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    Cultura e vocazioni

    Juan E. Vecchi

    Il messaggio del Papa per la giornata delle vocazioni ha preso quest'anno (1993) una piega inconsueta: promuovere una cultura della vocazione. Segue il filone dell'evangelizzazione della cultura (cf EN 20), dell'inculturazione del Vangelo (cf RM 52-54), e quello, presente anche nel pensiero secolare, della cultura dei genitivi: della pace, della solidarietà, della legalità.
    Confrontato con i dati numerici sulle vocazioni sacerdotali e religiose nel mondo, suggerisce non pochi interrogativi e approfondimenti. Le statistiche infatti, prese globalmente, inducono a pensare che si stia superando la tendenza negativa; ma esaminate per aree geografiche e per categorie, rivelano che la tenuta la si deve all'apporto del Sud (Africa, Asia, America Latina) e di alcuni paesi dell'Est europeo (Slovacchia, Repubblica ceca, Polonia). Nell'Europa occidentale e negli USA invece, nel migliore dei casi, la tendenza non si aggrava, ma non dà segni di inversione. Nelle stesse aree la vocazione femminile accusa di più il colpo della crisi che non quella maschile; le vocazioni religiose di vita attiva più che non quelle di vita contemplativa, la vocazione dei fratelli laici più di quella sacerdotale.

    UN CONFRONTO PROBLEMATICO E NECESSARIO

    I contesti caratterizzati dalla libertà personale, dalla complessità sociale, dalla democrazia pluralista, dal progresso economico, dalle molteplici possibilità di sviluppo appaiono come terreni poco fertili per le vocazioni cristiane. Al contrario la terra dei poveri, dei condizionamenti pesanti, delle ridotte possibilità di realizzazione personale, delle società in balia di poteri incontrollabili equilibra l'annuale raccolto vocazionale.
    Viene chiamata in causa la cultura. Essa mancherebbe dei riferimenti che stanno alla base stessa della scelta vocazionale: la gratuità, il senso della vita, la responsabilità sociale, la donazione, la percezione del trascendente.
    Tale chiave di lettura è di facile impiego in fase propositiva. E in questo senso si muove il messaggio di Giovanni Paolo II. Si tratta di favorire nelle persone singole, nelle comunità cristiane e negli ambienti di evangelizzazione una mentalità con i valori suddetti. Però serve poco per una diagnosi convincente dell'attuale geografia della fecondità vocazionale.
    Infatti perché pensare che in contesti di segni negativi riguardo alla libertà, all'organizzazione sociale, alle possibilità della persona è la «cultura», e non altri fattori, che costituisce mediazioni immediate e concomitanti di cui si serve la chiamata di Dio, quali lo status, il ruolo pubblico, l'evidente utilità sociale della vocazione, la qualità della vita che suppone, il carattere promozionale della vocazione sacerdotale o religiosa?
    E se fossero proprio queste le mediazioni, perché scandalizzarsi come se nei contesti avanzati non ce ne fosse bisogno di altre analoghe? Ma soprattutto che pensare di una proposta di esistenza religiosa che non riuscisse a reggere una cultura avanzata con la inevitabile miscela di limiti e pregi? Quali conclusioni trarre dal fatto che si accusi la crisi più sul fronte della donna, dei fratelli laici, dei religiosi «a servizio»? è questione solo di riprodurre o si dovrà anche modificare una certa cultura che sottostà all'attuale visione della vocazione? è solo la cultura del mondo che fa difetto o la cultura «ecclesiastica» ha pure qualche cosa da rivedere? Non viene a proposito parlare di «inculturazione» della proposta vocazionale nel mondo di oggi?
    Questi interrogativi, che non sono di critica ma di stimolo alla riflessione, ci spingono a porci delle domande sulle immagini che le attuali realizzazioni vocazionali proiettano e di conseguenza sulle rappresentazioni e attese che suscitano nell'immaginario della gente, particolarmente dei giovani, a parte il valore obiettivo e la buona intenzione.
    Si parla infatti in forma molto generica, sebbene reale, della vocazione come di un dialogo tra la persona e Dio che chiama, attraverso la coscienza e le mediazioni umane ed ecclesiali, alla responsabilità, alla donazione e alla pienezza dell'essere. Quando si scende però verso il vissuto e il singolare, la proposta contenuta in questo dialogo diventa estremamente concreta. Il progetto oggettivo delle diverse vocazioni (essere persona, cristiano/a, religioso/a, consacrato/a nel mondo, ministro ordinato) comporta modelli culturali correnti e ideali di uomo/donna, di credente, di persona legata al sacro. Non è possibile ridurre la vocazione a un proposito di generosità o di scelta religiosa. Basta pensare, per esempio, alla condizione sociale dell'uomo e della donna nei diversi contesti e, di conseguenza, al significato e alla rilevanza che in essi acquistano le vocazioni maschili e femminili.

    Quale cultura?

    Questa concretezza ci porta verso la riflessione sulla cultura. Infatti se la vocazione non fosse capace di farsi presente in essa con un linguaggio comprensibile e provocante risulterebbe irrilevante.
    Ma come riferirsi con sufficiente rigore alle tendenze di fondo e non solo di superficie di una cultura?
    La cultura infatti è uno sforzo di interpretare la realtà, il risultato mai totalmente completo e maturo di un tentativo dell'uomo di autocomprendersi, nei suoi rapporti con gli altri, con la natura, con la storia, con Dio (cf GS 53; Puebla 386-389). Perciò costituisce un «sistema di significati», composto da elementi svariati, come percezioni del mondo, immagine dell'uomo, codice di comportamento, giudizi di valore, rapporti sociali, processi di educazione, riti quotidiani e straordinari. Insieme alle realizzazioni già compiute, ha un aspetto ideale di tendenze, ricerche, speranze dal quale risulta pure il suo valore. Questo «universo» in movimento formato da elementi interdipendenti non va interpretato con superficialità, soprattutto se si tratta di risignificarlo dal di dentro.
    Nell'ultimo tempo è diventato comune parlare di «cultura» con riferimento ad una realtà o ad una costellazione di valori: cultura della pace, dell'ambiente, della solidarietà e, adesso, della vocazione. In rapporto al significato precedente che abbraccia la totalità della vita, questa cultura «al singolare» indica lo sforzo di sviluppare un valore per inserirlo in forma più stabile e influente nella mentalità e nella vita della società.
    Confrontare il fatto soggettivo della vocazione e il contenuto oggettivo di ogni singola vocazione (uomo, donna, laicità, consacrazione, sacerdozio, secolarità consacrata) con la cultura comporta allora approfondire il significato originale della vocazione e allo stesso tempo comprendere le realizzazioni e aspirazioni della cultura, dal modo con cui percepisce la trascendenza fino ai parametri di realizzazione della persona, ai modelli di identificazione e alle sfide alla responsabilità. E ciò non in un momento transitorio che può costituire una moda o una febbre, ma nelle sue manifestazioni più durature.
    Il Concilio Vaticano II riconosce che le culture attuali sono in rapida evoluzione (cf GS 54). Voci autorevoli ci avvertono dunque di prestare attenzione preferenziale al suo aspetto dinamico. «Infatti le condizioni di vita stanno in tutto il mondo radicalmente cambiando e la novità non si riferisce solamente all'ambiente esterno alla tecnica, alla struttura sociologica; ma riguarda anche la stessa tonalità della vita, il ritmo biologico, l'indole prevalente dell'emotività personale» (Zoltan Alzeghi, p. 18-19). Ciò capita in tutti i gruppi umani che devono inserire in continuità elementi nuovi nella compagine della propria cultura. «Per distinguere le culture, dunque, la dimensione del tempo è almeno così importante come quella dello spazio» (id., p. 18).

    APPROFONDIMENTI

    Per sbrogliare un tantino il discorso giova richiamare alcuni fondamentali sulla vocazione, l'inculturazione, la significatività.

