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    Parola di Dio e vita quotidiana. Saggio di interpretazione (cap. 4 di: Parola di Dio e vita quotidiana)


    Armido Rizzi, PAROLA DI DIO E VITA QUOTIDIANA, Elledici

     


    LA PAROLA DI DIO ALLA LUCE DELLA VITA QUOTIDIANA.
    RILEGGERE IL MESSAGGIO

    Accostata all'ottica della vita quotidiana come ricerca di senso, la bibbia parla, si esprime, si pronuncia con una tale spontaneità ed esuberanza, da dare subito l'impressione che quell'ottica sia la sua, che la sua «collocazione vitale» più originaria sia proprio il quotidiano. Tentiamone una rilettura su questa lunghezza d'onda.

    L'alleanza: legge e promessa

    Si ama dire che Israele nasce nell'esodo, con un atto di liberazione compiuto dal suo Dio, che lo strappa alla sottomissione e ne fa un popolo indipendente. Ma questa è soltanto la faccia negativa dell'identità di Israele il suo punto di partenza: liberato dalla schiavitù. La faccia positiva è quella che risponde alla domanda: liberato per che cosa? E la risposta suona: per entrare nella terra promessa e vivere su di essa come popolo di Dio. La terra promessa è l'utopia costitutiva di Israele, quella che lo definisce dal di dentro, che ne alimenta l'autocoscienza e ne fonda la speranza. Eppure, i contenuti che riempiono quest'utopia non hanno nulla di esilarante e di sbalorditivo: sono i beni che garantiscono e gratificano la vita di ogni giorno: salute, sufficienza, fecondità, integrazione nella comunità; insomma, un rapporto positivo con la realtà che circonda l'individuo: con uomini e cose.
    Si potrebbe dire: un quadro monotono, una promessa poco allettante. Ed è questo il nostro giudizio di popoli opulenti che, ormai assuefatti all'abbondanza, alla quantità, hanno perso sia il senso del necessario che quello della qualità. E' invece questo che caratterizza l'utopia quotidiana di Israele quale si esprime nella descrizione della terra promessa: quel senso del necessario, che soltanto i poveri sanno avere; e poi, il senso della bellezza, della qualità di questo necessario, della sua ricchezza naturale e umana. Perciò nelle pagine della bibbia circola l'odore della terra e dei suoi frutti, si distende la linea dei colli e delle valli di Palestina, scorre l'acqua dei suoi fiumi e gorgoglia quella dei suoi pozzi. La pagina biblica ha spesso l'incanto di un mondo di sogno; ma questo mondo non è altro che la vita di ogni giorno colma dei suoi beni elementari; e il sogno è nella capacità di vederli, di apprezzarli, di gustarli.
    Perché i beni della vita quotidiana hanno tanto valore? Anzitutto, perché essi sono vita; e qui dobbiamo intendere il termine in un senso diverso da quello in cui l'abbiamo finora usato. Per noi vita è l'esistenza, e sono tutti i problemi che la agitano, la muovono; come abbiamo visto, vita è il bisogno di senso e di salvezza. Nel linguaggio della bibbia, vita è invece proprio il senso e la salvezza; non il puro esistere, ma l'esistere dotato di tutto ciò che lo rende desiderabile, amabile e degno. Il concetto biblico di vita corrisponde al nostro «qualità della vita». Le cose di ogni giorno, quando ci sono, sono belle e buone, perché ricche di senso: sono «vita». Non è, questa, una spiegazione (che non spiegherebbe niente); è un'evocazione, una suggestione. La vita biblica dice, come per noi senso o salvezza, un positivo che si definisce, da una parte, dal suo contrapporsi al negativo - la morte, l'assurdo, la rovina -, dall'altra da un suo sapere interno, indefinibile ma realissimo. Israele sogna la «vita» perché nel deserto ha gustato la morte, la desolazione, e se ne sente ancora braccato, la sente ancora come una possibilità minacciosa; e poi, perché ne gusta a tratti la positività, e questa testimonia da sé il suo valore, come un bicchier d'acqua per l'assetato o la capacità di movimento per chi è stato paralizzato.
    Un altro termine a cui Israele ricorre per dire il senso delle cose è shalom, che noi traduciamo abitualmente con «pace». Ma la definizione più giusta di shalom è «pienezza armonica». Pienezza dice salute, benessere, integrità; armonica dice che tutto questo non è casuale ma risponde a un ordine delle cose, ha a che fare con i rapporti di cui il mondo è tessuto. Quando i rapporti sono buoni, un insieme funziona, un organismo sta bene, una collettività prospera: shalom significa pace in questo senso ricco e denso.
    Un terzo termine per dire il valore dei beni è benedizione: essi vengono da Dio, da quella sua parola efficace per la quale dire è fare; da quella parola che ha creato il mondo sette volte buono. Nei beni è come impastato anche quel bene che è la generosità di Dio verso il suo popolo, la sua bontà e grazia, la sua presenza donatrice.
    Vita, pace, benedizione: ecco ciò che Israele vede nel quotidiano riuscito; ecco il respiro della sua utopia, fatta di cose semplici, elementari. E quando questa visione utopica del quotidiano prende voce, nasce la pagina biblica; quando la contemplazione delle cose di ogni giorno come vita, shalom, benedizione, trova le parole adatte, nascono le ammirate descrizioni della terra promessa, o i salmi di lode per la creazione o, più tardi, le figure stupende dei tempi messianici. Ecco perché queste pagine parlano soltanto a chi le legge alla luce della vita quotidiana: perché è in questa luce che sono state scritte come pagine fondamentali di teologia. Diversamente, esse sono soltanto oggetto di compiacenza estetica. Ora, le immagini bibliche dell'utopia hanno certamente una dimensione estetica; ma la loro bellezza non è un rivestimento esterno e superfluo: è la bellezza stessa della terra quale Dio la vuole per il popolo che egli ama; una bellezza dove splende la potenza della sua parola e la luminosità della sua grazia.
    Ma non abbiamo ancora toccato un punto sostanziale del quotidiano in Israele. La terra promessa non viene data da Dio come un possesso scontato e garantito una volta per tutte; il suo dono viene vincolato a una condizione: Israele deve comportarsi degnamente, deve vivere all'altezza di quella terra. Insieme con la terra, Dio offre al popolo la legge; e la legge è il codice di vita, è il modello di condotta, seguendo il quale Israele è in grado di sviluppare le virtualità che l'esistenza su quella terra contiene, è in grado di farne davvero un luogo di vita, di shalom, di benedizione. La legge ha due facce: è data da Dio, espressione della sua volontà, esigenza di obbedienza da parte dell'uomo; ma i suoi contenuti sono in funzione dell'uomo stesso, sono rivolti al suo bene, alla riuscita del suo esistere. C'è già qui quella dualità di aspetti che poi si fissa nella bibbia: la legge è parola di Dio ed è salvezza dell'uomo; insieme con la terra, essa costituisce l'alleanza tra Dio e l'uomo, dove Dio è il signore e il donatore, l'uomo il vassallo e il beneficiario.
    Ora, se già nel dono della terra spicca l'orizzonte della quotidianità, ancora più evidente è quest'orizzonte nel dono della legge: essa infatti si rivolge all'uomo - in concreto, a Israele come collettività e come singolo -, interpellando la sua libertà, mettendo nelle mani dell'uomo la riuscita stessa del proprio esistere. Ma questo vuol dire che tale riuscita non è mai né un dato naturale né una conquista fatta una volta per tutte: essa viene continuamente rimessa in gioco, nel gioco della libera decisione, della scelta di fronte a cui l'uomo continuamente si trova: la scelta tra l'obbedienza a Dio nella sua legge e il rifiuto di essa, tra la fedeltà o l'infedeltà all'alleanza; di conseguenza, tra la vita e la morte, tra la benedizione e la maledizione. Il tempo della scelta è ogni giorno: è l'«oggi» che così spesso riecheggia nelle pagine del Deuteronomio, il libro del presente di Israele (come l'Esodo è il libro della sua memoria storica). Oggi la parola di Dio chiama nel dettato della legge e sollecita la concreta obbedienza dell'uomo; oggi la terra deve diventare, attraverso quest'obbedienza, terra promessa, luogo di vita e di pace.
    Un termine che può sostituire quello di osservanza della legge è «giustizia», che dice a un tempo l'essere giusti dinnanzi a Dio e verso gli uomini; infatti la legge morale che dà concretezza all'alleanza con Dio è un codice etico-sociale che esige l'aiuto al povero, la sua promozione. Ed è proprio nella terminologia della giustizia che troviamo quella formulazione che riassume la spiritualità di base dell'Antico Testamento, e che sentiamo ancora così attuale: «frutto della giustizia sarà la pace» (Is 32,17).
    Tutto questo - promessa e legge - è rivolto direttamente a Israele; ma la logica che lo sottende è già universalmente umana. Vi sono comunque testi in cui quest'universalità è dichiarata, il più importante è il racconto delle origini nell'Eden (Gen 2). E' facile leggere in questa pagina il sogno infantile di un mondo felice senza sforzo, riuscito senza fatica, perfetto senza impegno né lotta. Ma il suo significato è esattamente il contrario. L'Eden è il mondo della maturità umana, perché è sotto il segno dell'alleanza e della legge. Adamo - cioè l'uomo come tale - ha dinnanzi a sé la possibilità di vivere su una terra benedetta, dove le relazioni con se stessi, con gli altri, con il mondo, presentano una pienezza senza riserva e un'integrità senz'ombra. Ma la realizzazione di questa possibilità non è scontata; è invece legata a un atteggiamento di fondo: vivere questa terra nella luce di Dio, accettarne la signoria e non volersi sostituire a lui. Come la terra promessa, anche l'Eden - che ne è la versione su scala generale - ha in sé l'impronta della libertà, quindi del rischio, della scelta: può riuscire e può fallire; e l'alternativa tra riuscita e fallimento è nel cuore dell'uomo.
    In questa congiunzione tra cuore e mondo, tra fedeltà dell'uomo e riuscita della terra, c'è la più profonda apologia della vita quotidiana.

