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    Parola di Dio e fede (cap. 4 di: Dio e l'uomo)


    Mario Cimosa, DIO E L'UOMO: LA STORIA DI UN INCONTRO, Elledici 1997



    L'uomo e la parola di Dio

    «In principio era la Parola». È l'inizio del Vangelo di Giovanni. Dio all'inizio dell'universo con la sua Parola crea. E ora crea di nuovo con la sua Parola e salva l'uomo. La Bibbia mette sempre in evidenza la funzione creatrice della Parola, protagonista della storia.
    «Dio disse...» è la formula che introduce le opere della creazione. Dio crea mediante la sua Parola (dabar): «E Dio disse... e così avvenne». E questo per dieci volte.
    E. Charpentier vede nella creazione mediante le dieci parole di Dio una trasposizione alle origini della convinzione che Israele aveva, di essere stato creato come popolo mediante «le dieci parole o comandamenti al Sinai».

    Con la Parola di Iahvè furono fatti i cieli
    e con lo Spirito della sua bocca li ornò(Sal 33,6).

    Si vede chiaro il parallelismo tra le due parti del versetto. Lo Spirito che si identifica con la Parola: se esce da Dio gli esseri vengono all'esistenza perché lui stesso diventa «forza» creatrice.

    O Dio dei Padri e Signore misericordioso, che hai creato tutte le cose con la tua Parola... (Sap 9,1).
    A te servano tutte le tue creature, poiché dicesti e furono create, mandasti il tuo soffio e furono fatte: nessuno vi è che resiste alla tua voce (Gdt 16,14).

    La parola è vista come espressione di una realtà interiore, rivela la potenza di Dio che crea.
    La relazione tra Spirito e Parola è molto stretta. Per mezzo della parola e dello Spirito, Dio nell'Antico Testamento opera e realizza i suoi disegni: crea e dà la vita, castiga e salva. «La tua parola dona la vita» dice il Sal 118. Dio vigila sempre sulla sua parola perché si realizzi e perciò essa gode di un'efficacia assoluta.

    Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo
    e non vi ritornano
    senza avere irrigato la terra,
    senza averla fecondata e fatta germogliare,
    perché dia il seme al seminatore
    e pane da mangiare,
    così sarà della parola uscita dalla mia bocca:
    non ritornerà a me senza effetto,
    e senza aver operato ciò che desidero
    e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata (Is 55,10-11)

    È questa parola che opera in noi (1 Ts 2,13) e ci rigenera.
    La Prima Lettera di Pietro (1,23) parla di questa misteriosa «generazione» da Dio attraverso la «parola», seme vivo. E Giacomo dice che «Dio ci ha fatto esistere per mezzo della sua parola» (Gc 1,18), è «quella parola di verità», quel messaggio di fede di cui parlano tutti gli autori del Nuovo Testamento.
    La Parola e lo Spirito, due potenze inseparabili, hanno tratti comuni ma anche distinti. Nel Nuovo Testamento questo appare con chiarezza specialmente nel Vangelo di Giovanni. La Parola di Dio si è fatta «carne» ma non fa niente senza lo Spirito. Lo Spirito è il dinamismo intimo della comunicazione e del dialogo, che avviene per mezzo dalla Parola.
    La Parola non è sufficiente senza lo Spirito che la illumina e la fa penetrare nell'uomo. Perciò il Gesù di Giovanni dirà alla fine della sua vita:
    È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò... Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera... (Gv 16,7.12-14).
    Dio rivolge la sua Parola all’uomo. Senza l’uomo non avrebbe un tu cui parlare. L’uomo in certo modo è necessario perché Dio parli, All’uomo spetta la gioia dell’ascolto e la responsabilità di una risposta. È la fede!

    Quale Parola Dio rivolge all’uomo

    Abramo: la grande promessa

    ° La vocazione di Abramo
    Tutta la storia dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe è contenuta in sintesi nei tre versetti che raccontano la vocazione di Abramo dove troviamo anche il messaggio religioso dell'autore iahvista.
    Gn 12,1: Iahvè dà ad Abramo l'ordine di lasciare il suo paese:

    Il Signore disse ad Abram:
    Lascia la tua terra, la tua tribù,
    la famiglia di tuo padre,
    e va' nella terra che io ti indicherò.

    Gn 12,2: Iahvè promette di fare di Abramo un grande popolo:

    Farò di te un popolo numeroso,
    una grande nazione.

    Gn 12,3: Abramo sarà benedetto e diventerà benedizione per tutte le nazioni della terra:

    Il tuo nome diventerà famoso.
    Ti benedirò.
    Sarai fonte di benedizione.
    Farò del bene a chi te ne farà.
    Maledirò chi ti farà del male.
    Per mezzo tuo io benedirò tutti i popoli della terra.

    Il racconto della vocazione di Abramo è importante per capire come la scelta di Abramo da parte di Dio non è limitata a lui solo ma come, attraverso Abramo e il popolo di Israele, di cui Abramo è capostipite, Dio intende arrivare a tutti i popoli. È l'amore gratuito e l'iniziativa libera di Dio che sceglie quest'uomo la cui risposta di fede permette di realizzare il suo piano.
    Il contributo di Abramo è la sua risposta generosa alla chiamata divina pur senza sapere fin dove questa chiamata l'avrebbe portato: «Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore...» (Gn 12,10).

    ° Abramo e la promessa
    Il racconto delle due promesse di Dio ad Abramo che fondano il futuro della storia di Israele e di tutta l'umanità si trova nei capitoli 15 e 17 della Genesi, proveniente da due tradizioni storiche diverse. Le due promesse sono quella di un figlio e quella di una terra.
    Per un nomade essere senza figli era una maledizione. Significava non avere discendenti e, non essendoci ancora una fede nell'aldilà, il momento della morte era considerata come la fine di tutto. Anche il possesso di una terra indicava la fine di un continuo, eterno peregrinare. Si comprende allora il significato di queste due promesse anche in una prospettiva culturale.
    Gn 15,5: Dio promette ad Abramo una discendenza numerosa come le stelle del cielo:

    Poi lo condusse all'aperto e gli disse: "Contempla il cielo e conta le stelle, se le puoi contare!". E aggiunse: "I tuoi discendenti saranno altrettanto numerosi".

    Gn 17,15-17: E questo avviene attraverso la promessa del dono di un figlio.

    Dio disse ancora ad Abramo: "Non chiamare più tua moglie Sarai; d'ora in poi il suo nome è: Sara. Per mezzo di lei ti darò un figlio. La benedirò e darà origine a intere nazioni e vi saranno re fra i suoi discendenti". Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise. Pensò fra sé: "È mai possibile che un uomo diventi padre a cent'anni e che all'età di novant'anni Sara possa partorire?".

    Gn 18,10: Né Abramo né Sara possono capire, data la loro età avanzata e la sterilità di Sara il senso delle parole del Signore. Dio stesso allora appare ad Abramo in forma umana e ripete la promessa:

    Il Signore disse: "Io ritornerò sicuramente da te l'anno prossimo e allora tua moglie Sara avrà un figlio". Sara stava ascoltando all'ingresso della tenda, dietro ad Abramo".

    Sara ride perché pensa che le parole del Signore non si possono realizzare.
    E per quanto riguarda anche il dono di una terra in Gn 17,8 si legge:

    E a te e a quelli che verranno dopo di te, io darò in possesso perpetuo la terra nella quale ora abiti come straniero: tutta la terra di Canaan; e io sarò il loro Dio.

    Abramo si fida di Dio e immediatamente crede alla possibilità del realizzarsi delle due promesse. Altre difficoltà interverranno in seguito. Le due promesse si trovano in due tradizioni orali storiche diverse e mostrano la prospettiva universalistica della rivelazione biblica. Dio si rivela a un popolo ma vuole la salvezza di tutti gli uomini.