    La vocazione cristiana: novità e originalità

    La vocazione e le singole vocazioni sono state oggetto di un'ampia riflesione biblica, teologica, pastorale e psicopedagogica. Sono emerse così l'unità del processo vocazionale e le sue diverse dimensioni: quella teologale (iniziativa, invito, appello, chiamata, dono, rivelazione, alleanza speciale di Dio e, da parte del chiamato, preferenza, scelta, centralità di Dio nell'esistenza, rapporto con lui); quella soggettiva (percezione, discernimento, progetto di vita, realizzazione della persona); quella comunitaria (collocazione e funzione ecclesiale, complementarità e reciprocità tra le vocazioni, servizio); quella socioculturale (significato per il mondo).
    Ciascuna di queste dimensioni poi ha avuto innumerevoli approfondimenti dottrinali e pratici. A noi interessa sottolineare due elementi: l'originalità dell'esperienza vocazionale cristiana e il suo connaturale inserimento nella cultura e vicenda umana.
    La vocazione è un'iniziativa di Dio, libera, gratuita che raggiunge la persona non isolata ma nel contesto di una comunità e di una storia. Il dialogo che si svolge nel sacrario della coscienza si riversa sulle scelte quotidiane del soggetto. Questi va costruendo la sua vita attraverso il discernimento. Da preferenza ad un'area di valori, fissa l'attenzione in modelli significativi, valuta fatti e modalità correnti, organizza la sua mentalità e indirizza le sue risorse verso mete personali e sociali.
    Se è dunque un dialogo con Dio nella profondità del proprio essere, è anche un confronto con gli eventi della storia che produce sempre un coinvolgimento profondo, un distacco profetico, una assunzione piena di passione della storia umana. Così appare in tutti i racconti vocazionali della Bibbia. Mosè attraverso l'esperienza di Dio viene coinvolto nella impresa della liberazione, deve pronunciarsi dal punto di vista umano, etico e religioso sullo stato e atteggiamenti del suo popolo come sull'operato e intenzioni degli egiziani di fronte al progetto di Dio. I profeti illuminano con parole e segni la situazione che vivono i contemporanei. Il senso letterale dei loro vaticini non si capisce se non in riferimento a fatti storici. Dio non chiama per cercarsi adoratori ma per salvare l'umanità.
    Anche se chi è chiamato non milita in correnti sociali, culturali o politiche, la vocazione comporta sempre un giudizio sul proprio tempo e la scelta di un tipo di vita a partire dall'esperienza di Dio. La storia umana non è soltanto il luogo in cui si svolge il dialogo vocazionale, ma anche il contenuto. Nella storia però le vocazioni non sono chiamate solo a giudicare, riprodurre o trasmettere valori già decantati, ma immettono un fattore nuovo e originale: l'evento cristiano.
    La vocazione di ogni uomo è oggettivamente inserita nel mistero di Cristo. In Lui siamo stati creati; in Lui ci incorpora il battesimo come tralci alla vite; a Lui ci conformiamo per diventare uomini secondo il progetto di Dio e vivere da Figli. La vocazione non si può ridurre a intenzioni di bene o a propositi di servizio. Non si tratta soltanto di assumere un ruolo nella Chiesa e nel mondo, ma di raggiungere la misura di Cristo, Uomo Figlio di Dio. Ciò anche quando il soggetto, per mancanza della luce della fede, non ne fosse ancora totalmente consapevole.
    Gli ultimi documenti della Chiesa sulla vocazione hanno sottolineato la sua fonte trinitaria, il radicamento cristologico e la collocazione ecclesiale: «La Chiesa porta in sé il mistero del Figlio che dal Padre è chiamato ed inviato ad annunciare a tutti il vangelo del Regno. È Cristo il chiamato per eccellenza, essendo il suo nome Verbo di Dio. In Gesù Cristo noi tutti siamo chiamati; ma è ancora da Gesù Cristo che noi siamo stati chiamati. Lui è il Maestro che chiama, perciò non c'è vocazione che non abbia in Cristo la sua radice e non avvenga per mezzo di Cristo» (VCI, n. 4).
    La vocazione dunque, in quanto appello di Dio, opera nel soggetto secondo la dinamica e le leggi della conversione a Cristo: inizia come un seme, si sviluppa attraverso un lento ma continuo lavorio di trasformazione interiore ed esterna investendo il sistema di pensiero, gli atteggiamenti e i comportamenti personali, i rapporti col proprio gruppo di appartenenza, famiglia, clan, tribù, nazione. L'energia che muove questa trasformazione è nel chiamato per la presenza dello Spirito, ma viene «dall'alto»: è grazia.
    Il radicamento in Cristo di ogni vocazione ci porta verso una riflessione che non è solo attinente, ma fondamentale nel discorso della sua inculturazione.
    Cristo non è una realtà simbolica, oggetto generico del sentimento religioso, somma delle aspirazioni sparse in tutte le religioni, sintesi di quanto di nobile e generoso si trova nelle culture e nell'umanità. È invece una persona concreta, storica, con una biografia singolare, diversa anche da tutti gli elementi acquisiti ed espressi dall'umanità messi assieme. Si è manifestato come un evento unico e irripetibile. «Hapax» (una sola volta, unico!), aveva scritto Bonhòffer sul suo pulpito di fronte ai tentativi di alcuni suoi contemporanei di assimilare il cristianesimo ad una fase progredita della cultura. Di Lui rendono testimonianza gli Apostoli. Il Gesù che hanno contemplato con i loro occhi e che le loro mani hanno toccato è il Cristo Signore, lo stesso dappertutto, ieri oggi e sempre che resta con noi fino alla fine del mondo.
    Il Regno che predica e la vita che propone non sono l'accumulo o la cifra dei beni che l'uomo può desiderare e sperimentare. Sono la comunicazione gratuita di Dio concretizzata in una alleanza e una promessa che ha avuto realizzazione storica nella sua persona.
    Egli non lascia dietro di sé solo una «dottrina» che noi siamo incaricati di tradurre in gesti aggiornati, ma misteri salvifici da «vivere» e «celebrare». Può assumere tutti i «semi» di verità e di bene sparsi nella storia umana ma non comunque. Criterio e modello per farlo sono l'Incarnazione, morte e risurrezione di Cristo, eventi determinanti per la salvezza dell'uomo.