    La colpa e la morte

    Se la vita viene dalla fedeltà all'alleanza nell'obbedienza alla legge (cioè nelle opere di giustizia), la morte deriva dall'infedeltà, da una condotta che si discosta dal cammino della legge e si chiude alle esigenze della giustizia. Su questo punto, due sono le affermazioni che ci trasmettono il messaggio dell'Antico Testamento: una di principio e una di fatto.
    La prima è, appunto, che lo stesso vincolo indissolubile che lega tra loro obbedienza e vita salda tra loro anche disobbedienza e morte. E come vita non significa semplice sopravvivenza ma positività e sapore dei beni, così morte non è tanto la cessazione dell'esistenza quanto la sua corrosione: ogni forma di negativo che minaccia l'integrità dell'essere, che menoma la pienezza di vita, è biblicamente morte. Morte è la malattia, la povertà, l'emarginazione, il pericolo che incombe, l'esilio; tutte queste carenze, queste figure di negatività esistenziale, segnano un parziale fallimento dell'utopia umana e della promessa divina. Ora, dietro di esse la coscienza di Israele non vede profilarsi una fatalità, un destino baro, bensì un'altra negatività, più originaria e profonda: la colpa, la ribellione all'alleanza; dietro il male che colpisce l'uomo c'è il male che l'uomo fa.
    Si noti bene che il rapporto non si stabilisce dentro l'individuo (la connessione: hai peccato, dunque soffri, riferita all'individuo, è posteriore), ma riguarda la comunità, la trama delle relazioni tra individui dentro la collettività. L'alleanza non dice: chi rompe paga; ma: per ognuno che rompe c'è qualcuno che paga; afferma dunque un gioco di corresponsabilità reciproca, un principio di solidarietà. Perciò chi è colpito dal male si trova in una situazione paradossale: in quanto quel male è effetto della colpa, egli si sente oggettivamente lontano da Dio, escluso dalla sua benedizione, ma se la colpa non è sua, se egli è vittima innocente, si sente più vicino a Dio e lo chiama con passione e fiducia. Come i beni quotidiani nella loro semplicità riempiono di gioia l'uomo di Dio perché sono vita e benedizione, così la loro assenza lo riempie di un'amarezza che non è soltanto disagio sensibile ma coscienza che essa è morte e maledizione. E come il godimento dei beni fa sprigionare il canto di lode a Dio, così la loro mancanza strappa il «grido» di lamentazione e la domanda dell'intervento divino.
    Ma l'Antico Testamento non si limita a stabilire la relazione di principio tra peccato e morte; esso testimonia anche, in secondo luogo, che quella relazione ha trovato una puntuale messa in opera nella storia d'Israele. I poveri, i falliti, i privati delle benedizioni divine non sono un'ipotesi che la storia del popolo di Dio abbia scongiurato; sono una dolorosa realtà che continuamente la accompagna. E questa presenza si fa così consistente, da costituire e denunciare il fallimento stesso di Israele come popolo di Dio. E dall'interno delle sue file che si alza la denuncia: alcune voci ispirate - i profeti - richiamano al popolo, e soprattutto ai suoi capi, la legge fondamentale dell'alleanza nella sua faccia minacciosa: il rapporto tra colpa e morte, tra ingiustizia ed eclissi della pace.
    Ma il richiamo, più che a evitare la catastrofe, serve a spiegarla quando essa arriva. Quando Gerusalemme cade nelle mani di Babilonia, quando il tempio viene distrutto e la parte più qualificata del popolo deportata, Israele comprende che tutto ciò non è cattiva sorte né soltanto malaccorta conduzione politica è frutto dell'alleanza tradita, è la potenza di morte che emana dalla colpa. Dietro la caduta clamorosa di un regno c'era la quotidiana caduta dei suoi abitanti da quell'obbedienza alla legge che avrebbe potuto garantire la continuità della terra promessa. C'era lo svuotamento della legge, che comandava che i beni fossero di tutti e li vedeva invece accumulati nelle mani di pochi, ridotti da dono di Dio per la comunità a possesso di settori privilegiati dentro la comunità.
    Come per la promessa, così per la colpa, Israele non fa che esprimere su scala ridotta la vicenda universale dell'umanità; vicenda che trova una formulazione diretta nella pagina del «peccato originale»: con la ribellione a Dio l'uomo determina la propria cacciata dall'Eden, la perdizione del proprio esistere. Originale è davvero questa ribellione, e la rovina che ne deriva; ma non perché sia accaduta alle origini temporali del mondo, nell'episodica avventura di un individuo, bensì perché essa costituisce, in negativo l'opzione fondamentale di ogni uomo e dell'intera collettività umana: rifiutarsi di vivere la terra secondo Dio e volerle imporre la propria signoria, volersene fare padroni. Allora la terra sfiorisce, perché cessa di scorrere nelle sue vene la linfa che la vivifica: la potenza d'amore e di benedizione che la rende buona.
    Anche qui l'ottica del quotidiano è decisiva: quello che, preso nella sua letteralità, sarebbe un mito inverosimile, interpretato nella prospettiva dell'«oggi» continuo, diventa l'autocoscienza sempre valida della nostra capacità di guastare i rapporti, di rovinare l'amicizia con ciò che vive attorno a noi.