    ° Abramo e la prova
    Per capire il significato del cosiddetto "sacrificio di Isacco" bisogna rifarsi al contesto culturale e alla mentalità degli antichi popoli del Vicino Oriente. Questi popoli ritenevano che la vera religione comportasse l'offerta di tutto a Dio, anche di quello che avevano di più sacro, i figli. Il sacrificio dei bambini era un culto diffuso nei popoli vicini a Israele.
    Ma nel sacrificio di Isacco, evitato da Dio, viene purificato un simile modo di pensare. In esso si manifesta la giustizia di Abramo come disponibilità a perdersi totalmente in Dio. Il senso del racconto è indicato in Gn 22,1: «Qualche tempo dopo Dio mise alla prova Abramo».
    Dio lo mette alla prova, gli chiede di rinunciare al suo futuro, di restituirgli ciò che gli aveva dato. Per fargli capire che quel che aveva ricevuto era un puro dono e che egli viveva solo perché Dio lo manteneva in vita. Isacco è la sintesi delle promesse di Dio: in lui è racchiuso tutto quello che Dio aveva detto di voler fare per la salvezza. Rinunciare ad Isacco significava rinunciare alla salvezza. Siamo al limite. Abramo proprio non se lo aspettava. Abramo obbedendo a Dio deve dar prova che per lui non esiste valore, nemmeno l'amore per il proprio figlio, l'unico, che possa sostituire Dio e la sua volontà.

    Giacobbe: l'amore gratuito di Dio

    Perché Dio ha scelto e preferito un solo popolo, Israele? Quali meriti ha avuto per essere eletto di fronte agli altri popoli?
    La storia di Giacobbe mostra come Dio è assolutamente libero: Egli fa una promessa e dà una benedizione gratuita per la quale Israele non aveva alcun merito.

    ° Giacobbe ed Esaù
    La storia dei due fratelli è un episodio che conosciamo fin dalla nostra infanzia. Racconta delle vicende "familiari" in cui un fratello affamato (Esaù) cede all'altro (Giacobbe), per un piatto di lenticchie, i diritti di primogenitura, le benedizioni e i beni ad essa collegati, e quest’ultimo con un trucco riesce a farsi confondere come prescelto dal padre Isacco.
    È un racconto popolare attraverso cui il popolo ebraico rilegge la propria storia. Si tratta di una parabola della storia dei rapporti tra gli Edomiti (i discendenti di Esaù) e gli Israeliti (i discendenti di Giacobbe-Israele), due popoli nemici ma fratelli. Ma l'episodio è anche da capire nel senso che se Dio ha scelto il popolo d'Israele tra gli altri non è per merito suo, che anzi Giacobbe si è reso colpevole di una frode ma solo perché Dio attua i suoi progetti in modo misterioso scegliendo chi vuole, anche chi si rende colpevole di tradimento. La scelta è solo un dono gratuito del suo amore.

    ° Il sogno di Giacobbe e la lotta con l'angelo
    Durante il viaggio che Giacobbe intraprende verso la Mesopotamia giunge a un luogo dove decide di passare la notte. Durante il sonno, vede una torre a vari piani o ziqqurat (come la «torre» di Babele) con una scalinata sulla quale salgono e scendono gli angeli-messaggeri di Dio. Anticamente si credeva che il tempio fosse il luogo dell'incontro tra il cielo e la terra.

    Il Signore gli sta dinanzi e gli dice:
    Io sono il Signore,
    il Dio di Abramo e di Isacco. La terra sulla quale sei coricato,
    la darò a te e ai tuoi discendenti: essi saranno innumerevoli,
    come i granelli di polvere della terra. Si estenderanno ovunque:
    a oriente e a occidente, a settentrione e a mezzogiorno;
    e per mezzo tuo e dei tuoi discendenti io benedirò tutti i popoli della terra.
    Io sono con te, ti proteggerò dovunque andrai, poi ti ricondurrò in questa terra.
    Non ti abbandonerò: compirò tutto quello che ti ho promesso (Gn 28, 13-15).

    Appena sveglio, Giacobbe chiama quel luogo: Bet-el che significa «casa di Dio». Innalza una stele in onore del dio El e versa l'olio sulla sua sommità, e questa stele servirà come memoriale del sogno avuto da Giacobbe.
    Il senso dell'episodio è che i "figli di Giacobbe" giunti nella località di Betel dove c'era un culto cananeo al dio El, il dio supremo dei cananei, capirono che il loro Dio era lo stesso dio, creatore del cielo e della terra, degli abitanti cananei di Betel.
    È chiaro che siamo ancora in una fase di politeismo, o forse meglio, come dicono alcuni studiosi di storia delle religioni, di enoteismo (un dio prevale sugli altri dèi) mentre matura man mano la fede in un Dio unico, cioè nel monoteismo, che sarà la caratteristica della religione di Israele.
    È un episodio importante, non solo per la vicenda di Giacobbe, ma anche per tutta la storia d'Israele.
    Un altro episodio importante, non solo per la vicenda di Giacobbe, è la lotta di Giacobbe con l'angelo (Gn 32, 23-33). La scena si svolge sulle rive del fiume Iabboq. Giacobbe lotta con un misterioso personaggio che poi verrà identificato con Iahvè, il Dio di Israele. Dopo la lotta nella quale Giacobbe è perdente, questi supplica il suo avversario di lasciarlo andare perché sta per spuntare l'aurora: lo sconosciuto chiede a Giacobbe il nome e poi gli dice: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché tu hai lottato contro Dio e contro gli uomini e hai vinto» (Gn 32, 29). Secondo il celebre esegeta protestante tedesco G. Von Rad il racconto descrive lunghi secoli di storia durante i quali il popolo di Dio tutto intero ha vissuto faticosamente le dure «esperienze della fede» e Israele ha concepito qui, in maniera quasi profetica, la storia delle sue relazioni con Dio come una lotta che dura fino al levarsi dell'aurora» (G. VON RAD, Genesi, Brescia 1978, p. 331).
    La caratteristica del Dio dei Patriarchi, Abramo, Isacco e Giacobbe è che egli si comunica all'uomo in tanti modi, guida la sua storia, perdona, trae il bene anche dal male e manifesta un amore libero e gratuito «di autodonazione».