    Inculturazione della vocazione

    Inculturare la vocazione vuol dire inserire questi suoi significati ed energie originali nella vita e nel pensiero di una comunità umana in tal modo che riescano ad esprimersi con gli elementi della cultura e abbiano anche una funzione ispiratrice, stimolatrice, trasformatrice e unificante di questa cultura.
    L'Incarnazione infatti non è fusione di due elementi di uguale dignità ed energia, ma assunzione della natura umana da parte di una persona divina. Il Verbo, che ha una sua personalità divina e completa nella Trinità, si fa uomo. C'è dunque un soggetto attivo e determinante che assume e una natura che viene assunta.
    Ciò comporta criteri per la prassi dell'inculturazione. In primo luogo il messaggio e la vita portata da Cristo hanno una consistenza e identità propria. Ad esse va rivolta una continua e principale attenzione. La vocazione degli apostoli non fu una assunzione esemplare del meglio del loro tempo, ma l'irruzione di un nuovo progetto che essi dovettero capire aiutati dallo Spirito Santo.
    Per comunicare vita, messaggio e progetto ci vuole però un'espressione culturale che li abbia già accolti. Per questo l'inculturazione della fede segue un processo storicamente osservabile: la fede la si riceve con la veste culturale di colui che l'annuncia. L'accoglienza del messaggio secondo le parole e proposte di chi già lo vive è un passo necessario per inserire il Vangelo in una cultura. La proposta vocazionale è comunicazione del vissuto di comunità e persone.
    Ma il carattere assoluto e transculturale del Verbo fa sì che possa assumere nuove espressioni culturali. L'assimilazione profonda della parola va producendo l'impregnazione evangelica delle convinzioni (cultura interna); la conversione progressiva cambia le abitudini personali per via del discernimento evangelico (aspetto esterno della cultura); la prassi cristiana trasforma poco a poco la vita del gruppo (cultura sociale) che comincia a diventare «lievito» nella società e nella cultura. L'inculturazione raggiunge così in primo luogo l'ambito religioso; dopo, quello civile (sociale, politico, economico...) finché la lievitazione evangelica di tutto l'umano dà un volto originale alla comunità cristiana, come l'umanità concreta di Gesù caratterizzò la presenza storica di Dio.
    Il processo non è lineare ma circolare. L'inculturazione progredisce sospinta da alcuni fattori, una comunità che sia allo stesso tempo soggetto della cultura e dell'esperienza di fede. In essa si va operando l'interpenetrazione di entrambe. Vi collaborano i fedeli che nel quotidiano, senza teorizzare, fondono vissuto e esigenze evangeliche; influiscono pure gli esperti che meditano la fede, scrutano e interpretano le forme culturali; intervengono i pastori che accompagnano e educano il popolo alla sequela di Cristo secondo il proprio contesto. Sono determinanti gli «spirituali» che più di altri intuiscono, posseggono la capacità di sintonia, scoprono i semi di Vangelo che ci sono in certi filoni culturali.
    Un altro fattore col quale fare i conti nell'inculturazione è dunque il tempo. Non si tratta del tempo «cronologico», il solo passare degli anni; ma del tempo riempito dalla presenza di Cristo, nel quale opera lo Spirito Santo. L'espressione efficace del mistero cristiano in una cultura è «pienezza» dei tempi. La rapidità del processo dipende dunque dall'intensità con cui la comunità cristiana vive il mistero di cui è portatrice e della sua capacità di rendersi «lievito» nella società. L'inculturazione ha luogo così non soltanto in un primo periodo, ma in tutto il tempo in cui per la fede Cristo dimora nella comunità.
    Finalmente l'inculturazione presenta alcuni processi tipici. Sono, sostanzialmente, la continuità, la contestazione, la creazione.
    La continuità porta ad assumere i «semina Verbi» che si riscontrano in un determinato contesto correggendoli, purificandoli, risignificandoli o aprendo per esse una nuova fase di sviluppo. Ci può servire l'esempio di San Paolo all'Aeropago di Atene. La religiosità degli ateniesi offriva uno spazio per l'annunzio e in questo senso l'Apostolo si appoggia su di essa. Ma è arrivato per gli ateniesi il tempo in cui quella religiosità non basta più nemmeno dal punto di vista umano in forza di un evento che segna una nuova fase: «Dopo esser passati sopra i tempi dell'ignoranza ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi poiché gli ha stabilito un giorno...» (At 17,30).
    Ma non tutto in una cultura è compatibile col Vangelo. Ci sono in esse realtà e concezioni inconciliabili con l'esperienza cristiana. E ci sono anche «sistemi», «insiemi», «costellazioni di elementi», il cui punto stesso di coerenza interna è non-evangelico. Il cristiano e la comunità dunque sono invitati, mediante un confronto con l'evento di Cristo che ha una sua consistenza e identità propria, anche ad abbandonare, a lasciare, a bruciare alcuni elementi, saldamente radicati in una cultura.
    Se il fatto dell'Incarnazione suggerisce la condiscendenza di Dio che si è rivestito della natura umana, la morte e la risurrezione di Cristo indicano il passaggio attraverso cui questa stessa natura può raggiungere la forma alla quale è destinata e per cui è stata assunta.
    Da ultimo la fede cristiana, poiché non è solo sentimento soggettivo ma confessione di fatti storici e mistero salvifico reale, è capace di produrre espressioni culturali proprie. L'Eucaristia porta una cultura, ha significati umani, parole, gesti, comportamenti, forme di socialità collegati indissolubilmente alla sua natura e al momento storico della sua istituzione. Tale cultura perciò attraversa l'universo cristiano nel senso dello spazio e del tempo. Leggiamo ancora con commozione un racconto di quello che Paolo dice di aver ricevuto dal Signore (1 Cor 17,30) riguardo alla celebrazione eucaristica e lo vediamo oggi ripetuto in tutte le comunità cristiane sparse sotto tutti i cieli. Così capita anche con la preghiera, che è collegata e inserita in quella di Gesù e con gli altri segni identificatori della comunità cristiana. È l'«unum», dell'esperienza cristiana e della Chiesa, l'universalmente valido che sgorga dalla consistenza storica e dall'unicità dell'evento di Cristo. Per esprimere quest'unum lo Spirito Santo dà alla comunità ecclesiale diversità di lingue, doni, carismi, culture. Il principio cristologico è criterio di unità, il riferimento pneumatologico dà ragione della pluralità.
    C'è una evidente interazione fra fede, cultura della fede e culture. Quanto più si medita il mistero cristiano e il significato dei gesti e delle parole con cui è stato espresso nel momento «nascente», tanto più si coglie la sua novità e dunque la sua esigenza interna di «convertire» la cultura. Quanto più si approfondiscono la struttura e gli elementi di una cultura particolare, tanto più si comprendono le vie attraverso cui un popolo cerca la pienezza di umanità e dunque quali sono le espressioni, le intuizioni, i modelli che sono atti ad esprimere il Vangelo.
    La dialettica è permanente. Non ci può essere pace nel senso di assenza di sfide tra entrambe, una specie di convivenza definitivamente tranquilla che elimina la contestazione.
    L'inculturazione rappresenta non solo il cammino di penetrazione del Vangelo in un gruppo umano, ma anche la conversione completa della comunità cristiana. Vuol dire che è stata evangelizzata non in maniera decorativa, a somiglianza di vernice superficiale, ma raggiungendo in profondità e fino alle radici, la sua cultura «partendo dalla persona e tornando sempre ai rapporti delle persone tra loro e con Dio» (EN 20).
    Perciò è sentita come urgente dappertutto. Nei paesi di antica tradizione cristiana si sta vivendo infatti una nuova temperie culturale in cui il cristianesimo sembra, se non straniero, certamente staccato dalla mentalità, dai criteri e dai modelli di vita correnti. Ma in alcuni contesti viene considerato un compito e un traguardo indilazionabile perché il cristianesimo non appaia una «religione» importata e dipendente dall'estero; né soprattutto perché il primo annuncio compiuto e accolto raggiunga la vita personale e collettiva, le ragioni del vivere, la scelta di valori da parte di persone e gruppi e la parola di Dio si radichi veramente nella comunità.
    Un ambito determinante dove si prova e dal quale si promuove l'inculturazione è proprio quello vocazionale: il matrimonio e la famiglia come l'esperienza umana più ricca e completa, la vita religiosa e sacerdotale come manifestazione radicale del Vangelo, la laicità come esigenza quotidiana di fondere fede, vita e cultura.
    In particolare sulla vita religiosa e il sacerdozio l'«Instrumentum laboris» per il Sinodo Africano rileva: «Alcuni di coloro che diventano sacerdoti o religiosi (in Africa) possono sentirsi alienati dalla propria cultura. Così alcune conferenze episcopali pensano che la formazione che si sta dando ai futuri preti e religiosi non li radica sufficientemente nella loro eredità culturale. Questo stato di cose può portare il loro vivere ad uno stato di insicurezza, a portare perpetuamente una maschera. Può una spiritualità imbevuta della saggezza africana offrire un rimedio a questa situazione? Che bisogna fare per inculturare la vita religiosa? Come si può condurre una vera vita sacerdotale e rimanere uomo del proprio popolo? Queste sono questioni da porsi» (n. 69).

