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    di «vocazione»

    Luciano Manicardi 

    «Vocazione» indica l'azione di chiamare. Dunque si riferisce in modo prioritario a colui che chiama. Eppure l'accezione comune e diffusa della «vocazione» fa riferimento immediato non alla chiamata ma alla risposta: la vita religiosa, il matrimonio cristiano, il presbiterato ... Così l'aspetto antropologico è più sottolineato di quello teologico e la vocazione, distaccandosi dalla simplicitas dell'appello evangelico a seguire Cristo, rischia di smarrirsi in complicate differenziazioni interne che rasentano la casistica. Interno a questo equivoco è quello per cui ancora oggi gran parte del popolo cristiano, con la parola vocazione, intende solo le cosiddette «vocazioni di speciale consacrazione»: preti e suore, monaci e religiosi. La retorica popolare poi ama parlare di vocazione in riferimento ad attività professionali che vengono svolte con grande generosità e totalità di dedizione. Ma la vocazione non si colloca sul piano del «fare», bensì su quello dell'«essere». La stessa vocazione cristiana dunque non sarebbe adeguatamente compresa se fosse intesa semplicemente come risposta ai bisogni emergenti nella società o alle necessità della chiesa: sarebbe una sua riduzione sociologica o ecclesiastica. La vocazione riguarda il senso della vita, ha a che fare con il mistero della persona, concerne ciò che dà fondamento e stabilità alla vita di un uomo e di una donna, coinvolge un'esistenza personale nell'insieme di tutte le sue relazioni: con Dio, con sé, con gli altri e con la realtà tutta. 

