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    Il prete

    uomo delle beatitudini

    Franco Cagnasso


    L’enciclica Redemptoris Missio descrive il missionario, tra l’altro, come “l’uomo delle beatitudini” (n. 91). L’espressione mi ha colpito alla prima lettura, più di 10 anni fa, per questo mi ero sforzato, allora, di cercarne il contenuto, evitando la tentazione di accoglierla e usarla soltanto come uno slogan. Le occasioni per farlo non mancavano, dato che – trattandosi di un’enciclica missionaria – ero invitato spesso a commentarla, o la sceglievo io come riferimento per corsi di esercizi e ritiri.
    L’occasione si è ripresentata quando don Luciano mi ha chiesto una riflessione sul tema “Il prete uomo delle beatitudini”. Ho accettato anche perché mi faceva piacere tornare su quel tema, pure se non è identico. Di ogni cristiano si dovrebbe poter dire che è “l’uomo o la donna delle beatitudini”; allo stesso tempo però ciascuna vocazione o ministero, e ciascuna persona ha qualcosa di proprio nell’essere e vivere le beatitudini, quindi si possono delineare alcuni tratti più caratteristici anche per il prete.

    Contesti della riflessione

    Dire “beatitudini” significa evocare i due ben conosciuti passi di Matteo 5, 1ss e di Luca 6, 17ss., i quali però non sono gli unici passi del NT in cui viene usato questo genere letterario, che troviamo anche nell’AT.
    Ricordo alcune delle beatitudini del NT, perché tornino alla mente e siano come sullo sfondo di ciò che dirò: le beatitudini che potremmo chiamare “dell’ascolto e della fede” (beata te che hai creduto… beati coloro che crederanno senza avere visto… Lc 1, 45; Lc 10, 23; Lc 11, 28; Gv 20, 29; Ap 1, 3), quelle della vigilanza e dell’impegno per il Regno (beati coloro che il padrone al suo ritorno troverà vigilanti… quel servo che il padrone troverà al suo lavoro Lc 12, 37. 42-43); della prova (considerate perfetta letizia quando subite ogni sorta di prove… beato l’uomo che sopporta la tentazione Gc 1, 2.12; se anche doveste soffrire per la giustizia, beati voi I Pt 3, 14; 4, 14), degli invitati al banchetto, alle nozze dell’Agnello (Lc 14, 15; Apoc 19, 9)), del perdono ricevuto (beato l’uomo al quale il Signore non mette in conto il peccato… che troviamo nel Salmo 32, 1-2 citato da Rom 4, 7), della morte stessa (beati i morti che muoiono nel Signore… Apoc 14, 13).
    Trovo particolarmente interessante, per il contesto in cui è posta, la beatitudine pronunciata da Gesù dopo la visita dei discepoli di Giovanni Battista che gli chiedono se sia lui “colui che deve venire”. Come risposta, Gesù mostra i segni che sta compiendo, e citando Isaia fa comprendere che essi sono la realizzazione di quanto detto nella sinagoga di Nazaret (cfr Lc 4, 16-21): i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano (…) ai poveri è annunciata la buona novella; poi conclude: “E beato è chiunque non sarà scandalizzato di me” (cfr Lc 7, 18-23).
    Tante sono dunque le beatitudini, vasta e non esattamente delimitabile la loro area, che s’intreccia con tutto il vangelo. Non sono un esperto, prendete con beneficio di inventario quanto dico. Le beatitudini non esprimono contenuti specifici diversi rispetto ad altri generi letterari e ad altri passi; sono piuttosto un modo breve ed efficace, usato specialmente da Luca e Matteo ma non soltanto da loro, per esprimere i messaggi principali che ritroviamo in altre forme nel NT.
    Perciò dire “uomo – o donna - delle beatitudini” equivale praticamente a dire “uomo – o donna - del vangelo”.
    Resta però il fatto che nei due passi di Matteo e di Luca alcune di esse vengono selezionate e messe insieme perché abbiano una forza espressiva particolare. Questi due discorsi di Gesù sono come una Magna Charta della sua missione. Faccio riferimento specialmente ad essi.
    Richiamo pure altri tre passi che possono fare da contesto a ciò che intendo comunicare:
    - il già ricordato esordio di Gesù nella sinagoga di Nazaret, una specie di programma di missione che affascina alcuni e scandalizza altri;
    - Galati 5, 22 che descrive (senza pretesa di definirlo) il frutto dello Spirito: “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé”;
    - tutto il Capitolo 2 della I lettera ai Corinzi, che illustra l’atteggiamento di Paolo nel suo ministero a Corinto, svolto “in debolezza e con molto timore e trepidazione” (vs 3) e parla della sapienza che viene dallo Spirito, la sola che può accettare il mistero della Croce e non giudica follia “le cose dello Spirito di Dio” (vs 14). Conclude poi dicendo: “Noi abbiamo il pensiero di Cristo” (vs16).

