proposta di leggere dei racconti del passato, addirittura dei racconti di vocazione. La lettura, infatti, ci fa entrare nell'ascolto di alcune «voci» d'altri tempi e in un colloquio silenzioso con loro. Essa ha dunque bisogno di un «ritiro» rispetto al presente, non per fuggirlo bensì per raggiungerlo in modo nuovo, mentre il mondo dei suoni c'immerge immediatamente nel presente «liberandoci» del peso, vissuto spesso come opprimente, del nostro «"io" che ascolta la voce altrui». Come rendere allora attraente l'ascolto, solitario o condiviso, del silenzio? Silenzio importante che è all'origine stessa della nostra parola e la rende possibile nella sua verità?
    1. Prima di proseguire, occorre dunque riflettere sulle condizioni individuali e collettive della nostra esperienza di ascolto. È forse la posta in gioco maggiore dell'educazione e della nostra «formazione» permanente. Ciascuno di noi deve trovare il suo modo di abitare lo spazio e il tempo, di condividerlo con altri. Come gestire quindi umanamente il rumore ambientale se non creando degli spazi di silenzio nelle nostre esistenze? Questi spazi cominceranno allora a ritmare la nostra vita e questo ritmo marcherà i nostri spazi quotidiani e animerà i nostri movimenti. Aggiungiamo subito che la sensibilità al silenzio si coltiva solo incontrando delle persone che sanno rizzare le orecchie, ascoltare e intendere; solamente loro potranno suscitare la nostra capacità di ascolto e comunicarci il piacere di una dolce vigilanza rispetto a noi stessi e al nostro ambiente.
    2. Presto o tardi, bisognerà dunque, in modo definitivo, sedersi e rileggere la propria maniera di situarsi nella propria vita quotidiana. Sarà forse l'occasione di affrontare, per la prima volta, la propria solitudine e lasciar emergere la propria interiorità, senza fuggirla immediatamente. Nella maggior parte dei casi, si scatena allora una lotta interiore. Privo per un momento più o meno lungo delle attività abituali e confrontato al silenzio esteriore, scopro, con mio grande stupore, che continuo a discorrere interiormente con me stesso e con molte altre voci, senza ascoltarle, senza ascoltarmi in realtà; progetti, successi e fallimenti, sofferenze, lutti e lontananze, incontri felici e amorosi ma anche separazioni e delusioni, e così via, sono gli oggetti di questi soliloqui solitari. Forse ascolto queste molteplici voci e me stesso, ma spesso in modo deformato, perché non sento che quelli e quello che voglio sentire; ci sono delle voci che, molto semplicemente, non ascolto. Ci vuole un tempo di «familiarità» perché il silenzio interiore trovi spazio e sia vissuto come un'oasi di pace e come dono gratuito. Il caos delle voci potrà allora trovare un certo ordine nello spazio interiore, divenuto finalmente silenzioso. Abitato provvisoriamente e in maniera infinitamente fragile dal silenzio calmo e benefico di Dio, comincio ad ascoltarmi in verità, con le mie orecchie e la mia voce mescolate a quella di cui sino a quel momento non potevo percepire l'intonazione, il timbro, l'altezza, il colore assolutamente propri.
    3. È giunto allora il momento di aprire di nuovo le Scritture e di rileggere i racconti di vocazione percorsi in questo primo capitolo.

    NOTE

    [1] Il termine francese «relais» occupa un posto fondamentale nel pensiero dell'autore. Esso designa, nel linguaggio sportivo, il testimone che gli atleti si trasmettono nella corsa a staffetta. A partire da questa immagine e in maniera metaforica, l'autore utilizza questo termine in diverse espressioni. Secondo il contesto, abbiamo tradotto: passaggio di testimone, trasmissione, successione, riferimento (NdT).
    [2] Il termine francese «compagnonnage», parola chiave di questo libro, che traduciamo «camminare insieme», indica più precisamente l'esperienza, che può essere anche temporanea, di una «compagnia» di vita e di cammino, esperienza di condivisione di un progetto e di un impegno (NdT).

    (da VOCAZIONE?!, EDB 2011, cap. 1, pp.13-39)


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