    Fede e Battesimo

    La vocazione cristiana trova la sua forma nel Battesimo, che la costituisce quale appello a una vita in relazione con Dio, il Padre, per mezzo del Figlio, Gesù Cristo, nella forza dello Spirito santo. È questa l'unica vocazione cristiana: la sua unicità si radica nell'unico Cristo, che «è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8) e nell'unico «Evangelo eterno» (Ap 14,6).
    Nella Lettera Apostolica Tertio Millennio Adveniente Giovanni Paolo II ha sottolineato l'importanza della «riscoperta del Battesimo come fondamento dell'esistenza cristiana, secondo la parola dell'apostolo: "Quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo" (Gal 3,27)» (n° 41). Il Battesimo, infatti, contiene in nuce l'identità del cristiano: esso è - come recita l'iscrizione apposta all'ingresso di alcuni battisteri - janua vitae spiritualis, «porta d'ingresso nella vita spirituale», quella vita che è la vita cristiana tout court, cioè la vita come esistenza nella fede, nella speranza e nella carità retta dall'alleanza stipulata con noi da Dio nel Signore Gesù Cristo.
    Ai cristiani che vivono una situazione di minoranza, una condizione di diaspora in contesti non cristiani o non più cristiani, una dimensione in cui più che mai sono «stranieri» anche nella loro patria, occorre pertanto riscoprire l'essenzialità della fede, che è contenuta appunto nel Battesimo. «Il Battesimo è una figura decisiva, oggettiva ed ecclesiale della fede. Se essere battezzati è per principio credere, si può dire inversamente che credere è, sempre per principio, essere battezzati. È nel Battesimo che la fede prende la sua forma fondamentale» (Henri Bourgeois).
    Infatti, è dal Battesimo che discende il primato della fede nella vita spirituale come tensione a rimanere nell'adesione a Cristo di cui ci si è rivestiti nel Battesimo; è dal Battesimo che la vita cristiana riceve la sua costitutiva dimensione pasquale che la configura quale quotidiana partecipazione alla morte di Cristo per vivere da conrisorti con lui in novità di vita; è dal Battesimo, impartito «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo», che l'esistenza cristiana riceve il suo orientamento trinitario: ad Patrem, per Christum, in Spiritu sancto; e questa è la stessa dinamica che regge la preghiera cristiana nella quale il credente, in unione con il Figlio Gesù Cristo, si rivolge a Dio chiamandolo «Padre» (Mt 6,9; Lc 11,2), «Abbà» (Rm 8,15; Gal 4,6); è il Battesimo, in cui è inscritta la vocazione del cristiano, che delinea la vita cristiana come vita in stato di conversione e che impegna il credente nella quotidiana lotta contro gli idoli e la mondanità. È il Battesimo che, incorporando a Cristo, innesta il battezzato nel Corpo di Cristo che è la chiesa (cf Ef 1,22-23; Col 1,18; 1Cor 12,13) e struttura comunitariamente ed ecclesialmente la sua esistenza. La fede ha dunque un'identità battesimale: essa fa dell'intera vita del credente una vita in Cristo. La liturgia battesimale bizantina sottolinea questa relazione personale col Cristo e la esprime con un significativo dialogo fra celebrante e candidato al Battesimo:
    «Ti unisci a Cristo?».
    «Sì, mi unisco a lui».
    «Ti sei unito a Cristo?».
    «Sì, mi sono unito a lui».
    «Credi in lui?».
    «Sì, credo in lui come Re e come Dio».
    Il battezzato trova la sua identità in Cristo: egli dev'essere anzitutto un credente. Questa è l'opera richiesta a lui da Cristo: «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?» Gesù rispose: «Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato» (Gv 6,28-29). Ecco il passaggio da compiere: dal «che fare?» al «credere», dalle «molte opere» all'«unica opera». E paradossalmente, l'unica opera, l'opera veramente indispensabile, è la fede. Per il cristiano, dunque, la relazione personale con Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio, è criterio decisivo di appartenenza alla chiesa di Dio.
    Riscoprire il Battesimo porta pertanto il cristiano a riscoprire la propria identità e a rispondere con essenzialità alla domanda: «Chi è il cristiano?». Il cristiano è «colui che ama il Signore Gesù pur senza averlo visto e, senza vederlo, crede in lui» (cf 1Pt 1,8). Questo il nome del battezzato: christianus, appartenente a Cristo. I martiri dei primi secoli cristiani avevano molto forte questa chiarezza. Nella Passione di Perpetua e Felicita (110 ) la donna che sta per essere martirizzata risponde a chi le chiede di rinnegare la fede per aver salva la vita: «Come questo vaso non può chiamarsi con altro nome, allo stesso modo io non posso chiamarmi con un nome diverso da ciò che sono: cristiana». Se poi il Battesimo, come ricorda il Catechismo della chiesa cattolica, è il «sacramento della rigenerazione cristiana mediante l'acqua e la Parola», questo implica che l'identità battesimale richiede al cristiano l'assunzione della centralità della Parola di Dio nella propria vita spirituale facendo di lui un uomo di ascolto che nella Scrittura cerca il nutrimento quotidiano della propria fede e vi trova la fonte del discernimento e del giudizio delle realtà storiche ed ecclesiali, personali e comunitarie. La Bibbia, sacramento che contiene e trasmette la Parola di Dio a chi la accosta nella fede e sotto la guida dello Spirito santo, immette il credente nella conoscenza non meramente intellettuale, ma coinvolgente e dinamica di «Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio» (Gv 20,31). È questa conoscenza di fede che può liberare la spiritualità cristiana dalle pastoie del soggettivismo e del devozionalismo, del sentimentalismo e del moralismo in cui la si fa spesso cadere, e che la può tenere oggettivamente ancorata a Gesù Cristo «iniziatore e realizzatore della fede» (Eb 12,2).
    Dal Battesimo discende la chiamata alla santità rivolta a tutti i cristiani, una santità che non va intesa in senso prevalentemente morale, come spesso ancora oggi avviene, ma che rappresenta il frutto della fede nell'intera vita del credente, corpo e spirito. Il rito battesimale conservatoci in un sacramentario del VI secolo d. C. sottolinea la fisicità del coinvolgimento con Cristo del battezzato. Dice il celebrante: «Io ti segno nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo perché tu sia cristiano; gli occhi, perché tu veda la luce di Dio; le orecchie, perché tu ascolti la Parola del Signore; le narici, perché tu senta il soave odore di Cristo; le labbra, perché, una volta convertito, tu confessi il Padre e il Figlio e lo Spirito santo; il cuore, perché tu creda la Trinità indissolubile. E la pace sia con te». «Fisicità» dell'atto battesimale che già allude al coinvolgimento totale del credente nella vita di fede. 