    Ascoltiamo adesso insieme Matteo e Luca (lettura)

    Sono evidenti le differenze sia di contenuto sia di tono fra Matteo e Luca. Non trovo che questo crei difficoltà. Dicevo prima che le beatitudini sono un particolare modo di proporre i contenuti di tutto il vangelo. In esso troviamo la vita e la verità di Gesù narrate con tante sfumature e sottolineature diverse, anche marcatamente diverse, con immagini che si completano e si spiegano a vicenda, con allusioni, metafore, ecc. Due beatitudini possono esprimere aspetti diversi di uno stesso tema, senza che una annulli o contraddica l’altra.
    Non è necessario pensare che Matteo ammorbidisca Luca.
    Alberto Mello porta un esempio preso dai Salmi. Il Salmo 1, 1 dice “Beato l’uomo che non cammina nel consiglio degli empi”, esprime cioè una beatitudine “a condizione che” l’uomo viva rettamente. Il Salmo 32, 1 dice “Beato l’uomo a cui è rimessa la colpa e perdonato il peccato”, sottolineando l’atto gratuito della misericordia divina nei confronti dell’uomo, senza accennare a condizioni. “La ‘prosperità’ o la ‘felicità’ (termini che esprimono “l’essere beato”) sono comunque dono di Dio, ma l’accento è diverso: da una parte cade sulla corrispondenza umana, dall’altra sulla gratuità del dono. Matteo segue il primo modo di dire (poiché insiste molto sulle qualità umane che sono adatte ad accogliere la beatitudine), mentre Luca si allinea di più sul secondo” (A. MELLO, Evangelo secondo Matteo, Qiqajon, Magnano 1995, pag. 104-105).
    Luca vuol dire che c’è comunque una resa dei conti elementare alla quale non si sfugge, e dà un annuncio di giustizia estremamente importante e necessario anche oggi: chi è ricco deve sapere che ha un privilegio di cui dovrà rendere conto, e che il tempo per provvedere è ora.
    Pure di Luca è la parabola di Lazzaro e del ricco che illustra questa verità in modo plastico chiarissimo, in bianco e nero netti perché non ci siano dubbi (cfr Lc 16, 19-31). Ci inventiamo scuse – quelle che il ricco porta ad Abramo perché mandi Lazzaro ad avvisare i suoi fratelli – ma le scuse non ci sono, basta guardarsi intorno per capire che bisogna decidersi a cambiare qualcosa, almeno per farsi degli amici che poi ci chiamino quando saranno nel regno dei cieli (cfr Lc 16, 9).
    Matteo non arriva per dirci: sì, giusto, però basta che siate poveri in spirito, distaccati, e tutto può restare com’è. Dice caso mai il contrario: non basta che aiutiate Lazzaro solo per salvarvi, occorre che cambi il cuore e diventi radice, punto di partenza del cambiamento anche nella vostra condotta. Luca indica il campo da gioco, Matteo ne spiega le regole…
    “Non è certo che Matteo abbia ‘spiritualizzato’ o ‘moralizzato’ le beatitudini lucane, considerate più prossime all’annuncio del Regno da parte di Gesù (…) Diciamo semplicemente che ci troviamo in presenza di due teologie, l’una più sapienziale (Matteo) e l’altra più profetica (Luca), senza cercare di stabilire ordini di precedenza” (Mello, ivi, pag. 105).