    La significatività

    Le vocazioni sono eloquenti in una cultura, dunque capaci di attirare se la forma umana in cui si manifestano esprime, oltre le intenzioni dei soggetti, i sentimenti e i progetti di Dio per l'uomo in forme comprensibili per quella cultura. È il principio della sacramentalità interno all'incarnazione e a tutte le realtà ecclesiali.
    Dall'incarnazione sappiamo chi è Dio per l'uomo: l'amore che opera la liberazione, la promozione, la salvezza nel tempo e nell'eternità. Tale rivelazione ci giunge non principalmente in forma di teorie o dottrina ma attraverso la personalità e le azioni salvifiche di Cristo.
    I suoi modelli di comunicazione seguono la logica della parola e del gesto umano: hanno sapore e spessore storico. Gesù infatti guarisce dalle malattie, libera dai demoni, difende contro le dipendenze schiavizzanti anche religiose, illumina la mente, proclama che l'uomo è superiore al sabato, accoglie le donne nel suo cerchio, perdona i peccati.
    Il collegamento tra quello che si percepisce fisicamente e il messaggio o significato che si vuole comunicare provoca alla fede e la richiede: ma anche se questa non si accendesse, il segno ha una dignità che la ragione e la buona volontà possono apprezzare.
    L'umano autentico dunque, creato ad immagine di Dio, ha la capacità di esprimere il suo mistero. E non come puro strumento tecnico, di puro passaggio tra il comunicatore e il destinatario quasi fosse una radio o una Tv, ma perché gode della sua presenza. In Gesù infatti Dio ha assunto il volto e la natura umana. È diventato uomo sussistendo totalmente come Dio. In Lui, nei suoi gesti e nelle sue parole, dunque, natura e grazia, storia e trascendenza, umano e divino convergono senza confusione e senza separazione.
    La mediazione sacramentale dell'umanità di Cristo risplende in forma compiuta nella Chiesa e si diffonde nei suoi elementi costitutivi: la comunità, i ministeri, i carismi. Anch'essa agisce secondo il modello dell'incarnazione. «La società visibile e la comunità spirituale, la chiesa terrestre e la chiesa dotata di beni celesti non devono considerarsi come due cose diverse, perché formano una realtà complessa costituita da un elemento umano e un altro divino. Per questa profonda analogia si assomiglia al mistero del Verbo incarnato (cf LG 8).
    In una cultura particolare dunque la significatività segue le tracce dell'umano, della dignità della persona. La presenza, le parole, i gesti umanamente significativi che corrispondono ad attese profonde e desideri legittimi dei poveri mossi dallo Spirito Santo, diventano manifestazioni dell'azione di Dio, inviti e provocazioni alla fede. Diverse Conferenze Episcopali hanno disegnato il volto della cultura in cui operano e individuato gli interstizi attraverso cui, come da una fonte sotterranea, affiorano il senso e il desiderio di Dio, si manifesta l'anelito di una vita più piena e degna, appaiono delle sfide a cui la fede deve rispondere con urgenza. Sono indicazioni da approfondire per pensare il radicamento della vocazione in un contesto.
    La significatività suscita domande che riguardano le due sponde del nostro confronto: quello della vocazione nel suo significato originale, e quello della cultura nei suoi valori naturali e nella sua capacità di esprimere l'impegno vocazionale. Quali simboli, parole, costumi, norme e riti in una cultura parlano di Dio e di un Dio personale? Che cosa esprime il rapporto dell'uomo con Dio e quale rapporto? Che status, prestazioni, atteggiamenti, gesti, servizi parlano della disponibilità generosa verso i singoli e verso la comunità? Quali bisogni, aspirazioni, urgenze, speranze sottostanno nella cultura e attendono chi li raccolga e dia loro senso?

    LA CULTURA: TENDENZE, COSTANTI E SFIDE

    Cerchiamo ora di dare uno sguardo al «terreno» attuale dove la vocazione dovrebbe dar ragione della propria speranza (1Pt 3,15), per scorgere poi le condizioni della sua significatività.
    Il cambiamento di «epoca», che porta modifiche di scenari sociali, rielaborazioni di valori e ricomposizione di orizzonti, avviene in tutti i contesti culturali sebbene i fattori predominanti in ciascuno siano diversi.
    Una analisi completa ci porterebbe troppo lontani dal nostro proposito. È stata abbozzata in alcuni documenti ecclesiali e approfondita in numerosi saggi. Anche il fermarci a tratteggiare le varie culture ci esporrebbe alla sommarietà e leggerezza. Scegliamo allora quelle tendenze che attraversano tutti i contesti e più da vicino riguardano la vocazione.

    Complessità e pluralismo

    Le società e le culture attuali, dovunque ma in particolare dove si va imponendo la mentalità tecnologica, le libertà democratiche e la disponibilità di beni, sono caratterizzate dalla complessità. Sembra un aspetto esterno o di forma; invece causa o almeno provoca nuove dinamiche, nuova configurazione nei rapporti tra elementi e persone e, di conseguenza, influisce sugli atteggiamenti e sulla mentalità.
    Nelle società e culture semplici uno o pochi centri riescono, con la loro autorità giuridica o morale, a creare e a diffondere una visione del mondo e dell'uomo, forme di valutazione, norme di comportamento, modelli di identificazione, principi di legittimazione che vengono condivisi da tutti o dalla maggioranza. Ciò plasma la cultura del gruppo e diventa contenuto dell'educazione e della socializzazione. Questa può contare su fattori di sicura efficacia: la famiglia, l'istituzione educativa, la funzione religiosa, l'ambiente sociale. Chi non si adegua al suo codice appare estraneo e in non pochi casi «colpevole».
    I ruoli sociali sono definiti e stabili. Ciascuno può aspirare a svolgerli anche per tutta la vita dopo essersi preparato con responsabilità e sano idealismo. Le appartenenze che ciascuna persona esprime sono poche, leali e totali: la famiglia con i valori di fedeltà, solidarietà, stabilità; la religione con i valori di fede, di pratica permanente, di adesione dimostrata; e così il gruppo sociale (corporazioni, aggregazioni, classi..., nazione) con i valori della tradizione e della «patria».
    La società e la cultura complessa invece sono contraddistinte dalla compresenza di componenti diverse (etniche, religiose, culturali), dalla pluralità di concezioni totali di vita, dalle differenze di opinione su problemi particolari, dalla circolazione continua dei più svariati messaggi e proposte, dalla molteplicità di ambiti in cui si svolge la vita e si organizza il lavoro, dalla abbondanza di rapporti in molte direzioni, dalla varietà di progetti; e soprattutto dalla libertà dei singoli nel selezionare, rielaborare, assumere o respingere quanto gli viene offerto, secondo le proprie preferenze soggettive o le possibilità economiche e sociali.
    Non si percepisce l'influsso determinante di un centro (una autorità, un'istituzione) capace di far accettare a tutti o alla maggior parte un sistema di idee, comportamenti, ruoli e appartenenze. I centri o non ci sono o sono molti; la loro autorità viene relativizzata. La loro legittimazione oggettiva è debole. Qualsiasi egemonia dunque è provvisoria. Si basa sul consenso e regge nella misura e per il tempo che serve a un certo numero di individui.
    La società complessa è potenzialmente pluralista quanto gli individui che la compongono. Ammette tutte le differenze senza colpevolizzarle. Dove può, distribuisce beni e servizi, organizza la vita pubblica, detta norme per la convivenza civile. Le scelte etiche e il senso della vita li consegna al singolo. Questi le elabora in cerchi e appartenenze di sua scelta. Il caso più dimostrativo è quello degli Stati che non considerano legittimo mettere scuola obbligatoria di morale come alternativa all'insegnamento religioso. La società non ha una etica e un senso di vita da comunicare ai cittadini e ai gruppi.
    In queste condizioni i processi di socializzazione sono deboli. Gli adulti non hanno un patrimonio culturale sicuro e facilmente comprensibile da trasmettere, e quello che comunicano è sottoposto ad una rapida usura. Inoltre il tempo per consegnarlo è poco e le interferenze sono innumerevoli.
    La società e la cultura complesse sono la società e la cultura della tolleranza, dei diritti civili, dell'opinabilità di tutto, delle appartenenze temporanee e molteplici, delle biografie aperte, delle identità deboli, dei progetti modificabili.
    Si allarga lo spazio della libertà e autodeterminazione personali fino a sfociare nella cultura «libertaria» o nella soggettività «selvaggia». E cresce anche la solitudine in cui la persona deve maturare le sue scelte di vita.
    La conseguenza più vistosa per tutti, ma specialmente per le nuove generazioni, è il travaglio non sempre riuscito di costruirsi un'identità e orientarsi nella molteplicità di stimoli, problemi, visioni, proposte. La debolezza dei processi di socializzazione (comunicazione culturale da parte della famiglia, della scuola, della società, dell'istituzione religiosa) provoca fragilità psicolo-
    gica e difficoltà nel progettare la propria vita. E questo è comune a tutti i contesti sebbene per motivi diversi.
    La fragilità psicologica si manifesta nella tendenza ad arrendersi di fronte a conflitti e frustrazioni, nella fatica a prendere e mantenere decisioni a lungo termine specialmente se comportano sforzo che non rende nell'immediato.
    Il disorientamento nel progettare porta a rimandare le scelte di vita, a dargli un valore relativo riguardo alla propria realizzazione. Provoca il non riuscire a riconoscersi nei modelli di identificazione che la società offre. Più che mai il lavoro e la professione appaiono staccati da ideali vocazionali.