    Giuseppe: Dio guida i passi dell'uomo e salva l’innocente

    La parte conclusiva del libro della Genesi parla di Giuseppe, l'Egiziano (Gn 37-50). Anche questo è un racconto che conosciamo da sempre, fin dalla nostra infanzia. Vale però la pena rileggerlo per coglierne la logica di fondo e capirne veramente il significato.
    Secondo la critica letteraria, il racconto si svolge secondo un «principio di trasformazione» che attraversa tre momenti. Un momento nel quale la famiglia di Giacobbe è unita e vi domina la serenità e la pace familiare. Un secondo momento nel quale interviene la crisi e i fratelli cominciano ad odiarsi e complottano contro uno di loro, Giuseppe, decidendo di ucciderlo. Un terzo momento in cui interviene la riconciliazione, il dialogo, la pace e la riunificazione dell'intera famiglia.
    Il racconto comincia con le parole: «E questa è la storia della famiglia di Giacobbe» (Gn 37,2). Una famiglia unita: i fratelli vivono insieme nella pace e nella amicizia. Però Giacobbe: «...amava Giuseppe più di tutti gli altri suoi figli, perché era il figlio avuto nella sua vecchiaia, e gli fece fare un vestito molto bello» (Gn 37,3).
    Giuseppe forse era il preferito del padre perché figlio di Rachele, la moglie prediletta. Segno della predilezione per Giuseppe è la tunica dalle lunghe maniche che avrà un ruolo importante nel racconto. Questa preferenza del padre verso Giuseppe è all'origine della gelosia e dell'odio dei fratelli: «I fratelli si accorsero che il padre amava Giuseppe più di tutti loro e arrivarono ad odiarlo tanto da non essere più capaci di rivolgergli serenamente la parola» (Gn 37,4).
    Giuseppe ha dei sogni misteriosi che fanno aumentare la divisione tra i fratelli: «Una volta Giuseppe fece un sogno. Quando lo raccontò ai suoi fratelli, questi lo odiarono ancora di più» (Gn 37,5).
    Questi sogni sono narrati nel cap. 37 della Genesi: un covone dritto in mezzo ad altri covoni di grano che gli si prostrava dinanzi. I fratelli lo interpretano come una sete di dominio di Giuseppe su di loro; il sole, la luna e undici stelle si prostrano davanti a Giuseppe. Giacobbe capisce subito il simbolismo di questi sogni. Ma l'invidia dei fratelli cresce sempre di più.
    Giuseppe resta a casa con il padre mentre i fratelli vanno al pascolo. Giacobbe decide di mandarlo dai suoi fratelli. «Cerco i miei fratelli» (Gn 37,16) dice a un uomo che lo incontra. In realtà invece dei fratelli Giuseppe troverà dei nemici. I fratelli infatti lo intravedono di lontano e discutono tra di loro sul modo migliore per eliminarlo. Qualcuno lo odia tanto che lo vorrebbe morto, ma Ruben e Giuda non vogliono che si sparga sangue fraterno come nel caso di Caino e Abele. Così Giuseppe viene venduto agli Ismaeliti ma resta nelle mani dei fratelli la tunica. Essi la intingono nel sangue di un capro e la mandano dal padre come prova della morte del figlio. Nessun rimpianto nei fratelli per l'azione cattiva compiuta nei riguardi del fratello. Solo il padre piange amaramente il figlio perduto.
    Intanto Giuseppe è diventato vicerè di Egitto. Ma una terribile carestia ha colpito il paese di Canaan e ha ridotto alla fame la famiglia di Giacobbe. Allora questi manda dieci dei suoi figli in Egitto per procurare del grano e trattiene con sé il più piccolo, Beniamino.
    Quando i fratelli si presentano davanti a Giuseppe:

    Giuseppe era governatore in Egitto e vendeva grano a ogni popolo. Quando giunsero davanti a lui, i suoi fratelli si inchinarono faccia a terra» (Gn 42,6) e Giuseppe li riconosce subito e li mette alla prova accusandoli come spie. Ma essi si difendono: « - Noi, tuoi servi, veniamo dalla terra di Canaan e siamo fratelli, figli di uno stesso padre. Eravamo in dodici: il più giovane è rimasto con nostro padre e uno non c'è più (Gn 42, 13).

    Interessante questo riconoscersi una sola famiglia e questo includere nel numero anche quello che non c'è più. Giuseppe decide di metterli alla prova. Una prova dura. Fa in modo che si ripeta una situazione analoga alla sua e fa lasciare in Egitto un fratello, Simeone. Devono recarsi dal padre e portare con sé il fratello più piccolo, Beniamino, per dimostrare che davvero sono dodici. «Dopo tre giorni Giuseppe disse loro: "Io rispetto Dio. Fate come vi dico e avrete salva la vita"» (Gn 42, 18).
    Al loro ritorno avviene la riconciliazione e Giuseppe ha fatto da giudice e da accusatore per mettere alla prova i fratelli, perché riconoscano la colpa, si convertano e riscoprano l'amore fraterno. Bella la scena della riconciliazione:

    Si mise a piangere così forte che gli Egiziani l'udirono e la cosa fu risaputa anche nel palazzo del faraone. Giuseppe diceva ai suoi fratelli: "Sono io! Sono Giuseppe! È ancora in vita mio padre?" Ma i suoi fratelli erano tanto sconcertati di trovarsi dinanzi a lui che non riuscivano a rispondergli (Gn 45, 2-3).

    Il racconto si conclude con il viaggio del padre Giacobbe e con tutti i suoi figli in Egitto, con l'accoglienza da parte del faraone, con le ultime volontà di Giacobbe e con la sua morte.
    Tutti i fratelli accettano alla fine il principio della trasformazione. Dio si può servire anche del male per compiere il bene: «Volevate farmi del male, ma come oggi si vede, Dio ha voluto trasformare il male in bene per salvare la vita a un popolo numeroso» (Gn 50,20).
    «Giuseppe e i suoi fratelli rappresentano tutta la famiglia umana e le difficili relazioni tra gli uomini. L'invidia, l'odio, l'avidità, la violenza omicida, lo spirito di vendetta sono le insidie mortali che covano in seno alla famiglia umana. Ma la storia di Giuseppe indica la possibilità del perdono, della riconciliazione e della fraternità attraverso la prova e la conversione sincera. All'inizio di Genesi c'è una storia di fratelli, Caino e Abele; alla fine ancora dei fratelli: nel primo caso domina soltanto la violenza, qui risplende la potenza del perdono e della riconciliazione» (A. BONORA, La storia di Giuseppe. Genesi 37-50, Brescia 1982, pp. 50-51).
    Attraverso la storia dell'uomo Dio porta a compimento un suo piano di salvezza. È davvero «Dio che guida i passi dell'uomo»: la presenza di Dio, l'«essere-con...» di Iahvè è garanzia di riuscita.

    Quale risposta l’uomo dà a Dio

    La fede dl un popolo

    Una riflessione sulla fede biblica conduce necessariamente alla scoperta nella Bibbia di un Dio vivente, come Presenza attiva e salvifica nella storia: e la fede appare come adesione totale dell'uomo a Dio. Se percorriamo infatti tutta la storia biblica dell'AT e del NT, sia dal punto di vista linguistico-letterario che esperienziale arriviamo alla conclusione che «la nozione di fede è fondamentalmente identica nell'AT e nel NT: "credere" comprende l'adesione integrale dell'uomo a Dio che rivela e che salva».
    La prima erede di questa fede biblica sarà Maria di Nazaret, la Madre di Gesù, colei che Elisabetta acclamerà: «beata te che hai creduto!».
    Maria vive dell'esperienza di fede del suo popolo vissuta lungo tutto l'arco della storia dell'AT e tramandata di generazione in generazione. Anzi è questa eredità di fede del popolo dell'Antica Alleanza che Maria riceve facendo fare a questa fede un passo ancora in avanti e mostrando come in lei veramente si realizza globalmente tutta l'Antica Alleanza, a sua volta superata da una fede piena e definitiva.
    Nel suo "cantico" Maria stessa riconosce che Dio è fedele alle sue promesse e realizza in Lei quello che ha promesso ad Abramo, si riconosce quindi come il compimento della fede stessa di Abramo, come l'erede naturale di questa generazione di credenti che nasce dal seme di Abramo.
    L'esperienza di fede di Abramo è in certo senso paradigmatica per il popolo d'Israele, ed è anche il punto di partenza del suo itinerario di fede, perciò Abramo è chiamato «il padre dei credenti». Ma «padre» proprio nel senso generativo della parola, avendo generato una discendenza di credenti che attraverso i secoli arriverà fino a Maria. Conviene forse ricordare che lo scopo della storia per Israele è proprio il fatto che un giorno la benedizione di Abramo si sarebbe diffusa su tutte le «generazioni della terra» e questo spingeva Israele ad avere lo sguardo rivolto sempre verso il futuro. Da Abramo attraverso la vocazione di Mosè e la costituzione del popolo, Israele è chiamato a conservare il deposito della fede e a svilupparlo specie nei momenti più critici della sua storia, dal momento della liberazione dall'Egitto in poi. La storia di Israele è infatti la storia della sua fedeltà e delle sue infedeltà. Il vertice nell'AT di questa esperienza è la proclamazione del kerigma profetico che trova particolarmente in Isaia, il profeta della fede, l'esempio più significativo, perché unisce i vari aspetti in una ricca sintesi, portando al vertice, nell'AT, la linea iniziata da Abramo. E assieme all'affermazione riassuntiva di Abacuc: «il giusto vivrà per la sua fede» (Ab 2,4) ne è la massima realizzazione. Inoltre sia la fiducia che «i poveri di Iahvè» pongono nella preghiera al loro Signore, sia la ricerca di Dio espressa drammaticamente nel povero ma credente Giobbe sono magnifiche espressioni di quella fede che condurrà Maria alla fine del suo cammino interiore di «serva del Signore», di «donna di fede» a riassumere in sé tutte le aspirazioni degli «anawim o poveri del Signore» e Gesù ad accettare la volontà del Padre suo anche di fronte alla morte.