    La fatica di ascoltare le beatitudini

    Faccio dunque riferimento ad entrambi i testi, ma ora permettetemi di comunicarvi un poco di ciò che provo ogni volta che mi ritrovo davanti a questi passi. Si tratta di una sensazione mista di fascino e attrazione per la loro bellezza, e di fastidio, voglia di tenerli distanti; forse qualcosa di simile a ciò che prova Pietro quando, dopo la pesca miracolosa, si getta ai piedi di Gesù e gli dice: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore” (Lc 5, 8). Gli dice di allontanarsi, perché ha scoperto quanto quell’uomo sia misteriosamente colmo della presenza di Dio e della sua grazia, e sentirsi vicino a Dio mette a nudo, provoca disagio e timore.
    In modo analogo, le beatitudini sono parole che hanno un immediato e misterioso sapore di verità, nonostante siano assurde alla luce della mentalità comune che normalmente ci pervade. Un sapore di verità che si fa sentire anche da molti che non hanno una fede cristiana, come il Mahatma Gandhi, Robindronath Tagore o altri. Ma nel momento stesso in cui percepisco questo sapore, o questo profumo, intuisco anche la mia distanza da esso, il mio vivere e operare in altre atmosfere e con altri criteri – e dunque percepisco la mia distanza dalla verità.
    Allora vorrei evitare il confronto, vorrei dire “allontanati, e lasciami tranquillo”; tanto so che comunque non riuscirò mai ad essere all’altezza di ciò che qui si proclama.
    Se poi devo predicare sulle beatitudini, mi spaventa la possibilità di essere retorico – il che è facile con questi testi –, oppure di non riuscire a farne percepire la profondità. Temo pure che gli ascoltatori ne abbiano una precomprensione che li trasferisce subito sul piano spiritualista, oppure li costringe ad arenarsi su problemi apparenti, quali il timore - infondato e banale, eppure ancora diffuso - che proclamare “beati” i poveri voglia dire incoraggiare lo statu quo e l’ingiustizia, e favorire i ricchi.

    E’ giustificato il mio disagio? Sì, perché nasce da un fatto molto vero e di cui fa bene rendersi conto in maniera un po’ più immediata ed efficace, almeno ogni tanto, cioè il fatto che “sono un peccatore” e, messo di fronte alla luce, gli occhi mi fanno male.
    Fa male il contrasto luce/ombra, e anche il mio modo istintivo di ascoltare le beatitudini, cioè cogliendole prima di tutto come un elenco di leggi, di cose che io devo essere o fare e invece non sono o non faccio. Sono a disagio perché ascolto con la mentalità del giovane ricco, che vorrebbe sì essere perfetto, ma restando nel suo contesto, facendo qualcosa in più o in meglio, e non è pronto a sentirsi dire che per lui la salvezza è altro, cioè lasciare ciò che lo appesantisce e fidarsi di Gesù (cfr Lc 18, 18-23).
    Ascolto con orecchi “di carne”, perché vorrei arrivasse il momento in cui io possa dire: “ecco, ci siamo, finalmente ho adempiuto la legge, ho messo in pratica e vissuto le beatitudini…”.
    Compimento della legge, ma come?
    Ma quel momento non ci sarà mai.
    Nel testo di Matteo, Gesù continua il suo discorso con molti insegnamenti, e al versetto 17 dice: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti, non son venuto per abolire ma per dare compimento”. Mi ci è voluto molto per capire che questa parola non va intesa come la conferma dell’atteggiamento dei Farisei, che speravano di osservare tutta la legge e così essere giusti. Gesù non ci comanda qui quello che altrove contesta; “portare a compimento” non vuol dire allungare la lista delle regole, o renderle più severe o aumentare le sanzioni. Gesù ci dice che chi “porta a compimento” la legge è Lui, e lo fa nella sua persona, realizzando in pienezza l’alleanza fra Dio e il suo popolo. La legge è espressione e strumento di tale alleanza, perciò nulla di essa è cancellato, anzi tutto è compiuto; però in modo “superiore”, “eccessivo” rispetto agli Scribi e ai Farisei (cfr vs 20). Perché è compiuto nella sua persona, e nella pienezza dell’amore e dell’obbedienza che essa è e vive, nella fedeltà piena a Dio e all’uomo.
    Noi dunque dobbiamo fare e insegnare la legge che è compiuta in Gesù e da Gesù. Essa comprende tutti i precetti ma accogliendoli, vivendoli, superandoli nell’amore – amore che si manifesta eminentemente nella sua misericordia, nel perdono che accoglie chi è piccolo e fragile, e incapace di adempiere la legge – come io sono, e come mi scopro più lucidamente ogni volta che ascolto le beatitudini.
    Le beatitudini dunque ci giudicano, ma non per condannarci. Il fascino/timore che mi prende davanti ad esse deve essere accolto perché è vero e mi fa bene, è giusto. Poi va portato a compimento, liberato dalla sua motivazione “farisaica” e allora si trasformerà in fascino/ contemplazione di Cristo, fascino/riconoscenza per il suo amore e in fascino/desiderio di essere in Lui e in Lui, liberi dalla legge che è giogo pesante, capaci di partecipare al suo pieno compimento.

