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    Paolo



    Figure della fede /7

    Carmine Di Sante

    (NPG 2000-09-47)


    Arrestato a Gerusalemme circa una trentina d’anni dopo la morte di Gesù, Paolo così si presenta e si difende dinanzi alla folla che lo accusa di essere contro la Legge e il tempio:
    «Fratelli e padri, ascoltate la mia difesa davanti a voi... Io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi. Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne, come può darmi testimonianza il sommo sacerdote e tutto il collegio degli anziani. Da loro ricevetti lettere per i nostri fratelli di Damasco e partii per condurre anche quelli di là come prigionieri a Gerusalemme, per essere puniti» (At 22, 1-5).
    Evangelizzatore per eccellenza, colui che, più di ogni altro e come nessun altro, ha speso la sua vita ad annunciare che Gesù di Nazareth è il crocifisso risorto e, perciò, cristo, cioè messia, prima di dedicarsi a questa missione Paolo confessa di essere stato il persecutore dei cristiani: non uno che, come Pietro, Andrea e Giovanni, ha conosciuto Gesù in vita, ascoltandone la voce e seguendone la via, bensì uno che, avendo conosciuto i suoi seguaci, li ritiene una minaccia alla fede dei padri e, per questo, li persegue legalmente, chiedendo e ricevendo la legittimazione («le lettere») delle supreme autorità di Gerusalemme. Paolo non occulta questo suo passato, come se fosse un’infamia, ma lo rivendica con forza e con orgoglio, quasi fosse un vanto: non solo per ribadire la sua piena appartenenza al popolo ebraico del cui patrimonio si considera figlio ed erede («Io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna»); e neppure solo per sottolineare che la sua appartenenza alla fede dei padri non è dubbiosa e incerta, frutto di superficialità o compromesso, ma convinta e radicale, animata da un ardore che brucia come un fuoco («pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi»); ma soprattutto per mostrare la profondità di ciò che, all’improvviso, gli accadde, trasformandolo e mutandolo radicalmente dal di dentro.
    Ecco come Paolo racconta ciò che gli accadde:
    «Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno, all’improvviso, una gran luce dal cielo rifulse attorno a me; caddi a terra e sentii una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Risposi: Chi sei, o Signore? Mi disse: Io sono Gesù il Nazareno, che tu perseguiti. Quelli che erano con me videro la luce ma non udirono colui che mi parlava. Io dissi allora: Che devo fare, Signore? E il Signore mi disse: Alzati e prosegui verso Damasco; là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia. E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni, giunsi a Damasco» (At 22, 6-11).
    Ciò che Paolo racconta essergli capitato all’improvviso è l’incontro con il Cristo: un incontro-evento, né voluto né progettato, e che del volere e del progetto è la messa in discussione e il capovolgimento stesso. Non è Paolo infatti che va incontro a Cristo, che egli rifiuta perseguitandone i seguaci, nella convinzione che dire di sì a lui equivale a dire no alla Torah e alla verità divina che essa custodisce. Questo aspetto è di estrema rilevanza e va sottolineato attentamente: Paolo perseguita i cristiani non perché irrispettoso della legalità e violento, come chi, ad esempio, uccide un passante per la strada o entra con la forza in una casa per depredarla; neppure perché irascibile e vendicativo come chi, subendo un torto, si fa giustizia da sé invece che appellarsi al tribunale; al contrario perché è fedele alla Torah e alla sua verità che vede minacciata dai seguaci del nazareno. Per quanto paradossale, la violenza di Paolo è l’espressione della sua fedeltà alla Torah e del suo amore ad essa in forza del quale si ribella contro chi la tradisce o nega, allo stesso modo che ci si ribella contro chi deturpa e infanga un dipinto.
    Vedendo e sentendo Gesù andargli incontro sulla via di Damasco («Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco, verso mezzogiorno»), Paolo vede e sente il crollo del suo progetto e la fine del suo mondo e fa l’esperienza di Gesù come «cristo», come colui nel quale Dio si rivela definitivamente. Fa «esperienza»: cioè sa, di quel sapere originario che non si fonda su un precedente sapere perché sapere primo, chi davvero è stato ed è, per lui e per l’umanità intera, Gesù di Nazareth.