    La redenzione messianica

    Colpa e morte non sono l'ultima parola. Dio vi risponde con la proposta di una nuova terra promessa, di un rinnovato Eden. E' questa l'immensa speranza che attraversa le profezie messianiche: il mondo buono può tornare, vita e pace possono rifiorire. E perché la ribellione umana non abbia a far precipitare ancora tutto, Dio inventa una soluzione che l'alleanza con Israele non contemplava; dona all'uomo, invece di una legge come codice oggettivo di comportamento, il suo stesso Spirito come principio soggettivo: principio non di un comportamento automaticamente buono, ma di una libertà capace di rinnovarsi, di rialzarsi dopo nuove eventuali cadute, di risorgere continuamente dopo ogni colpa e ogni morte.
    L'arco intero del dono messianico è dunque questo: in Dio, la volontà efficace di perdono; nell'uomo, lo Spirito che restaura la libertà; nel mondo, la vita che scaturisce dalla libertà buona.
    Allora, anche il significato della presenza di Gesù come Messia va inteso sulla lunghezza di quest'onda riconciliatrice e ricreatrice: egli porta il perdono del Padre, dona lo Spirito, inizia la ricostituzione del mondo; e tutto ciò, prima nel tempo breve della sua vita pubblica e nello spazio limitato della sua terra, poi in tempo e spazio universali; prima nell'azione messianica, poi nella passione messianica.

    L'azione messianica di Gesù

    Sedendo a tavola con i peccatori, Gesù compie un gesto non solo di profonda rottura nelle convenzioni sociali ma di sconvolgente portata teologica. In nome di Dio egli rivolge l'espressione più tipica di amicizia verso coloro che sono, ufficialmente e realmente, in posizione di inimicizia con Dio («sotto la collera di Dio», come dirà Paolo). Sedere insieme a tavola è ristabilire la comunione; non solo ricucire un'intesa funzionale ma condividere quanto c'è di più personale: l'intimità della casa, il momento del pasto.
    Ma questa riconciliazione non vuol essere unilaterale: in Gesù, Dio diventa amico dei peccatori perché i peccatori diventino amici di Dio, si convertano a lui. Il gesto di pace è accompagnato dalla parola che chiama a conversione; e non Si tratta di parola tutta esteriore, che richiami di fronte all'interlocutore l'esigenza di cambiare ma lo lasci in balia di se stesso, delle proprie risorse di mutazione. La parola di Gesù rende presente il regno di Dio: contiene e sprigiona quella signoria di Dio che il peccato ha cancellato dalla vita dell'uomo. E' parola efficace, che penetra nel cuore dell'uditore, che diventa il cuore del suo cuore, che gli ridona la libertà per il bene, la capacità di aderirvi, di operarlo, di diffonderlo.
    E quale sia la creatività del bene, Gesù lo mostra in prima persona con quegli interventi che sconfiggono la malattia, la fame, la possessione diabolica, la morte: nella prassi messianica di Gesù si vede esemplarmente come il cuore giusto produca il mondo buono.

    La passione messianica

    Ciò che Gesù realizza, agendo, per un piccolo numero di conterranei e contemporanei, lo realizza, morendo, per gli uomini di ogni tempo e in ogni luogo. Nella morte di Gesù Dio concede il perdono all'intera umanità: è questa l'affermazione centrale del Nuovo Testamento. Il Crocifisso che risorge e siede alla destra del Padre è, rappresentativamente, l'umanità riaccolta nella casa dello stesso Padre, come il figliol prodigo.
    Ma perché la rappresentanza diventi realtà, dal Crocifisso risorto scaturisce lo Spirito che rende puntuale e attivo nelle coscienze il perdono, che provoca la conversione e fa germinare la libertà.
    Da questa libertà nasce la nuova esistenza, che nella primitiva comunità di Gerusalemme trova un'espressione eloquente: esistenza di comunione, di partecipazione, di sufficienza per tutti, di gioia (Atti 2): è il ritorno all'Eden, è la terra promessa, è la pace sognata dai profeti. Le comunità del Nuovo Testamento conosceranno la tentazione di fuggire dal quotidiano: alcune verso il futuro, con un'attesa spasmodica del ritorno di Gesù e della fine del mondo; altre verso l'interno, con una sopravvalutazione di fenomeni carismatici quali l'estasi, l'eccitazione nella preghiera e simili. Ma la coscienza di fede, guidata dai suoi maestri e teologi (soprattutto Paolo e Giovanni), sarà riportata all'autentica creatività dello Spirito: i frutti della fraternità, l'edificazione della comunità, l'aiuto reciproco, la volontà di pace. Vivere nel segno del Crocifisso risorto, accoglierne e praticarne la signoria, è lavare i piedi agli uomini, è prolungare la sua prassi di servizio.
    Se l'azione messianica di Gesù è stata la consacrazione del quotidiano suo e di chi lo incontrava, la passione messianica è per sempre - nella luce del Risorto e nell'effusione dello Spirito - la consacrazione del quotidiano di ogni uomo, la ridata possibilità di viverlo con senso convivendolo con amore. Ma per trovare nei vangeli questo annuncio e questa promessa bisogna leggerli con quell'attesa e quella ricerca di senso che la vita quotidiana porta in sé.

    LA VITA QUOTIDIANA ALLA LUCE DELLA PAROLA DI DIO.
    RIVIVERE IL MESSAGGIO

    Se accostiamo parola di Dio e vita quotidiana, sappiamo che esse si illuminano a vicenda. Ma questo influsso reciproco non è uguale dalle due parti: la vita quotidiana funge da precomprensione e aiuta a rintracciare nel testo una linea di messaggio che, diversamente, passerebbe inosservata; la parola di Dio investe della luce del suo messaggio la vita quotidiana per indicarle quel senso di cui essa è in cerca. La vita quotidiana permette di trovare nella bibbia un significato che in essa è presente ma rischia di restare nascosto; la bibbia dà alla vita quotidiana un senso che questa da sola non possiede né saprebbe darsi. Dopo aver trovato quale messaggio emerge dalla bibbia interrogata con quella ricerca di senso che è la vita quotidiana, ora torniamo alla vita quotidiana con la ricchezza di senso che viene dalla bibbia.
    Ma dobbiamo qui distinguere due livelli di analisi: il primo riguarda la parola di Dio come tale, nella sua forma e nel contenuto centrale; il secondo, riguarda l'articolazione di questo contenuto. Il primo risponde alla domanda: che cosa comporta per la vita quotidiana il sapere che Dio ha parlato e che la sua parola abita in mezzo a noi? Il secondo risponde a un'altra domanda, che specifica la prima: che cosa dice alla nostra vita quotidiana la parola di Dio insediata in mezzo ad essa?

    Il contenuto centrale: la realtà ha senso

    Sapere che la parola di Dio abita in mezzo a noi significa affermare che la nostra vita quotidiana è dotata di senso. E' poco ed è moltissimo. Non è ancora conoscere le determinazioni dell'esistenza, ma è sapere che questa non è abbandonata a se stessa, ha un fondamento; che alla sua origine non sta il caso ma un atto che le dà significato e valore, e che alla sua fine non sta il nulla ma il trionfo della vita.
    Ma la presenza della parola di Dio non riguarda solo il nostro esistere; essa abbraccia pure il nostro agire. In un'esistenza che non avesse ricevuto un senso ma dovesse darsene uno, quale che sia, l'agire dell'uomo sarebbe pura inventività, scelta che ha come misura unicamente se stessa; in un'esistenza a cui il senso fosse dato bell'e fatto, interamente compiuto, l'agire dell'uomo sarebbe semplice conservazione, mantenimento dell'ordine vigente. Ma la parola di Dio ha la forma di appello a gestire creativamente il senso che è stato donato; alla luce di quella parola l'agire dell'uomo è allora responsabilità cioè libertà concreatrice, chiamata ad attuare quei senso che le è dato come possibilità, a portare a termine quel senso che le è dato come incompiuto.
    Alla luce della parola di Dio, esistenza e attività dell'uomo costituiscono dunque un intreccio indissolubile di interpretazione della realtà e di trasformazione della medesima. L'interpretazione è il momento fondante: è l'ascolto e la disponibilità, senza i quali la trasformazione si pervertirebbe in intervento arbitrario, in deformazione. La trasformazione è il momento della messa in opera dell'interpretazione, della sua traduzione operativa, senza la quale l'interpretazione ristagnerebbe in pura e inerte contemplazione. Interpretazione del senso e trasformazione del mondo non sono in contraddizione ma in rapporto di continuità organica: il senso è dato ed è da fare, è donato ed è da operare; secondo la bella immagine evangelica, la parola di Dio è un seme: la vita è già nel seme, e non gli viene né dal terreno né dal lavoro, ma senza buon terreno e alacre lavoro il seme isterilisce e muore.
    L'incontro con la parola di Dio ha dunque questo duplice e unitario effetto: illuminare l'esistenza e attivarla, donarle la verità e chiederle di «fare la verità». Ma come fare? che cosa fare concretamente? Per rispondere a questa domanda bisogna ricorrere alle parole in cui la Parola si è consegnata, bisogna interrogare la bibbia sulle linee specifiche del suo contenuto, indagare i tratti del suo messaggio.