    Abramo: itinerario di un cammino verso Dio

    Le diverse tradizioni presentano Abramo come un personaggio storico, un uomo in carne e ossa, nel quale si sono scoperte e progettate alcune dimensioni che trascendono ogni comune mortale. La sua figura si ingrandisce quanto più la si semplifica fino a ridurla a un concetto di «fede» come il Battista che sarà ridotto a un concetto di «voce».
    La storia di Abramo è la storia della elezione divina e della risposta di fede dell'uomo per trasformarsi nella storia idealizzata di un popolo, del popolo di Dio. L'epopea storica di un uomo concreto si presenta come la storia modello di ogni credente. Non è la biografia di un eroe, come non lo sono i Vangeli di Cristo. Per Abramo, come per ogni persona, la parola di Dio irrompe nella vita all'improvviso, opera una rottura e mostra un ideale straordinario. Abramo aderisce con gioia e fiducia. Il ritardo nella realizzazione della promessa spinge Abramo a cercare il figlio dalla schiava. Ma Dio rinnova la sua promessa e Abramo aderisce nuovamente e con maggiore entusiasmo. L'incontro con Dio trasforma sempre. Ecco il cambiamento del nome. In ogni incontro con Dio c'è sempre il momento dell'oscurità, della prova: essa manifesta quel che noi veramente siamo. Abramo con la prova del figlio si riafferma amico di Dio, riconosce il cammino già fatto, si fida unicamente di lui. La figura di questo patriarca è il tipo perfetto di quel che significa credere in Dio: incontrarsi con Lui nella propria esistenza, sperimentare la sua fedeltà e il suo potere di salvezza, ascoltare tutto quello che egli vuole per seguire le sue esigenze fino a sacrificare quel che c'è di più caro sull'altare del servizio e dell'amore.
    La migliore conclusione di questo primo momento sorgivo della fede del popolo la suggerisce Paolo. Anche lui guardò ad Abramo con occhi limpidi per constatare che quello che giustifica agli occhi di Dio non sono le opere della legge (Gn 15,6; Gal 1,3-5). È tutta l'argomentazione che suggerisce ai Galati e la ripete sintetizzata ai Romani (Rm 4,2). I cristiani non devono mai dimenticare che non sono le opere, anche buone, numerose e grandiose che giustificano agli occhi di Dio, bensì la fede che ci pone come veri servi con gli occhi rivolti alla mano del padrone. Le opere sono solo il frutto di questa fede, le linee che Dio va scrivendo con quelli che si abbandonano completamente, per mezzo della fede, a lui. Il contrario è il fariseismo, il legalismo. Infatti sappiamo che la lettera uccide ma è lo Spirito che dà vita: «Abramo credette e questo lo giustificò».
    Per Paolo la fede del cristiano è la fede di Abramo. Con essa si entra nella benedizione promessa al patriarca perché «in Cristo Gesù la benedizione di Abramo è passata alle genti» (Gal 3,14). È la stessa fede di Maria che «...nell'annunciazione... abbandonandosi tutta a Dio mediante "l'obbedienza della fede"...rispose all'angelo: “Eccomi, sono la serva del Signore...”» (Redemptoris Mater 26).

    Una fede che diventa esperienza collettiva nell’uscita dall’Egitto

    L'esperienza di fede di Abramo, esperienza personale ma non limitata a lui, comincia a trasformarsi in esperienza religiosa collettiva all'epoca dell'esodo dall'Egitto diventando esperienza di fede di tutto il popolo d'Israele.
    Di per sé, lo stesso fatto della liberazione dalla schiavitù egiziana attraverso la mediazione di Mosè esige tanta fede negli Ebrei. Il c.14 dell'Esodo poi mostra più di ogni altro il cammino di fede del popolo.

    Dissero a Mosè: - Forse non c'erano tombe a sufficienza in Egitto per condurci a morire nel deserto? Perché ci hai portati fuori dell'Egitto? Quando eravamo ancora là, ti dicemmo di lasciarci in pace. Potevamo anche continuare a servire gli Egiziani! Era meglio per noi essere schiavi che morire nel deserto! (Es 14,11-12).

    È un atteggiamento egoistico di chiusura in se stesso e di dimenticanza del suo Dio che lo sta conducendo verso la libertà. Ma né Iahvè, né Mosè rimproverano al popolo la sua mancanza di fede, perché il popolo incredulo non ha ancora fatto una vera esperienza di questo Dio che libera. Ma al popolo che trema per la paura Mosè rivolge una parola rassicurante e profetica insieme. Se l'Egitto è lì con la sua imponenza e fa paura, fra poco non ci sarà più. Sulla scena c'è l'invisibile ma dominante presenza di Dio. Solo da lui bisogna attendere la salvezza. Mosè appare qui come l'uomo della fede, di una fede che bisogna accogliere per raggiungere quello che essa intravede. Le parole di incoraggiamento di Mosè che seguono sono la sua risposta al lamento del popolo:. Israele «vedrà» quello che Dio sta per fare a vantaggio del suo popolo.

    Mosè rispose: - Non temete! Abbiate coraggio e vedrete quel che oggi il Signore farà per salvarvi. Questi Egiziani che voi vedete quest'oggi, non li vedrete mai più. Il Signore stesso combatterà al vostro posto. Voi dovrete stare tranquilli (Es 14,13-14).

    Il popolo vedrà dunque la salvezza, non vedrà più i suoi oppressori, gli Egiziani. Dio infatti gratuitamente combatterà per il popolo senza chiederne collaborazione. L'inizio della fede è, così, un dono gratuito di Dio. Nel segno spettacolare che Iahvè compie conducendo le tribù dall'altra parte del mare dei giunchi, Israele vede la mano potente di Dio e nel suo cuore nasce la fede. Il c.14 si conclude con le parole:

    Così quel giorno il Signore salvò Israele dalla minaccia degli Egiziani. Gli Israeliti videro i cadaveri degli Egiziani sulla riva del mare e riconobbero la potenza con cui il Signore era intervenuto contro l'Egitto. Per questo il popolo fu preso da timore per quel che il Signore aveva fatto ed ebbe fiducia in lui e nel suo servo Mosè (Es 14,30-31).