    La mentalità secolare e il risveglio del sacro

    Collegate a questa complessità appaiono due caratteristiche. La mentalità secolare si è affermata nella vita civile, che appare slegata da concezioni o preferenze confessionali e ulteriormente liberata da rigidità ideologiche: è penetrata pure nelle coscienze che si sentono autonome di fronte ad ogni istituzione o autorità nell'elaborare il senso di vita o il proprio codice etico.
    Allo stesso tempo è venuta meno la fiducia illimitata nella ragione, nel progresso tecnico e nell'organizzazione sociale che era tipica della mentalità moderna. Il Concilio Vaticano II rappresenta la presa di coscienza del difficile rapporto tra questa mentalità e la fede, tra i suoi rappresentanti e la Chiesa. Proponendo il dialogo con essa piuttosto che la contrapposizione, segna un cambio di rotta riguardo al passato. Il caso Galileo e la sua recente rivisitazione sono il segno delle due fasi, del contrasto e del dialogo.
    I fallimenti registrati negli anni Ottanta hanno fatto pensare al tramonto o almeno al superamento storico della modernità. La ragione non riesce ad elaborare una etica accettabile per i rapporti umani e per l'uso del potere tecnologico ed economico.
    Il progresso tecnico ha portato sull'orlo del disastro ecologico e la distruzione della natura. L'organizzazione sociale, dopo aver sofferto la polarità Est-Ovest, non riesce a creare il desiderato ordine mondiale, a tenere lontani i conflitti più irragionevoli, a distribuire i beni che è capace di produrre, a frenare lo sfaldarsi interno di non pochi ordini nazionali.
    I sintomi della postmodernità sono la fine delle contrapposizioni ideologiche, la caduta dei sistemi dottrinali con pretese di spiegazioni totali, il tramonto delle utopie sociali, il sorgere di nuove paure collettive.
    Simultaneamente affiorano però l'apertura alla ricerca di senso, la percezione di una dimensione umana inespressa in tutto lo sforzo precedente, il desiderio di qualità di vita, l'emergere della soggettività. Si allargano dunque la domanda e lo spazio delle esperienze vagamente spirituali o religiose con una molteplicità di espressioni: risveglio e attivismo di minoranze convinte all'interno delle grandi religioni, diffusione delle sette, nuovi culti, tendenze eclettiche, misticismo vago, occultismo, pratiche psico-spirituali, incursioni nel mistero. Ne prende atto il Sinodo straordinario dei Vescovi dell'anno 1986.
    Il fenomeno riguarda tutti i contesti culturali sebbene con diverse tonalità. È ambivalente. La dimensione religiosa viene valorizzata nella realizzazione della persona e nel dinamismo sociale. Sembra tramontata l'era in cui veniva bollata come alienazione e oppio del popolo. Non è un mistero che l'associazionismo più compatto e resistente è quello religioso, che una grossa fetta del volontariato è mossa da motivi religiosi, che la solidarietà trova nelle aggregazioni credenti uno spazio privilegiato, che un riferimento «spirituale» bilanciato dà unità, orientamento e ragioni per vivere alle persone.
    Il rovescio della medaglia, un aspetto meno positivo, è il soggettivismo per cui molte di queste esperienze sono disancorate non solo da specifiche appartenenze confessionali, ma sovente da una vera cultura religiosa capace di far riferimento alla verità e alla vita.
    Il processo di secolarizzazione dunque investe la religione medesima in quanto introduce in essa la scelta soggettiva, il pluralismo legittimato, la funzionalità ai bisogni personali, l'organizzazione individuale del sistema di credenze e pratiche.
    Ciascun «caso» ha le sue caratteristiche notevolmente diverse.
    Franco Garelli descrive quello italiano caratterizzato dalla prevalenza netta di una confessione, quella cattolica, dalla presenza e influsso della Sede Apostolica e dal tradizionale consistente intervento della Chiesa (clero e laicato) nel sociale, nel culturale, nel politico, con una fitta rete di istituzioni e iniziative. Rileva che un grande numero è più cattolico che religioso e più religioso che impegnato, accetta la fede e la trascendenza come valori non assodati; rileva che la loro religione è spesso disancorata dal concetto di verità, il che comporta lo scadimento delle certezze religiose al rango di opinioni; che l'appartenenza alla Chiesa è limitata e i sentimenti verso di essa ambivalenti. Altri «casi» dell'emisfero Nord sono stati descritti con ricchezza di dati e mostrano le medesime costanti con molte variabili.
    La stessa tendenza appare dove la tradizione cristiana ha alimentato una religiosità popolare. Insieme ad un fiorire di gruppi ecclesiali e di ministeri, rimane un grande numero di battezzati «non evangelizzati», si diffondono le sette, si sviluppano forme di spiritismo e di culti tradizionali o importati, si allarga a macchia d'olio l'indifferentismo. Altrove le antiche religioni disputano lo spazio alla secolarizzazione incalzante, producono correnti interne di vario genere, generano forme eclettiche con pretese planetarie o movimenti fondamentalisti.
    In questo contesto culturale è difficile percepire il senso trascendente e la qualità morale obiettiva di una vocazione «religiosa». Essa viene interpretata come una scelta soggettiva tra le molte possibili. È probabile che venga attribuita a calcolo di vantaggi. Il discorso dei significati e della gratificazione è però inevitabile. E il modo di esprimerli e comunicarli è l'esperienza e la testimonianza personale. Il problema sta allora nel come le diverse vocazioni riescono a sprigionare significati, messaggi e immagini di soddisfazione personale e di validità sociale.

    Mondialità e solidarietà

    Una costellazione di percezioni, problemi e valori diffusi nella cultura attuale aiutano a staccarsi, sebbene non sempre, dalla soggettività narcisistica. È costituita dalla mondialità, dal senso
    di interdipendenza, dall'interesse per alcune cause comuni (pace, fame, ambiente...), dalla disponibilità ad aiutare, dal senso umanitario. Al centro di questa costellazione la riflessione ecclesiale sta collocando la dimensione sociale della carità che raccoglie ed esprime un diffuso desiderio e bisogno di solidarietà.
    Sarebbe lungo ma non difficile presentare dati che dimostrano quanto è estesa questa urgenza, quanto sentita in alcune frange e ancora irrisolta nella società. Li troviamo questi dati nella nostra vita quotidiana e l'informazione ce li offre a getto continuo. C'è preoccupazione per l'accoglienza dell'immigrante e vicinanza al portatore di handicap. C'è attenzione, non sempre efficace, alle popolazioni minacciate dalla fame o dalla guerra. Ci sono iniziative innumerevoli di assistenza a profughi, anziani, malati.
    La solidarietà che si è indebolita nell'organizzazione sociale e nella vita pubblica per l'egemonia indiscussa di un sistema socioeconomico (conflitti di poteri, caduta del rapporto e della lealtà di «classe», fuga dall'impegno politico, corsa al benessere individuale, crisi di rappresentatività e disfacimento dei partiti, difficoltà di convergenza in progetti e ideali collettivi) sta lievitando i luoghi vitali e creando una specie di «terzo spazio» intermedio tra il privato e il pubblico.
    Vi sottostà, riflessa o implicita, globale o frammentaria, una percezione del mondo e una intuizione sulla persona. Si coglie l'interdipendenza tra i fenomeni positivi e negativi dell'umanità. Ogni fenomeno viene rapportato ad altri su cui influisce e dai quali viene provocato, rafforzato o equilibrato. Povertà e ricchezza, denutrizione e spreco, inquinamento e forme di produzione, guerra e potere, criminalità e interessi, inquinamento e produzione, Nord e Sud sono fenomeni correlati, anche se non in maniera meccanica e uniforme.
    Su questa correlazione influisce in forma determinante la coscienza personale e collettiva. Molti ammettono che la sorte del mondo (pace, giustizia, sviluppo, possibilità di convivere, ambiente) dipende da tutti, anche se non riescono a tradurre in pratica questa convinzione, né trovano i «canali» sociali per darvi il proprio contributo.
    Donde le iniziative individuali e di gruppo. Se è vero che il mondo è diventato un villaggio e non è possibile vivere da persone consapevoli assumendo soltanto la prospettiva del focolare, del quartiere o del paese; se è vero d'altra parte che le strutture nazionali e mondiali si sono dimostrate poco affidabili per raggiungere gli obiettivi che propone la solidarietà, allora ci vuole una mobilitazione delle coscienze, delle opinioni, delle collaborazioni più umili e finora in apparenza insignificanti per porre dei «segni», fare quello che è possibile e provocare decisioni a raggio nazionale e mondiale.
    In questa linea si muove il volontariato, da considerare (il fenomeno e le sue radici piuttosto che la sua istituzionalizzazione) un fenomeno emblematico del momento attuale. Auspica infatti una cultura della solidarietà a partire da una constatazione: gesti esemplari abbondano e persone generose e ben ispirate si trovano dappertutto. Ma c'è una frattura tra i diversi ambiti in cui si svolge la vita, tra gesti quotidiani e mentalità collettiva, tra sensibilità personale ed espressioni sociali, per cui una sembra essere l'etica dei sentimenti individuali e un'altra quella delle responsabilità pubbliche. Parafrasando l'Evangelii Nuntiandi si direbbe allora che «bisogna raggiugere e quasi sconvolgere i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita» (EN 19).
    C'è un compito, una realtà da costruire. Si è agli inizi, alla partenza, come in un esodo verso un'altra forma di pensare l'umanità e, di conseguenza, di convivere nel mondo. Per cui nella corrente del volontariato si muovono e agiscono energie vocazionali, da riportare a motivazioni valide, capaci di reggere a lungo termine. Per questo bisogna superare l'impegno «festivo», di «tempo libero», «degli intervalli» e far diventare la solidarietà un principio organizzativo dell'esistenza, un riferimento centrale in un sistema di valori e di rapporti.