    Il ritratto di Gesù

    La chiave di lettura delle beatitudini che personalmente sento più bella ed efficace è quella cristologica. Le beatitudini sono una descrizione, una fotografia di Gesù.
    I testi che abbiamo davanti sono sintesi redazionali, tuttavia sono messi in quella forma non a caso, perché di fatto Gesù parlava ai suoi dentro la vita che condivideva con loro, intrecciava fatti e parole, momenti di folla e momenti fra amici. Le beatitudini fiorivano nella vita.
    Ho dunque provato ad immaginare Gesù che percorre i villaggi della Galilea svolgendo la sua missione, la fama che si diffonde, la gente che aumenta di numero, i primi contrasti e opposizioni, la fatica, gli impegni, la gioia... Poi Gesù sale sul monte e i discepoli – quelli che vogliono ascoltarlo, che si sono messi con lui – gli si avvicinano. Gesù allora inizia a riflettere su ciò che sta succedendo. Fa emergere gli interrogativi che ci sono nel cuore dei discepoli: che cosa sta accadendo? Che si farà dopo aver guarito e liberato? Quando passeremo a realizzare un regno che si veda e si faccia vedere…? Poi indica le folle ai piedi della collina, quella gente varia e raccogliticcia che è venuta per curiosità o per disperazione o per una intensa sete di Dio o perché preoccupata di questo insolito predicatore; e dice: “Beati…”.
    Ci si può chiedere se questi “Beati” si trovano fra i discepoli o fra tutti. Gesù, sia in Matteo sia in Luca, si indirizza ai discepoli, ma entrambi i testi fanno notare che Gesù e i discepoli sono stati a lungo fra la folla, e poi il discorso è diventato più ristretto. Per esclusione? No. Credo che ci sia come un andare e venire dell’attenzione: dalla folla ai discepoli e dai discepoli a comprendere meglio la folla e il loro rapporto con essa. Gesù si rivolge ai suoi, ma tenendo sullo sfondo tutti gli altri, quelli a cui si sente mandato e a cui vuole mandare i suoi.

    Riferendosi alla realtà umana che stanno condividendo nella loro esperienza in Galilea, quasi indicandola con il dito, Gesù identifica per i suoi discepoli coloro che in qualche modo già fanno parte del Regno, e allo stesso tempo chiarisce le piste che la sua missione sta percorrendo. Essa non seguirà le suggestioni che il tentatore ha fatto balenare nel deserto: potere, ricchezza, fama (cfr Mt 4, 1-11). Al contrario, si farà sempre più partecipe di ciò che molti in quella folla vivono, ma senza sapere che vivendolo incontrano Dio, attuano il suo Regno.
    Gesù vuole che i suoi si appassionino a quelle condizioni, situazioni che lui chiama beate, perché diventino il loro modo di pensare, e dunque il loro programma di vita e di servizio, come lo sono per lui e come ha spiegato – appunto – alla sinagoga di Nazaret e spiegherà agli inviati di Giovanni Battista.
    “Beato chi non si scandalizzerà di me” (Lc 7, 23) dice Gesù dopo quella spiegazione. Beato cioè chi non si scandalizza delle beatitudini, che sono scandalose perché contraddicono il nostro buon senso, le nostre attese più comuni e quotidiane, la nostra valutazione delle cose e delle situazioni. Perché è vero che Gesù guarisce e libera, ma è anche vero che non rovescia e schiaccia i potenti, che non organizza coloro che ha liberato ma rimanda a loro la responsabilità di camminare in modo nuovo. E’ vero che la mitezza piace e conquista, ma è anche vero che viene il momento in cui non basta più, se si vuole essere concreti e non gli eterni perdenti. Noi, pur intuendo che Gesù ha ragione, non riusciamo a seguirlo su quella strada – ci pare troppo profonda, o teorica e illusoria, perciò ci lascia perplessi e ci scandalizza.
    Quanto avranno capito i suoi discepoli di questo discorso? Non lo so, probabilmente poco. Però ne avranno ritrovato gradualmente la realizzazione, la verità, nella vita quotidiana di Gesù e nella sua persona. Saranno tornate alla loro memoria sia sperimentando la tenerezza di Gesù con la vedova di Nain (Lc 7, 11ss), sia prendendosi il suo rimprovero quando litigano fra loro per sapere chi sarà il più grande nel regno (cfr Mc 9, 33-37) e in tante altre occasioni fino alla esperienza luminosa della fede nel risorto. Allora – quasi loro malgrado - riescono a credere che il Padre porta a compimento queste promesse così sconcertanti proprio nell’Uomo che ha vissuto le beatitudini fino alla croce e ora è elevato al di sopra di tutti nella pienezza di vita.
    Una buona lettura delle beatitudini consiste dunque nel riportarle a Cristo, a ciò che ha fatto e detto, per vederle vissute in Lui. Ci si può mettere con calma dando uno sguardo panoramico alla vita di Gesù. Ascoltandole una per una, possiamo ritrovarle tutte nella sua persona e/o nelle sue esperienze terrene; si illuminano a vicenda, facendoci cogliere i criteri che Gesù stesso seguiva mentre le viveva.
    Ciò permetterà di coglierne un po’ meglio il significato e ci metterà al riparo dalla tentazione di smorzarle, di riportarle alle nostre dimensioni. Non ha senso leggerle per poi cercare di spiegarle in modo tale da poter stare tranquilli.
    Lasciamo che abbiano tutta la loro forza, che rimangano scandalose. Poiché le ritroviamo pienamente vere in Gesù, rivolgiamoci a lui e diciamo che le accogliamo come parte della nostra sequela. Noi vogliamo vivere in lui, e per lui, dunque diciamo sì a questo annuncio che ci dice chi è Gesù.