    Dell'esperienza impressionante del vedere i cadaveri degli Egiziani emerge il significato, l'intervento salvifico di Dio a favore del popolo. La conclusione è una sola: la fede in questo Dio che salva. Gli Ebrei che vedono Dio all'azione in loro favore diventano gli Ebrei che lo temono e che credono in lui. È sempre così: lo fu per Abramo, lo è stato per Maria di Nazaret, lo è per noi: quando si scopre Dio, quando si è disposti ad accogliere la sua «rivelazione» che si manifesta anche nei modi più semplici, non si può fare a meno di aderire a lui e di credergli con tutta l'esistenza. Basta una sola esperienza bruciante di Dio per imparare a vederlo sempre al proprio fianco. La fede è questo: è esperienza costante sempre nuova e sempre sconvolgente di lui che è là, ad ogni angolo della tua strada, della tua vita e non puoi farne più a meno. Perché lui è il senso e la salvezza della tua vita.
    E per Israele questa fede si esprime in un inno di lode gioiosa al Signore, in un inno di ringraziamento come «Magnificat del popolo di Israele». Prima gli Ebrei credevano di non poter sfuggire all'Egitto così potente. Ora invece sono liberi. E non per una promessa fatta da Mosè: essi stessi hanno visto e vissuto. Dio non si è accontentato di dire che egli è il liberatore degli oppressi. L'ha mostrato con i fatti. «Cantate al Signore! Ha ottenuto una vittoria strepitosa, cavallo e cavaliere, li ha gettati in mare!» (15,21). Sgorga allora sulla spiaggia un canto di vittoria a Iahvè, il primo grande canto di lode della Bibbia che verrà poi ripreso e riletto in mille altre occasioni della storia del popolo.
    Ma questa esperienza pasquale, nella linea della fede di Abramo, inizia quell'itinerario di fede del popolo d'Israele che dovrà essere una risposta all'alleanza del Sinai, a quell'impegno reciproco da parte di Dio e del popolo ad essere fedeli al patto. «Se il popolo è fedele ai dettami divini, Dio concederà la terra e la discendenza, e si renderà in ogni modo garante della prosperità del suo popolo». Tutta la storia di Israele sarà una verifica di questo "principio". Il compito dei profeti consisterà proprio nel denunciare e condannare l'infedeltà del popolo con pochi spiragli di apertura e di speranza. Tra la parola di Dio sempre fedele e il peccato del popolo che viene sempre meno alla sua fede chi prevarrà? Qui lasciamo la parola ai profeti.

    La fede dei profeti

    La fede profetica ha certamente due aspetti fondamentali: la fede in Dio dello stesso profeta e la fede in Dio di chi riceve il messaggio attraverso quel portaparola di Dio che è il profeta. Alcune volte il profeta attraversa una vera crisi prima di lanciarsi all'avventura a cui Dio lo chiama; basti pensare alla vocazione di Geremia e alle sue cosiddette «confessioni». A sua volta il profeta che parla al popolo è solo uno strumento umano della verità della parola di Dio: Dio ha manifestato la sua volontà per mezzo della parola dell'uomo-profeta. La fede nella verità del messaggio divino è messa in rilievo in quel magnifico brano di Am 3,8: «Quando il leone ruggisce chi può non aver paura? Quando Dio, il Signore, parla chi può evitare di trasmettere il suo messaggio?».
    Il compito del profeta è anche quello di purificare la fede del popolo di Dio continuamente inquinata e compromessa dalla tentazione dell'idolatria e del sincretismo.
    Ricordiamo Osea, il profeta dell'amore di Dio che mostra come la fedeltà dello sposo (Dio) alla sua sposa (Israele) si esprime in quel messaggio di consolazione che Dio rivolge al suo popolo: «Israele, ti farò mia sposa, e io sarò giusto e fedele. Ti dimostrerò il mio amore e la mia tenerezza. Sarai mia per sempre. Manterrò la mia promessa e ti farò mia sposa. Così tu saprai che io sono il Signore» (Os 2,24-24). Il «sarai mia per sempre» riassume nella fedeltà la dote che lo sposo presenta alla sposa. La fede di Osea è la fede nell'azione di Dio che ha il suo punto di partenza nell'amore per Israele che si cristallizzerà in una piena conoscenza di Dio da parte del popolo.
    Amos e soprattutto Geremia presentano la fede come un'esperienza di legame profondo con Dio. Ma è il profeta Isaia che pone altamente in rilievo la fede in Dio. Prima della minaccia della coalizione nemica contro Gerusalemme il profeta condanna, per esempio, l'atteggiamento negativo nei riguardi di Dio del re Acaz. Il profeta Isaia gli fa visita e gli parla a nome di Dio, lo invita a sperare. È Dio che fa i re e non l'Assiria, e così annuncia la prossima fine di Samaria. Il profeta esige da lui una cosa sola: la fede in Dio e non nell'Assiria. Il discendente di Davide deve «credere» e verrà salvato con la sua fede, non per calcolo politico.
    Dio però non viene meno alla sua promessa e rivolge al re, mediante il profeta, l'annuncio del segno dell'Emmanuele. Lo scopo di questo primo intervento del profeta è la preparazione del cuore del re, attraverso l'incoraggiamento, a dar fede alla parola di Dio.
    Isaia è sempre stato il profeta della fiducia esclusiva in Dio. Fiducia nella fedeltà di Dio alle sue promesse, fiducia nella dinastia davidica; fiducia in Sion e in Gerusalemme, intimamente legate alla speranza della salvezza.
    Il testo di Ab 2,4b: «Il giusto vivrà per la sua fede» infine è la sintesi più grande della fede del popolo nella letteratura profetica. È la fede-fedeltà in Dio che permetterà al giusto di sopravvivere, non solo nel senso fisico di sopravvivenza ad ogni tipo di catastrofe terrena o cosmica ma nel senso teologico di salvezza e che può conseguire soltanto chi ha fede in Dio. La formulazione paolina deve alla tradizione lo sviluppo teologico del significato di fede-fedeltà come si incontra in Abacuc.
    L'esperienza di fede nell'AT si stende dall'esperienza di Abramo fino alla proclamazione del messaggio profetico: da Isaia ad Abacuc. La storia d'Israele è la storia delle sue fedeltà e delle sue infedeltà a Iahvè che sono poi l'espressione dell'intero suo atteggiamento di vita che sgorga dalla fede. La fede sembra essere il fondamento della fedeltà, mentre la fedeltà è l'esplicitazione concreta della fede.
    Tutto il messaggio di Abacuc ha il centro proprio in questo versetto. Il profeta che impersona tutto il popolo d'Israele a un certo punto della storia del suo popolo si sente in pericolo perché si accorge che l'empietà e la malvagità imperversano dappertutto. Allora disperato si rivolge a Dio e si lamenta della situazione nella quale vede il trionfo degli empi e l'insuccesso dei buoni. Allora Dio gli risponde che sta per mandare i babilonesi dei quali si servirà per punire gli empi. Ma il profeta non si rassegna e supplica Dio con maggiore insistenza. Allora riceve una risposta, quella che abbiamo letta in 2,4: è un invito ad avere pazienza perché alla fine l'empio morirà e il giusto invece sopravvivrà.
    La fede profetica proclama che la conoscenza del Signore riempirà tutta la terra come l'acqua riempie il mare (Is 11,9). La teologia di Gerusalemme come centro della pace di Dio è tenuta presente anche negli ultimi capitoli di Isaia (Is 56-66), descritta con immagini che plasmano il miracolo della trasformazione di questa speranza in una realtà in mezzo agli uomini. Nella stessa linea esprime la sua fede il profeta Sofonia che dopo aver annunciato le disgrazie che si abbatteranno sopra Gerusalemme ribelle annuncia: «in quel giorno trasformerò i popoli, renderò pure le loro labbra: così potranno rivolgere le loro preghiere a me, il Signore, e onorarmi tutti insieme» (Sof 3,9).
    Geremia esprime la sua fede in una trasformazione completa dell'uomo attraverso l'immagine del «cuore nuovo» e dello «spirito nuovo»; lo stesso farà Ezechiele tra gli esiliati di Babilonia. Dio stabilirà un «nuovo patto», cambiando le disposizioni più interne dell'uomo. Il Deuteroisaia, verso la fine dell'esilio dice: «Quel che avevo predetto è già accaduto; ora annunzio cose nuove. Prima che accadano ve le faccio conoscere» (Is 42,9). Tutto l'uomo partecipa di questa trasformazione e di questa novità. Il Messia avrà come cintura la giustizia e la fedeltà (Is 11,5).
    Ma ormai la fede di Israele, alimentata dalla parola di Dio, che vive nel messaggio dei profeti e nelle figure emergenti della storia della salvezza, è approdata alla duplice fedeltà che costituisce l'approdo totale: fedeltà al messaggio definitivo di Dio e verifica nella storia e nella vita, poiché tale parola è creatrice di dottrina e di vita.