    La questione femminile

    Particolare importanza nella cultura in riferimento alla vocazione riveste la questione femminile: la condizione e i movimenti di promozione della donna. È un segno o una spia della cultura.
    Dove ha preso il verso del femminismo libertario (cf aborto, contrapposizione, lottizzazione per sesso...) rivela il carattere individualista della cultura che porta a interpretare la propria identità, a godere delle proprie risorse e darsi il proprio codice etico senza riferimenti ad altre componenti o progetti. Ed è veramente difficile inserirvi il tema della «vocazione» come progetto di disponibilità, servizio e comunione.
    Dove la donna è ancora subalterna e dipendente, sottomessa a discriminazione e oppressione, la cultura denuncia un limite sostanziale di umanità. La vocazione allora ha una funzione liberante e profetica, di salvezza personale e trasformazione sociale.
    In ogni caso, attorno all'immagine della donna si raccolgono parecchi elementi culturali che toccano da vicino il discorso vocazionale: la dignità della persona; l'autonomia nel decidere della propria esistenza; l'uguaglianza, complementarità e reciprocità dei sessi; il senso della paternità-maternità con riferimento a tutte le forme di vita; il valore di una realizzazione personale nella verginità.
    Il movimento di promozione della donna inoltre evidenzia un insieme di domande e aspirazioni: spazi di libertà, sviluppo della propria soggettività, valorizzazione sociale dei contributi femminili, uguaglianza di opportunità, riconoscimento dello stato adulto, possibilità di rapporti arricchenti e nobilitanti.
    La comunità cristiana ha onorato in varie forme la vocazione della donna e dappertutto si impegna nella sua promozione. Comunque la nuova fase che si sta svolgendo in alcuni contesti la trova un po' indietro.
    Aspirazioni femminili e nuova immagine della donna hanno avuto finora una risposta insufficiente negli spazi vocazionali istituiti. La valutazione più benigna che se ne può dare la porta il documento «Sviluppo della pastorale delle vocazioni nelle Chiese particolari»: «Per la giovane donna rimane aperta la questione femminile che non ha trovato ancora una soluzione vera nei nostri ambienti di chiesa: inoltre fa remora una mancanza di agilità che molte strutture presentano almeno alla prima impressione e contrasta nettamente con le aspirazioni che le giovani portano dentro non solo di indipendenza, di realizzazione di sé, ma anche di semplicità e fraternità nei rapporti... La questione circa la donna e la Chiesa taglia fuori (del discorso vocazionale) una parte delle ragazze» (n. 82).

    I MODELLI VOCAZIONALI

    Come in tale contesto culturale diventa eloquente e significativa la vocazione?
    Nel disegnare i modelli vocazionali, gioca un ruolo singolare il rapporto che si stabilisce tra comunità cristiane e società, tra contributo dei credenti e movimenti socioculturali, tra gli atteggiamenti della Chiesa e l'emergere di nuovi problemi e soggetti sociali.
    Nei contesti cattolici di fronte alla secolarizzazione e postmodernità sono state tematizzate quattro forme, che in combinazioni diverse si trovano dappertutto (cf F. Garelli, pp. 260-267).
    La prima è la mediazione: con essa il cristiano si propone di far interagire il religioso e il secolare, il teologico e l'antropologico, in modo che l'uno esprima la ricerca profonda dell'altro senza assorbirlo, monopolizzarlo o renderlo «confessionale». In un mondo secolarizzato o in una cultura non organica alla fede la comunità credente si sente chiamata non ad una presenza concorrenziale con altre istanze delle società, ma a dare un contributo specifico che venga incontro a tensioni e problematiche che i credenti e la Chiesa possono interpretare perché contengono un richiamo etico e religioso. La Chiesa piuttosto che organizzare istituzioni, sistemi o ambiti sociali paralleli, testimonia la trascendenza in quelli già esistenti, spingendo fino al limite l'interrogativo sul senso, richiama l'incarnazione mediante il segno della carità e annuncia la risurrezione indicando i semi di speranza e vita definitiva. Promuove la qualità della vita, la libertà e dignità dell'uomo, la spiritualità come superamento continuo dell'acquisito (ib. p. 262). La mediazione consiste nel tradurre in termini non confessionali, quindi condivisibili da tutti, ma non per questo soltanto «temporali», la risposta evangelica agli interrogativi di fondo che il nostro tempo pone.
    La seconda forma è quella di una presenza secolare propria dei cristiani. Intende tradurre la fede in iniziative culturali, esprimere la propria identità religiosa in modo significativo anche attraverso propri progetti sociali, educativi e politici. In tale linea l'intervento dei cristiani nella storia privilegia le occasioni in cui appare l'identità religiosa in termini originari, significanti e trasparenti (cf ib. p. 264).
    C'è poi la forma «della rottura». Liberata dagli «ismi» (fondamentalismo, intimismo), dalla chiusura nel religioso e dalla negatività radicale riguardo al mondo, sottolinea la capacità critica della fede, la sua carica contestatrice. Ad essa compete contrapporre facendo emergere non soltanto «le coincidenze» del Vangelo con quello che la cultura produce, ma anche le differenze e la inconciliabilità. «L'alternativa che si propone è l'interpretazione del cristianesimo in chiave marcatamente escatologica che «si traduce nell'invito ai cristiani a vivere intensamente la loro realtà spirituale... L'impegno dei fedeli è la ricerca radicale della santità, è di testimoniare la fede e la trascendenza divina in mezzo a un mondo che non potrà mai essere 'spirituale' fino alla fine del mondo» (ib. p. 266).
    Finalmente ci sono elementi da recuperare anche nella forma della «diaspora». In alcuni ambienti, i cristiani si sono come seminati nel mondo per fermentarlo dall'interno, aspettando ancora di germogliare. Basta pensare a certi contesti islamici. Si lavora per la promozione della persona, la qualità del vivere sociale, l'aiuto ai bisognosi senza distinguersi e considerando i non credenti che operano negli stessi campi come cristiani anonimi. La causa dei credenti si identifica sebbene non totalmente con la causa dell'uomo senza aggettivi, senza messaggi religiosi specifici. La «diaspora» volontaria porta a reinterpretare e vivere «la parola di Dio a partire dalla storia dell'uomo, specialmente dei poveri» (ib. p. 268).
    Nell'insieme queste forme sono tentativi di costruire l'immagine e il servizio che il discepolo di Cristo presta oggi alla comunità ecclesiale, a coloro che sono religiosamente sensibili e a un mondo alla ricerca di valori e significati: capacità di dialogo (mediazione), contributi originali della fede o più in generale della dimensione religiosa alla cultura (presenza), contestazione profetica (rottura), compagnia e solidarietà (diaspora).
    Con questi elementi davanti possiamo individuare alcuni modelli vocazionali: risultano da accentuazioni, aumento o diminuzione di enfasi su certi elementi che determinano nuove figure, nuovi criteri di discernimento e nuovi processi formativi.