    L'articolazione

    Il senso della vita quotidiana si realizza nel dono

    Lo scambio dei doni è una delle pratiche più diffuse nelle diverse culture umane. Ma quando noi leggiamo in profondità la storia di Dio con gli uomini quale è narrata nella bibbia, ci accorgiamo che qui il dono non è una pratica particolare, per quanto ampia, ma è la logica che tutto sottende. C'è un rito in cui questa logica prende figura, e che il Deuteronomio ci presenta in tonalità commosse e partecipi: è l'offerta delle primizie (Dt 26,111). Con i primi prodotti annuali del suolo l'israelita si presenta al sacerdote, mette nelle sue mani la cesta (che viene deposta sull'altare) e pronuncia la professione di fede (il «credo» d'Israele), in cui narra come Dio abbia liberato il popolo dalla schiavitù d'Egitto e l'abbia portato sulla terra promessa, da cui questi frutti provengono. Le primizie sono appunto il gesto di riconoscimento, insieme concreto e simbolico, che tutto viene da Dio ed è dono suo; inoltre alla gioia che si irradia da questo gesto sono chiamati a partecipare tutti, anche gli immigrati, così che non vi siano esclusi né emarginati.
    Il dono è scandito in due momenti: nel primo discende da Dio al popolo, nel secondo deve circolare dentro il popolo, da membro a membro, senza eccezione. Al primo l'uomo risponde con la recettività, al secondo con l'attiva responsabilità. Abbiamo già incontrato questi due movimenti trattando dell'aspetto generale della parola di Dio: essa dà senso al mondo e sollecita la libertà dell'uomo a collaborare alla realizzazione di questo senso. Ma dobbiamo ora dare un volto più definito a questa presenza e attivazione del senso nella realtà; e la parola di Dio ci viene di nuovo incontro per dirci che questo volto va cercato nella logica del dono. In astratto, si potrebbe pensare che il senso della realtà debba essere accolto e custodito da ogni uomo nel segreto del suo cuore, e che la responsabilità nei confronti del senso sia di non disperderlo, di coltivarlo nella meditazione silenziosa, come luce e cibo dell'uomo interiore. Ma l'indicazione che ci viene dalla bibbia è diversa: essa ci dice costantemente - dalla comunità dell'esodo alla comunità cristiana primitiva - che il senso si oggettiva nei rapporti, che la responsabilità è corresponsabilità, che la realtà raggiunge il suo compimento soltanto se vissuta nello scambio della effettiva solidarietà. In una parola: secondo la bibbia il senso della realtà è il dono; questa è la ragione più profonda per cui soltanto nella vita quotidiana esso può realizzarsi.
    Cerchiamo di riprendere quest'intuizione fondamentale della coscienza religiosa ebraica e cristiana, e di ripensarla a contatto delle esigenze di problematizzazione che sono le nostre. I punti che vogliamo brevemente fissare sono tre.
    Anzitutto: l'affermazione che il dono è il senso della realtà non va presa come un'enunciazione retorica o devota, una parola d'ordine per risvegliare generosità sopite, per suscitare crocerossine dall'impegno inesauribile. Quell'affermazione vuol avere, invece, una portata ontologica: la realtà è nella misura in cui è donata. Per comprendere che significa questa asserzione bisogna avere presente che le cose hanno senso soltanto in riferimento a un soggetto; in se stesse si limitano a «esistere», come pure e mute presenze nel silenzio del mondo. E' il rapporto con l'uomo che le fa «essere», le illumina di un significato, fa emergere da esse un valore. Ma tale rapporto è molteplice. In quanto le cose entrano nel linguaggio dell'uomo, diventano intelligibili, si disegnano come figure nel quadro dell'universo progressivamente conosciuto e capito. Qui il loro «essere» è verità ed esprimibilità. In quanto rispondono ai bisogni dell'uomo, le stesse cose sono beni da usare e da godere; il loro «essere» è la bontà intesa come gradevolezza, fruibilità. Ma, come abbiamo visto, alla base di ogni cosa c'è l'amore creatore che la dona all'uomo, così che essa non è soltanto buona in quanto piacevole ma anche in quanto espressione di una bontà personale; così come un oggetto ricevuto in dono, oltre al suo valore intrinseco ha il valore di testimonianza di un amore e di impegno a non dimenticarlo. E questa la dimensione radicale dell'«essere» delle cose; senza di essa, non sarebbero neppure intelligibili e piacevoli, utili e belle. La bontà del loro essere donate non appartiene loro, come invece vi appartengono le altre qualità, eppure è «intimior intimo meo»: è più interna alle cose di quanto siano le loro qualità, perché fonda queste qualità, è il loro stesso scaturire dalla sorgente dell'essere, è la creazione.
    Ora, questa dimensione si attualizza nella realtà se essa viene accolta e acconsentita; diversamente, rimane bloccata e come impedita. Accolta: il dono mi viene da Dio. Acconsentita: devo fare mia non solo la realtà ma anche l'intenzione che la dona, devo a mia volta donarla. In questo dono che consente al dono, in questa condivisione, la realtà raggiunge la pienezza dell'«essere» perché arriva alla sua destinazione, a quel fine che le urge dentro e che attende di essere compiuto.
    Ma allora - è il secondo punto - non esiste realtà che possa raggiungere la sua pienezza senza la mediazione della libertà personale. Infatti il dono è atto eminentemente personale. Tutte le tecniche e le strategie di trasformazione del mondo sono intrinsecamente inadeguate al compito, se non sono sottese da quella stessa volontà di dono da cui il mondo è creato e con cui è consegnato all'uomo. E invece, anche il minimo gesto di dono, se si concreta in un'azione oggettiva ed efficace, porta a compimento un frammento di mondo, gli conferisce l'«essere» e il senso nella più profonda delle accezioni. Ecco la potenza della vita quotidiana: essa è il luogo privilegiato del senso perché è il luogo originario del dono. Se l'intenzionalità di dono può e deve essere presente in tutti gli ambiti dell'attività dell'uomo (dunque anche nella politica, nella scienza, nel diritto, nella tecnica...), essa ha nella vita quotidiana il suo laboratorio sperimentale e il suo segno efficace. Laboratorio, perché è qui, nelle relazioni immediate, che la persona mette alla prova la sua effettiva capacità di dono, misura quanto di autentico e quanto di illusorio ci sia nei propri sogni di giustizia e di amore universale; segno, perché nei gesti semplici della vita quotidiana il dono non è solo presente ma è come visibile, palpabile, esperibile nel profumo di bontà che diffonde, e come la testimonianza di se stesso.
    Il terzo punto è che la conversione biblica non consiste nel trasferire il desiderio dai beni terreni ai beni celesti, dal visibile all'invisibile, dal «materiale» allo «spirituale», ma nel cambiare il modo di guardare e di trattare i beni terreni, visibili, «materiali»: è conversione dal desiderio al dono, è passaggio non da un ordine di oggetti a un altro ma da un tipo di soggetto a un altro. La pedagogia di Dio non va dall'Antico al Nuovo Testamento, nel senso di un'educazione al distacco dal terrestre (Antico Testamento) e di un'ascesa verso il celeste (Nuovo); ma è intrinseca all'Antico Testamento, come educazione nell'uso dei beni terrestri: la fiducia in Dio e la solidarietà invece che la ricerca del possesso come fonte di securizzazione e di soddisfazione egoistica. Il cammino dall'Antico Testamento al Nuovo è un altro; è quello su cui abbiamo scandito il nostro itinerario: la vocazione al dono e la colpa come suo rifiuto e fallimento (Antico Testamento); poi la redenzione nel perdono (Nuovo). Se la vocazione al dono ha illuminato la nostra comprensione della vita quotidiana, la denuncia della colpa non ha anch'essa qualcosa da insegnarci?