    La fede dei «poveri di Iahvè»

    Un approfondimento particolare riceve il tema della fede nell'esperienza di vita dei «poveri di Iahvè». Il «povero» è il cliente di Dio. Una povertà, espressione di potere d'accoglienza da parte di Dio, apertura a Dio, disponibilità verso Dio, umiltà davanti a lui.

    Perché il Signore ama il suo popolo,
    assicura ai poveri splendida vittoria.

    È il popolo degli oppressi che ha posto in Dio tutta la sua fiducia e che Dio ama più di qualsiasi altra cosa. Bisognerebbe rileggere tutto il salterio per accorgersi di come questi poveri che hanno posto la loro fede solo in Iahvè sono da lui amati.
    Ricordiamo ad esempio: «Se un povero grida, il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angustie». È la lezione che il salmista dà a tutto il popolo di cui fa parte e con cui si sente solidale invitandolo a ringraziare con lui il Signore perché la fede in Dio ripaga sempre abbondantemente.
    È tutta la religione dell'AT con un timore impregnato di confidenza che si esprime nell'atteggiamento spirituale iscritto nella parola chiave anawim. Niente di strano che la prima beatitudine di Gesù, anzi la sola vera beatitudine, sarà chiarita da tutte quelle che seguono: «Beati i poveri in spirito...», o come meglio traduce la Traduzione interconfessionale in lingua corrente: «Beati quelli che sono poveri di fronte a Dio...».
    Anche il Sal 37 dà una lezione di saggezza a un uomo impaziente che si lamenta della lentezza di Dio: «Spera nel Signore, non ti agitare...» (v.7). Forse la lezione è per un giovane a cui un anziano che conosce le abitudini di Dio nel governare il mondo raccomanda la pazienza perché i poveri possederanno la terra e godranno benessere e pace» (v.11). L'ottimismo robusto della fede si rifugia nel domani sicuro; questi «poveri» trovano forse il loro destino pesante, la loro situazione violenta, ma la loro situazione non è di carattere sociologico ma ha un sapore religioso; si tratta di «coloro che sono sottomessi al Signore, a lui obbediscono». È il vocabolario dell'alleanza, della giustizia e della povertà che qui confluisce per indicare questa folla vivace dei membri del popolo di Dio animati da un unico spirito.
    Sono solo alcuni esempi. Ma si potrebbe continuare ancora con tanti altri e invitiamo il lettore a farlo col Sal 25 e 27, il salmo della fiducia: “Il Signore è mia forza e mia salvezza".

    La fede di Giobbe

    La domanda fondamentale che Giobbe pone a Dio durante la sua terribile esperienza di dolore si trova in Gb 10,18: «Perché mi hai fatto venire alla luce? Avrei voluto morire prima di nascere! Nessuno mi avrebbe visto!». È la domanda di un credente che fa un'esperienza che sembra smentire la sua fede. Ma egli è un credente in ogni istante della sua storia drammatica. Anche nell'abisso più profondo della desolazione Giobbe non può abbandonare la sua fede. Egli è cosciente che l'uomo con il suo mistero non è all'origine di se stesso. È solo Dio che «ha nelle sue mani la vita di ogni essere vivente e lo spirito di ogni uomo... Se Dio distrugge, nessuno può ricostruire; se imprigiona qualcuno, nessuno può' liberarlo» (12,10.14).
    Anche nelle più grandi sofferenze Giobbe non perde mai il contatto con la sua fede. Pregando e sperando, Giobbe prende coscienza che la giustizia di Dio è un mistero, che le categorie nelle quali l'uomo cerca di imprigionarla non la fanno comprendere; i teologi del suo tempo gli rimproverano: «tu, invece, sei irriverente, sei uno scandalo per chi vuol pregare» (15,4); invece Giobbe rispetto ai suoi amici sembra l'unico capace di arrivare a Dio stesso, al di là di ogni rappresentazione e di ogni immagine, vivendone la dimensione trascendente. Egli è convinto che l'uomo non può mai considerarsi puro davanti al suo Creatore.
    Giobbe viene a trovarsi tra un duplice mistero: la trascendenza di Dio e la miseria umana. La sua fede, integra e purificata, pone fine all'inesauribile dibattito. Giobbe non arriva a una conclusione a forza di ragionamento, ma per l'intensità del sentimento religioso che egli vive. E il poema arriva a una soluzione religiosa...: l'uomo deve sottomettersi a Dio nella confidenza, persistere nella fede finché il suo spirito non raggiunge la tranquillità: «Io so che puoi tutto. Niente ti è impossibile». Il silenzio, il dolore, l'abbandono totale, «ricorso assoluto», è l'atteggiamento fondamentale del povero. Durante la sua esperienza di dolore Giobbe parla con Dio, e tenta in tutti i modi di capire. Forse Dio lo ha dimenticato o è cambiato? Le parole di Giobbe e i suoi sentimenti sono un alternarsi di sentimenti contraddittori. Ora sembra lasciarsi andare, rassegnato e stanco, ora tenta di far ragionare Dio. Ora sembra sfidare Dio. Ma ci si accorge facilmente che al fondo di tutto c'è un filo, ostinato e costante: la fiducia in Dio: «In cielo c'è chi mi difende, il mio testimone è lassù. I miei amici mi deridono, ma i miei occhi nel pianto sono rivolti a Dio» (16,19-20). È la fede di Giobbe: una fede a cui non è permesso rifugiarsi in costruzioni filosofiche astratte e rassicuranti, ma che è costretta ad accettare la sfida dei fatti. Giobbe si pone alla ricerca di Dio non partendo dalle formule create dalla tradizione, ma partendo dal suo mondo pieno di dolore. Quando Giobbe si trova faccia a faccia con il suo Creatore deve mettere tutto da parte e abbandonarsi nudo e senza risorse alla sua misericordia e alla sua bontà. Ma questa fede piena e completa ne esce gratificata. Non per i meriti di Giobbe ma perché Giobbe è a Dio prezioso. Dio viene allora alla sua ricerca.
    Se ripercorriamo in sintesi il lungo cammino fatto per descrivere la storia dell'esperienza di fede del popolo di Israele da Abramo a Giobbe ci accorgiamo che la fede appare sempre come un'adesione totale e vitale al Dio vivo, Signore della storia e Salvatore degli uomini. La vita di Abramo, del popolo di Israele, dei profeti, dei «poveri di Iahvè», di Giobbe, appare intessuta di episodi che richiedono il rinnovo continuo di adesione a Dio: ognuno di essi è come una nuova vocazione e forma un'espressione particolare di fede, un approfondimento, una maturazione progressiva. Nell'AT ogni singolo avvenimento è oggetto di fede. Dio ha parlato ad Abramo. Senza questa parola di Dio, Abramo non sarebbe nulla nella storia. Ma Dio ha parlato ad Abramo attendendo da lui una risposta e questa risposta dell'uomo è la fede.
    Dio ha parlato ad Abramo e poi a tutto il suo popolo per mezzo di Mosè per far nascere la fede, e la fede non può nascere se non dalla parola data e ricevuta. Perché l'esistenza di Israele riposa sulla fede, e questa esistenza è fondata sulla parola di Dio.
    Dio ha parlato ad Abramo e al suo popolo: la storia e la fede d'Israele sono fondate su quest'affermazione fondamentale.
    La linea storica del divenire di Israele è tracciata da questo momento iniziale ma anche dai fatti successivi, dalle vicende dell'Esodo e dell'Alleanza. I due periodi, quello patriarcale e quello esodale, hanno inciso profondamente sulla fede di Israele e il ricordo è stato fissato in formule tipiche di professione di fede: «Io sono il Dio di tuo Padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6.15); «Io sono il Signore Dio tuo, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Es 20,2).
    Poi verranno i profeti, gli educatori della fede del popolo di Dio, gli evangelisti della parola che salva, ma che esige una risposta di fede, ossia un inserimento totale nel mistero della salvezza, un rapporto personale con il Dio vivente che viene a salvare ma che esige un'accettazione fiduciosa della parola, una certezza della salvezza (quella messianica, che viene da Dio e non dagli uomini!), un'obbedienza assoluta alla linea indicata dal profeta. Diranno i profeti che entrare in comunione con Dio significa partecipare a una storia che è la storia stessa di Dio. La partecipazione dell'uomo a questo piano di Dio è anzitutto la fede, perciò Isaia che è il profeta del piano di Dio è anche il profeta della fede.
    La linea mistica che accompagna Israele lungo la sua storia si esprime in modo anonimo nei Salmi, e poi si ricollega a grandi nomi come Geremia e Giobbe, è la linea della spiritualità dei «poveri del Signore», una linea che raggiunge l'umile Maria di Nazaret che, alla soglie della Nuova Alleanza, riassume in sé tutta la profondità spirituale dell'Antica. La povertà spirituale così estesa, che è una sfumatura della fede, abbandono, confidenza, gioia, è molto vicina all'umiltà, si riassume in un atteggiamento di attesa religiosa. La beatitudine dei poveri di Matteo che ha di mira questa disposizione fondamentale. Povertà di spirito che è così vicina alla fede e di cui Maria di Nazaret e Maria del Magnificat sarà un esempio meraviglioso.