    Chiamati alla santità

    La vocazione alla santità, proprio perché insita nel Battesimo, è destinata a tutti i cristiani ed è una chiamata alla perfezione dell'amore. Origene ricorda che, cristianamente, non esiste altra perfezione all'infuori dell'obbedienza al comandamento dell'amore (In Matthaeum XV, 14.16). Secondo il Nuovo Testamento la santità è destinata a risplendere in modo ecclesiale, comunitario. Non appare tanto virtù individualistica o morale che tende alla perfezione individuale, ma è relazione. Relazione con Cristo, appartenenza liberamente decisa e perseguita a Cristo, e relazione comunitaria, ecclesiale: sottomissione liberamente scelta ai fratelli seguendo Colui che ci ha dato l'esempio. Più che a diversi modelli di santità, il cristiano è chiamato a guardare a Cristo, «il Santo di Dio» (Gv 6,69), la santità di Dio fatta persona. Per il Nuovo Testamento, i cristiani sono i santi, sono cioè coloro che vivono una separazione rispetto alla mondanità perché impegnati in un'esigente appartenenza a Cristo. Potremmo dire che la santità è un evento: un evento suscitato dallo Spirito santo che guida le persone alla santificazione inserendole nella dialettica di appartenenza e separazione che connota appunto la vocazione cristiana. Ed è l'evento per cui lo Spirito di Dio e lo spirito dell'uomo collaborano in sinergia (cf Rm 8,16) perché il credente diventi ciò che è: un alter Christus, un uomo, una donna, la cui umanità è resa simile all'umanità di Gesù di Nazaret. In questo dinamismo spirituale il credente esperimenta la santità come dono, ovvero, come vita filiale in rapporto a Dio, il Padre. La vocazione cristiana dischiusa dal Battesimo può dunque essere così sintetizzata: Diventa umanamente santo! Diventa santo nella tua concreta umanità seguendo l'umanità di Gesù di Nazaret. Fai del quotidiano il luogo della santificazione. E ricordati che il santo non è colui che non commette peccati, ma colui che crede più alla misericordia di Dio che all'evidenza della propria debolezza. Il santo, ricorda il Concilio Vaticano II, è un compagno di umanità, un uomo come tutti noi lo siamo, che fa risplendere con più trasparenza e luminosità il volto di Cristo nella propria carne, nelle proprie azioni, nel proprio vivere. Dice la Lumen Gentium (LG) al n° 50 parlando dei santi: «Nella vita dei nostri compagni di umanità (humanitatis nostrae consortes), più perfettamente trasformati a immagine di Cristo, Dio manifesta in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In essi Dio stesso ci parla, ci dà un segno del suo Regno». 

    Le forme della vocazione

    Ciò che è dunque primario nella risposta alla vocazione è questo contenuto di santità-carità, non tanto la forma in cui lo si vive. In altri termini: non ha senso l'affermazione, continuamente ripetuta, della superiorità della vita celibataria-religiosa rispetto a quella matrimoniale. Si tratta di due forme diverse di risposta all'unica vocazione cristiana: dove la diversità è afferente alla particolare umanità del chiamato. Ma entrambe queste forme prendono il loro significato dal comune riferimento al Regno di Dio, di cui, sotto forme diverse, sono segno. E sono segno non automaticamente, ma nella misura in cui sono vissute veramente in modo evangelico. Il fatto che Gesù abbia vissuto il celibato non significa che questa forma di vita sia più perfetta, consenta una più intima conoscenza del Signore ecc. Il problema serio è il reale contenuto di santità e di carità che ciascuno arriva a vivere, quale che sia lo stato in cui si trova. Se vogliamo avere un criterio di maggiore o minore vicinanza con Dio è in tale contenuto che lo troviamo, ed è Gesù stesso che l'ha indicato: «Chi compie la volontà di Dio, questi è mio fratello, sorella e madre» (Mc 3,35). Le differenti forme di vita in cui l'unica vocazione cristiana trova inveramento non vanno poste sul piano del paragone e del confronto (del più e, dunque, anche se questo non è mai esplicitato, del meno), ma dell'alterità e della complementarità. Della sinfonia dunque, non della concorrenza. La vocazione cristiana non è una sottocategoria della particolare vocazione alla vita religiosa! Scrive Thaddée Matura: «La vita religiosa è solo un certo modo di realizzare la vita cristiana e non vi è nulla di più grande e di più alto di quest'ultima».
    Il Battesimo contiene in sé tutte le radicali esigenze della vocazione cristiana. Gesù infatti ha rivolto a tutti, non a una cerchia di eletti, le parole: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34). «Tutti i fedeli di qualsiasi stato sono stati chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfetta carità» (LG 40). Ogni cristiano - sposato o no, presbitero o religioso - è chiamato a vivere la sequela fino alla croce, a vivere l'obbedienza e lo spossesso di sé, la condivisione dei beni, la castità e il rispetto radicale dell'altro, così come tutte le altre vir tù evangeliche. Ciò che veramente è diversificante all'interno dell'unica vocazione è la scelta tra vita coniugata e vita celibataria. Perché questa differenza investe direttamente la struttura umana, creaturale, di ciascun chiamato. Il primo discernimento da fare è quello: se è presente il carisma del celibato allora si dovrà discernere tra vita presbiterale e vita religiosa e, all'interno di quest'ultima, tra vita monastica cenobitica, vita itinerante apostolica e missionaria, vita diaconale, vita eremitica. Definirei allora la vocazione cristiana come un evento pneumatico che, dischiuso dal Battesimo, «accade» nell'incontro tra la radicalità delle esigenze evangeliche e un essere umano nella sua libertà e verità personali, tra la Parola sovrana di Dio e una precisa creatura, segnata da determinati limiti e doni. L'unicità e la differenziazione della vocazione si giocano all'interno di quell'incontro. Ma come non esiste che una e una sola spiritualità cristiana, che trova differenti applicazioni e attuazioni, così non esiste che un'unica vocazione cristiana, e le diverse forme per realizzarla sono, tutto sommato, secondarie rispetto all'unum a cui rendono testimonianza. 