    Il senso della realtà si aliena nel rifiuto: il cuore avido e violento

    La colpa che i profeti denunciano in Israele è duplice: l'idolatria e l'ingiustizia. Ma dietro ambedue sta una radice comune: il possesso. E' nella volontà di possesso che nasce l'ingiustizia, l'indebita appropriazione dei beni; ma è nella stessa volontà che getta le radici anche l'idolatria. Infatti gli idoli a cui Israele si rivolge sono le divinità cananèe della fertilità dei campi e della fecondità del bestiame; è dunque una ricerca di sicurezza nel possesso dei beni che lo spinge al culto di quelle divinità. Identica è la storia della colpa originale: il frutto proibito non è un bene accanto agli altri, ma l'atteggiamento di avidità nei confronti di ogni bene: non basta ad Adamo godere la bellezza e bontà dell'eden; egli vuole possederla, vuol esserne il padrone, non riceverla in dono ma sentirla «sua».
    Ebbene, conosciamo in ambedue i casi il risultato della volontà di possesso: Adamo viene cacciato dall'eden come Israele viene deportato dalla terra promessa; e in questa esclusione geografica è raffigurata la rovina che, nell'uno come nell'altro caso, i due protagonisti hanno operato con le loro stesse mani: un luogo dove è entrato il conflitto tra gli uomini e con la natura non è più l'eden, così come una terra dove si adora l'idolo e si pratica l'ingiustizia non è più la terra promessa. Cacciata e deportazione non sono che le ratifiche ufficiali di una morte che è cresciuta dentro e ha devastato la bontà del mondo.
    Anche qui la storia biblica è parabola, in negativo, della vicenda del senso; anche qui essa ci insegna, attraverso la narrazione, la legge profonda della realtà e della sua scansione nella vita quotidiana. Se il mondo è sotteso dalla logica del dono, negare questa logica equivale a sovvertire l'ordine del mondo; ora, il possesso è appunto il rovesciamento del dono. Se la logica del dono riceve il mondo dalle mani di Dio e si abbandona con fiducia alla gratuità del suo amore, la logica del possesso vuole affermare sul mondo il proprio diritto: sia per bisogno di sicurezza, che diffida dell'altro e vuole toccare con mano, sia per orgoglio che rifiuta la dipendenza e la riconoscenza. Ma ancora: se la logica del dono fa circolare i beni, nella coscienza che essi sono di tutti e che bastano per tutti, la logica del possesso se ne appropria e li sottrae a questa destinazione comune.
    Ma la storia biblica ci dice che questo rovesciamento nell'atteggiamento umano di fronte al mondo non rimane un fatto circoscritto alla soggettività dell'uomo ma Si irradia sul mondo stesso e ne sconvolge l'ordinamento. Ne abbiamo un esempio di estrema attualità nel problema ecologico: la volontà di dominio e di sfruttamento della natura che è intrinseca alla tecnologia avanzata ha causato quei guasti nel tessuto naturale che ormai tutti conosciamo e lamentiamo. Facendosi padrone delle cose, l'uomo ne violenta la natura perché nega quel dono di senso che esse portano in sé. Un altro esempio - e questo riguarda le cose come dono da condividere - sono i rapporti Nord-Sud su scala mondiale: la mancata divisione dei beni significa per le nazioni povere carenza di quantità, per quelle ricche carenza di qualità; quelle si dibattono nei problemi causati dalla miseria, queste nei problemi causati dall'opulenza.
    Se il dono è l'«essere» delle cose, viverle al di fuori della logica del dono vuol dire negare questo essere, sottrarre loro ciò che hanno di più profondo, ridurle a strumenti, a mezzi per realizzare i propri scopi. In questo modo le cose perdono di dignità, il mondo diventa un capanno di attrezzi o un serbatoio di materiali.
    Ma, più ancora delle cose, il rifiuto del dono altera i rapporti tra gli uomini, insinuandovi l'indifferenza e l'inimicizia. La volontà di possesso rivolta ai beni porta all'esclusione e quindi alla concorrenza; l'altro diventa il nemico, l'ostacolo alla conquista, colui che si deve sconfiggere o addirittura eliminare. E questa inimicizia non è soltanto un episodio che riguarda di volta in volta persone determinate; è un sentimento di fondo, che si forma e si deposita nel cuore come una seconda natura, come una potenza di aggressione che le circostanze mettono in movimento. Chi è comandato dalla volontà di possesso si sente in diritto nei confronti di ciò che lo circonda, e vive gli altri come minacce di questo suo diritto, come ingiusti aggressori. Allora la sua violenza gli appare come una elementare e necessaria controviolenza: è giustificata per definizione, è sempre legittima difesa. E questa la logica che comanda lo scatenarsi delle guerre; ma essa si verifica in miniatura nelle relazioni che costituiscono la vita quotidiana. Non è un caso che i vizi particolarmente presi di mira nelle esortazioni apostoliche del Nuovo Testamento siano quelli legati ai rapporti interpersonali nelle comunità. Paolo in particolare sa che queste sono le «opere della carne», cioè effetti e manifestazioni dell'uomo chiuso in se stesso, dell'uomo che si è negato al dono; e conosce il loro potere di disgregazione: una comunità attraversata da questi sentimenti e atteggiamenti è votata alla morte, anzi porta già in sé la morte.
    Letta alla luce della parola di Dio, la vita quotidiana appare come il campo del conflitto tra dono e rifiuto; che essa diventi luogo di senso o suo vuoto non è, in ultima analisi, risultato di fattori esterni o di dinamiche psicologiche, ma di questa lotta che riguarda la vocazione dell'uomo e del mondo, e che nel cuore dell'uomo ha la sua sede e nello spazio del mondo - umano e naturale - il suo esito.