    La fede nel NT

    Abbiamo visto, percorrendo l’AT, la ricchezza della dottrina della fede in rapporto con la Parola di Dio. Il NT non aggiunge grandi cose se non che qui tutto parla di Gesù e tutto conduce a Lui.
    Nell’AT credere significava aderire pienamente alla Parola di Dio. Nel NT significa aderire a Dio che ci parla e ci salva in Cristo.

    La fede in Marco: «Convertitevi e credete al Vangelo»

    L’evangelista Marco inizia il suo Vangelo dandoci un riassunto della predicazione di Gesù con queste parole: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1,15). Il resto del Vangelo poi non è altro che un’esplicitazione di questo primo annuncio. Spesso in questo Vangelo vengono raccontati dei miracoli come segni della fede. Come capita nel racconto del miracolo della guarigione del paralitico che provoca nelle folle il grande interrogativo che poi accompagna tutto il Vangelo: «che è questo?»; «chi è mai costui?». Sono i miracoli che danno l’avvio al processo della fede. Alcune volte però i miracoli suppongono la fede in Gesù, come quando i malati si rivolgono a Lui con un atteggiamento di fede e di fiducia.
    Ma la fede matura appare quando ci si sente al sicuro anche nelle più gravi difficoltà e Gesù sembra si sia momentaneamente addormentato, come durante la tempesta sul lago: i discepoli hanno paura perché Gesù dorme e, svegliatosi, è costretto a rimproverarli: «Uomini di poca fede!» (Mc 4,40).
    Nel Vangelo di Marco figura anche chi non crede nonostante tutti i segni che Gesù compie. Sono gli scribi e i farisei, ma talvolta gli stessi discepoli, soprattutto quando si tratta di capire chi è Gesù per loro, come nell’episodio di Cesarea di Filippo. «Chi è Gesù?»: essi sono convinti che egli sia il messia, ma quando comincia a spiegare in che consiste il suo messianismo ed accenna alla croce allora non capiscono più niente e cominciano a non credere. Come è possibile che il messia debba andare a morire sulla Croce? E proprio ai piedi della croce si manifestano due tipi di fede: di chi per credere ha bisogno che il messia scenda dalla croce e chi invece, come il centurione romano, riconosce che Gesù è il Figlio di Dio proprio nel momento in cui lo vede morire sulla croce.
    Tutti e tre i Sinottici descrivono la prassi di Gesù con tratti precisi e costanti: egli è in perenne ricerca dei poveri e dei peccatori, non fa differenze fra gli uomini, distribuisce a piene mani la Parola e il perdono.
    Per i farisei è una prassi scandalosa e irritante: sconvolge i più ovvi criteri pastorali e la più comune concezione di Dio. Per Gesù invece è una prassi che rivela il vero volto di Dio. Questo appare con chiarezza, ad esempio, nel capitolo 15 di Luca: nella prassi di misericordia di Gesù, spiegano le parabole, si fa presente la misericordia del Padre. Lo stile dell'agire di Gesù rimanda a quello di Dio: egli agisce così perché così fa Dio.
    Tutta la vita di Gesù è una trasparenza di Dio, ma questa trasparenza ha raggiunto la sua pienezza sulla Croce. È senza dubbio l'evangelista Giovanni che ha colto con più lucidità questo aspetto: in Croce non è soltanto un gesto di salvezza, ma un gesto di rivelazione. Mi pare però che questa idea sia discretamente presente anche nel Vangelo di Marco, là dove si racconta che ai piedi della Croce, il centurione "vedendolo morire in quel modo riconobbe: 'Costui è veramente il Figlio di Dio'".

    La fede in Matteo: una fede per tutti

    Nel Vangelo di Matteo si vede in molti esempi come Gesù rimprovera i discepoli e gli uomini che lo ascoltano di avere poca fede quando vede mancare in loro atteggiamenti esistenziali di fiducia, di speranza e di coraggio. È uomo di poca fede chi si preoccupa troppo dell’avvenire (Mt 6,30); oppure chi, pur avendo cominciato a credere, trovandosi nelle difficoltà e senza appoggi umani si lascia prendere dalla paura (Mt 14,31); oppure chi si scoraggia dinanzi a una missione da compiere (Mt 17,20). Gesù rimprovera quelli che hanno una fede incapace di capire i misteri di Dio e di accettare il progetto divino di salvezza, come gli apostoli (Mt 16,9-12) e Pietro (Mt 16,23), incapaci di capire la croce e entrare nella logica di Dio.
    Tipico è l’esempio riportato da Matteo della cananea, una donna pagana di grande fede:

    Ma egli rispose: «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa di Israele».
    Ma quella venne e si prostrò dinanzi a lui dicendo: «Signore, aiutami!».
    Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini».
    «È vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».
    Allora Gesù le replicò: «Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri». E da quell'istante sua figlia fu guarita.

    Appare chiaro in questo episodio, come nel caso della guarigione del figlio del centurione, che la salvezza che Gesù porta è per tutti gli uomini e che l’elezione del popolo d’Israele è solo al servizio della salvezza di tutti gli altri popoli.
    Inoltre Gesù pur mostrandosi primariamente impegnato nella missione giudaica, in quanto dapprima mandato ai figli d’Israele, fa volentieri subito un’eccezione per premiare la fede umile ma grande di questa donna. La cananea ha capito che Gesù non è un qualunque taumaturgo ma che è al servizio di una salvezza che ha delle tappe, che passa per Israele ma per arrivare a tutti gli uomini e a tutti i popoli.