    La realizzazione «umana»

    Un primo modello secondo il quale si ripensa la vocazione è la realizzazione «umana», il compimento della persona, la qualità della vita. Non c'è possibilità di appello né di risposta vocazionale se non si raggiunge il cuore, il desiderio e la speranza di pienezza o almeno la previsione di un impiego nobile delle proprie energie. Ciò è collegato con la soggettività che domina la cultura. Ma trova anche riscontro nell'attenzione alla persona che ha avuto luogo nella Chiesa. È peraltro nella natura stessa della vocazione: Dio chiama ad un incontro pieno con lui e a una esperienza di amore che riempie la persona di gioia.
    L'autorealizzazione è stata per un tempo una specie di assoluto. Veniva connotata da un fissarsi sulle proprie aspirazioni senza confronto con una visione realistica della vita, da una incapacità di differire le gratificazioni, da incomprensione delle esigenze cristiane, dalla corsa al ruolo e allo status, dal desiderio di prevalere e imporsi, e a volte dalla dipendenza da modelli religiosi enfatizzati dalla comunicazione sociale.
    L'accompagnamento formativo ha saputo interpretare il sintomo e propone oggi una integrazione di tutti gli aspetti della personalità attorno al nucleo della chiamata e dei suoi valori in una evoluzione dinamica. È vero comunque che «l'immaginario» vocazionale richiama e si riempie di figure ricche dal punto di vista umano.
    L'attesa di realizzazione umana non riguarda solo né principalmente il senso di soddisfazione ma anche la qualità obiettiva della donazione. Si attende che avvenga in spazi significativi, accompagnata dalla professionalità necessaria, in corresponsabilità adulta, con rapporti arricchenti. A riprova di queste affermazioni si può valutare l'andamento vocazionale in quei contesti dove la vocazione implica una promozione, le difficoltà in cui si trova la vocazione femminile dove la già avvenuta proiezione della donna suscita nuova coscienza e nuove aspettative, la caduta di numero dei fratelli laici nelle congregazioni clericali, una certa tenuta della vocazione contemplativa e di quella missionaria, laicale e religiosa.
    Da quanto veniamo dicendo si evince che il desiderio di realizzazione umana riguarda l'essere e il «vivere» piuttosto che la «funzione». Ciò è connesso all'importanza che oggi si dà all'ambito personale e alla considerazione secondaria che si attribuisce al lavoro. Ne sono prova il ritardo nella scelta vocazionale, il bisogno che sentono i giovani di esperienza diretta per giungere alla decisione, una certa fragilità che preoccupa alcuni istituti, alla radice della quale sovente si trovano il disincanto comunitario, la frustrazione affettiva, l'insoddisfazione riguardo ai rapporti, l'impressione di mancanza di attenzione alle proprie qualità e attese.
    Forse il modello precedente concepiva la vocazione come una chiamata a «fare», a «compiere» certe cose, a coprire un ruolo. Per «avere» vocazioni, per mantenerle e conservarle nella loro specificità e singolarità bisognava reclutare e segregare i candidati. Si trattava di preparare alla funzione coltivando le capacità necessarie e i germi di disponibilità.
    Chi aveva la vocazione era destinato a rappresentare in forma insigne le esigenze della fede e soprattutto la presenza della Chiesa. Dove essa coincideva con la società, la vocazione aveva anche una rilevanza sociale.
    È vero che mai la qualità morale e la formazione spirituale sono state assenti dalla considerazione globale. Ma nella configurazione pubblica della vocazione appariva di più il ruolo esterno che il plasmarsi interiore della persona, più l'abilità nel gestire iniziative che nella profondità umana e la qualità dell'esperienza personale. Persino nelle vocazioni di consacrazione «il lavoro» finiva per riempire e sovrastare il senso esistenziale della scelta. Ne suppliva l'appartenenza ad un corpo o istituzione caratterizzata dalla finalità religiosa.
    Si va ritagliando ora il modello in cui è determinante la possibilità di essere e sentirsi soggetto, valorizzato nelle proprie attese e capacità, con possibilità di rapporti profondi, nobili e duraturi, con una esperienza umana autentica e ricca. La sola attesa di far parte di grandi istituzioni non attira più tanto. Associazioni e gruppi piccoli e nuovi, più coinvolgenti, con capacità di accogliere e valorizzare la persona stanno diventando più attraenti.

    Un'esperienza «singolare»

    Un secondo elemento che fa parte dell'immaginario vocazionale è l'attesa di una esperienza spirituale singolare. È connessa con la ricerca di senso, con l'intuizione diffusa di un'altra dimensione inesprimibile dell'esistenza, con il risveglio della domanda religiosa che ha avuto luogo come reazione alla rigidità razionalista e tecnologica.
    Infatti non viene intesa come un ritorno a pratiche obbligatorie di pietà o culto, né in senso etico, ma come una apertura a orizzonti, motivazioni e realtà nuove capaci di dare un altro respiro alla vita, e unità alla persona.
    La ricerca di spiritualità la si ravvisa oggi nella rivalorizzazione sociale e culturale di luoghi (monasteri, santuari, case di esercizi spirituali, «deserti», centri-simboli di determinate esperienze spirituali), di tempi (ritiri, giorni in conventi e case religiose, incontri di riflessione) e iniziative (confronti su etica e politica, fede e scienza, religione e società).
    Si manifesta anche nella proposta e diffusione di spiritualità specifiche attraverso i movimenti ecclesiali, nell'approfondimento di alcune che prima non venivano prese in considerazione come quelle laicali. Impressiona soprattutto il fatto che la spiritualità costituisce oggi il nucleo centrale del rinnovamento e della strategia vocazionale di quasi tutte le congregazioni religiose. Forse in esse il processo di cambiamento ha avuto una prima fase «dottrinale». Bisognava infatti rinnovare il quadro di riferimento teologico, la mentalità sulla Chiesa, l'evangelizzazione, il mondo, la vita consacrata. Ne è seguito uno sforzo di adeguamento pratico (stile di vita comunitaria, governo, formazione) e un aggiornamento pastorale che si è palesato soprattutto nella reimpostazione della presenza apostolica e delle opere e, legata a questo, una volontà di rilancio vocazionale.
    Oggi sembra si sia approdati alla convinzione che la forza di unità e identificazione, di rinnovamento interno e di convocazione sia la spiritualità approfondita e riespressa nella sua freschezza e immediatezza originale. Se ne cercano i tratti, l'esperienza, i luoghi, le situazioni in cui percepirla allo stato nascente. Ciascuno ne ricava quel che può e gli basta.
    L'esperienza spirituale esige testimonianza di chi l'ha già fatto, coinvolgimento e percezione diretta di chi si dispone ad assumerla. Da tale incontro viene una illuminazione, una scoperta di novità, di motivazioni ed energie per costruire la propria esistenza. In tal senso sono stati valorizzati anche i filoni di spiritualità non cristiane come portatori di semi validi e dunque come punti forti di aggancio per l'inculturazione.
    Una proposta vocazionale che non risponda oggi all'attesa di spiritualità, ma sia basata solo su motivi di attività da compiere, ha poca chance di fare presa.