    Il senso della realtà è riscattato dal perdono

    Se il rifiuto non è soltanto una vicenda puntuale, più o meno fitta, della storia degli uomini, ma il gesto complessivo che riassume la storia dell'intera umanità, vuol dire che questo ha determinato il fallimento della creazione negando quella volontà di dono che la animava e la reggeva. E' questo, ripetiamolo, il senso della cacciata dall'eden; ed è il senso di quella situazione disperata in cui Paolo vede precipitata sia l'umanità (Rom capp. 1 e 7) che la natura (Rom 8,19ss). Allora, il perdono che Dio accorda all'uomo in Gesù non è un fenomeno che tocchi esclusivamente la coscienza, ma costituisce la vicenda sociale e cosmica per eccellenza. Croce e risurrezione di Gesù sono la ricreazione del mondo, perché gli restituiscono l'amore di Dio che gli dà senso e bontà. La creazione buona non ci giunge più soltanto dalla mano del Padre; essa passa attraverso il corpo crocifisso e glorioso del Figlio. Il dono dell'essere non ha più l'innocenza del primo mattino (la Genesi) ma è segnato dalla riconciliazione del secondo (la Pasqua). Questo fatto conferisce a tutta l'esistenza dell'uomo - ne sia consapevole o meno - un carattere cristologico: come ci dice con insistenza quasi ossessiva il vangelo di Giovani, Gesù «è» ogni cosa buona: il pane e l'acqua, la luce e la vita, il pastore e la strada.. (questo vogliono dire le autoaffermazioni: Io sono il pane...). Tutto riacquista senso - il senso fondamentale - nell'evento Cristo.
    Ma il carattere cristologico non riguarda esclusivamente la faccia recettiva dell'esistenza umana, il suo aprirsi al dono divino rinnovato dal perdono; esso investe pure la faccia attiva, la legge della circolazione del dono. Ormai non è più possibile donare senza perdonare, non è più possibile prolungare il gesto creatore di Dio senza passare attraverso il gesto della riconciliazione. Interpretata alla luce della parola di Dio, la vita quotidiana è chiamata a diventare l'apoteosi del perdono.
    Ma che significa perdonare?
    Perdonare significa vincere con un gesto d'amicizia la situazione di inimicizia che si è determinata tra noi e l'altro, superare il muro che ci divide, riconciliarsi. Ma qui le cose stanno diversamente per noi e per Dio. Quando Dio perdona, egli dissolve un'inimicizia che è stata interamente prodotta da noi; egli «riconcilia a sé il mondo» (2 Cor 5,19) facendosi vicino agli uomini con un gesto di nuova gratuità, di nuova qualità. Anche nel perdono umano c'è stesso questa dimensione di gratuità, questa potenza d'amore che vince l'indifferenza o la volontà di male che l'altro ci ha opposto. Ma il punto di partenza è diverso.
    Per noi riconciliarsi è sempre anzitutto superare l'inimicizia che sta dentro di noi; è negare quel cuore violento che àltera la nostra visione delle cose facendo apparire tutti e tutto o come docili strumenti della nostra volontà di affermazione o come pericolosi avversari e ostacoli. Per noi, l'altro è colpevole a priori, e colui che lede i nostri diritti, che ci fa torto, che resiste ingiustamente alla nostra volontà di vita. Ora, perdonare non è certo far la pace con tutte queste cose, lì dove esse sono effettivamente presenti; non è lasciarsi opprimere, accettare che i propri diritti vengano calpestati. Perdonare è rinunciare a quell'occhio avvelenato che ci porta a vedere sempre nell'altro l'oppressore e in noi l'oppresso, nel vicino l'offensore e in noi stessi l'offeso; è rinunciare a proiettare irresistibilmente l'immagine dell'altro come nemico. E' superare quella violenza germinale che ci fa sentire sempre in credito con la realtà perché la definisce pregiudizialmente come soggetto di doveri di fronte a noi soggetti di diritti.
    C'è una parola che esprime questo atteggiamento negativo di fronte alla realtà: risentimento. Ebbene, perdonare è anzitutto, per l'uomo, vincere il risentimento, rimettere a fuoco la verità alterata, disattivare la pretesa di giustizia che ammanta l'orgoglio ferito. Allora uomini e cose riacquistano per noi la loro dignità; soprattutto gli uomini, tornano ad essere «persone» con cui si può dialogare (magari per portarli a riconoscere i loro torti effettivi), cessano di apparirci come belve travestite che minacciano i nostri interessi.
    Una lunga esperienza insegna che il vero acido corrosivo dei rapporti interpersonali è l'insana tendenza a proiettare nell'altro una volontà di inimicizia e a mettersi dinnanzi a lui come chi difende diritti lesi e rivendica diritti misconosciuti; allora il rapporto è subito guerra: dichiarata o mimetizzata, aperta o dissimulata. E questo vale sia nelle più intime relazioni tra singoli che nei rapporti tra gruppi: classi sociali, confessioni religiose, partiti politici, nazioni, razze. In ogni conflitto, insieme con gli interessi oggettivi che sono realmente in gioco, c'è sempre anche il peso del risentimento; ogni lotta, anche quando è giusta, è attraversata da questa corrente di diffidenza che ne oscura i termini reali e ne fa uno scontro di violenza.
    Il perdono è l'antitesi a tutto ciò; è la pacificazione del cuore che genera la trasparenza dello sguardo e, di conseguenza, la capacità di vedere le cose come sono. Il perdono non è rinuncia alla lotta, ma capacità di lottare senza assumere la stessa logica di coloro contro cui si lotta, è capacità di servire davvero la giustizia, contro la tendenza ad asservire l'idea di giustizia ai nostri interessi sovrani. Ecco perché il perdono è ricreazione del mondo. Esso è ormai il presupposto indispensabile del dono. Senza perdonare non sappiamo donare ma, al più, scimmiottare comportamenti esterni di dono. Senza perdonare non sappiamo costruire ma, al più, accumulare prestazioni. Senza perdonare non sappiamo camminare in avanti ma, al più, correre dissennatamente su strade senza sbocchi.
    Lo Spirito del Messia, datoci come perdono organico di Dio, opera in noi prima di tutto come forza di perdono incondizionato verso i fratelli. Soltanto le opere che scaturiscono da un cuore di pace sono prolungamento della prassi messianica di Gesù, sono lotta contro il potere di Satana e avvio del regno di Dio. Il senso del mondo è ormai affidato al perdono; l'essere è affidato alla volontà di pace, la conciliazione di tutte le cose alla riconciliazione dei cuori.

    BILANCIO

    La vita quotidiana è alla ricerca di un senso che la parola di Dio riesce a conferirle, la parola di Dio è alla ricerca di un luogo in cui riversare la propria ricchezza di senso. Accolta dalla vita quotidiana, la parola di Dio attualizza se stessa, investita dalla parola di Dio, la vita quotidiana può attuare se stessa secondo la sua linea positiva. L'incontro tra vita quotidiana e parola di Dio dà luogo a quella sintesi viva in cui ambedue sono «realizzate»: la parola di Dio in quanto ideale che viene incarnato, la vita quotidiana in quanto attesa che viene colmata.