    Lo sguardo di Dio sul mondo

    Ho parlato di campo da gioco, regole del gioco, e ora di annuncio.
    Un altro modo di accostare le beatitudini consiste nell’ascoltarle come un annuncio che descrive, e come una rivelazione nel senso proprio del termine. Descrive Gesù, dicevo prima, e rivela lo sguardo di Dio sulla realtà. Le beatitudini aprono uno squarcio nel mistero e noi scorgiamo i criteri del suo giudizio e dei suoi interventi, ne intuiamo le simpatie, sentiamo sul nostro volto il soffio del suo Spirito.
    A me piace immaginare di mettermi in alto, molto in alto, per guardare il mondo intero disteso davanti a me, brulicante di uomini, città, solitudini, vite che nascono e che muoiono, persone che pregano e persone che s’affannano ad arricchire, persone che stentano a sopravvivere e persone che si disperano alla ricerca di un senso, persone che si gonfiano d’orgoglio e persone umiliate, ammalati, gente che lotta per il bene, che si sacrifica... Rivedo le moschee, i templi, le nostre chiese, le case private, gli ospedali, le caserme, le prigioni… Questa è la realtà, e il mio credere o non credere non la muta. Un aspetto patetico della nostra condizione è che a volte l’uomo crede di poter mutare rifiutando Dio. La rabbia e il dolore di non capire si tramuta in un atto di rifiuto, un’estrema richiesta di spiegazione: “poiché non mi dici perché tutto questo dolore, io ti nego, non ci sei!”. A chi mi dice così rispondo che se negare Dio potesse diminuire il dolore, rendere un po’ migliore il mondo, io predicherei l’ateismo…
    Mi colloco davanti alla realtà del mondo e lì, da quella posizione, prescindendo un momento da me stesso e dai miei problemi, ascolto.
    Il salmo 50 (49) inizia immaginando Dio che chiama a raccolta il suo popolo e le genti. “Parla il Signore, Dio degli dei, convoca la terra da oriente ad occidente…”. Deve esprimere un giudizio, dire che cosa gli è davvero gradito e che cosa no da parte di quelli che vogliono essere fedeli, minacciare i malvagi.
    Gesù che sale sul monte esprime questo suo giudizio sul mondo intero e noi dobbiamo ascoltare le parole del Signore proprio anche in questo modo, come giudizio sul mondo.
    Sentendo scandire il “beati… beati… beati…guai… guai… guai…” mi vengono in mente tante situazioni, condizioni, persone, popoli, gruppi e cerco non di capire, ma almeno di intuire questo sguardo di Dio che valuta e giudica così diversamente da me. Cerco di lasciare che la sua verità m’investa, senza troppo preoccuparmi di tradurla subito in un buon proposito o, come dicevo prima, in una spiegazione che la renda più vicina ai miei parametri.
    Non ho la pretesa che questo mi renda capace di districare con chiarezza quel groviglio che è la realtà umana, però sento che nella rigidità e nello schematismo delle mie valutazioni entra un soffio nuovo che toglie polvere, o un’acqua o un olio che ammorbidiscono. Sento che devo più umilmente invocare lo Spirito perché porti in me “il pensiero di Cristo” (I Cor 2, 16) e faccia maturare il suo frutto, così che le beatitudini, giudicandomi, mi diano anche la forza di lasciarmi plasmare diversamente, la gioia di sentire che sono salvato proprio nel momento stesso in cui – come il pubblicano al tempio – mi sento di dire soltanto: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (cfr Lc 18, 9-14).
    Questo sguardo che discerne e giudica non è evidentemente distaccato e immobile. E’ lo sguardo di un Dio che ama e che interagisce con l’uomo, e quindi esprimendosi come parola che rivela è anche parola efficace. Dicendo che cosa è buono e che cosa non lo è ai suoi occhi, Dio promette la beatitudine a chi è gradito ai suoi occhi, e la darà.
    Le beatitudini sono vere non perché ragionevoli o perché noi le mettiamo in pratica, ma perché Dio rende beati quelli che corrispondono ai loro criteri.
    Le beatitudini non vanno spiegate, ma accolte, credute, “accolte nel cuore e ascoltate con le orecchie” secondo la bella espressione di Ezechiele (3, 10). Bisogna scavare dentro la realtà e dentro di noi con “un cuore pensante” –come dice Etty Hillesum – per trovarne la risonanza, la consonanza, l’armonia con ciò che già siamo per grazia, con le nostre attese più profonde. Allora gradualmente emerge che esse non sono così irrazionali o così lontane dall’uomo come appaiono ad un primo ascolto. C’è in noi come una nostalgia della verità che esse esprimono, facendo emergere “l’uomo spirituale” e rendendo bello anche ai nostri occhi ciò che è bello agli occhi di Dio.