    Il racconto che Paolo fa del suo incontro con Gesù di Nazareth (racconto che, oltre che nel capitolo 22 del libro degli Atti, con alcune varianti è ripetuto anche nei capitoli 9 e 26 dello stesso libro) mette in luce delle costanti che ci aiutano a comprendere cosa vuol dire, per il Nuovo Testamento, incontrare Gesù il Cristo, colui nel quale Dio si dice e si svela all’uomo nella sua tenerezza e nel suo perdono.
    La prima costante è l’iniziativa che a prendere è Gesù stesso. Incontrarlo non dipende da noi ma da lui. Egli non ci attende dentro o al termine dei nostri progetti ma li previene, li anticipa, li incrocia e, incrociandoli, li in-quieta, dischiudendovi un «oltre» e un «al di là» come evento che, per definizione, come l’in-cidente, accade ed è extraprogettuale. «Rinascere dall’alto», come Gesù chiede a Nicodemo nel terzo capitolo di Giovanni, vuol dire accettare e sapere che Cristo non passa per le nostre vie e i nostri progetti, e che egli ci attende dove meno lo si aspetta. Affermando l’iniziativa di Gesù e non dell’io, il racconto paolino non vuol dire che solo pochi hanno il privilegio di incontrarlo, ma che egli incrocia tutte le strade, anche quelle di coloro che lo rifiutano o lo negano.
    La seconda costante è la modalità nella quale Gesù viene incontro: «Una gran luce dal cielo rifulse attorno a me». Dove il Cristo incrocia l’io ed entra nella sua esistenza, lì si accende una luce che, come il sole, fuga le tenebre e apre al mondo delle linee e delle forme. Il simbolo del sole in cui le tradizioni religiose colgono il divino e la tradizione cristiana Gesù stesso, nella festa di Natale celebrato come sole invitto, più che una analogia per rappresentarsi l’esperienza religiosa, è il senso stesso dell’esperienza religiosa che è tale perché sottrae l’esistenza umana all’ambiguità e al caos facendola apparire, da esistenza in-forme, esistenza sensata, abitata dalla pienezza della «forma».
    La terza costante è la modalità della voce che ritraduce e specifica la modalità della luce: «Sentii una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Il Cristo che viene incontro e che illumina è il Cristo che parla e che, parlando, infrange la solitudine dell’io, liberandolo da sé e aprendolo all’altro. Si tratta di una parola che sveglia l’io dal sonno e dal torpore e, facendogli prendere coscienza della cattiva coscienza che l’avvolge, lo eleva ad una risposta alla quale non può sottrarsi: «Risposi: Chi sei, o Signore?». Quando Cristo incrocia la propria strada e parla all’io, l’io, interpellato, non può non rispondergli, mettendosi in ascolto della sua voce. Si tratta di una interpellazione personale e singolare di cui l’io – e solo l’io – è testimone nella sua unicità e che nessun’altro può cogliere e registrare: «Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono colui che mi parlava». Quando Cristo parla, parla alla singolarità dell’io e la traccia della sua parola è l’alone della luce che l’accompagna.
    La quarta costante è il compito in cui prende corpo la coscienza risvegliata dalla parola di Cristo che interpella: «Che devo fare, Signore?». Incontrato da Cristo, l’io cambia la sua visione del mondo: non nel senso contemplativo di vederlo in un nuovo modo (questo è vero, ma secondariamente), ma nel senso etico di dover agire in esso, facendovi qualcosa mai fatto precedentemente: «E il Signore mi disse: Alzati e prosegui verso Damasco; là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia. E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni, giunsi a Damasco» (At 22, 10-11). Ciò che Paolo deve fare è messo sulla bocca di Anania nei versetti seguenti: «Il Dio dei nostri padri ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua bocca stessa, perché gli sarai testimone davanti a tutti gli uomini delle cose che hai visto e udito» (At 22, 14-15).
    Quando si è stati incontrati da Cristo, ciò che si è chiamati a fare è di testimoniare «davanti a tutti gli uomini delle cose viste e udite». Poco importa se con la parola esplicita della evangelizzazione, come farà Paolo dopo la rivelazione avuta, o con l’agire silenzioso e coerente di ogni istante. Se l’uomo è essere intenzionale di cui il corpo è svelamento e messaggio, il corpo dell’uomo incontrato da Cristo è corpo testimoniale: soggettività che, in ogni gesto e parola, dice e lascia trasparire la Parola che l’ha interpellata e trasformata.


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