    Chiamati a vivere nello Spirito santo

    La vocazione cristiana chiama a vivere la sequela di Gesù, il Signore, nella forza dello Spirito santo. L'espressione dinamica «vita secondo lo Spirito santo» o «nello Spirito santo» è eco fedele dalla Scrittura («Poiché viviamo grazie allo Spirito, camminiamo anche nello Spirito»: Gal 5,25) e certamente è preferibile a quella di «spiritualità» che pure è invalsa e che tuttavia non è esente da ambiguità.
    Testimoniata per la prima volta in un testo di ambiente pelagiano del V secolo, la parola spiritualitas, «spiritualità», è quasi sconosciuta agli scrittori cristiani del I millennio e solo a partire dai secoli XII e XIII viene utilizzata più di frequente, pur restando completamente assente da autori come Bernardo, Ugo e Riccardo di S. Vittore e altri. È col francese del XVIII sec. che il vocabolo (spiritualité) entra maggiormente nell'uso e dal francese passa ad altre lingue. Inoltre è solo nel corso del II millennio cristiano e solo in Occidente (non nell'Oriente che ha mantenuto l'unità della vita monastica e non ha conosciuto il proliferare di forme diverse di vita religiosa) che questa parola comincia a essere declinata al plurale: «le spiritualità» sottolineano elementi particolari della spiritualità cristiana in dipendenza da un certo santo o da una specifica congregazione religiosa, ecc. Oggi, chi sfogli un «manuale» o un «dizionario» di spiritualità potrà scoprire una varietà di declinazioni della «spiritualità» da far impallidire la più vivida fantasia: spiritualità nazionali (francese, italiana, russa...) e di singole città (Lourdes, Assisi, Roma...), spiritualità che sottolineano un aspetto del mistero della fede (trinitaria, liturgica, escatologica, mariana, eucaristica...), che derivano da qualche santo (giuseppina, antoniana, elisabettiana, cateriniana...), particolarmente da qualche fondatore (ignaziana, francescana, benedettina, domenicana...), che mettono in luce qualche elemento ascetico-pratico (del lavoro, della povertà, del servizio, missionaria, del dialogo...) o si rifanno a un movimento (Focolarini, Neocatecumenali, Comunione e Liberazione...), spiritualità, infine, delle diverse professioni e stati di vita ed età (laicale, presbiterale, della vita religiosa, dei medici, delle casalinghe, dei giornalisti, degli insegnanti, dei sani e dei malati, dei giovani e dei vecchi...). È il fenomeno che va sotto il nome di «spiritualità del genitivo» e che giunge a questa deriva corporativa. Che dire di tutto ciò? È ancora condivisibile il giudizio di Hans Urs von Balthasar: «La differenziazione delle spiritualità, oggi divenuta pacifica - si parla di spiritualità dei diversi ordini, di spiritualità dei sacerdoti diocesani, dei laici e dei diversi gruppi laicali - è quasi totalmente un aborto, spesso ben intenzionato, ma sovente avvelenato, e non solo inconsciamente dal risentimento. Come se un santo potesse essere interessato alla "sua" propria spiritualità! Come se una simile spiritualità a scomparti non fosse indegna dello Spirito santo, il quale vuole sempre ispirare nei cuori soltanto la pienezza di Cristo».
    Il fenomeno della specializzazione delle spiritualità è figlio delle successive divisioni che hanno segnato il II millennio cristiano. La separazione fra Roma e Bisanzio (1054) e l'estraniamento fra Oriente e Occidente; il divorzio fra teologia e mistica, fra teologia e spiritualità risalente al XIV secolo con il sorgere della Devotio moderna da un lato e del misticismo speculativo dall'altro; la frattura tra Riformati e Cattolici (la spiritualità eucaristica e quella mariana, con annesse devozioni, portano il segno della polemica controriformista). Il problema dunque non riguarda solo la manualistica «spirituale», ma riveste una significativa valenza ecumenica.
    Ora, è ovvio che lo stesso Spirito sempre dà e darà origine a inculturazioni e realizzazioni differenti, ma la logica delle spiritualità arriva a far prevalere il secondario sull'essenziale: questa proliferazione delle spiritualità assomiglia piuttosto alla disgregazione dell'unica spiritualità cristiana. Come corollario si manifesta quella «sete di spiritualità» che oggi spinge tanti a cercare di dissetarsi a fonti sincretistiche, a correnti esoteriche o della New Age, o ad attingere a «bignami» delle religioni dell'estremo oriente ad uso degli occidentali. La via delle spiritualità porta il credente a chiudersi in una ricerca di identità non a partire dal centro unificante ed essenziale dell'Evangelo, ma attraverso la distinzione rispetto ad altri soggetti ecclesiali: «L'annettersi importanza alla ricerca della spiritualità propria costituisce forza e tempo chiaramente gettati a mare, sottratti all'unum necessarium e non è difficile osservare che in tale processo, senza che ce ne si avveda, la forma in sé scivola nella posizione di strumento che serve ad majorem gloriam dell'ordine, dell'istituto, della congregazione, del gruppo o movimento comunque sia» (Hans Urs von Balthasar).