    Il prete, ascoltatore delle beatitudini

    Ascoltare le beatitudini guardando Cristo, ascoltarle guardando il mondo, crederle…
    Non ho ancora accennato al prete in rapporto alle beatitudini; però ho parlato a voi da prete. Aggiungo che il primo spunto che vorrei offrire sul rapporto fra prete e beatitudini è proprio quanto ho appena detto: il prete è uomo delle beatitudini in quanto si mette in ascolto di esse.
    Come? Un ascolto in preghiera e meditazione, che s’intrecciano con la sua vita.
    Il prete è “uomo per gli altri” anche in questo ascolto. Anche quando medita da solo, ascolta insieme, tenendo nella mente e nel cuore la vita della propria gente, e quella di tutta l’umanità.
    Ciò che lo preoccupa anzitutto non è come spiegare, far capire e far vivere le beatitudine, ma scoprirle lui stesso.
    Il prete è un “cercatore” delle beatitudini. Il Regno di Dio è qui, in mezzo a noi – dice Gesù (cfr Mt 4, 17). Pensate alle vostre parrocchie e chiedetevi dove sono i beati, a chi pensa Gesù quando parla di loro.
    La ricerca deve tener presenti due categorie di “beati” che non si oppongono evidentemente, ma si rifanno alle due teologie di Matteo e Luca cui ho accennato.
    Ci sono i beati che sono tali per le condizioni oggettive in cui si trovano, come Lazzaro. Era povero e soffriva, non ci viene detto altro di lui se non che, dopo la morte, gli viene data la parte di beni che non aveva avuto prima. Sappiamo che sono tanti questi beati! Magari antipatici, magari mangiapreti, o mascalzoni. Anche loro vanno chiamati a conversione, senza dubbio; ma altrettanto certamente dovrà per loro in qualche modo realizzarsi quella giustizia che qui in terra assolutamente non si realizza.
    Io non so come siano il paradiso e l’inferno, ma credo fermamente che Dio non crea gli uomini per l’infelicità, e chi ha ragioni di infelicità – chi è povero, ha fame, piange, è odiato, dice Luca - deve ascoltare come vere e consolanti le parole di Abramo al ricco che sta nell’inferno: “Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita, e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti” (Lc 16, 25).
    E ci sono i beati che sono tali perché si mettono nelle condizioni che Gesù proclama beate: i costruttori di pace, i misericordiosi, quelli che hanno fame e sete di giustizia…
    Anche questi ci sono, anche se non sempre sono “dei nostri”.
    Se medito le beatitudini ignorandoli, ne stravolgo il significato, le rendo un’astrazione – mentre Gesù le ha pronunciate in circostanze e modi tali che i discepoli capivano benissimo che stava parlando di persone e situazioni e atteggiamenti concreti, esistenti. Se non vado a cercare dove sono i beati, pretendo di capire la Parola del Signore senza vedere a chi si riferisce e quale opera il suo Spirito ha già compiuto.
    La Redemptoris Missio ha a questo proposito un’espressione curiosa. Al n. 60 il Papa cita un suo discorso del 1980, non per caso parole pronunciate visitando un quartiere di poverissimi, la favela di Vididal, a Rio de Janeiro, e dice: “(La Chiesa) vuole estrarre tutta la verità contenuta nelle Beatitudini e soprattutto nella prima: “Beati i poveri in spirito” …Essa vuole insegnare questa verità e vuole metterla in pratica come Gesù, che venne a fare e ad insegnare”.
    “Estrarre la verità contenuta nelle Beatitudini”, che cosa vuol dire?
    Vuol dire certo approfondirle continuamente nello studio e nella meditazione, ma ancor più – come dicevo – cercarle nella vita, e imparare a valutarla come la valuta il Signore.