    La fede in Giovanni: tre personaggi in cerca di... fede

    Il filo conduttore di tutto il Vangelo di Giovanni è la fede. Si conclude con quelle parole dell’autore che ne indica lo scopo: questo vangelo è stato scritto «perché crediate e, credendo, abbiate in voi la vita» (Gv 20,31). Tutta la prima parte presenta il dramma della fede: in ogni episodio c’è Gesù e una scelta o un rifiuto di Lui.
    In quanto incarnato, inserito nella storia, Gesù rivela il Padre, che l'ha mandato. A lui si può arrivare solo con la fede, e con l'umiltà di chi si riconosce cieco e bisognoso della luce della rivelazione. Solo mediante la fede e la nascita dall'alto come dirà Gesù a Nicodemo l'uomo entra nella sfera divina dello Spirito e può quindi accedere a Dio. Il Vangelo di Giovanni inizia con la presentazione di "tre personaggi in cerca di..." fede, un maestro in Israele, Nicodemo la cui conoscenza è imperfetta, una samaritana disponibile ad una conoscenza maggiore, un pagano che conosce aderendo con pienezza alla parola di Cristo (Gv 3-4) e il vangelo continua strutturandosi come una conoscenza progressiva di Gesù che si rivela in modo progressivo; di fronte a questa rivelazione bisogna prendere posizione: o una fede che dinanzi al manifestarsi di Gesù matura e si purifica gradualmente o una incredulità che diventa sempre più sicura di sé fino alla decisione di fare morire Gesù; una scelta decisiva che anticipa anche il giudizio finale.
    Nell’episodio del funzionario regio si vede un uomo che ha sentito parlare di Gesù e dei suoi miracoli e questo lo spinge nel rischio della fede che si fida di una semplice parola di Gesù: «Va’ tuo figlio vive». Poi incontra i servi che gli danno la bella notizia e lui si accorge che la parola di Cristo si è davvero realizzata e allora la sua fede diventa piena: «credette lui e tutta la sua famiglia».
    Il discorso eucaristico poi, dopo la moltiplicazione dei pani (Gv 6), pone Gesù da solo di fronte ai Dodici apostoli che sono a disagio per tutto quello che Gesù ha detto:

    Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui.
    Disse allora Gesù ai Dodici: «Forse anche voi volete andarvene?».
    Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna;
    noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

    Se si vuole conoscere chi è Dio, chi è Dio per noi, e, nel contempo, come cercarlo e dove trovarlo, se si vuole conoscere l'esperienza religiosa come emerge dalle Sacre Scritture occorre guardare, e questa è la fede del NT, a Gesù di Nazaret e alla sua storia, non altrove. Allora si comprende che Dio è, nella sua realtà più intima e profonda, comunione, dono, solidarietà incrollabile e universale. Ha il volto dell'alleanza. L'uomo scorge in Cristo una realtà di grazia che gratuitamente si dona. La sua epifania ha i tratti della donazione, del servizio e della solidarietà: in nessun modo i tratti del potere, della competizione e della ricerca di sé.
    In questa fede del NT è racchiuso uno "scandalo" per la ragione: la relazione con l'Assoluto è fatta dipendere da un evento storico. Ma questo scandalo, lungi dall'essere attenuato, è dal Nuovo Testamento custodito e continuamente riaffermato. Per l'uomo del Nuovo Testamento Dio continua ad essere raggiungibile in luoghi storici, non diversamente: non scendendo nella profondità di se stessi o staccandosi dal mondo per contemplare direttamente il divino, ma nella comunità radunata, nella accoglienza della Parola, nel gesto della fraternità, nella frazione del pane, nella sequela: tutti luoghi storici, concreti e obiettivi.

    L’esperienza di Paolo

    Vi è poi l'esperienza paolina. Paolo di Tarso è stato conquistato da Cristo che diventa il centro, l'anima, il sostegno, l'oggetto della sua speranza, la sua vita. È l'incontro di Saulo con il Risorto sulla via di Damasco che ha segnato per sempre tutta la sua esistenza. Egli ha capito in quel momento, come emerge poi da tutte le sue Lettere, che la logica che guida tutta la storia della salvezza è l'amore gratuito di Dio. Amore che si è manifestato nella morte e risurrezione del Signore Gesù per la salvezza di ogni uomo. Paolo ha capito che tutti gli uomini, senza distinzione di razza, di cultura o di religione possono essere salvati mediante la fede che opera per mezzo della carità. Per Paolo la fede consiste nel riconoscere il proprio bisogno di Dio e quindi l'incapacità di salvarsi da soli e la ricchezza sconfinata della bontà e della misericordia di Dio.
    Il metodo pastorale di Paolo per permettere ad altri di fare la stessa esperienza e di maturare nella fede è presentato in modo occasionale in quasi tutte le sue Lettere ma è particolarmente significativo nel c. 15 della Prima Lettera ai Corinti. È la fede nella risurrezione, fede intesa non come una verità astratta ma come un nucleo dinamico che trasforma la propria vita. Paolo richiama l'antico credo cristiano che egli stesso ha ricevuto all'inizio della sua conversione e chiamata all'apostolato: "Vi ho trasmesso anzitutto quello che anch'io ho ricevuto" (1 Cor 15,3-4). Paolo elenca la serie di quelle persone che hanno fatto l'esperienza del Signore Vivente. L'accento è qui. Il Signore Vivente ha potuto incontrare gli uomini in una dimensione nuova. Gesù "apparve": il linguaggio è lo stesso dell'AT ma nessuno: Abramo, Mosè, i profeti hanno incontrato Dio nella loro vita. Gesù ha incontrato, ha vissuto, ha mangiato, ha camminato, ha parlato con gli uomini a cui ora va incontro anche al di là della morte. Lo stesso incontro del Signore con Paolo è stato per lui una nuova nascita. L'incontro con il Signore Vivente lo ha trasformato. E questa esperienza deve comunicarla anche agli altri. Ecco come appare la fede per le prime comunità cristiane: è l'accoglienza della testimonianza del Risorto attraverso una catena di persone che lo hanno incontrato e Lui, il Vivente, li ha messi in contatto con Dio.
    Basta ripercorrere poi gli Atti degli Apostoli e tutto l'Epistolario Paolino per accorgersi come la missione cristiana che è una dimensione connaturale alla fede prolunga la missione di Gesù, missionario del Padre. Una missione che mostra come il cristianesimo è un movimento internazionale, aperto a tutti gli uomini, senza discriminazioni di cultura, di religione e di razza. Gli Atti descrivono la chiesa primitiva nella storia a contatto con gli ebrei, con la società e il potere politico, giudaico e romano.
    Paolo assieme a Barnaba aiuta a capire, nell'episodio di Listra (At 14,8-18), come la nuova esperienza cristiana è capace di dialogare senza problemi anche con l'esperienza di una religiosità popolare di tipo rurale: Dio ha disseminato nel mondo, e sono a disposizione di tutti, tracce della sua presenza. Atene diventa poi il luogo ideale in cui Paolo può illustrare il rapporto tra Vangelo e cultura. L'annuncio del Vangelo accoglie e dà una risposta alla ricerca sincera di Dio e dà un annuncio nuovo che si chiama amore e libertà di Dio come si è manifestato nel fatto unico e irrepetibile della morte e risurrezione di Cristo, massima rivelazione dell'amore e della libertà (Cf B. MAGGIONI, Esperienza spirituale nella Bibbia, in Nuovo Dizionario di Spiritualità, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1985, 579-586; R. FABRIS, Atti degli Apostoli, Borla, Roma 1977).

     


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