    Quattro riferimenti

    Questa sintesi viva può essere precisata in riferimento a quattro termini che le sono antitetici (anche se non necessariamente esclusivi).
    In primo luogo, in riferimento alla crisi, che sotterraneamente scava da decenni la cultura occidentale e che Oggi è venuta allo scoperto. Crisi che non tocca soltanto i rapporti funzionali dell'uomo col mondo (aspetto economico, energetico, ecc.) ma investe i rapporti della più profonda identificazione dell'uomo nel mondo. Essa è infatti negazione di quel senso, non puramente soggettivo e parziale ma ontologico e globale, che è radice e fondamento dell'esistenza dell'uomo e delle cose e delle loro relazioni. Nella sua ripercussione soggettiva, la crisi può essere vissuta come angoscia e senso di vuoto oppure come liberazione ed ebbrezza della totale autocreatività, o ancora come stoica volontà di assumere coraggiosamente il non-senso, o come sobria determinazione di vincerlo parzialmente con le conquiste della civiltà. Ma tutte queste non sono che modulazioni psicologiche di una situazione fondamentale: la solitudine dell'uomo nel mondo, l'eclissi di una presenza che conferisca alla realtà il suo significato primo e ultimo.
    Abbiamo visto come la parola di Dio sia, in quanto tale, segno e testimonianza di questa presenza nella storia degli uomini; come essa sia perciò affermazione di senso. La crisi insegna molte cose al credente; soprattutto, gli ricorda che è proprio della fede biblica essere continuamente alle prese con la possibilità della non-fede, cimentarsi costantemente col dubbio, perché la Presenza non è solare: il Dio della bibbia è il Dio nascosto. Ma la crisi non può essere assunta fino in fondo, lì dove essa è negazione senza appello. La fede deve vivere dentro la crisi, non morirci dentro. Vita quotidiana non significa fede che accetta il non-senso come parola definitiva, ma fede che dentro l'esplosione del non-senso dice il suo «però!»: malgrado tutto - contraddizioni, sconfitte, alienazioni, caduta di utopie - io continuo a credere.
    Ma a credere in che cosa? Ecco il secondo riferimento della vita quotidiana come luogo di senso alla luce della parola di Dio: credo che il senso non debba essere trasferito nell'aldilà ma inizi già in questa nostra storia. I tempi di crisi presentano come una delle possibili soluzioni quella di differire ogni speranza di bene in un tempo e in uno spazio esterni all'esperienza umana; e poco importa che essi vengano chiamati «cielo» oppure «altra terra»: il punto essenziale è che sono estranei alla vita così come noi la conosciamo e si definiscono proprio come l'opposto di questa, come la cancellazione di ogni sua negatività.
    Ora, l'epoca del Nuovo Testamento è stata certamente uno di questi tempi di crisi (sul piano sia politico che culturale e spirituale); si capisce allora come le due grandi culture del tempo - ellenistica e giudaica - fossero segnate dalla logica di trasferimento del senso: puntassero, l'una all'immortalità garantita dai riti misterici, l'altra all'avvento apocalittico di «cieli nuovi e terra nuova». La coscienza cristiana primitiva ha fatta sua la speranza dell'oltremondo come risoluzione integrale del problema umano; ma si è rifiutata di vedere la storia condannata al non-senso di considerare la vita presente soltanto in funzione del futuro. Bisogna però riconoscere che nella successiva tradizione cristiana l'accento è caduto ben presto su questi momenti, facendo anche del cristianesimo una religione del senso differito.
    Fare della vita quotidiana il luogo del senso vuol dire riconquistare quella terrestrità a cui - abbiamo visto - resta ben aderente la coscienza biblica; vuol dire riconoscere che la salvezza va cercata e il senso va costruito nella storia, va strappato pezzo per pezzo al fallimento che continuamente lo minaccia. La teologia ha coniato una bella formula per dire i due momenti - presente e futuro - della salvezza: essa è «già» e «non ancora»; già qui con noi come compagna di strada e come parziale riposo, come lavoro e fatica e come inizio di festa: non ancora presente nella sua figura piena e irreversibile.
    E tuttavia anche questa formula è insufficiente. Perché - e siamo al terzo punto - essa può venire interpretata in chiave intimista, dove il «già» è sì l'anticipazione del futuro, ma unicamente dentro l'interiorità dell'uomo o dentro le pareti della comunità in preghiera. Luogo del senso è allora, nel presente, l'anima con le sue virtù e la celebrazione con i suoi riti e le esperienze che essi provocano.
    La vita quotidiana si distingue da questo luogo perché pone l'accento sulla dimensione oggettiva del senso: esso non è un aroma, uno stato d'animo, un sentimento, ma è la riuscita delle cose - relazioni e istituzioni, situazioni e strutture -, la loro verità, il loro essere ciò che devono essere. Il senso non è il giardino dell'anima nel deserto del mondo; è il mondo che, sia pure a frammenti, diventa giardino.
    Sia pure a frammenti: questo inciso ci apre alla quarta dimensione. Il senso si dà nella storia soltanto nel modo del frammento; ma questo non contraddice alla sua autenticità, le è anzi legato per definizione. Infatti l'oggettività che esso presenta non è quella di un prodotto artificiale, che sussiste anche quando è scomparso il produttore. Il senso è l'oggettivarsi della libertà buona, è la logica del dono e del perdono che prende figura; dunque non può vivere che al soffio del soggetto e, per così dire, nelle sue adiacenze. Il senso ha necessariamente un'impronta personale, quindi la dimensione del piccolo, del finito. Eppure esso è davvero un tutto, una forma compiuta, qualcosa che «ha senso» in se stesso. Qui la vita quotidiana si oppone a quelle concezioni che oggi si è soliti chiamare totalizzanti, dove l'individuo e le sue azioni sono visti soltanto o prevalentemente come parti di un tutto superiore: la società, la cultura, il cosmo. In quest'ottica, il senso non può attuarsi che nella realizzazione della totalità, l'apporto individuale è solo funzionale alla riuscita di questa totalità. Se tale riuscita manca, se la costruzione si ferma a metà strada, il lavoro fatto è inutile, come una casa rimasta incompiuta e inabitabile. Invece, nell'ottica della vita quotidiana, ogni situazione anche minima, se vissuta con volontà di dono, disegna una pagina di mondo riuscito, una casa accogliente, un'oasi.
    Luogo di senso contro la corrosione della crisi - terrestre contro le dislocazioni troppo rapide - oggettivo contro le fughe nell'intimo - personale contro le totalizzazioni: ecco l'identità della vita quotidiana inabitata dalla parola di Dio.

    Il piccolo e il grande

    Non dobbiamo però dimenticare che la vita quotidiana è una prospettiva e uno spazio: la prima apre un orizzonte virtualmente infinito, il secondo lo recinge, lo delimita in un ambito finito. Entrando nella vita quotidiana, la parola di Dio si piega a queste due modalità che la scandiscono. In un caso come nell'altro essa infonde e suscita l'intenzionalità di dono e di perdono; ma articolandola secondo due diverse cadenze.
    Intesa come spazio, la vita quotidiana viene animata dal dono come gesto interpersonale, dove soggetto e destinatario sono a distanza ravvicinata, sia che vivano fianco a fianco sia che s'incontrino in maniera casuale e fugace. Ma il dono non si esaurisce entro questo breve perimetro; esso può farsi tessuto dei rapporti umani molto aldilà degli incontri diretti: può e deve sottendere tutte le relazioni macrosociali, la progettualità politica, le realizzazioni tecniche, le legislazioni, i costumi. In questo modo esso sottende la vita quotidiana intesa come prospettiva. E la necessità di mantenere la terminologia del quotidiano anche per questo ambito di vita «non quotidiana» è data proprio dall'unità della logica esistenziale che regge i due campi: la logica personalistica del dono. Gli ambiti macrosociali possono acquisire e mantenere un volto umano soltanto se sono comandati da quella stessa volontà di dono che costruisce i rapporti diretti. Il macrosociale non è sinonimo di spersonalizzazione, se si intende persona nel senso forte del termine, come soggetto chiamato alla libertà per l'amore, alla giustizia che genera la pace, al dono e al perdono. In questo senso, una società veramente personalistica non è quella in cui tutti si conoscono e si frequentano, ma quella in cui le stesse strutture generali del vivere e dell'operare sono improntate alla giustizia e all'amore, alla condivisione e alla riconciliazione.
    Al tempo stesso, però, quest'impronta non può mai diventare una qualità scontata, acquisita e solidificata una volta per sempre; essa va continuamente attivata e rinnovata dalle scelte dei soggetti individuali, delle persone singole; e queste hanno il loro luogo di vita nel quotidiano inteso come spazio.
    In conclusione: la vita quotidiana fecondata dalla parola di Dio e capace di fruttificare in direzione del dono è sia individuale che sociale, sia evento che struttura, sia carisma che istituzione, sia «quotidiano» che politica. Ma è nell'individuale, nell'evento, nel quotidiano come spazio di rapporti diretti che si sperimenta e si testimonia la potenza del dono. Una società giusta non sarà mai soltanto il frutto di una saggia legislazione e di una buona politica; non potrà che essere il moltiplicarsi all'infinito del quotidiano redento, il miracolo di mille e mille fioriture di dono e di perdono.