    Il prete cercatore delle beatitudini

    Cercare i Beati – quelli che sono poveri, che sono afflitti; e quelli che operano per la pace, che credono, che sono miti e misericordiosi – è il primo e più fondamentale modo di annunciare. Se ci portiamo vicini, se prestiamo attenzione a queste persone che il mondo considera solo sfortunate, o ingenue, noi con la nostra attenzione diciamo che siamo guidati da un altro criterio rispetto a quello mondano. E’ ciò che ha fatto Gesù, prendendosi il rimprovero dei benpensanti del suo tempo, perché stava con i peccatori, perdeva tempo con i bambini, si fermava ad ascoltare un mendicante cieco…
    Cercando i beati e facendoci vicini a loro, noi diamo anche un primo segno della verità delle beatitudini. Permettetemi due esempi semplicissimi. Mi diceva una persona adulta, che zoppica perché da piccola colpita dalla poliomielite, che a scuola si sentiva evidentemente a disagio per non poter correre come gli altri bambini. Ma quando veniva la neve, il papà – perché non scivolasse – la portava a scuola prendendola in braccio. Allora lei non solo non invidiava i compagni, ma si sentiva privilegiata, era contenta del suo piedino debole che le dava il privilegio di essere portata a scuola in braccio dal papà.
    Poco più di un anno fa, in occasione del Giubileo, due miei confratelli che operano in Hong Kong hanno organizzato un pellegrinaggio di handicappati mentali, da Hong Kong e dalla Cina. Erano una trentina fra assistiti e assistenti, e potete immaginare che non fosse facile girare per l’Italia con un gruppo del genere, dove anche fra gli assistenti pochi sapevano l’italiano. Suggerii ai confratelli di prendere un pullman, ma dissero di no: giravano con treni, autobus e (a Venezia) battelli. Alla fine del loro viaggio chiesi com’era andata, e la risposta fu: “Abbiamo seminato gioia per l’Italia”. Il primo impatto della gente con un gruppo così insolito era di preoccupazione, paura, curiosità prudente. Ma dopo un poco di tempo l’allegria del gruppo diventava contagiosa. L’accoglienza semplice e convinta della propria condizione, il servizio reciproco, la festa dello stare insieme facevano vedere che la condizione da tutti considerata di infelicità era invece diventata condizione di gioia.
    Il prete, prima di essere un organizzatore della carità, è l’uomo che sa riconoscere i beati, e li accosta anche quando essi stessi non si riconoscono tali e sentono solo il peso dell’ingiustizia della vita, delle lacrime. Anche lui, come Gesù, non può risolvere tutti i problemi e non ha la pretesa di farlo; a chi però lo accosta per capire come mai, potrà – come ha fatto Gesù – spiegare che il suo agire nasce dalla fede che là dove ci sono gli afflitti, i misericordiosi, coloro che hanno il cuore puro c’è lo Spirito di Dio, c’è la sua opera e ci sono le sue promesse, e perciò costoro sono beati.
    Così, pian piano, si “scava” dentro le beatitudini, si “estrae” la loro verità ed esse trasformano il nostro cuore, e dal cuore parte la trasformazione progressiva anche del nostro agire, delle nostre scelte.
    Le beatitudini diventano anche criterio di discernimento. Come rapportarci a chi ha altre idee, fedi, stili di vita? Ciò che è riconducibile alle beatitudini o al frutto dello Spirito è buono e va accolto, ciò che non è riconducibile non lo è, anche se dà migliori risultati di efficacia umana e ci gratifica di più. I criteri valgono tanto per i non cristiani quanto per i cristiani, i quali possono poi riconoscere l’opera del Signore e, nello Spirito, dire: “Gesù è il Signore” (cfr I Cor 12, 3).
    E’ un esercizio di fede, che ci libera dai nostri schematismi e ci pone più profondamente dentro l’opera di Dio, ce ne fa scoprire risvolti e aspetti inattesi, e ci allarga il cuore, ci rende più fiduciosi.