    Di fronte a questa situazione mi paiono inevitabili alcune considerazioni.
    Che senso ha questa differenziazione di spiritualità oggi, nell'attuale contesto storico di fuoriuscita dalla cristianità (al cui interno - all'interno cioè di un «mondo cristiano» - era concepibile una tale differenziazione), di minoranza dei cristiani nella società, quando il problema essenziale è la trasmissione della fede? Ciò di cui c'è bisogno è il recupero dell'essenzialità della fede e della vocazione cristiana. E ciò che è preoccupante è il crescente analfabetismo di fede di molti cristiani. Dalle spiritualità occorre pertanto passare all'unica spiritualità cristiana. Infatti, «ciò che definisce la spiritualità cristiana non è la distinzione di questo o quel gruppo di cristiani, ma "una sola fede, un solo Battesimo, un solo Signore, un unico Spirito, un unico Dio salvatore di tutti" (Ef 4,5-6). Indubbiamente lo stesso Spirito che agisce in tutti, chiede a ciascuno di compiere funzioni diverse nell'unico Corpo di Cristo, ma non per questo si potrebbe parlare di diverse spiritualità cristiane senza tener sempre presente che esse, se sono effettivamente cristiane, differiscono solo sul piano relativamente esteriore e secondario delle applicazioni, mentre l'essenza della spiritualità cristiana rimane una e inalterabile» (Louis Bouyer). Inoltre i grandi santi non volevano tanto dar vita a una nuova spiritualità, ma hanno sempre e solo cercato di vivere la totalità dell'Evangelo nel loro oggi: Francesco, p. es., voleva «vivere secondo la forma del santo Evangelo». Rifarsi a questi santi, che rinviano all'unico fondamento della santità cristiana, Gesù Cristo, rivelatore del Padre, significa immettersi in un movimento pneumatico e profetico di traduzione nell'oggi dell'«Evangelo eterno» (Ap 14,6), del «Cristo che è lo stesso ieri, oggi e sempre» (Eb 13,8).
    Questo lavoro di essenzializzazione, di semplificazione, di ritrovamento del centro e delle radici della vita cristiana sta all'interno di quell'opera di ablatio in cui consiste la riforma della chiesa.
    Come lo scultore deve togliere dal masso informe molta materia prima che emerga la forma finale, così la riforma della chiesa non avviene aggiungendo e moltiplicando strutture, ma togliendo ciò che non è essenziale. Per questo occorrerebbe avere coscienza che la vocazione cristiana è anzitutto alla vita, a vivere, all'esistenza. L'uomo, secondo la rivelazione biblica, è creato come capax Dei, è a immagine di Dio, anzi, secondo il Nuovo Testamento è stato creato in Cristo. La sua prima obbedienza vocazionale è dunque la vita. «La creazione è la prima chiesa» (Hans Urs von Balthasar). Dunque la vocazione cristiana può essere vissuta anche al di fuori di particolari «stati di vita». Ogni situazione umana in cui la vita può arrivare a porre la persona umana (e non sempre e non a tutti è concesso di scegliere e di realizzare la propria sequela Christi nella forma di vita desiderata) può dunque divenire spazio di realizzazione della vocazione cristiana: realizzazione che sarà sempre personalissima, perché affidata a un essere unico e irripetibile. Realizzare davanti a Dio la propria unicità e irrepetibilità è la vocazione fondamentale!

    Da: Per una fede matura, Elledici 2012


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