    La presenza nella storia

    Un terzo modello per ripensare la vocazione è la presenza e il radicamento nella storia, il valore secolare non solo di un eventuale servizio di promozione ma della sua testimonianza di valori e del suo messaggio di trascendenza. Si passa da una considerazione «intraecclesiale» della vocazione al suo significato per il mondo. È conseguenza della rilevanza che ha acquistato la missione nella riflessione ecclesiale, e corrisponde anche alle caratteristiche del momento storico che viviamo.
    La gravità dei problemi che incombono sulla dignità della persona postulano meno la figura del «buon levita» preoccupato dei compiti interni alla religione e molto di più quella del buon samaritano che accorre, si ferma, condivide, apre nuove prospettive, infonde speranza. Il mondo inteso come storia è lo spazio della missione e luogo teologico che getta luce sulla sua originalità ed energia.
    La vocazione viene declericalizzata nel senso che non la si riferisce più in forma ristretta e principale al sacerdote, ma acquista un'estensione universale: il primo riferimento, dal quale si vanno snodando e diversificando le vocazioni, è la chiamata di tutti a formare il popolo di Dio. Le altre vocazioni non si qualificano assimilandosi o imitando quella dei presbiteri. Quando questo è avvenuto, i religiosi diventarono preti, le suore «collaboratrici parrocchiali» e i laici «lettori e animatori liturgici».
    L'emergenza del laicato non risponde a ragioni quantitative: disporre di più forze di lavoro per realizzare i diversi servizi. È un cambio di fronte, di allineamento della Chiesa. E questo vuol dire che la prima linea, le questioni che sfidano oggi la missione cristiana sono più nel terreno del mondo, appartengono più alla storia dell'uomo che alla dottrina e pratica della religione. La ChL ha enumerato queste grandi sfide. Sono tutte nell'ambito secolare: promuovere la libertà della persona, venerare l'inviolabile diritto alla vita, preservare la libertà (civile!) di invocare il nome del Signore, impegnarsi per la stabilità e la dignità della famiglia, sostenere la solidarietà, porre l'uomo al centro della vita economico-sociale (cf ChL 36-44).
    Questa attesa insieme a quella di una realizzazione umana di cui parlavamo precedentemente, spiegano la difficoltà dei giovani nel concepire l'allontanamento dal mondo come la situazione ideale per la propria donazione. Dà ragione pure della nascita degli Istituti secolari e dei movimenti apostolici e di non poche manifestazioni vocazionali che non arrivano a progetto di vita definitivi. La partecipazione alla storia si esprime nel servizio. Questo si concentra nell'evangelizzazione e nella carità. Ambedue hanno come segno attuale l'attenzione preferenziale ai poveri.
    Riguardo all'evangelizzazione il Concilio e dopo di esso l'Evangelii Nuntiandi hanno fatto una lettura della modernità, mentre il Sinodo straordinario (1988) e il movimento della nuova evangelizzazione raccolgono le megatendenze della fase postmoderna. Ebbene, i punti nodali che il Vangelo oggi deve illuminare
    hanno profili secolari: l'emergere della coscienza personale per il cumulo di problemi che deve risolvere, la domanda di senso, la questione etica in rapporto al potere politico, economico, tecnologico, della comunicazione sociale, la manipolazione che incombe sulla persona, l'interdipendenza tra individui, nazioni e mondi.
    L'attenzione preferenziale ai poveri viene fortemente sottolineata nelle Chiese del Sud, fino a collocarla quasi in rapporto necessario con l'evangelizzazione. In esse la povertà presenta volti tragici fino all'annullamento dell'umano (cf Puebla 29-40). Ma è pure una scelta della Chiesa universale. «Dopo il Concilio Vaticano II - dice il sopra citato documento del Sinodo straordinario - la Chiesa è diventata più consapevole della sua missione a servizio dei poveri, degli oppressi, degli emarginati. In questa opzione preferenziale, che non va intesa come esclusiva, splende il vero spirito del Vangelo» (n. 6).
    La vocazione porta a coinvolgersi e non a staccarsi dalla storia dell'uomo, deve caricare su di sé la causa e il servizio dei poveri, vale in quanto fermenta, si staglia in quanto trasforma qualche situazione.

    La capacità di unità

    Un quarto modello secondo cui si immagina la vocazione è la capacità di unità e riconciliazione. Ad essa toccherebbe raccogliere i frammenti di verità e di bene se non per organizzarli in un sistema almeno per valorizzarli. Da essa si attende che faccia fronte alle diverse pluralità che operano nella cultura e nella società se non per ridurle a unità almeno per farle convivere e aiutarle a completarsi.
    Ciò è collegato a quel desiderio di pace e di vicendevole riconoscimento che attraversa la società; ma viene incontro anche a una funzione essenziale della vocazione. La “Pastores dabo vobis” afferma che è nella Chiesa, intesa come mistero di comunione in tensione missionaria, che si rivela la specifica identità del sacerdote e del suo ministero; che «non si può definire la natura e la missione del sacerdozio ministeriale se non in questa molteplice e ricca trama di rapporti che sgorgano dalla SS.ma Trinità e si prolungano nella comunione della Chiesa, come segno e strumento in Cristo dell'unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» e che «l'ecclesiologia di comunione diventa decisiva per cogliere la vocazione... nel popolo di Dio e nel mondo» (n. 12).
    Ogni vocazione arricchisce e costruisce la comunione all'interno della comunità cristiana e questo sembra scontato. L'unità dei discepoli è il grande segno perché il mondo creda. In tempi di voi facili lacerazioni e esasperazione del vantaggio individuale e corporativo, diventa significativo comporre le tensioni, unire le persone, ricondurre le differenze all'unità del fondamento umano e cristiano. Il fatto di rendere la comunità cristiana «universale» dal punto di vista etnico e sociale, aperta al mondo vicino e lontano, comporta già un impegno che viene incontro a fenomeni e sensibilità molto sentite.
    Ma l'attesa di comunione interessa altri tre ambiti: l'ambito ecumenico delle diverse confessioni cristiane, quello più ampio dell'esperienza religiosa e quello più esteso ancora della convivenza umana. In ambito ecumenico si dà a volte più notorietà al dialogo teologico che alle esperienze spirituali. Alcuni fenomeni però stanno rivelando quale risorsa di comunione siano le vocazioni, particolarmente quelle che eccellono nella sequela di Cristo, consacrate, sacerdotali, laicali. Lo rivela l'«Instrumentum laboris» del Sinodo Africano: «Più profonda è la santità dei cristiani, a livello individuale o di gruppo, più stretto è il loro rapporto con Cristo; più le loro vite e strutture sono conformi al Vangelo e più rapidamente essi si raduneranno in una sola fede» (n. 81).
    In non pochi contesti poi c'è la compresenza di antiche religioni, profondamente inculturate, consapevoli della loro consistenza numerica e della loro ricchezza spirituale. Tra di esse c'è secondo i casi e i tempi coesistenza pacifica, rispetto, dialogo, contrapposizione polemica, lotte. L'aspirazione alla ricerca comune e al consolidamento delle ricchezze spirituali condivise è chiara come lo è la funzione delle vocazioni di particolare consacrazione. Assisi 1988 ne è un richiamo e un'icona.
    Dal cristiano, religioso, sacerdote ci si attende che sappia «mediare», dialogare con persone, tendenze religiose, riscattando quanto di valido si trova in esse e soprattutto valorizzando le persone che ne sono testimoni autentici. La fede e il ministero consistono nell'uscire con fiducia verso gli altri, incontrarsi, confrontarsi con sincerità, riconoscere, aiutare a crescere.

    La figura profetica

    Da ultimo, nell'immaginario vocazionale, c'è sempre la figura profetica: ci si attende di poter essere portatori di novità, di cambio, con la testimonianza di vita, l'opera che si svolge, i valori in cui si pone la speranza, le realtà che si confessano.
    Oggi è inconsueto credere alla trasformazione del mondo a distanze ravvicinate o lontane. Siamo «nell'inverno del futuro», al tramonto delle utopie. Si ascoltano con molto scetticismo, quasi fosse retorica, gli annunci di epoche migliori in arrivo. Si conoscono i dati dell'impoverimento, il disfacimento di società che prima erano stabili. Neppure dopo la celebrata caduta del muro si è riusciti a combinare meglio le cose per una parte del mondo e le stragi in corso sono degne di quelle precedenti.
    Tra i fallimenti dell'epoca moderna va annoverata l'insoluta e anzi aggravata questione della giustizia internazionale e dello sviluppo per tutti. Le situazioni di «morte», di affossamento collettivo della dignità umana, di mancanza di condizione di esistenza, invocano una presenza che se non riesce a essere risolutoria sia almeno testimoniante e di speranza.
    La profezia, la novità, il cambio non sono l'annuncio delle utopie temporali non realizzate dalle ideologie alle quali subentrerebbe la presenza «cristiana». La profezia è legata alla radicalità. È la speranza di rivelare un altro orizzonte di senso e di vita in mezzo a un mondo dominato da interessi materiali, a esprimere in piccoli ambiti di sperimentazione la verità del Vangelo e la forza dell'amore, di gettare il buon seme, di far balenare con segni efficaci il progetto di Dio sull'uomo.
    Questa profezia, novità, radicalità ha un primo spazio di manifestazione: è la comunità cristiana. Essa è sempre tentata di adagiarsi, di uniformarsi al mondo specialmente quando questo sembra proteggerla e garantirla, quando si dimostra disposto a inserirla come una funzione nel suo «sistema». Può rimanere chiusa in sé, fare della fede cristiana una «religione» nella quale contano i riti, le istituzioni e le organizzazioni, le iniziative e l'appartenenza sociale più che la presenza vivificante di Dio e la sua alleanza. La vocazione ha sempre un carattere di sveglia, di sfida all'esodo e di invito all'oltre. Lo si vede nella storia dei fondatori di nuove congregazioni e movimenti: è «la ribellione evangelica», quella costante e quel fenomeno per cui una comunità ha bisogno e porta al suo interno il momento di negazione e contestazione, di superamento del presente.
    E c'è poi lo spazio del mondo dove si applica la legge della massa e del fermento, del sale, della luce. Chi segue una vocazione sinceramente si attende di poter essere trainante verso traguardi ulteriori di umanità.

    (Giovanni Battista Boco, a cura, Giovani e vocazione, Elledici 1993, pp. 21-52)


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