    Il prete trasformato nelle beatitudini

    E’ però anche un’opera contro corrente rispetto alla mentalità comune – come ho già accennato. Per questo, se la svolgiamo, in un modo o nell’altro ci troviamo presto a sperimentare un altro modo con cui il prete è “uomo delle beatitudini”. Sperimentiamo cioè l’ultima delle beatitudini di Matteo: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia” (Mt 5, 11).
    Chi di noi ha provato ad essere insultato o calunniato, sa bene che quando ciò accade non ci si sente proprio beati. Eppure il prete deve mettere in conto questa possibilità, se vive sul serio il suo ministero. Non tutti siamo chiamati a vivere un’esperienza intensa di tutte le beatitudini, certo però non possiamo selezionare quelle che ci piacciono e quelle che non ci piacciono. Contemplare le beatitudini in Cristo e nel mondo, cercarle e cercare di estrarne la verità deve trasformarci in modo tale che se e quando venisse il momento dell’insulto, della calunnia e della persecuzione – magari proprio perché siamo vicini ai beati come lo era Gesù – noi possiamo cogliere la verità e la bellezza anche di questa beatitudine così dura e ostica.
    E’ quella che ci porta più vicino al Cristo condannato e insultato, e alla sua mitezza che perdona anche coloro che lo stanno crocifiggendo.
    Per concludere, l’icona del funerale di Madre Teresa, che tutti ricordiamo.
    Schematizzo in un modo esagerato, che non mi piace, ma solo per farne un’immagine simbolica.
    Ci sono i grandi del mondo da una parte, politici, uomini e donne che hanno potere, rappresentanti ufficiali di varie religioni; sono quelli che devono ascoltare con attenzione i “guai” di Luca, perché è a loro che sono rivolti, per metterli in guardia e salvarli.
    Assenti perché non ammessi al rito, ma presenti fuori e nel pensiero di tutti e sullo sfondo di tutto ciò che la vita di Madre Teresa è stata, ci sono coloro che soffrono la fame, che piangono, che sono disprezzati, che muoiono soli lungo le strade, siedono come Lazzaro sulla soglia della ricchezza senza poterne aver parte, che conoscono solo la malattia, il peso della vita, la realtà di innumerevoli sofferenze, povertà, oppressioni di cui Madre Teresa si era fatta interprete.
    In mezzo, fra i potenti e questo invisibile eppure vicinissimo mare di sofferenza, presenti per una volta di fronte ai potenti, ma pronte a tornare subito in mezzo a quelli che sono fuori, i discepoli – cioè le suore. Sono loro il tramite, loro che rappresentano i “beati” del vangelo di Matteo, che hanno fame e sete di giustizia, misericordia, mitezza e cuore puro. Sono così perché si sono accorte di coloro che non contano, si sono fatte vicine, li hanno messi al primo posto. Grazie a loro, per un momento tutti possono intuire che anche quelli rimasti fuori sono beati.
    In mezzo, sotto gli occhi o nel pensiero di tutti una bara. E’ lì a segnare la fine di una vita donata ma soprattutto a segnare l’attesa di una risurrezione, l’attesa del momento in cui tutto sarà svelato, e le beatitudini (o i guai) non saranno più vissuti nella fede, nella sofferenza e spesso nel dubbio.
    Sarà il momento della consolazione per coloro che hanno conosciuto solo dolore e per coloro che dalle beatitudini si sono lasciati giudicare, che le hanno ascoltate con cuore compunto, consapevoli della loro distanza ma sinceramente desiderosi di accoglierle e lasciarsene trasformare, nella misura della grazia stabilita dal Cristo.
    In quel giorno noi non saremo certamente i primi ma, lo spero con tutto il mio cuore, saremo lieti di vedere davanti a noi coloro che oggi sono nel dolore e che non hanno pienezza di vita, coloro che con animo puro – magari sbagliando o con ingenuità – cercano le vie della pace e della giustizia. E questa nostra gioia sincera per loro, questo nostro rallegrarci perché finalmente quel poco di amore che siamo riusciti a credere ora si svela in tutta la sua profondità raggiungendo prima di tutto i non amati del mondo, sarà per noi la tessera che ci farà entrare. Qualcuno ci tenderà la mano e ci dirà: vieni, anche tu sei insieme a noi perché hai cercato, perché hai avuto misericordia, perché hai pianto per il nostro pianto e per le tue incapacità.
    E’ stato, quel funerale, un’immagine che ha toccato il cuore del mondo. Così come prima o poi chiunque crede le beatitudini e le accoglie, tocca i cuori di coloro che il Signore ha chiamato.

    Sacrofano, 31 gennaio 2002


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