    Lettura «laica» e «materialista» della bibbia

    L'interazione tra parola di Dio e vita quotidiana dà rilievo a un aspetto ulteriore della prima: quello che possiamo chiamare il suo contenuto laico e materialista. Non solo la parola di Dio ha come messaggio centrale la salvezza dell'uomo; ma questa salvezza ha connotati terrestri e oggettivi: è la riuscita del suo esistere nel mondo, è la pace nell'accezione piena dello shalom ebraico. Potremmo dunque dire che il messaggio della bibbia non è religioso e non è spirituale, se per religioso intendiamo una zona dell'umano delegata a curare i rapporti con Dio (per es. il culto, la meditazione...) e per spirituale un livello di interessi e di beni riguardanti l'anima (la perfezione, le virtù...). Una lettura della parola di Dio alla luce del quotidiano si colloca così sulla linea di due proposte ermeneutiche contemporanee: quella di Bonhoeffer, che vuole interpretare la bibbia con categorie «non religiose», e quella di F. Belo, che intende darne una interpretazione «materialista».
    Ma d'altra parte si può anche dire che la nostra lettura è eminentemente religiosa, perché vede tutta la realtà sottesa dall'atto divino di creazione e di alleanza, dalla parola efficace che rende buona ogni cosa; ed è altamente spirituale, perché definisce l'essere stesso, il senso portante della realtà, a partire dal dono e dal perdono, che sono l'atto dello Spirito di Dio nel cuore dell'uomo e, attraverso di lui, nella storia del mondo.
    La formula più completa è forse la seguente: il circolo ermeneutico tra parola di Dio e vita quotidiana ci permette di fare una lettura laica della bibbia e una lettura religiosa del mondo, una lettura materialista della bibbia e una lettura spirituale del mondo. La parola di Dio si perde, per così dire, nell'uomo e per l'uomo, sposandone i bisogni anche più elementari; ma essa sollecita perentoriamente l'uomo a perdersi nell'altro uomo, sposando il movimento d'amore che viene da Dio. Questo ci porta a precisare qual è il destinatario della parola di Dio, cioè il soggetto della sua interpretazione e della sua messa in opera.

    Il soggetto: la comunità dei poveri

    Il povero

    La precomprensione fondamentale della parola di Dio è costituita, sappiamo, da quella povertà ontologica che è il bisogno di salvezza. Ma la figura biblica del povero è, nella bibbia, colui che la sventura e l'ingiustizia hanno colpito nella carne del suo esistere quotidiano: è l'orfano, la vedova, l'immigrato, il malato, l'emarginato... E' colui in cui la povertà ontologica prende corpo e forma in una carenza di beni essenziali. Non è, questa carenza, un fenomeno superficiale ed estrinseco, come vorrebbe uno spiritualismo ambizioso; è l'emergenza minacciosa della povertà radicale, che frustra il disegno di Dio, vanifica la sua parola di benedizione.
    Allora, quando il povero biblico «grida» a Dio, il suo non è l'urlo dell'animale ferito né un SOS lanciato sulle onde dell'essere, nell'incerta speranza che - chissà mai - qualcuno lo raccolga. E' l'indicazione al Dio della vita perché tenga fede alle sue promesse e non lasci trionfare la morte, perché mantenga la sua parola e non abbandoni l'uomo alla rovina. Dietro il grido del povero c'è quindi già la parola di Dio; quell'invocazione è una risposta, un atto di fede nella potenza d'amore e di vita che ha creato il mondo e ha fatto alleanza con l'uomo. Se in linea di principio l'interlocutore di Dio è l'uomo bisognoso di salvezza, di fatto sono tutti coloro in cui quel bisogno assume figura e misura concreta; il principio si incarna e si determina nel fatto. Perché salvezza non è qualcosa oltre i beni che colmano l'esistenza dell'uomo ma il senso profondo di quei beni: il loro provenire dalla mano di Dio ed essere inseriti nell'ordine del mondo
    Il povero di cui la bibbia ci parla non è soltanto uno degli elementi del suo messaggio; è il soggetto del suo ascolto. La povertà è «collocazione vitale» non solo di questa o quella parola di Dio, ma di tutto il distendersi della rivelazione divina: dall'Israele oppresso e liberato ai poveri dei salmi che gemono e poi lodano alle beatitudini pronunciate da Gesù, tutta la storia della salvezza è un'offerta fatta a coloro che sono concretamente bisognosi di salvezza.
    Ma che è la bibbia, se non la storia della salvezza fissata in forma di testo, di narrazione? Allora, come nel testo si è depositata la parola viva, per esservi custodita e trasmessa a ogni generazione, così si è depositata la sua destinazione al povero. La bibbia parla a ogni uomo in quanto radicalmente povero, e parla in maniera privilegiata a coloro che della povertà portano il peso concreto.

    La comunità

    Il povero biblico non ha fatto, normalmente, un'esperienza della parola di Dio di carattere esclusivo e straordinario. L'ha ricevuta in quanto membro del popolo eletto; essa è entrata a far parte della tradizione, di quel «brodo di cultura» su cui cresce e di cui si alimenta ogni esistenza individuale. Ma insieme, le situazioni di bisogno trasformano in esperienza personale quella che è una sedimentazione culturale.
    Quando si chiede se il destinatario della parola di Dio sia l'individuo o la collettività, bisogna rispondere che è la comunità, cioè le persone in comunione. Ma è la Parola stessa a fare dell'individuo una persona e della collettività una comunità; è la Parola stessa a strappare l'individuo all'isolamento e la collettività al corporativismo impersonale. Raggiunto dalla parola di Dio, l'uomo è chiamato al dono, che supera sia la chiusura dell'individualismo che l'organicità del collettivismo, e istituisce quella nuova figura che è la comunione tra persone. Questa è l'essenza della comunità: non fusione emotiva né organizzazione gerarchica, ma incontro di soggetti nella libera reciprocità del dono. Dimensione emotiva e organizzazione sono elementi funzionali, in ordine alla realizzazione della trama di relazioni autenticamente interpersonali.
    La comunità è a un tempo effetto e soggetto della lettura biblica; perché Dio parla a ognuno ma, in ognuno, parla all'essere-in-relazione e parla per promuovere la relazione. La parola di Dio costituisce la comunità e si consegna ad essa.

    La comunità dei poveri

    Povero e comunità convergono a costituire il soggetto integrale della parola di Dio: la comunità dei poveri. Questa è soggetto della parola in quanto ne è l'effetto. A che cosa tende infatti la parola di Dio? Tende ad arricchire l'uomo dei beni che ne disegnano l'esistenza come vita, come shalom, come benedizione. Ma questo, non attraverso colpi di fortuna bensì mediante la pratica del dono, della condivisione, così che quei beni siano portatori anche del bene spirituale della fraternità. Allora ognuno si arricchisce di tutto ma senza possedere nulla, e dona tutto ma senza mancare di nulla. Ognuno vive per gli altri, e ognuno vive degli altri; cerca la loro sufficienza e trova in loro la propria sufficienza. E' questa la società messianica espressione incoativa - terrestre - del Regno; è questo l'effetto a cui la parola di Dio tende, il frutto che essa vuole maturare nella storia. Ma è evidente che questo frutto è al tempo stesso il terreno su cui matura, che quest'effetto è al tempo stesso il soggetto che lo realizza. La parola di Dio può realizzare la società messianica soltanto attraverso la libertà di coloro che la compongono: fecondando questa libertà con l'ispirazione al dono; può realizzare la vita e la pace soltanto interpellando alla giustizia e alla reciprocità. Perciò la comunità dei poveri - frammento della società messianica - è il soggetto a cui la parola di Dio Si affida per essere interpretata e attuata; è soggetto ermeneutico per essere soggetto pratico.
    In questa prospettiva trova soluzione anche il problema di conciliare continuità e rottura tra bisogno umano e parola di Dio. La parola di Dio è la risposta al bisogno umano di salvezza, e dunque esiste tra i due una sostanziale continuità; ma la parola di Dio non può essere misurata da alcun bisogno umano, neppure dal bisogno di salvezza, e dunque dev'esserci tra i due una soluzione di continuità, una rottura. Nella conversione dal possesso al dono, quale si realizza nella comunità dei poveri, si avvera anche la conciliazione tra continuità e rottura: il dono è il bisogno - anche il bisogno di salvezza - convertito dalla ricerca di sé alla ricerca degli altri (rottura), ma insieme consapevole - in forza della promessa - di ritrovare sé attraverso gli altri (continuità). «Chi perde la propria vita la troverà».

     


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